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C.E. Morgan, "Tutti i viventi"

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Academic year: 2021

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C. E. MORGAN, Tutti i viventi, trad. it. di Giovanna Scocchera, Einaudi, Torino, 2010, 203 pagg., 18,50 euro.

L’impressione, che tutti abbiamo provato sotto un cielo stellato, di essere puntini passeggeri in uno spazio gigantesco e in un tempo infinito, e di dover radunare tutta la forza possibile per sopportare il peso di quest’idea, è un motivo fondamentale in Tutti i viventi, opera prima di C.E. Morgan, specializzata in Teologia ad Harvard e già vincitrice con questo romanzo del National Book Foundation’s 2009. Questa impressione risuona nei paesaggi sconfinati del Kentucky e si amplifica nella coscienza dei personaggi che vivono questo loro essere sperduti in un’enormità insensata, in un vuoto di spazio che dilata anche il tempo e rende ogni esistenza un evento più fragile, più rapido e casuale che altrove. E per questo tanto più prezioso e quasi miracoloso, capace di creare un’unione forte anche tra persone lontane e sconosciute. Come recita l’Ecclesiaste posto al principio: “Finché uno è unito a tutti i viventi c’è speranza, perché un cane vivo val meglio di un leone morto”.

Non è forse un caso che tra i primi gesti dei protagonisti, Aloma e Orren, ci sia quello di levare lo sguardo verso un punto lontano, verso un confine o un limite che si sottrae sempre, e sottraendosi li induce a fuggire e, al tempo stesso, li responsabilizza in maniera quasi insopportabile nel loro restare. Ed è proprio questa la tensione che opprime Aloma, ma è anche ciò che le offre la grandezza e le giuste sfaccettature come personaggio nel corso di tutto il romanzo (una tensione che dà alla storia stessa e alla scrittura senso e tenuta, bellezza e interesse fino alla fine). Orfana e cresciuta alla scuola delle missioni dove ha coltivato la passione per il pianoforte – per la musica che unisce mondo reale e mondo dell’immaginazione, per il pianoforte come spazio concreto e “naturale” rispetto alle lunghe notti “innaturali”, “quando la valle giaceva nera sotto un cielo illuminato in lontananza” – a diciassette anni Aloma si lega a Orren e decide di dividere con lui la responsabilità di condurre la piantagione di tabacco che gli hanno lasciato la madre e il fratello, morti improvvisamente per un incidente. Dal canto suo, la volontà di Orren, poco più che ventenne, di affrontare quel grande dolore e quell’immenso, faticosissimo impegno, si traduce in una rudezza a tratti ottusa, in quell’ostinazione insensibile e silenziosa che finisce per allontanare la compagna alienandola al proprio stesso sentimento.

Aloma cerca conforto alla solitudine guardando le fotografie di quei morti, e facendo della propria curiosità un tramite per stabilire anche con essi un solido legame di conoscenza e amore (“L’anima ama più di ogni altra cosa ciò che è perduto, e dunque ciò che importava era quella schiera di esseri umani, persino quelli che erano morti da tempo”). E poi, fa in modo di recuperare l’antica passione e il legame naturale con la musica. Scende alla parrocchia della chiesa di Falls Creek e incontra il pastore, Bell Johnson, che le affida il pianoforte durante la messa della domenica e le permette di esercitarsi qualche

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giorno la settimana. La musica e Bell rappresentano per Aloma l’evasione spirituale e, paradossalmente, la tentazione, nonché la promessa concreta che esista un altro mondo al di fuori della piantagione di tabacco, delle mucche e di un gallo impertinente, come una forma di riscatto al dolore e alla morte: “Strano che qualcuno possa andarsene e non esserci più per tanto tempo e poi succede… qualcosa, senti un frammento di musica, e di nuovo si ha la sensazione che quella persona non possa essere morta. Come se la sua morte fosse solo un brutto scherzo della memoria o qualcosa di simile”.

Le parole di Bell, nelle prediche domenicali e nelle letture della Bibbia, offrono risposte e alimentano una sconosciuta seduzione che coinvolge Aloma e si riversa nella sua musica, nella dedizione e nell’intensità del suo esercizio. Colmano, in un certo senso, il silenzio di Orren; stabiliscono dei confini.

Eppure, non è a un facile sviluppo sentimentale che si affida, per Aloma, l’esito della lotta (della tensione, appunto) tra desiderio di fuga e responsabilità di restare. E il finale smentisce ogni previsione troppo facile. Quella specie di mito edenico vissuto dai due ragazzi – che può rappresentare una chiave di lettura ulteriore del romanzo, e dare un significato più profondo a una storia di inconsapevolezza e caduta, di lavoro-dolore-morte e ricerca di redenzione, risalita, fuga – non può infatti risolversi che riaffermandosi, in un patto però più consapevole (reciproco e con “tutti i viventi”) di sofferta e amorosa compartecipazione.

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