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I codici etici come strumento di governance aziendale e benessere sociale

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Comunicazione d’Impresa e Politica delle Risorse Umane

I CODICI ETICI COME STRUMENTO DI

GOVERNANCE AZIENDALE E BENESSERE SOCIALE

CANDIDATO

RELATORE

Giada Guidoni

Chiar.ma Prof.ssa Lucia Bonechi

(2)
(3)

1

Indice

Introduzione: l’etica aziendale...3

Capitolo 1. La responsabilità sociale d’impresa ...11

1.1 Le teorie sulla RSI e la definizione ...11

1.2 Cenni di storia della RSI ...23

1.3 Il ruolo dei sindacati nell’affermazione della RSI ...28

1.4 La normativa di riferimento ...36

Capitolo 2.Gli strumenti della RSI ...44

2.1 Gli standard di certificazione ...44

2.2 L’organizzazione aziendale e le figure deputate alla gestione della RSI ...56

2.3 La comunicazione e i numeri verdi etici ...61

Capitolo 3. I codici etici interni ...67

3.1 I codici etici ...67

3.2 La predisposizione dei codici interni e il loro contenuto ...72

3.3 Gli stakeholder attivi ...77

3.4 Gli stakeholder passivi ...86

Capitolo 4. I codici etici esterni e l’efficacia giuridica...92

4.1 Predisposizione e contenuto ...92

4.2 Iniziative internazionali ...97

4.3 Il codice etico come fonte di diritto ...106

Capitolo 5. I codici etici di due aziende italiane: Hera e Sogei...112

5.1 Il gruppo Hera ...112

5.1.1 La RSI di Hera ...116

(4)

2 5.2 Il gruppo Sogei ...124 5.2.1 La RSI di Sogei...127 5.2.2 Il codice etico ...129 Conclusioni ...137 Bibliografia ...142

(5)

3

Introduzione: l’etica aziendale

Nell’ambito delle strategie di gestione aziendale prendono sempre più piede i concetti di etica d’impresa nell’attività globalizzata, fondamenti che sono divenuti oramai centrali nell’organizzazione delle attività produttive in un’ottica di mercato.

C’è innanzitutto da sottolineare che all’interno delle organizzazioni produttive non possono svilupparsi concezioni etiche indipendenti, cale a dire legate alle esigenze proprie dello stesso contesto produttivo ma che non sono correlate alle necessità etiche presenti nella società; la stessa locuzione “etica d’impresa” è pertanto in tal senso scorretta, in quanto l’azienda è un sistema aperto all’ambiente di riferimento e coinvolge di per sé soggetti che sono portatori, nello svolgimento delle funzioni di governance aziendale, delle istanze loro proprie, in quanto parte di una società che esprime determinati valori.

L’etica delle aziende è quindi strettamente correlata all’etica che si ritrova nel contesto socio-economico in cui le stesse operano.

Il comportamento etico quindi è estremamente relativo, così che le istanze di eticità di aziende che operano in determinate aree sono sempre differenti da quelle di aziende operanti in altre zone, a seconda delle esigenze di tutela espresse dall’ambiente di riferimento; un’etica che abbia valenza universale e che incida allo stesso modo sui comportamenti delle aziende prescindendo dal territorio in cui esse operano è quindi auspicabile, ma certamente al momento non è reale1.

1

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4 Tutto ciò va ad inserirsi però in un contesto produttivo che al contrario è sempre più globalizzato e uniformato, nel quale esistono spinte evolutive verso livelli di eticità sempre maggiori, alle quali si associano però elementi che tendono a frenare la diffusione degli aspetti etici dei comportamenti aziendali.

Tra le esigenze che spingono all’introduzione di principi etici nella gestione aziendale vi sono sicuramente la trasparenza, che è divenuta, anche se in maniera contrastante, una precondizione fondamentale d’accesso e di permanenza sui mercati, nei quali le risorse si indirizzano sempre di più verso organizzazioni produttive virtuose e l’informazione è un indicatore pregnante della democraticità del sistema, e la qualità, concetto che va oltre le esigenze di fornire al mercato un prodotto conforme agli standard definiti e alle attese del cliente, riguardando in senso ampio la produzione in tutta la filiera di creazione del valore.

Altri fattori di spinta verso l’eticità delle attività produttive riguardano poi le esigenze di cooperazione, forse quelle più importanti ai fini della valutazione dei comportamenti etici dell’impresa, e specificamente quelle relative alla collaborazione tra organizzazioni produttive che abbandonano l’autonomia per partecipare a sistemi più ampi da cui trarre risorse e in cui sostenere l’innovazione e competere con successo.

In tale ottica, le dinamiche dello scambio lasciano il posto a quelle della cooperazione tra le parti, per cui si assiste ad un’evoluzione della stessa eticità per la quale essa non riguarda più soltanto gli elementi contrattuali e l’adempimento delle obbligazioni, ma si sostanzia nel dialogo, nella condivisione, nella responsabilità, nello scambio di idee e competenze. La cooperazione quindi innova profondamente le organizzazioni, che passano da un modello gerarchico e rigido ad un sistema relazionale flessibile basato sulla partecipazione e sulla condivisione di responsabilità. Infine, c’è da considerare il peso essenziale rivestito dalle esigenze di tutela ambientale e dal ruolo che esse hanno sulle decisioni operative e strategiche

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5 delle aziende: la crescente preoccupazione per l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse naturali impone alle imprese l’adozione di politiche sempre più stringenti relativamente alla tutela dell’ambiente. Allo stesso tempo, come detto, vi sono elementi che tendono invece a frenare l’adozione di principi etici da parte delle imprese; innanzitutto, vi sono gli squilibri economici e normativi propri del mercato globale: la competitività a livello globale e la presenza di aree in cui è possibile produrre con minor utilizzo di risorse o con maggiori livelli di libertà portano le imprese a delocalizzare le proprie attività produttive in tali zone, perseguendo la riduzione dei costi, un migliore accesso alle risorse e quindi condizioni di vantaggio competitivo.

Le asimmetrie economiche e normative del mercato globale fanno sì che l’impresa sia distolta dall’adottare i comportamenti più adeguati alla tutela dell’ambiente o del lavoro, che risultano essere sicuramente fonti di maggiori costi rispetto ai competitori che invece sfruttano tali possibilità di risparmio.

Il fenomeno della globalizzazione quindi contribuisce al freno alla diffusione dell’eticità nelle imprese, e ciò vale non solo per le multinazionali, ma anche per quelle di dimensione minore, che spostano le attività produttive in aree in cui è possibile conseguire importanti economie di costo.

Tali imprese quindi sono portate a differenziare il loro contenuto etico in base ai contesti socio-economici in cui operano, molti dei quali esprimono esigenze di eticità ridotte, cosa che diminuisce il portato etico dell’impresa nel suo complesso.

Tra l’altro, l’esigenza di sfruttare le asimmetrie esistenti tra le diverse aree che costituiscono il mercato globale porta le organizzazioni produttive ad avere spesso una struttura organizzativa di gruppo, che può essere utilizzata per eludere le norme di tutela dei portatori di interessi e con esse anche i contenuti etici che esprimono.

(8)

6 Infine, c’è da considerare il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, per cui l’azienda è quasi “un asset articolato, un asset cioè la cui misurazione di performance è in qualche modo assimilata a quella relativa all’investimento in un bond o in un titolo del debito pubblico, comunque ad un investimento assoggettato a convenienze contingenti che si esprimono dal confronto con le opportunità economiche alternative; tale conseguenza logica, se può assecondare l’interesse speculativo di qualche o anche di molti azionisti, certamente è ben lontana dall’idea di governo di un sistema complesso da parte di azionisti coinvolti nelle scelte supreme, nelle scelte di direzione e coordinamento”2.

Lo sfruttamento delle asimmetrie normative, l’utilizzo improprio della struttura di gruppo e l’eccessiva importanza della finanza caratterizzano quindi l’economia globale, ostacolando la diffusione di comportamenti etici nelle organizzazioni, nonostante le spinte provenienti dalla trasparenza, dalle esigenze di qualità, dalla tutela ambientale e dalla cooperazione tra i soggetti economici e sociali.

L’introduzione dell’eticità nelle attività d’impresa risiede nel fatto che le organizzazioni contribuiscono a determinare la crescita economica e sociale, per cui l’azienda, così come ogni altro soggetto, è responsabile verso la società della propria attività.

In tutto ciò c’è da rilevare poi come la globalizzazione di imprese, servizi ed infrastrutture, norme e vincoli fa sì che le situazioni di inefficienza e gli squilibri che possono manifestarsi in ogni organizzazione produttiva esplichino i loro effetti anche all’esterno dell’azienda, evidenziando in tal modo le responsabilità di ciascun soggetto del sistema.

Si avverte quindi in maniera pregnante la responsabilità in capo all’organizzazione produttiva di gestire al meglio le relazioni e gli interessi dei soggetti con cui essa si rapporta.

2

LAI A., Paradigmi interpretativi dell’impresa contemporanea. Teorie istituzionali e logichecontrattuali, Franco Angeli, Milano, 2004

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7 Finora, tale responsabilità veniva vista come una scelta imposta alle imprese dalla società: “i governi, gli attivisti e i media sono diventati abilissimi nell’attribuire alle imprese la responsabilità delle conseguenze sociali della loro attività, con gli effetti negativi che da tali atteggiamenti derivano. Ecco perché la Corporate Social Responsibility (CSR) è diventata una priorità ineludibile per i leader aziendali di tutto il mondo”3.

Il problema della responsabilità sociale dell’impresa veniva quindi considerato ineludibile in quanto l’opinione pubblica ha preso atto dei danni provocati dalle organizzazioni produttive, per cui è il controllo della società che porta le aziende ad affrontare in maniera critica l’adozione di comportamenti responsabili.

In tal senso, “la crescente attenzione che le imprese dedicano alla CSR non riflette una scelta del tutto volontaria. Molte di esse ne hanno preso atto solo dopo essere state colte di sorpresa dalle reazioni dell’opinione pubblica a questioni che mai in precedenza avevano immaginato rientrare nelle loro responsabilità”4.

Tale atteggiamento però non riflette una vera e propria eticità, in quanto deve essere l’impresa stessa ad adottare un approccio attivo nei confronti dell’etica e della responsabilità sociale, e non esservi indotta da motivazioni di opportunità.

I comportamenti etici, quindi, non devono tradursi in azioni esteriori, implementate dalle organizzazioni al solo scopo di costruire un’immagine positiva, senza utilità per se stesse e per la società.

È necessario dunque parlare, più che di responsabilità sociale dell’impresa, di integrazione, che costruisca effettivamente dei valori condivisi tra impresa e società.

Il concetto di responsabilità sociale deve evolvere verso quello di “integrazione tra le strategie della specifica impresa ed i problemi della

3

PORTER M., KRAMER M. R., Strategia e società. Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivoe la Corporate Social Responsibility, in Harvard Business Review Italia, n. 1-2, 2007

4

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8 società in cui essa opera”5; l’impresa socialmente integrata non si limita ad adottare comportamenti che non danneggiano la società, ma ricerca attivamente quelle attività che possono apportare benefici alla società e, contemporaneamente, aumentare il proprio vantaggio competitivo.

Nel momento in cui gli investimenti portano ricadute positive sull’organizzazione e sono funzionali ad uno sviluppo dell’attività sociale, si realizza l’integrazione delle esigenze etiche nelle dinamiche della creazione di valore per l’azienda.

L’impresa, dunque, deve perseguire l’integrazione sociale nella ricerca delle logiche sinergiche tra sviluppo della società e sviluppo del proprio business.

Tale concezione è stata riconosciuta anche da gran parte della letteratura aziendale, per la quale l’”economicità” è costituita anche dalle condizioni utili a realizzare comportamenti che generano effetti benefici non solo nei confronti della proprietà aziendale, ma anche di tutti i soggetti interessati dall’attività dell’organizzazione, per cui essa diventa un centro di creazione di valore per l’intera collettività6.

Appare evidente quindi la centralità della definizione dell’organizzazione produttiva come del soggetto che nella propria visione strategica include l’esigenza di considerare adeguatamente le necessità dei soggetti che collaborano con essa nello svolgimento delle attività produttive: dipendenti, fornitori, clienti, finanziatori, la società, sono gli interlocutori con i quali deve rapportarsi l’organizzazione in maniera cooperativa in ogni fase della creazione del valore.

La definizione di costanti e positive relazioni con i soggetti suddetti è una decisione strategica che consente all’impresa di ricercare equilibri durevoli,

5

ibidem

6

(11)

9 che perseguono contestualmente l’obiettivo di apportare un servizio alla società e quello di realizzare vantaggi economici per l’impresa stessa7. L’integrazione sociale si realizza solo se l’organizzazione adotta nelle proprie strategie comportamenti che generano una sinergia tra i soggetti che contribuiscono ad implementare la funzione produttiva, aumentando le performance e apportando benefici relativi non soltanto ad un incremento di redditività, ma anche ai soggetti coinvolti nell’attività dell’organizzazione. In tale contesto, il presente elaborato intende analizzare la situazione in merito all’applicazione pratica dei principi dell’etica nelle aziende, attraverso la disamina dei relativi strumenti e in maniera specifica dei codici etici.

La prima parte del lavoro introduce i concetti di responsabilità sociale d’impresa, delineata nella sua evoluzione storico-concettuale e normativa, con uno sguardo specifico al ruolo avuto dai sindacati nell’attuazione della RSI in azienda, e gli strumenti che in generale consentono di applicare tali principi a livello pratico, come gli standard di certificazione, gli organi interni all’impresa deputati alla gestione della RSI e le possibilità relative alla comunicazione delle attività svolte in tal senso.

La seconda parte poi si focalizza sui codici etici, e specificamente sui codici interni, cioè quelli di diretta derivazione aziendale, dei quali si analizzano gli aspetti contenutistici, le procedure di implementazione e i soggetti a cui si rivolgono, e sui codici esterni, cioè quelli predisposti da organismi internazionali allo scopo di fornire uno standard riconosciuto da poter applicare in azienda.

Dopo aver esaminato brevemente il valore giuridico dei codici etici, l’elaborato intende infine svolgere un’analisi pratica prendendo ad esame i codici di due aziende, il gruppo Hera e la Sogei, attive rispettivamente nel settore delle utilities e in quello dell’informatizzazione legata alla pubblica

7

CAVALIERI E., Etica e responsabilità sociale nelle imprese, in SymphonyaEmergingIssues in Management, n. 2, 2007

(12)

10 amministrazione, per verificare le modalità di predisposizione e di attuazione di due codici relativi a comparti dell’economia così diversi tra di loro, in modo da poter fornire indicazioni importanti sulla predisposizione e sul valore dei codici etici aziendali.

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11

Capitolo 1. La responsabilità sociale d’impresa

1.1 Le teorie sulla RSI e la definizione

Le tradizionali teorie economiche sull’impresa presuppongono che tra etica e profitto vi sia necessariamente un conflitto, in quanto quest’ultimo comporta di per sé la competizione e la sopraffazione del concorrente8

; il dibattito in materia di rapporti tra etica e economia d’impresa comunque ha visto contrapporsi opinioni opposte, incentrate sul ruolo dell’impresa nella società, che veniva visto fino a qualche anno fa secondo il motto “lo scopo degli affari è fare affari”9.

L’obiettivo dell’impresa è dunque quello di utilizzare le proprie risorse e realizzare le attività necessarie per massimizzare i propri profitti, nel rispetto dei limiti di legge e del funzionamento del sistema capitalistico10.

Secondo Friedman quindi l’attività d’impresa deve essere valutata unicamente secondo un criterio di efficienza, cioè se è utile per il conseguimento del proprio scopo fondante, indipendentemente dalle conseguenze che l’attività stessa comporta in riferimento a scopi ulteriori e diversi rispetto a quelli propri11.

In caso contrario, l’impresa ostacolerebbe il suo stesso scopo, non realizzando appieno la massimizzazione del profitto, e inoltre causerebbe addirittura un danno alla collettività, in quanto il perseguimento di uno

8

ANSOFF H., La strategia sociale dell’impresa, Etas Libri, Milano, 1984

9

FRIEDMAN M., Capitalismo e libertà, Studio Tesi, Pordenone, 1987

10

ALFORD E., Fondare la responsabilità sociale d’impresa: contributi dalle scienze umane e dal pensiero sociale cristiano, Città Nuova, Milano, 2008

11

AA.VV., Ciò che è bene per la società è bene per l’impresa. Una rivisitazione di teorie e prassi della Responsabilità Sociale d’Impresa, Franco Angeli, Milano, 2012

(14)

12 scopo estraneo al proprio genererebbe una distrazione delle risorse e degli sforzi imprenditoriali non sostenibile: “la sostituzione di considerazioni di ordine politico o sociale a quelle strettamente economiche, risulta essere un ostacolo all’allocazione razionale delle risorse, e ciò a lungo andare non può che ridurre l’efficienza economica”12.

Nell’attività di impresa, dunque, la funzione economica è anche sociale e si realizza attraverso il conseguimento del maggior profitto possibile13

; il profitto creato inoltre dimostra che il valore generato anche a beneficio della collettività è superiore alle risorse che l’impresa ha tolto alla collettività stessa, con un saldo positivo anche a favore della società medesima: “l’impresa, puntando al massimo profitto, riesce a produrre effetti positivi per l’intera collettività che dalla stessa riceve beni, servizi, ricchezza e occupazione. Il profitto diventa, pertanto, il misuratore non solo del valore economico ma anche di quello sociale dell’attività aziendale”14.

Le teorie di Friedman fanno riferimento ad un momento storico in cui era centrale l’impresa e la concorrenza, elementi fondamentali per lo sviluppo economico15; successivamente alla sua disamina, però, si assiste ad un

processo inesorabile per il quale i fondamenti di tale teoria vengono a perdere di significato, per cui l’etica entra sempre più nei rapporti economici modificando la percezione del ruolo dell’impresa all’interno della società, soprattutto nel momento in cui vi è un miglioramento delle condizioni generali di vita e una critica agli eccessi del mondo industriale16.

Nello specifico, si assiste alla nascente consapevolezza dell’impatto sociale dell’attività delle imprese, soprattutto a seguito degli scandali corruttivi che

12

FRIEDMAN M., Capitalismo e libertà, Studio Tesi, Pordenone, 1987

13

PFOESTL E., La responsabilità sociale d’impresa, sviluppo sostenibile ed economia sociale di mercato, Editrice Apes, Roma, 2012

14

MALAVASI A., La responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. cooperazione, 2000, p. 156

15

SENA B., L’agire responsabile. La responsabilità sociale d’impresa tra opportunismi e opportunità, Città Nuova, Milano, 2009

16

(15)

13 caratterizzarono il contesto imprenditoriale statunitense negli anni ‘70 e ‘80.

Già negli anni ‘50 comunque nacque un filone di pensiero che vedeva nelle imprese ulteriori funzioni oltre quelle tradizionali della produzione e della distribuzione dei beni nell’ottica del conseguimento del maggior profitto possibile: l’impresa infatti doveva “fare prodotti, farli bene, con giusto profitto ma nell’interesse della collettività”17

.

Il profitto dunque veniva visto non solo come l’obiettivo finale dell’attività d’impresa, ma anche come uno strumento di realizzazione del benessere collettivo.

Pur riconoscendo dunque lo scopo primario dell’impresa, le prime teorie sulla RSI intendevano però sottolineare anche il necessario contributo di quest’ultima al progresso sociale, da realizzare anche in maniera attiva, cioè

adottando comportamenti socialmente responsabili18.

Nella pratica, però, le indicazioni di tali teorie pioniere furono attuate solo con iniziative finalizzate a migliorare l’immagine dell’impresa, senza intervenire concretamente per attivare una cultura della promozione dei valori sociali; gli interventi che furono realizzati infatti non furono ispirati da un’effettiva sensibilità rispetto ai valori della società.

Negli anni ‘70 nacque la teoria della “corporate social responsiveness”, che auspicava un più profondo mutamento della strategia d’impresa, nel senso della promozione degli interessi collettivi19; anche in tal caso però non si

giunse a definire dei valori e degli standard comportamentali capaci di realizzare un comportamento effettivamente sostenibile: l’obiettivo era comunque quello di generare un risultato economico derivante

17

MARZIANTONIO R., MARI L.M., Il bilancio sociale tra prassi e teoria, in G&M Strategia d’Immagine, 1999, p. 13

18

DI TORO P., L’etica nella gestione d’impresa, Cedam, Padova, 1993

19

(16)

14 dall’implementazione di determinate strategie, e non di avviare lo sviluppo di una cultura etica20

.

Solo negli anni ‘80 si ebbe un cambiamento di rotta, con delle teorizzazioni che mettevano apertamente in secondo piano gli scopi economici dell’impresa a beneficio dei valori sociali: le teorie della “business ethics” infatti si basavano su un sistema di valori finalizzati a regolare il comportamento dell’impresa al di là dei suoi risultati economici21

.

A differenza degli orientamenti teorici precedenti, le teorie della business ethics affermavano la necessità di delineare un sistema di principi da considerare come valori ispiratori delle strategie d’impresa, ai quali doveva seguire una serie di input che avrebbero dovuto rappresentare il punto di riferimento “per lo svolgimento di analisi e valutazioni etiche sugli obiettivi, sui piani e sulle scelte inerenti alla gestione dell’impresa”22

.

I principi etici dunque, una volta inglobati nella strategia dell’impresa, sarebbero divenuti una guida generale applicabile in tutte le situazioni che si sarebbero venute a creare nell’ambito della sua attività, generando pertanto un mutamento interno, in senso etico, della strutturazione imprenditoriale, e non soltanto l’acquisizione di un comportamento da tenere verso l’esterno finalizzato a migliorare l’immagine dell’azienda23.

L’impresa dunque è un “organo elementare di un più vasto organismo sociale”24

, che, alla pari degli altri attori che in esso vivono e dal quale dipendono, deve rispettare i valori che sono alla base della reciproca convivenza.

Secondo alcuni autori della business ethics, l’impresa ha sottoscritto un “contratto sociale”, cioè un accordo ideale tra gli individui appartenenti a

20

MORRI L., Storia e teorie della responsabilità sociale d’impresa. Un profilo interpretativo, Franco Angeli, Milano, 2009

21

CODA V., Valori imprenditoriali e successo dell’impresa, in Finanza, Marketing e Produzione, 2, 1985, p. 29

22

VELASQUEZ M., Business Ethics: concept and Cases, EnglewoodCliffs, Prentice, 1982

23

BIRINDELLI G., BRUNO E., TARABELLA A., La business ethics e la comunicazione esterna di impresa, FrancoAngeli, Milano, 2002

24

(17)

15 una stessa collettività, che definisce la realizzazione dei diritti dei membri e che delinea i rapporti tra la società e ognuno di essi25

.

Le posizioni della business ethics sono sicuramente condivisibili, ma al contempo non delineano il rapporto tra gli obiettivi etici e il ruolo della produzione del profitto economico, né danno una motivazione specifica per la quale l’impresa dovrebbe agire secondo una logica che è estranea da tale scopo.

In tale ottica, queste teorie non aggiungevano nulla di nuovo al dibattito allora esistente: era già evidente infatti che l’impresa non può essere considerata al di là delle conseguenze che essa comporta all’interno della società civile, in quanto essa stessa è parte di un contesto sociale e inevitabilmente deve tenere rapporti con i suoi interlocutori e rispettare i principi condivisi dalla comunità di riferimento.

Le variabili sociali sono quindi sottese all’attività d’impresa, in quanto il suo successo dipende anche dal consenso sociale e dal rispetto dei valori ritenuti imprescindibili dall’ambiente in cui opera; il problema però è un altro, e cioè come conciliare tali obiettivi con quello fondante l’impresa, vale a dire la massimizzazione del profitto.

Secondo un altro filone, l’acquisizione dei valori etici all’interno della strategia sociale costituisce una vera e propria necessità per l’impresa: infatti, esse operano in condizioni più difficili rispetto al passato, con una concorrenza più forte e una maggiore complessità ambientale26: “abbiamo interessi specifici dei detentori del capitale di rischio, dei finanziatori, dei fornitori, dei clienti, dei lavoratori, dell’erario, oltre agli interessi di ordine più generale della comunità socio-politica in cui l’azienda trova inserimento27

.

25

SACCONI L., BALDIN E., Le responsabilità etico-sociale d’impresa, 2002, in www.aidp.it

26

DEMATTE’ C., Interpretare e vivere la complessità, in Economia e Management, 15, 1990, p. 5; PRESUTTI E., Etica degli affari come sfida per l’impresa, in Etica degli affari, 2, 1990, p. 68

27

(18)

16 Tali soggetti costituiscono quelli che vengono definiti stakeholder o parti interessate: inizialmente, tale concetto si riferiva solamente agli investitori e ai dipendenti dell’impresa, con l’esclusione ad esempio dei dirigenti28; successivamente l’approccio “stakeholder” ha rilevato la sussistenza di altri portatori di interessi accanto a questi, che costituiscono degli interlocutori ugualmente significativi per l’impresa, la quale deve tener conto non solo degli interessi in termini di profitto, ma anche di quelli portati dai soggetti che hanno una qualsiasi “stake” (scommessa) nell’attività dell’impresa29. Gli stakeholder in senso estensivo costituiscono l’insieme complessivo degli interlocutori dell’azienda, quindi tutti i soggetti che sono in rapporto con essa, e pertanto anche i soggetti portatori di interessi soltanto potenziali, (come ad esempio le generazioni future).

In tale ambito, la dottrina si è divisa tra coloro che pongono l’accento sul concetto di interesse e coloro che invece introducono la nozione di influenza: in quest’ultimo caso, gli stakeholder sono qualsiasi soggetto che influenza o che a sua volta è influenzato dall’impresa.

In relazione al concetto di influenza, dunque, gli stakeholder sono i soggetti “che hanno uno specifico interesse in gioco nell’attività dell’impresa, qualunque sia il loro rapporto con essa e senza i quali l’impresa stessa non potrebbe sopravvivere”30; altri hanno affermato che gli stakeholder sono “i portatori di interesse che, ruotando a vario titolo intorno ad essa, creano quella “forza magnetica” che sostiene le aziende. Senza questa forza le aziende, come astri sospesi nello spazio dell’economia e della società, cadono, si dissociano, si frantumano, si sgretolano, si disintegrano, collassano così come collassa una stella nello spazio che fino a poco tempo prima brillava e illuminava la notte”31.

28

HINNA L., Il bilancio sociale: teoria e pratica, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002

29

FREEMAN R.E., Strategic management: a stakeholder approach, 1984

30

RUSCONI G., DORIGATTI M., La responsabilità sociale di impresa, Franco Angeli, Milano, 2004

31

(19)

17 Secondo un’analisi etimologica dell’Associazione Bancaria Italiana, “si dice che l’espressione nasca dalla consuetudine di farsi aiutare da qualcuno quando si pianta un bastone in terra: lo stakeholder è colui che tiene (hold) il bastone (stake) e ha l’evidente interesse affinché chi martella con la mazza non sbagli la mira. Da qui la traduzione come portatore di interessi o parte interessata”32.

L’approccio che considera, oltre che l’influenza, anche l’interesse rileva invece come gli stakeholder sono coloro che sono interessati alle strategie dell’impresa sia perché apportano in essa contributi di vario tipo, e quindi sono in grado di influenzarne, direttamente o indirettamente, i risultati e di condizionarne le scelte strategiche e operative, sia perché subiscono in maniera rilevante gli effetti positivi o negativi delle attività dell’impresa33. Anche il Libro Verde adotta un approccio combinato, rilevando come stakeholder “i dipendenti e, più in generale, tutte le parti interessate all’attività dell’impresa ma che possono a loro volta influire sulla sua riuscita”34.

Le nozioni di interesse e di influenza sono alla base anche della distinzione tra stakeholder primari e secondari: i primi “sono quelli senza la cui continua partecipazione l’impresa non può sopravvivere come complesso funzionante: tipicamente gli azionisti, gli investitori, i dipendenti, i clienti e i fornitori, insieme a quello che può essere definito il gruppo degli stakeholder pubblici, e cioè governi e comunità che forniscono le infrastrutture, i mercati, le leggi e i regolamenti”, mentre i secondi “sono tutti coloro che esercitano un’influenza sull’impresa, ma che non sono impegnati in transazioni con essa e che non sono essenziali per la sua sopravvivenza”35.

32

ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA, ResponsabilitàSocialed’Impresa: concetti e strumenti per le banche, Bancaria editrice, Roma, 2002

33

ibidem

34

HINNA L., Il bilancio sociale: teoria e pratica, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002

35

(20)

18 In tal senso, “gli stakeholder sono tutti quegli individui e gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori, e agenzie governative chiave. In senso più ampio, tuttavia, stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi di interesse pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa, sono tutti da considerare stakeholder”36.

Nel presente lavoro si accoglie la definizione estensiva del concetto di stakeholder, in modo da poter analizzare compiutamente gli interessi che agiscono intorno all’impresa, le relazioni di cui essa è parte e le conseguenze relative allo svolgimento della sua attività; pertanto, si fa propria la definizione secondo cui gli stakeholder sono “coloro (clienti, collaboratori, investitori, fornitori, partners, competitori, comunità circostante e sue istituzioni rappresentative, generazioni future) che hanno un interesse rilevante in gioco nella conduzione dell’impresa, sia a causa degli investimenti specifici che intraprendono per effettuare transazioni con l’impresa o nell’impresa, sia a causa dei possibili effetti esterni positivi o negativi delle transazioni effettuate dall’impresa, che ricadono su di loro”37.

In virtù di quanto detto, l’impresa deve contestualmente far fronte a più richieste, e per far ciò deve definire un complesso di valori a cui attenersi per conservare la coerenza e la propria immagine38.

Anche in tal caso però non è evidente il contributo in senso etico della business ethics, in quanto è evidente che l’impresa deve rispettare

36

HINNA L., Il bilanciosociale: teoria e pratica, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002

37

SACCONI L., Guidacriticaallaresponsabilitàsociale e al governod’impresa. Problemi, teorie e applicazioni della CSR, Bancaria Editrice, Roma, 2005

38

MORRI L., Storia e teorie della responsabilità sociale d’impresa. Un profilo interpretativo, Franco Angeli, Milano, 2009

(21)

19 determinate strategie senza adottare comportamenti opportunistici legati al momento contingente.

Tale teoria quindi ha mostrato tutte le sue mancanze, derivanti dal fatto che il comportamento responsabile auspicato derivi più da esigenze di ottimizzare e legittimare i rapporti con l’ambiente esterno, che da una reale condivisione di valori sociali.

Anche in tal caso il risultato finale è stato non una scelta etica, ma un’attività orientata ad acquisire il consenso dei consumatori per ottenere un profitto.

Ciononostante, pur considerando il fatto che ovviamente l’impresa deve anche produrre dei risultati economici, la business ethics comunque ha delineato degli obiettivi che le imprese moderne devono perseguire in ambito morale39

.

Sicuramente teorico è il contributo secondo cui il profitto non rappresenta l’unico obiettivo primario dell’attività aziendale e che anzi esso è addirittura un obiettivo puramente strumentale al perseguimento di altre finalità40.

Infatti, proprio in virtù di quanto affermato dalla teoria della business ethics, lo svolgimento di un’attività d’impresa in assenza di profitto potrebbe essere considerato esso stesso eticamente discutibile, in quanto tale attività non comporterebbe un aumento del benessere collettivo.

Proprio sulla base di ciò, le più recenti teorie sulla RSI propongono di affiancare all’obiettivo del profitto nel breve periodo degli obiettivi di lungo termine, il cui conseguimento dipende dalla realizzazione di risultati intermedi41.

Sulla base di ciò, l’adozione di un comportamento corretto da parte dell’impresa genera un effetto che si ripercuote direttamente sul suo

39

AA.VV., Ciò che è bene per la società è bene per l’impresa. Una rivisitazione di teorie e prassi della Responsabilità Sociale d’Impresa, Franco Angeli, Milano, 2012

40

CASSANDRO P.E., Il profitto dell’impresa mezzo e non fine, in Dirigenti Industria, Egea, Milano, 1969, p. 11

41

(22)

20 risultato economico; ma al contempo la realizzazione di un obiettivo in ottica sociale non deve comportare il fatto che l’impresa debba rinunciare ad avere un tornaconto economico.

In altre parole, mantenere un comportamento etico nell’impresa non vuol dire dover necessariamente mettere in secondo piano il suo fine primario, ma piuttosto perseguirlo attraverso una linea di condotta che non leda gli interessi sociali su cui esso può incidere42

.

In pratica, “nel lungo termine un’impresa guadagnerà di più se non provoca forti ostilità ed antagonismi da parte dei suoi concorrenti, fornitori, dipendenti e clienti, spremendoli o colpendoli troppo duramente. Che l’inasprire le proprie scelte possa alla fine ridurre i guadagni, può anche essere vero, ma ciò non ha nulla a che fare con l’etica”43

.

Le critiche alle teorie sulla business ethics hanno quindi stimolato ulteriormente il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa, che si è concentrato a questo punto sulla definizione preliminare del concetto.

Per alcuni “l’impresa è istituto economico, sociale e politico ma caratterizzato dalla preminenza della sua funzione economica; […] il fine immediato dell’azienda è infatti il soddisfacimento degli interessi economici istituzionali. […] Gli interessi istituzionali sono fine immediato dell’azienda; gli interessi non istituzionali sono condizioni di svolgimento dell’azienda, vincoli o fini non immediati dell’attività economica”44

; quindi, “se l’obiettivo dichiarato e di fatto perseguito da un’azienda è il profitto, cioè un margine positivo fra ricavi e costi totali nel medio-lungo periodo, allora la denominiamo impresa”45

.

In tali casi dunque la responsabilità sociale dell’impresa è considerata quasi un concetto marginale; altri filoni invece delineano con più precisione la questione: la responsabilità sociale di impresa viene definita come

42

D’ORAZIO E., L’etica degli affari in Italia: dalla riflessione teorica agli sviluppi recenti nella istituzionalizzazione dell’etica nelle imprese, in Notizie di Politeia, n. 66, 2002

43

CARR A.Z., Isbusiness bluffingethical?, in Harvard Business Review, 1968, p. 148

44

AIROLDI G., BRUNETTI G., CODA V., Economia aziendale, Il Mulino, Bologna, 1994

45

(23)

21 “l’obbligo dell’impresa di rispondere alle richieste della società”46oppure

“un modello di governance allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholders”47.

L’impresa responsabile è quindi quella che rispetta non solo i propri obiettivi di sviluppo e competitività, ma anche gli obiettivi e i bisogni dell’ambiente cui si ricollega, cioè quella che, “indipendentemente dall’assetto giuridico o istituzionale, produce ricchezza, benessere o socialità, contribuisce a creare contesti istituzionali economici e sociali idonei allo sviluppo, assicura remunerazione a tutti gli stakeholders, inclusi ovviamente gli shareholders [cioè gli investitori, essenzialmente soci e obbligazionisti]. È un’impresa attenta all’innovazione di prodotto e di processo sia in ottica di business, per mantenersi competitiva nel lungo periodo, sia in ottica sociale, per migliorare la sostenibilità e l’impatto ambientale”48

.

L’impresa responsabile prende delle decisioni strategiche ed operative che siano in sintonia con i valori etici di fondo, rispettando gli individui, la comunità e l’ambiente di riferimento, oltre che le normative giuridiche relative alla propria attività; essa deve porre un’attenzione particolare al benessere e alla sicurezza dei propri dipendenti, impegnarsi nella tutela dell’ambiente, rispettare i diritti dell’uomo e dei lavoratori, e deve essere cosciente del forte impatto che la sua attività può avere sulla comunità in cui opera49

.

Anche nelle definizioni più recenti si rileva come non vi sia una specifica motivazione, oltre a quella del ritorno di immagine o di qualche altro

46

TRABUCCHI R., Responsabilità sociali dell’impresa e bilancio sociale, in L’impresa, 1975, p. 436

47

RUSCONI G., DORIGATTI M., La responsabilità sociale di impresa, Franco Angeli, Milano, 2004

48

BUTERA F., CATINO M., L’impresa eccellente socialmente capace, in www.netmanager.it

49

(24)

22 vantaggio economico, che dovrebbe portare le imprese a tenere un comportamento socialmente responsabile, e che sia in sintonia con l’obiettivo primario della massimizzazione del profitto.

Le teorie sull’etica d’impresa quindi presentano un limite che appare ad oggi ineludibile, e questa apparente inconciliabilità tra profitto ed etica è alla base dei recenti interventi dei governi e delle organizzazioni internazionali, che hanno introdotto dei sistemi di incentivo e di controllo basati molto sulla logica di tipo reputazionale, e non su una legata a motivazioni specifiche vantaggiose per l’impresa.

(25)

23

1.2 Cenni di storia della RSI

Il contesto storico in cui si colloca la RSI è costituito da un momento in cui nell’impresa si affiancano al profitto anche altri interessi di natura etico-sociale, sviluppatisi per la prima volta negli Stati Uniti dopo la crisi del ‘29, che evidenziò la necessità di rispettare delle indicazioni etiche che consentissero di evitare gli scandali finanziari che ne furono alla base e di sostenere anche le fasce di popolazione particolarmente colpite dalla bolla speculativa.

Si fece strada dunque l’idea che l’impresa non dovesse avere come obiettivo solo il profitto, ma dovesse perseguire anche specifiche finalità sociali nella loro attività; in tal senso Bowen, nel 1953, sottolineò la responsabilità delle imprese di perseguire “tali politiche, di prendere tali decisioni, o di seguire le linee di azione auspicabili in termini di obiettivi e valori della nostra società”50.

In tale prima fase la responsabilità sociale veniva assegnata solo ai dirigenti e non all’impresa nel suo complesso; la proposta di Bowen comunque lascia intendere, anche se a livello embrionale, ciò che sottende la responsabilità sociale d’impresa, in quanto sottolinea il fatto che l’impresa non è più solo un’organizzazione finalizzata al profitto, ma piuttosto un’entità che detiene stretti rapporti con l’ambiente circostante e che può incidere significativamente su di esso, per cui si pone come diretta responsabile degli effetti che essa produce.

Solo negli anni ‘60 e ‘70, con la fase di crescita che interessa tutto il mondo occidentale, il concetto di RSI viene allargato all’impresa nel suo complesso, che acquisisce una specifica responsabilità, nei confronti dello sviluppo, del miglioramento delle condizioni di vita e del benessere generale.

50

(26)

24 Proprio in tale frangente nascono negli Stati Uniti i primi codici etici51, che

in Italia invece cominciano a diffondersi a partire dagli anni ‘80.

Il concetto di responsabilità sociale d’impresa fu approfondito da Carroll, il quale definì una piramide degli obiettivi prioritari che le imprese dovevano perseguire nella loro attività in relazione anche agli aspetti etici e relazionali.

Secondo Carroll “la responsabilità sociale d’impresa comprende le aspettative economiche, giuridiche, etiche e discrezionali che la società esprime rispetto alle organizzazioni in quel momento”52.

La piramide di Carroll prevedeva alla base le “economical responsibilities”, alle quali seguivano, in ordine crescente, le responsabilità “legali”, le “etiche” e le “discrezionali”.

L’innovazione del contributo di Carroll è costituita dalle nuove responsabilità sociali, quella etica, secondo la quale l’impresa deve operare secondo principi equi, imparziali e in linea con le regole sociali, e quella discrezionale, per la quale l’azienda, a sua discrezione, può effettuare investimenti a favore della collettività.

La teoria di Carroll è che l’impresa può realizzare comportamenti eticamente validi per aumentare la qualità della vita della comunità su cui insiste, al di là degli obblighi normativi.

Il contributo di Carroll fu ripreso successivamente nel 1971 dal Comitato per lo Sviluppo Economico nel suo primo rapporto sulla responsabilità sociale delle imprese, nel quale vengono definite tali responsabilità come tre ambiti: la responsabilità legata alle funzioni economiche, che è contenuta nella responsabilità nei confronti dei valori e delle priorità sociali,

51

MARRA A., L’etica aziendale come motore di progresso e di successo. Modelli di organizzazione, gestione e controllo: verso la responsabilità sociale delle imprese, Franco Angeli, Milano, 2002

52

CARROLL A. B., The pyramid of corporate social responsibility: toward the moral management of organizational stakeholders, in Business Horizons, luglio-agosto, 1991, p. 42

(27)

25 che a sua volta è ricompresa nella responsabilità di migliorare l’ambiente sociale53

.

Dagli anni ‘80 si sviluppa anche la piena attenzione del mondo accademico nei confronti della RSI; è di quegli anni la teoria degli stakeholder di Edward Freeman, che definisce i soggetti nei confronti dei quali le imprese devono essere socialmente responsabili, cioè i cosiddetti portatori di interessi.

Secondo Freeman “gli stakeholder primari, ovvero gli stakeholder in senso stretto, sono tutti quegli individui e gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori e agenzie governative chiave. In senso più ampio, tuttavia, stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi di interesse pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa, sono tutti da considerare stakeholder”54.

Mentre gli stakeholder primari sono i soggetti che gestiscono la sopravvivenza dell’impresa, i portatori di interessi secondari sono coloro che possono incidere o essere condizionati dall’attività dell’impresa: “tutti questi interessi convergono sull’azienda, ma non sempre convergono tra loro, anzi, più spesso sono in conflitto. […] Così i proprietari del capitale di rischio vedono prevalentemente nell’imprenditore il soggetto chiamato ad assicurare una congrua remunerazione al capitale investito ed a conservarne l’integrità reale; i finanziatori, il responsabile della solvibilità dell’azienda; i lavoratori, il garante dell’occupazione e dei miglioramenti delle condizioni di retribuzione e di lavoro; l’erario, il promotore di reddito imponibile; i fornitori, il soggetto che può procurare flussi finanziari

53

COMMITTEE FOR ECONOMIC DEVELOPMENT, Social responsibilities of business corporations, New York, 1971

54

(28)

26 positivi per la continuità delle loro combinazioni produttive; i clienti, il fornitore di beni e servizi idonei per qualità, quantità e prezzi alle esigenze delle rispettive economie”55.

La teoria di Freeman si contrappone a quella di Friedman degli shareholder, a cui si è accennato in precedenza, per la quale i portatori di interesse nell’attività di un’impresa sono solo gli azionisti, per cui lo scopo dell’impresa è soltanto quello di realizzare profitti per soddisfare gli interessi di questi ultimi56.

La stakeholder theory è considerata la base dei successivi contributi in materia di responsabilità d’impresa, anche se le vengono addebitate alcune mancanze, come il fatto di non aver tenuto in considerazione gli aspetti morali e valoriali, in quanto la teoria comunque ha l’obiettivo di porsi come una strategia manageriale orientata al profitto.

Un altro passo decisivo verso una compiuta RSI avviene poi nel 2001, con la pubblicazione del Libro Verde dell’Unione europea, di cui si parlerà meglio in seguito nel paragrafo 1.4.

Già durante il vertice di Lisbona del 2000 l’Unione stabilì le proprie linee guida strategiche in materia di crescita economica, da realizzare secondo il modello dello sviluppo sostenibile.

Si afferma in tale ambito quindi la consapevolezza che i comportamenti socialmente responsabili contribuiscono a favorire lo sviluppo dell’azienda, sia a livello economico che riguardo le relazioni con gli stakeholder e l’ambiente di riferimento, anche nel lungo periodo.

E’ in quegli anni infatti che nasce anche una maggiore attenzione da parte dei consumatori verso l’impatto sociale e ambientale delle imprese, con questi ultimi che cominciano ad acquistare solo i prodotti delle aziende che rispettano determinati parametri di responsabilità, premiando dunque quelle che investono tempo e risorse nelle attività di tutela sociale e ambientale.

55

SORCI C., La valutazione degli interventi imprenditoriali, Giuffrè, Milano, 1984

56

CARNEVALE C., Stakeholder, Csr ed economie di mercato. La complementarietà delle sfere economico-istituzionali, Franco Angeli, Milano, 2014

(29)

27 Negli anni Duemila quindi si affermano compiutamente gli strumenti di gestione e di comunicazione della RSI, quali il bilancio sociale, le certificazioni ambientali e gli standard internazionali, che rilevano la prestazione sociale delle imprese.

(30)

28

1.3 Il ruolo dei sindacati nell’affermazione della RSI

La responsabilità sociale d’impresa è un concetto che si è affermato anche grazie agli attori sociali direttamente interessati, che hanno agito come fonte di pressione per indurre le imprese ad attuare i principi suddetti; in particolare, risultano importanti i contributi in tal senso avutisi da parte delle organizzazioni sindacali, ovviamente in maggior parte rivolti nello specifico all’implementazione nelle imprese della responsabilità in materia di tutela dei diritti dei lavoratori e di sicurezza.

D’altronde, per alcuni la nascita della dottrina della responsabilità sociale d’impresa e del relativo dibattito pubblico si ha proprio grazie alla tendenza associativa e all’agire autonomo che caratterizzò, a partire dagli anni ‘40 e ‘50, l’ambito statunitense, come espressione della confluenza tra due correnti opposte, una rappresentata dalla pressione dei sindacati industriali, delle organizzazioni degli agricoltori, delle Chiese e delle autorità morali e scientifiche americane e l’altra costituita dalla risposta e, successivamente, la proposta delle organizzazioni imprenditoriali, dei manager e delle scuole universitarie di direzione aziendale a tali richieste.

Negli Stati Uniti già agli inizi del ‘900 vi fu un forte movimento d’opinione che aveva denunciato i manager e i “capitani/predoni” della grande industria, contro cui si scagliavano gli anti-monopoli di mercato; da tale dibattito erano nate a livello ideologico e politico la “progressive age” di Roosevelt e la prima normativa anti-monopolistica mondiale, vale a dire lo Sherman Antitrust Act del 1896 e il Clayton AntitrustAct del 1914.

A tali “attacchi” il mondo imprenditoriale dovette dare le prime risposte, che si tradussero nell’operato filantropico di John Rockfeller e Andrew Carnagie, i primordi della corporate responsibility57

.

57

(31)

29 Negli anni ‘20 si intensificarono le spinte provenienti dalla società civile, sempre di più sotto forma di lotta sindacale, che portarono alla seconda fase della responsabilità d’impresa, questa volta orientata alle condizioni abitative, di salute e di sicurezza previdenziale dei lavoratori.

Tale ondata diede vita alle prime forme di welfare aziendale, oltre che al forte dibattito sulla natura, le finalità e i limiti delle responsabilità sociali d’impresa; entrambi con la crisi del ‘29 subirono un duro colpo, che si tradusse nell’abbandono di tali pratiche pionieristiche.

Le analisi in materia però non si fermarono: secondo Selekman, il miglioramento degli standard di responsabilità nell’impresa poteva avvenire, più che dall’auto-disciplina individuale, proprio dalla pressione che sul potere economico esercitavano i due “contro-poteri”, cioè il sindacato e il governo.

In tal senso, le possibilità che gli “ethicalougths”(i doveri morali) affianchino nella pratica manageriale e imprenditoriale i“technicalmusts” (le esigenze tecnico-economiche) dipendono in larga parte dal sistema di “check and balances” (freni e contrappesi) tra potere d’impresa e istanze politico-sindacali, che esplicano la propria opera evidenziando l’onere economico che è a carico delle imprese eventualmente poco attente ai limiti morali e sociali a cui soggiacciono.

Come afferma Selekman, “qualora le tensioni della coscienza non fossero costantemente in gioco, le forze della competizione tenderebbero ad abbassare gli standard al denominatore comune più basso. Ma, poiché l’uomo non è altro che un uomo, la coscienza di frequente cede alla prudenza. Pertanto - e questo è di vitale importanza - è interesse della comunità che il management sia controllato dal potere dei sindacati e del governo. Perché la coscienza ha bisogno di un alleato sotto forma di costi - le possibili perdite dovute a scioperi o a regolamentazioni pubbliche che

(32)

30 funzionano da contrappeso ai costi incentrati sull’interesse personale della redditività”58

.

Anche Bowen negli anni ‘50 ha prospettato una “mixed economy”,

un’economia mista caratterizzata dall’intervento del governo e

dall’influenza decisiva di grandi organizzati sociali come i sindacati degli operai e le associazioni degli agricoltori, come elemento fondante delle responsabilità sociali d’impresa: egli definì tale orientamento come la nuova forma del capitalismo, che richiede all’uomo d’affari un adeguamento delle proprie decisioni alla presenza di attori sociali emergenti (governo, sindacati e agricoltori), in termini di attenzione alle conseguenze economiche e sociali delle strategie aziendali e di collaborazione alla

formulazione e all’implementazione delle politiche pubbliche59

.

Nel momento in cui le imprese non accettano le opportunità della responsabilità sociale, vi sono altri gruppi che assumeranno queste responsabilità: la storia insegna che governo e sindacati sono stati gli attori più attivi nel ruolo di ostacoli agli eccessi di potere dell’impresa60

.

Governo e sindacati quindi sono per Davis gli attori che lanciano la sfida alle imprese sul piano della responsabilità sociale, ma non più solo come soggetti istanti, ma addirittura come soggetti che possono sostituirsi ad esse nella definizione dei limiti e dei contenuti di tale ambito.

Di conseguenza, secondo Davis la mancanza di un’assunzione volontaria di responsabilità sociali da parte delle imprese lascerebbe alla politica e alle controparti sociali il compito di definire, a livello normativo e contrattuale, quegli obiettivi di risultato che le imprese non vogliono assumere e che la società comunque richiede.

Molteplici in effetti sono stati gli esempi di intervento del sindacato nell’ambito della responsabilità d’impresa; in Italia si ricorda negli anni ‘70

58

SELEKMAN B., A moral philosophy for management, McGraw-Hill, New York, 1958

59

BOWEN H., Social responsibilities of the businessman, Harper &Brothers, New York, 1953

60

DAVIS K., Can business afford to ignore social responsibilities?, in Californian Management Review, 11, 3, 1960, pp. 70-76

(33)

31 la “vertenza dell’1%” sviluppatasi in Emilia Romagna, con la quale i sindacati hanno dimostrato di superare la logica corporativistica: in tale sede “il movimento sindacale discusse su come usare il suo potere sociale per intervenire sulla società, recuperando una funzione generale: lo slogan era “dalla fabbrica alla società””61.

L’emblema dell’intervento sindacale in materia di RSI in Italia comunque è sicuramente l’“eccezionale stagione delle lotte operaie del 1968 […] in cui […] si fa sentire, da parte dei lavoratori e da parte della società, il rifiuto di concepire la realtà di fabbrica come immutabile luogo di pena”62.

In questo periodo, infatti, i lavoratori manifestano la loro volontà di non essere più passivi rispetto al sistema economico, e il movimento sindacale comincia a ribellarsi soprattutto in riferimento agli infortuni sul luogo di lavoro63

; il lavoratore rassegnato fatalista del taylorismo razionale lascia il posto ad un nuovo lavoratore, consapevole dei propri diritti inalienabili: “all’oggettività del modo di produrre (che in realtà è soggettività padronale connessa alla legge del profitto) si contrappone così polemicamente la soggettività operaia, il giudizio dei lavoratori circa la tollerabilità delle condizioni nelle quali sono chiamati ad adempiere la loro obbligazione”64

. Già da tempo in effetti era in atto nel movimento sindacale un ripensamento delle posizioni riguardanti la salute e l’ambiente di lavoro: “uno degli obiettivi della contrattazione collettiva a tutti i livelli, deve essere quello della creazione di un ambiente nel quale l’uomo, dotato di normale capacità di rendimento e di apprendimento, possa svolgere il suo lavoro in condizioni di benessere fisico, mentale e sociale”65

.

61

GARIBALDO F., Ma l’innovazione è antica. Le vertenze sociali del ‘74, in Carta Quaderno Settembre 2004, in www.carta.org

62

MONTUSCHI L., Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1986

63

TREU T., Statuto dei lavoratori e nocività, in Quale giustizia, 27-28, 1974, p. 383 ss.

64

MONTUSCHI L., Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1986

65

LAMA L., Rischio da lavoro e contrattazione sindacale, in Il rischio da lavoro, Atti del Convegno nazionale Inca, Roma, 17-19 aprile 1964

(34)

32 La strategia sindacale di quegli anni influenza la stessa attività interpretativa del diritto e sfocia nello Statuto dei lavoratori, nel quale l’impegno nella responsabilità in materia di salute del lavoratore passa da una gestione centralizzata basata sull’intervento diretto dello Stato ad un’iniziativa di tutela a carattere aziendale affiancata al fattore pubblico. Lo Statuto dei lavoratori, e in particolare l’art. 9, istituiscono una forma di diretto intervento dei lavoratori nella gestione della salute e della sicurezza in fabbrica; tale diritto, pur essendo individuale, viene inquadrato in una gestione collettiva sia all’interno dell’azienda che in un quadro generale di organizzazione a livello pubblico.

Nello specifico, l’art. 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300 attribuisce al lavoratore il diritto di controllare l’attuazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, nonché di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la propria salute e integrità fisica, e per tale motivo costituisce un input essenziale per l’attuazione di comportamenti responsabili in azienda, sia da parte del datore di lavoro che, per la prima volta, da parte del lavoratore stesso66

.

L’art. 9 dunque “rappresenta la norma forse più emblematica di quel complessivo disegno […] di incidenza reale sull’organizzazione del lavoro, su di un assetto, cioè, in relazione al quale la sovrana determinazione dell’imprenditore sembrava, sino alla vigilia della legge 300, scossa soltanto da iniziative di pressione che si muovessero sul piano dei rapporti di forza e giammai da istanze confortate da una “giuridicizzazione” in termini di situazioni soggettive attive”67.

La norma quindi si pone in senso strumentale e funzionale ad una protezione più significativa della salute dei lavoratori, “alla cui realizzazione meglio giova l’iniziativa sovra individuale, purché questa non

66

MAZZOTTA O., Manuale di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2013

67

BIANCHI D’URSO F., Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro, Jovene, Napoli, 1980

(35)

33 si configuri come una gestione dall’esterno o dall’alto di diritti disponibili dei lavoratori”68

.

Da segnalare poi il forte intervento sindacale nella questione relativa al danno alla persona del lavoratore: l’istituto del danno non patrimoniale è stato disciplinato dall’art. 2059 c.c., il quale prevede che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi espressamente previsti dalla legge.

In precedenza, l’unico caso espressamente previsto era quello di cui all’art. 185 c.p., cioè quello per il quale il fatto illecito costituiva anche reato, identificando tale danno con il solo danno morale soggettivo.

Oggi, invece, la tradizionale lettura dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p. è stata superata69

, per cui il danno non patrimoniale si configura in tutte le ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore riguardante la persona, costituzionalmente garantito, da cui derivino pregiudizi non suscettibili di valutazione economica.

Il danno alla persona può, pertanto, configurarsi anche nel rapporto di lavoro, a seguito di comportamenti realizzati dal datore di lavoro che siano lesivi della personalità del lavoratore.

La responsabilità del datore di lavoro è disciplinata dall’art. 2087 c.c., il quale prevede specifici obblighi di protezione non solo dell’integrità fisica, ma anche della personalità morale del prestatore di lavoro70

.

Anche il contesto della contrattazione collettiva poi ha dato vita ad esperienze negoziali significative in materia di RSI: ad esempio, il Protocollo sullo sviluppo sostenibile e compatibile del sistema bancario siglato tra l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) e le organizzazioni sindacali dei lavoratori FALCRI, FIBA-CISL, FISAC-CGIL e UIL CA il 16 giugno 2004 a Roma, nell’ambito della trattativa del rinnovo del CCNL settoriale, nel quale venne definito, secondo un approccio volontaristico, un

68

MONTUSCHI L., Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1986

69

Si vedano le sentenze della Corte di Cassazione n. 8827 e n. 8828 del 2003

70

(36)

34 impegno finalizzato “a orientare le imprese bancarie, in un contesto competitivo, verso uno sviluppo socialmente sostenibile e compatibile”. L’obiettivo era quello di incentivare la diffusione, nell’ambito del sistema bancario, della cultura, dei principi e dei valori connessi alla responsabilità sociale così come delineata nel Libro Verde.

Fu inoltre istituito un Osservatorio nazionale paritetico col compito di rilevare le buone pratiche sul tema e favorirne la diffusione, oltre che di sviluppare l’analisi e la ricerca su alcune tematiche relative alla promozione del valore dell’impresa, e cioè relazioni sindacali ai vari livelli, assetti del sistema creditizio meridionale e rapporti banche-imprese, salute e sicurezza sul lavoro, formazione continua, sviluppo delle competenze e crescita professionale, pari opportunità professionali, comunicazione interna alle aziende, conciliazione vita professionale e privata,tutela dell’ambiente, iniziative a favore dei disabili, iniziative di solidarietà, azioni positive contro molestie sessuali e comportamenti vessatori, gestione del patrimonio intellettuale delle aziende.

Altro esempio sono i sistemi di etichettatura sindacale dei prodotti, che hanno l’obiettivo di certificare la correttezza delle pratiche di lavoro utilizzate nella produzione degli stessi.

La prima etichetta di garanzia sindacale si fa risalire al 1869, quando la Lega dei Carpentieri di San Francisco forniva un marchio a tutti i cantieri aperti massimo otto ore al giorno, per distinguerli da quelli che non rispettavano tale orario contrattuale71.

In effetti, non esiste un vero e proprio sistema di etichettatura “sindacale”, ma ciò non ha impedito che parte del movimento sindacale si impegnasse in tal senso: si ricordi l’iniziativa dell’IGBAN, il sindacato tedesco delle costruzioni, dell’agricoltura e dell’ambiente, che in relazione al mercato floristico ha istituito nel 1999 il “Flower Label Program”, al quale partecipano commercianti, importatori, organizzazioni non governative e lo

71

(37)

35 stesso IGBAN, che ha dato vita ad un codice di condotta che definisce le condizioni sociali e ambientali della coltivazione dei fiori72

.

Altri esempi infine sono gli accordi quadro, sottoscritti secondo le logiche definite nell’ambito dell’iniziativa dell’ONU “Global Compact” lanciata nel 1999 a Davos, che proponeva il rilancio e l’estensione del dialogo sociale a tutti i livelli: tali accordi sono stati sottoscritti tra imprese multinazionali e le diverse Global Union Federations (GUF) e vengono qualificati come codici di condotta negoziati o come veri e propri accordi collettivi trans-nazionali.

La loro validità nasce dal fatto che essi riconoscono formalmente la cooperazione sociale a livello globale, come elemento di sviluppo di effetti giuridici vincolanti, considerando il fatto che l’ordinamento giuridico internazionale considera la norma consuetudinaria quale fonte primaria del diritto.

72

BEAUJOLIN F., Europeantradeunions and Corporate Social Responsibility: preparatory report for the ETUC meeting on 16 and 17 April 2004, 2004

(38)

36

1.4 La normativa di riferimento

La tematica della RSI si è affermata, oltre che sul piano teorico e applicativo, anche a livello di interventi, legislativi e non, da parte delle organizzazioni governative nazionali e internazionali; in tal senso, bisogna sottolineare come tali interventi siano avvenuti solo di recente, in quanto si sono sviluppati inizialmente, come già accennato, nel contesto statunitense, per poi diffondersi in particolare in Europa a partire dagli anni ‘80.

Nel 1996, su iniziativa dell’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors, viene istituito il CSR Europe, una rete di imprese europee con lo scopo di promuovere la diffusione della responsabilità sociale d’impresa; tale progetto ha dato vita a diversi interventi di livello nazionale, di cui si parlerà meglio nel prosieguo del paragrafo.

Restando in ambito comunitario, sempre nel 1996 la Commissione europea pubblica la “European Declaration of Businesses Against Social Exclusion”, mentre nel 1998 il Parlamento europeo approva la risoluzione “EU standards for European Enterprises operative countries: toward a European Code of Conduct”.

Nel 2000 poi il Consiglio europeo di Lisbona introduce un’iniziativa finalizzata a rendere l’economia europea entro il 2010 “la più competitiva e dinamica economia del mondo, […] capace di una crescita economica sostenibile, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”, obiettivo da realizzare tramite l’adozione delle “migliori pratiche per la formazione lungo tutto l’arco della vita, l’organizzazione del lavoro, le pari opportunità, l’inclusione sociale e lo sviluppo sostenibile”.

Tale iniziativa prevede innanzitutto l’avvio di un progetto di applicazione volontaria di codici di buone pratiche e di responsabilità sociale da parte delle aziende; successivamente, le esperienze precedenti confluiscono nel

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