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Responsabilità Sociale d Impresa in tempi di crisi

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Academic year: 2022

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Corso di Laurea

in Amministrazione e controllo Prova finale di Laurea

Responsabilità Sociale d’Impresa in tempi di crisi

Relatore

Prof. Chiara Mio Correlatore

Prof. Salvatore Russo

Laureando Valentino Gallo Matricola 807440 Anno Accademico 2008 / 2009

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Indice

Introduzione... 2

1. Responsabilità Sociale d’Impresa: risorsa strategica per il futuro... 5

2. Crisi e Responsabilità Sociale d’Impresa ... 12

2.1. L’origine della crisi in termini di RSI... 12

2.2. La RSI come strumento per uscire dalla crisi ... 17

2.3. Il capitalismo fondato sul cliente ... 19

2.4. Il cliente al primo posto ... 24

2.5. Una cultura aziendale diversa ... 27

3. RSI e competitività... 32

3.1 Le tesi a sostegno di RSI e competitività... 32

3.2 Innovazione per battere la crisi... 34

3.3 Il futuro della RSI ... 37

3.4 Alcuni esempi empirici di Stakeholder Vision ... 38

3.4 Contraddizioni e limiti dell’attuale RSI... 40

Conclusioni ... 43

Bibliografia... 47

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Introduzione

La profonda crisi economica che stiamo attraversando si manifesta ogni giorno nella sua immediatezza, nella sua gravità, nelle ripercussioni concrete che ha sulla vita dei cittadini. Ovunque sono reperibili dati e notizie riguardanti gli sviluppi di questo tsunami finanziario senza precedenti, che ha travolto l’economia mondiale.

Anche nel nostro Paese, dove l’economia poggia in buona parte su una rete di piccole e medie imprese, la crisi sta producendo i suoi effetti, con risultati portati quotidianamente alla nostra attenzione dai media. Assistiamo alla chiusura di stabilimenti, a diffusi ricorsi alla cassa integrazione, con i distretti, motore della nostra economia, in continuo rischio di collasso.

Come devono agire le imprese per non naufragare nella tempesta in corso? Quali leve è necessario azionare per sopravvivere e restare competitivi?

È opinione comune pensare che, in periodi di recessione globale come questo, le imprese focalizzino le politiche aziendali su obiettivi di breve termine, come il taglio dei costi. Al tempo stesso, invece, ci sono aziende che sembrano dimostrare il contrario, scegliendo approcci diversi nel fare business, con valori diversi dalla crescita economica incondizionata.

Come afferma l’economista Joseph Stiglitz, la caduta di Wall Street per il liberismo fondamentalista1 equivale a ciò che è stata la caduta del muro di Berlino per il comunismo: dice al mondo che questo tipo di organizzazione economica si è rivelata non sostenibile. La sua insostenibilità sociale e ambientale era già evidente; ora è il suo stesso modello economico ad essere irrimediabilmente in crisi. È fallita l’idea di una mano invisibile che regola i mercati.

1Stiglitz definisce liberismo fondamentalista “quella miriade di idee basate sul concetto integralista che i mercati si autocorreggono, allocano efficientemente le risorse e servono bene l’interesse pubblico”. (http://www.repubblica.it)

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Lo Stato si è ritrovato ad essere l’“azionista di ultima istanza”: stiamo assistendo al paradosso di un liberismo estremo che ha finito per chiedere il “massimo”

dell’intervento statale2.

Sicuramente questa crisi, che ha scardinato il principio per il quale il mercato può autoregolarsi con le sole leggi dell’economia a prescindere dalla morale e del controllo dell’istituzione pubblica, sarà l’occasione per ripensare al sistema capitalistico con una maggiore presenza etica nell’economia. La crisi insegna, per altro, che un paradigma socialmente irresponsabile porta a periodiche, talvolta pesantissime, distruzioni di valore, per i detentori di capitale, ma anche per l’economia in generale e tutta la società. Per uscirne sarà dunque necessario fare ricorso a risorse morali, che il modello finora adottato dal capitalismo consuma e rende sempre più irreperibili.

Diversi studi affermano che saranno proprio le imprese socialmente responsabili quelle che potranno affrontare la crisi con una relativa serenità. Queste, infatti, non agendo esclusivamente per il proprio tornaconto personale, ma anche per la comunità e per il contesto nel quale operano, saranno in grado di innescare un circolo virtuoso che potrà favorire la ripresa complessiva e lo sviluppo generale dell’economia. Sarà proprio l’innovativa capacità di pensare al benessere collettivo a condurre le imprese al successo e a garantire loro la sopravvivenza, anche in una fase storica come quella in corso.

La Responsabilità Sociale d’Impresa rappresenta oggi una realtà in forte sviluppo, in Italia e nel mondo: ovunque assistiamo al moltiplicarsi di iniziative su questo tema, all’organizzazione di convegni, alla nascita di nuove associazioni, a una crescente attenzione da parte degli organi legislativi e del governo.

Le imprese, anche le più piccole che operano a livello territoriale, sono sempre più attente e coinvolte in attività riconducibili alla Responsabilità Sociale, rendendo conto attraverso la redazione del Bilancio Sociale o altri mezzi, del loro impatto e del loro impegno in campo sociale e ambientale. La realtà è che la Responsabilità Sociale d’Impresa sta diventando uno strumento strategico e i dati di molte analisi dimostrano come molte aziende stiano dando sempre più rilevanza a problemi di carattere sociale ed ambientale. Ma oltre a solidi impianti teorici, e alle buone

2A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

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intenzioni, per gestire la crisi e uscirne, servono da parte delle imprese impegni concreti a ripensare i propri modelli organizzativi. È necessario comprendere ed accettare sfide non più rinviabili, è necessario per l’impresa ripensare la propria struttura e le proprie politiche in chiave strategica: in un’ottica di Responsabilità Sociale.

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1. Responsabilità Sociale d’Impresa: risorsa strategica per il futuro

Questa tesi parte dalla constatazione che la concezione originaria della Responsabilità Sociale d’Impresa, così com’era definita nel “Green Paper” della Commissione Europea nel 2001, risulta inadeguata oggi a descrivere l’eterogeneità e la complessità dei significati e delle pratiche che vengono racchiuse sotto l’acronimo RSI. Con questa denominazione, RSI, vengono infatti definite attività gestionali e manageriali che, pur prendendo le mosse dall’originaria matrice indicata dalla Comunità Europea, “integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, coprono aree d’azione diversissime, si realizzano con le più disparate modalità, sono collocate in aree funzionali diverse, e soprattutto si ispirano a visioni diverse e anche opposte della mission aziendale e dei rapporti tra impresa e società.

Così coesistono, in un momento storico caratterizzato da profondi cambiamenti e preoccupazioni crescenti per il futuro del pianeta, la posizione di chi continua a vedere l’impresa come un soggetto autonomo e separato dal resto del mondo e quindi in costante competizione con esso in un gioco a somma zero, e quella di chi riconosce inevitabile la convenienza reciproca della ricerca della relazione tra stakeholder interni ed esterni all’impresa, come condizione necessaria a portare al successo l’impresa stessa, in una logica di crescita dell’intero sistema economico e sociale.

I sostenitori della prima impostazione, che trae fondamento dalle note affermazioni dell’economista Premio Nobel Milton Friedman, sono coloro che tendono a negare l’utilità per l’impresa di interessarsi a tematiche sociali, essendo l’unica responsabilità e unico dovere dell’impresa fare profitti per i propri azionisti, shareholders, operando ovviamente nel rispetto delle leggi. Per i fautori di questa teoria non esiste dunque Responsabilità Sociale d’Impresa, mentre può esistere l’atteggiamento di farsi carico di istanze sociali, da parte dell’impresa, che interviene per restituire qualcosa alla società in termini di filantropia, di beneficenza, magari ottenendo un ritorno positivo per la propria reputazione. Un approccio, questo,

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abbastanza semplice, in cui la RSI è completamente separata dai processi aziendali ed estranea al core business: una scelta opportunistica per la costruzione di una buona immagine.

All’estremo opposto si colloca, invece, la posizione di quanti, ispirandosi alla

“Stakeholder Theory” di Edward Freeman, nata negli anni Ottanta e tuttora in evoluzione, considerano il “sociale” come tutta la “società”3. Un complesso universo è costituito da differenti stakeholder con i quali l’impresa entra in relazione e verso i quali vanta diritti e si assume obblighi derivanti dal fatto che tali stakeholder concorrono, insieme all’impresa, alla produzione della ricchezza. Hanno quindi titolo per essere immessi nella generazione e nel godimento di tale ricchezza, in modi che trascendono e superano gli obblighi imposti dalla legge e dalle normative vigenti. Da qui la volontarietà, che però in questo caso assume una valenza strategica.

Questo è un approccio caratterizzato da una maggiore complessità, in cui la Responsabilità d’Impresa diviene ricerca del modo migliore per far crescere la propria parte del sistema, la propria impresa (shareholder), senza penalizzare, anzi promuovendo la crescita di tutto il sistema e delle sue componenti (stakeholder).

Un’impresa, secondo tale concezione, non ha più come obiettivo produrre per il mercato, ma produrre con gli stakeholder, dove questi includono il mercato, i clienti, i consumatori, le istituzioni e l’ambiente.

Figura 1.1. L’intreccio tra impresa e stakeholder

Fonte: A. M. Chiesi, A. Martinelli, M. Pellegatta, “Il Bilancio Sociale, stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”

3 Ferrari L., S.Renna, R. Sobrero (2009), “Oltre la CSR”

Consumatori Investitori

Fornitori Comunità

Istituzioni Ambiente IMPRESA

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Il modo di agire “Responsabile” per l’impresa è quindi tener conto di tutti gli attori che impattano sulla sua attività e che da essa vengono coinvolti. Si forma così una più ampia visione strategica: nell’attuale realtà di un mondo sempre più globale e di mercati sempre più complessi, si arriva a una migliore gestione, a una maggiore capacità di soddisfare i bisogni, in un aumento della competitività, in sintesi a un miglior modo di fare impresa.

Freeman definisce questa impostazione strategica “Stakeholder Mindset”, uno stato mentale orientato agli stakeholder, il quale per essere efficace, deve essere volontario e condiviso da tutto il management aziendale, che deve essere attivamente coinvolto.

Freeman propone quindi una RSI che trova realizzo durante la produzione della ricchezza da parte dell’impresa tramite una precedente analisi strategica. Friedman invece considera le attività sociali come qualcosa da attivare ex-post, e sempre nel primario interesse dell’impresa.

Naturalmente tra queste due estreme scuole di pensiero trovano posto numerose situazioni e visioni intermedie, caratterizzate da un’altissima velocità di transizione da una forma all’altra e da una rapida evoluzione. Si potrebbe dire che la RSI in questo momento è in una fase fluida, anche se il percorso verso la RSI strategica di Freeman sembrerebbe ormai decisamente avviato. A prova di questa affermazione,

“The Economist”, rivista sempre attenta e aggiornata sulla evoluzione dei temi manageriali, riporta: “La Responsabilità Sociale d’Impresa, un tempo considerata come una benefica attività marginale, viene oggi considerata come un movimento di primo piano. Ma a tutt’oggi poche società la stanno realizzando correttamente4”.

La RSI è oggi una realtà nota, praticata, riconosciuta come positiva, e il modo corretto di praticarla secondo l’ ”Economist”, che fa riferimento a numerosi esempi, testimonianze e dati derivanti da recenti indagini e statistiche, sarebbe quello di attuare strategie d’impresa orientate alla creazione di situazioni win-win, cioè quelle in cui ciò che è buono per l’impresa coincide, almeno in parte, con ciò che è buono anche per altre componenti della società.

Su un piano maggiormente scientifico, argomentano a tal proposito anche Michael Porter e Mark Kramer, che in un articolo pubblicato sull’“Harvard Business Review”

del gennaio 2007, fanno distinzione tra RSI reattiva e RSI strategica. I due autori

4The economist, 11 gennaio 2008.

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spiegano che per poter operare in modo strategico, l’impresa deve saper prima di tutto realizzare una buona integrazione tra interno ed esterno, e saper selezionare le cause su cui investire in modo prioritario, al fine di creare un valore condiviso, ossia un beneficio rilevante per la società che rivesta anche un valore per l’impresa. Si deve arrivare dunque, anche per Porter e Kramer, ad una situazione win-win. Nel seguito dell’articolo affermano: “La RSI strategica non si limita a un supporto di ampio respiro alle cause sociali e a una gestione sistematica degli effetti della catena del valore, ma prevede l’attuazione di un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici ampi e significativi alla società e al business. In questo modo i problemi sociali diventano una forte opportunità invece che un costo o un vincolo5”.

Le argomentazioni e le conclusioni dell’“Economist” e di Porter e Kramer circa la natura sempre più strategica della RSI, in sintonia con la Teoria degli Stakeholder di Freeman, appaiono sempre più condivise soprattutto nei tempi recenti segnati dalla crisi finanziaria. È sulla base di questa premessa, infatti, che si può pensare a una seria politica di riforma del capitalismo, a partire proprio dalla sua articolazione cellulare: l’impresa. L’introduzione della RSI, così intesa, come “criterio guida”

della governance d’impresa, come modello strategico e gestionale ha l’obiettivo di

“stabilizzare nel lungo periodo la crescita economica e reddittuale e di rafforzare le consistenze patrimoniali. È alternativo al paradigma ideale, strategico e gestionale dei mercati finanziari, saturo di contraddizioni sociali e ambientali, esposto ai rischi delle cadute reputazionali, delle crisi ricorrenti, delle distruzioni di valore, dell’instabilità, dell’erraticità del valore 6”.

Ancora più conclusivo in tal senso è il fatto che le imprese di maggior successo, quelle che vengono portate ad esempio di pratiche eccellenti, sembrano abbracciare con decisione la linea dell’integrazione strategica e, seppur con diversa gradualità hanno iniziato negli ultimi anni a mettere in pratica tale orientamento e a modificare le loro strutture organizzative e i loro principi di governance per poter operare in questa direzione.

5M. Porter, M. Kramer (2007), “Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la Corporale Social Responsibility”, Harvard Business Rewiew Italia

6A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

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Figura 1.1. Classificazione dei comportamenti aziendali

Fonte: Altis

Inoltre lo sviluppo non si limita alle multinazionali e alle aziende di grandi dimensioni ma coinvolge migliaia di aziende in tutto il mondo, che dispongono oggi di programmi di RSI e di una Direzione o di un Manager specificatamente creati per sovrintendere alla RSI. In Italia, nel 2006, è stato creato il RSI Manager Network Italia: una rete di esperti e professionisti che ha come mission quella di sviluppare le competenze dei propri associati e contribuire alla diffusione della cultura della Responsabilità Sociale d’Impresa7. Secondo indagini svolte da questo Network il numero di manager specificatamente dedicato alla RSI sta aumentando in maniera esponenziale e gli investimenti destinati dalle imprese medio-grandi (con oltre 100 dipendenti) a iniziative di Responsabilità Sociale (definite “a sostegno della cultura, dell’ambiente/sviluppo sostenibile, della solidarietà e del personale interno”) sono più che raddoppiati dal 2001 ad oggi.

Ciò che appare osservando questa rapida evoluzione, è che nella breve storia della RSI si stia arrivando velocemente a ribaltare il significato originale di questa pratica:

7 Molteni M., Bertolini S., Pedrini M. (2007), “Il mestiere di CSR manager. Politiche di responsabilità sociale nelle imprese italiane”

FILANTROPIA CINISMO

AUTOLESIONISMO

IMPRENDITORIALITÀ SOCIALMENTE

ORIENTATA

No Si

Bassa Alta

QUALITÀ DELLE RELAZIONI CON GLI STAKEHOLDER

REDDITIVITÀ E SOLIDITÀ ECONOMICA

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da un concetto centrato sull’egoismo dell’impresa orientata al massimo profitto possibile, alla necessità per l’impresa di perseguire l’integrazione con gli altri soggetti, rinunciando alla propria centralità assoluta rispetto agli altri stakeholder.

Evidentemente è auspicabile che l’impresa nel suo insieme crei il più alto valore possibile, ma non meno importante è la questione della ripartizione di questo valore tra le categorie sociali che hanno contribuito a crearlo. Può accadere, infatti, che la creazione di valore per gli azionisti comporti la distruzione di valore per la società.

In questo caso l’aumento di valore delle azioni è conseguenza di un disinvestimento e di un maggior costo per l’impresa, cioè di una distruzione di valore nel vero senso del termine. È vero che gli azionisti sono soci delle imprese, ma spesso la loro sorte non è legata alle prospettive future di queste ultime, essi hanno infatti la possibilità di passare da un titolo all’altro con tutta l’incostanza necessaria a servire meglio i propri interessi. Bisogna dunque dire che la creazione di valore per gli azionisti è sinonimo di aumento della rendita che viene loro servita. E la rendita non ha nulla a che vedere con la creazione di valore, ma consiste nel dirottare a proprio vantaggio il valore creato da altri 8.

È proprio per portare una parte di quel valore a tutte le componenti del sistema, e promuovere lo sviluppo di tutta la società di cui fanno parte, che le imprese lungimiranti adottano lo “Stakeholder Mindset”, così da restare vitali e competitive nel tempo, capaci di affrontare meglio le turbolenze del mercato e magari consentire alla società di non trovarsi di fronte a crisi di tale portata.

La crisi dunque deve portare a una riforma dal basso: si deve scommettere sulla società come protagonista fondamentale, come soggetto in grado di produrre e anche di ridistribuire ricchezza. La politica economica di lungo termine che veramente serve è un maggior equilibrio nella distribuzione dei redditi, infatti la causa strutturale della crisi in corso è proprio la “diseguale” distribuzione del reddito, che determina un deficit di domanda e dunque la recessione: i consumi privati sono il cuore della crisi. In USA lo hanno chiamato “spread the wealth”, diffondere la ricchezza, secondo il principio citato da Barack Obama nel famoso dialogo con Joe l’idraulico9.

8 A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

9A. Berrini (2009), “Come si esce dalla Crisi”

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Si arriverebbe così ad un nuovo progetto di capitalismo, che affronti i suoi problemi verso l’insostenibilità ambientale e politica. Si giungerebbe ad un progetto che può essere realizzato solo usando “eticamente” il mercato.

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2. Crisi e Responsabilità Sociale d’Impresa

2.1. L’origine della crisi in termini di RSI

Come è noto dalle ricostruzioni di economisti ed analisti, la crisi dei mutui subprime ha avuto origine da un complesso meccanismo: le banche americane che concedevano i mutui non mantenevano presso di loro i rischi di insolvenza correlati, ma li suddividevano e li impacchettavano in prodotti finanziari derivati molto complessi. Dopo aver concesso il credito, procedevano alla sua cartolarizzazione dalla quale ottenevano strumenti finanziari: dei titoli obbligazionari. Questi, insieme ad altre cartolarizzazioni di vario tipo, sono finite poi nei portafogli di altri strumenti finanziari, titoli composti da panieri di debito che potevano ricevere alti rating dalle agenzie di valutazione del rischio in quanto, al momento, non venivano evidenziati particolari motivi di preoccupazione.

Successivamente anche questi pacchetti potevano essere confezionati a loro volta in ulteriori derivati. La crisi finanziaria può essere dunque riassunta in un fatto: una conversione del modello di business degli operatori finanziari basata su una diversa diversificazione del rischio10.

Così facendo le banche contavano di frazionare il rischio tra una miriade di acquirenti e quindi di poter generare all’infinito prodotti finanziari da piazzare sul mercato con alti rendimenti. A un estremo e all’altro della catena si trovavano persone incapaci di capire ciò che veniva loro offerto dalle banche. In questo modo i più poveri, che hanno iniziato ad acquistare case che non potevano permettersi hanno innescato la crisi, e sono poi rimasti inermi nelle mani delle banche, che grazie all’innovazione finanziaria, si preoccupavano solo di distribuire denaro ma non di

10Ferrari L., S.Renna, R. Sobrero (2009), “Oltre la CSR”

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averlo indietro, perché trasferivano il rischio su qualcun altro. Alle banche, in questa maniera, non importava più di essere selettive nei confronti dei debitori.

All’altro capo di questa filiera c’erano i risparmiatori che investivano sui titoli di queste società finanziarie, confidando sul loro nome e sul fatto che a presentare come buoni quei titoli rilavorati erano le più grandi agenzie di rating al mondo. La figura 2.1 mette in evidenza graficamente il meccanismo attraverso il quale le banche concedevano mutui subprime ai mutuari per poi cartolarizzarli e porli nei portafogli degli investitori.

Figura 2.1.1. Meccanismo

Fonte: Credito Cooperativo Veneto

Lehman Brothers, Merrill Lynch, Goldman Sachs, e altre grandi banche d’affari vendevano i prodotti finanziari ad alto rischio e, nel corso del boom di queste cartolarizzazioni, avevano acquistato istituti competenti nel lavorare e impacchettare i mutui subprime. Lehman Brothers e Merrill Lynch ne avevano acquisite ben tre a testa, Bear Sterns ne aveva comprate due. Queste società garantivano loro la produzione di strumenti finanziari e fornivano il continuo sviluppo di nuovi prodotti.

Proprietari di case

Investitori

Banche

Società di cartolarizzazione Garanzie

Mutui

Titoli

Mutui, Linee di liquidità

Titoli, prodotti finanziari complessi

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Nel 2006 questo business arrivò a rappresentare il 33% del loro giro d’affari, contro il 13% del 2000. I cinque istituti di investimento di Wall Street - Morgan Stanley, Lehman Brothers, Bear Sterns, Goldman Sachs e Merrill Lynch – dichiararono profitti per 130 miliardi di dollari, e altrettanto alti furono i compensi dei loro amministratori delegati. Stanley O’Neal, di Merrill Lynch portò a casa 47,3 milioni di dollari, James Cayne, di Bear Sterns, 14,8 milioni e Richard Fuld, di Lehman Brothers, 10,9 milioni11.

Ciò che appare singolare è che, oltre all’enorme successo finanziario e a risultati di gestione sorprendenti, le grandi banche commerciali americane, istituzioni finanziarie come Fannie Mae e Freddie Mac, altre grandi case d’investimento impegnatissime nella speculazione come Bear Sterns, hanno ricevuto onori e riconoscimenti anche da parte delle agenzie e società di rating etico.

AccountAbility Rating nel 2007 pone tra le 100 corporation con il più alto rating di sostenibilità tre delle cinque banche d’affari già nominate: al 75° posto Merrill Lynch, al 76° Goldman Sachs, al 79° Morgan Stanley12. Sempre in questa classifica rientrano in buona posizione anche altri istituti coinvolti nella grande speculazione finanziaria: Citygroup, Fortis Bank e Bank of America. Inoltre il Dow Jones Sustainability Index13, indice globale che registra le performance finanziarie delle aziende che applicano criteri di sostenibilità nel mondo, ha incluso fino al 2005 Fannie Mae nonostante questa fosse sotto inchiesta fin dal 2003 per aver manipolato i propri bilanci.

FTSE4Good14, altro indice che misura le performance aziendali in termini di rispetto degli standard di Responsabilità Sociale globalmente riconosciuti, al fine di facilitare l'investimento verso queste stesse aziende, cancellava dalla propria lista Bear Sterns proprio quando, nel 2005, il Dow Jones Sustainability Index ne decretava l’ammissione nella propria classifica. Entrambi gli indici, invece, si trovavano in accordo per l’ammissione nei propri ranghi, nel 2006, di Goldman Sachs, un’altra

11C. Gatti, “American crack – cause economiche, errori politici, responsabilità bancarie:

da Clinton a Bush, l’origine della grande depressione 2008”, Il sole 24 ore, 25 settembre 2008

12 www.accountabilityrating.com

13 www.sustainability-index.com

14www.ftse.com

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delle protagoniste nella vicenda dei derivati “tossici”, quando la crisi cominciava a lanciare i primi segnali d’arrivo.

È evidente dai fatti fin qui descritti come le agenzie di rating abbiano assegnato maggior peso ai programmi di charity o di finanziamento dei progetti di riduzione delle emissioni nocive realizzati da tali istituti, piuttosto che analizzare i loro business, la cui ampiamente remunerata rischiosità garantiva loro di finanziare programmi ad alto contenuto sociale e ambientale. Goldman Sachs, ha dato vita ad un Programma di formazione di alto livello per 10 mila donne imprenditrici nei paesi in via di sviluppo: “10.000 women”, dotato di un fondo di 100 milioni di dollari, circa 70 milioni di euro, per finanziare l’autoimprenditorialità femminile nelle regioni sottosviluppate dell’Africa. Morgan Stanley, invece, ha creato la prima Carbon Bank, che assiste i propri clienti nel diventare “carbon neutral”, e per compensare le emissioni cancellando crediti di CO2 in accordo ai più autorevoli standard internazionali.

Ma non è solamente spingendo le imprese ad essere più “committed” sul piano socio-ambientale che ci si potrà aspettare un immediato incremento del livello di eticità nel business. Così come una semplice verifica sul grado di questo esclusivo tipo di virtuosità non dovrebbe bastare alle agenzie di rating per decidere se inserire o meno un’impresa all’interno degli indici di sostenibilità.

Il grado di sostenibilità dei processi economici va messo alla prova, innanzitutto, sul piano della correttezza intrinseca dei meccanismi fondanti di tali processi, ovvero del modo attraverso il quale viene generato il valore economico15.

Da fine 2006, dall’inizio della crisi, e per oltre un anno le banche hanno tentato di negare l’evidenza e invece di prendere atto delle loro perdite hanno spiegato che non era possibile valutarle, così se non c’erano perdite valutabili non c’era neppure il fallimento. Nell’attesa che la situazione si risolvesse, però, il meccanismo finora utilizzato dalla finanza creativa si era bloccato, e le condizioni economiche iniziavano a degradarsi. Così cominciarono ad arrivare le prime insolvenze: le cinque merchant banks si trovarono in portafoglio grandi quantità di derivati tossici che dovevano ancora essere impacchettati e piazzati sul mercato, prodotti finanziari pessimi che non si potevano più consolidare. Le difficoltà delle case finanziarie

15http://beta.vita.it/csr

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portarono ad una grave crisi di fiducia. Nel 2008 Bear Sterns venne salvata con l’intervento della Fed, Lehman Brother collassò dichiarando il fallimento, Merrill Lynch fu acquistata appena in tempo da Bank of America, Fannie Mae e Freddie Mac furono messe sotto tutela federale.

Le due banche d’affari sopravvissute, Morgan Stanley e Goldman Sachs si sottomisero ai controlli della Fed, e rinunciando al loro status d’indipendenza, diventarono normali banche commerciali, per poter accogliere anche i depositi dei risparmiatori. Infine, Bank of America e CityGroup annunciarono nel 2008 grossi tagli di posti di lavoro.

Fino ad oggi i numeri della crisi hanno continuato a crescere sia per quanto riguarda i tagli di posti di lavoro, sia per quanto concerne gli aiuti pubblici, soldi dei contribuenti erogati dai governi per salvare banche e aziende in difficoltà.

È dunque lecito affermare che ciò che è accaduto in questi anni nei mercati finanziari appare significativo di come la gestione del rischio sia, e debba essere considerata, elemento portante della sostenibilità d’impresa.

Gli azionisti, fornendo il capitale, accettano il rischio finanziario residuale del fare business: in ragione di questo rapporto, ricevono la loro rendita, i profitti residuali.

Ma essi non hanno alcuna garanzia contrattuale di avere un ritorno sicuro, non hanno un pagamento fisso, perciò ogni piccola parte di capitale aziendale che verrà distratta verso attività diverse dal business in cui opera l’impresa, potrà considerarsi una diminuzione degli utili, una perdita diretta per le loro tasche. Secondo tale ragionamento quindi, la RSI equivarrebbe ad una parte di capitale distratto dal fine principe della rendita: una pratica che portando via ricchezza dalle tasche degli azionisti, appare simile ad un furto.

Tornando alle teorie esposte nella prima parte, questa visione richiama il pensiero la di Friedman, per il quale l’unico dovere dell’impresa è massimizzare i profitti per i propri azionisti: la Responsabilità Sociale d’Impresa appare come qualcosa di addizionale.

Ecco invece come, in realtà, la perdita e il furto, si sono verificati nella direzione esattamente opposta nel caso in analisi. Nella vicenda della finanza creativa è saltata per gli azionisti ogni legittimazione a far propri i profitti, dato che il rischio è stato trasferito su altri stakeholder, che ne hanno, alla fine, pagato le conseguenze.

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La conclusione tratta è che qualsiasi impresa agisca, come le banche americane coinvolte in questa vicenda, operando un trasferimento improprio ad altri stakeholder del rischio che dovrebbe gravare effettivamente ed esclusivamente su di essa, non è responsabile. Essa mette in atto una produzione del valore non sostenibile, basata sulla cessione del rischio, scaricato su componenti del sistema più deboli: dipendenti, clienti e ambiente. Un approccio questo, indubbiamente contrario ai principi della sostenibilità, che dimostra un atteggiamento di adesione alla RSI esclusivamente per mettere in vetrina una buona immagine, e avere ritorni economici in termini di investimenti.

2.2. La RSI come strumento per uscire dalla crisi

Per superare questi momenti difficili, per fondare i pilastri di una strategia anti-crisi che si rispetti, ogni azione risolutiva deve ruotare intorno ad una parola, un valore, un concetto chiave: fiducia16. È necessario ricostruire la fiducia sui mercati:

l’elemento principale sul quale le imprese, e gli istituti di credito nel caso specifico, dovrebbero impostare le proprie strategie di crescita, dalle attività quotidiane agli obiettivi di medio-lungo periodo.

Alla base del concetto di fiducia ci sono pratiche fondamentali, riconducibili a temi di RSI: la trasparenza delle informazioni, la professionalità, e l’equità, intesa come rispetto degli equilibri concorrenziali.

Nel caso particolare degli istituti bancari, che offrono servizi finanziari e di gestione dei risparmi, la fiducia costituisce l’oggetto base per fidelizzare la clientela.

Un servizio, per sua natura immateriale, è giudicato dal cliente attraverso la professionalità che gli viene dimostrata dal consulente. Così se il cliente è soddisfatto di come gli viene proposto il servizio, se trova chiarezza e trasparenza nelle operazioni finanziarie, e personale disposto ad ascoltare le sue necessità con cortesia, porterà valore alla banca.

16 www.bilanciarsi.it

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In questo contesto, strumenti di Responsabilità Sociale possono rappresentare una strategia organizzativa vincente per le banche: ascoltare le richieste dei vari stakeholder portatori d’interesse, coinvolgerli nella programmazione delle strategie, valorizzando le loro esigenze, può diventare un elemento essenziale in grado di decretare il successo e la sopravvivenza.

Di sicuro il punto di partenza sarà rappresentato dalle risorse umane, dai dipendenti, che forniscono il contatto diretto dell’istituto bancario con la clientela. Non è possibile pensare di poter guadagnare la fiducia dei clienti se prima non si guadagna quella dei dipendenti. È inutile perdere tempo a creare procedimenti finanziari più trasparenti se prima non si incentivano i dipendenti, che, quotidianamente, si trovano a contatto con gli utenti.

I clienti ripongono la loro fiducia non tanto nel prodotto che acquistano, quanto nella persona che li segue nelle loro richieste. Dipendenti e utenti sono per le banche gli stakeholder più importanti e se queste vogliono fiducia e fedeltà dei secondi, devono prima conquistare i propri collaboratori.

In questa direzione politiche di RSI rivolte al personale risultano adatte a questo scopo. È possibile fidelizzare i propri dipendenti attuando ad esempio programmi di work-life balance, che permettono di creare un “benessere organizzativo”17, o cercando di allineare gli obiettivi delle persone alla mission del gruppo. In questo modo, fidelizzando i lavoratori dell’azienda, e di conseguenza i clienti, si innesca un circolo della fiducia che permette all’impresa di creare valore, e che l’impresa può sempre mantenere attivo grazie alla RSI.

Figura 2.2.1 Il circolo della fiducia

Fonte: www.bilanciarsi.it

17www.wicetech.it

- Benessere aziendale - Attrazione di professionalità - Efficienza/efficacia servizio - Produttività

- Diminuzione conflittualità - Sinergia operativa

- Fiducia - Fidelizzazione - Reputazione - Immagine - Passaparola FIDUCIA DALLE

RISORSE UMANE FIDUCIA DAI

CLIENTI

Benefici dalla RSI Benefici dalla RSI

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2.3. Il capitalismo fondato sul cliente

Una recente analisi, condotta da IBM su 244 dirigenti aziendali di tutto il mondo, illustra come un numero crescente di aziende si stiano focalizzando sempre di più su obiettivi che attengono al campo socio-ambientale in ottica strategica. Il 60% degli intervistati afferma che la RSI ha assunto maggiore rilievo all’interno delle loro organizzazioni, rispetto ad un 6% del campione che riserva alla RSI una priorità più bassa18.

La Responsabilità Sociale d’Impresa sta assumendo dunque i connotati di una lente, attraverso la quale un’impresa è valutata, e ciò che spinge in questa direzione sono l’interesse e le crescenti aspettative degli stakeholder. Oltre due terzi delle aziende che hanno partecipato al sondaggio, considerano la RSI parte integrante delle loro strategie per accrescere il capitale e conquistare i mercati emergenti. Per mettere a punto strategie sostenibili però, è necessario comprendere i trade-off tra qualità, servizio clienti, costi e altri fattori.

A ciò viene associata anche una nuova visione del consumatore: gli utenti oggi non prestano attenzione solamente alle buone cause che le imprese prendono in carico, ma sono piuttosto interessati a come si sviluppa tutta la catena del valore, dai fornitori ai distributori. È necessario per le imprese capire il ruolo fondamentale che assumono sempre più gli stakeholder, con cui esse devono rapportarsi. È necessario stare al passo con i tempi, e soprattutto in tempi di crisi come quelli che l’economia globale sta attraversando, è importante concedere maggiore considerazione al cliente, lo stakeholder che per primo ha il potere di determinare il successo e la vitalità di un’azienda. In momenti finanziari difficili, infatti, chi fidelizza i suoi consumatori sopravvive e ha successo, chi si trova senza utenti invece soccombe.

Il capitalismo si può dividere in due epoche principali. La prima, quella del capitalismo manageriale, ebbe inizio nel 1932 e fu contraddistinta dall’idea, all’epoca innovativa e rivoluzionaria, che le imprese dovessero avere un management professionale. La seconda, il capitalismo del valore per gli azionisti, ha avuto inizio nel 1976. La sua premessa centrale è che lo scopo di ogni impresa

18 www.bilanciarsi.com

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dovrebbe essere quello di massimizzare la ricchezza degli azionisti. Se le imprese perseguono tale obiettivo, afferma questo ragionamento, allora sia gli azionisti che la società ne trarranno beneficio19. Ma questa è una premessa imperfetta, che è il momento di abbandonare definitivamente per giungere ad una terza era.

Dopo tre decenni, in cui dirigenti hanno fatto dello shareholder value la priorità assoluta, ora è il tempo di cambiare rotta e avvicinarsi ad un capitalismo fondato sul cliente. Le prove suggeriscono, infatti, che gli azionisti, ottengono risultati migliori quando le imprese antepongono il cliente a tutto il resto.

La prima epoca vide l’introduzione di manager professionisti, ovvero la separazione tra proprietà e gestione dell’azienda. I proprietari iniziarono ad affidare le imprese ben avviate a professionisti preparati, affidabili e meno volubili. Poi nel 1976 l’articolo “Theory of the Firm: Managerial Behavior, Acengy Costs and Ownership Structure” di M. Jensen e W.Meckling diffuse la teoria che i dirigenti di professione davano poche attenzioni ai proprietari delle aziende, puntando a migliorare il proprio ritorno economico piuttosto che il vantaggio degli azionisti. Gli autori del saggio sostenevano che i manager, muovendo le risorse a beneficio dei propri interessi, portavano a consistenti sprechi per l’economia, e soprattutto a perdite per gli azionisti. La critica mossa dai due economisti ha così aperto la strada ad una seconda concezione, quella dell’era attuale: il capitalismo fondato sul valore per gli azionisti.

I consigli di amministrazione hanno riveduto il loro lavoro cercando di allineare gli interessi dei manager e quelli degli azionisti, collegando le retribuzioni dei primi al valore delle azioni.

La figura più importante del nuovo corso è probabilmente stata quella di Jack Welch, amministratore delegato di General Eletric dal 1981 al 2001, che con il suo lavoro segnò un netto passaggio verso l’ottica del profitto sopra ogni cosa. Egli fu un grande sostenitore dell’impresa incentrata sul valore per gli azionisti, ed ottenne retribuzioni su base azionaria senza precedenti, arrivando a possedere quasi 900 milioni di dollari in azioni di General Electric, al momento in cui ne lasciò il comando20.

Ma gli azionisti non si sono effettivamente arricchiti da quando i manager sono stati posti alla guida del business. Dal 1933 alla fine del 1976, gli azionisti delle società

19Harvard Business Rewiew Italia

20http://en.wikipedia.org

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che rientrano nell’indice S&P 500 hanno ottenuto un rendimento reale annuo composto del 7,6%, nonostante si presumesse che avessero un ruolo secondario rispetto rispetto ai manager professionisti. Dal 1977 alla fine del 2008 invece, gli azionisti del paniere S&P 500 hanno registrato un notevole peggioramento, ottenendo rendimenti reali del 5,9% annuo21. Non esiste, dunque, alcun segno che gli azionisti abbiano avuto maggiori benefici da quando i loro interessi sono stati messi in primo piano, date le performance abbastanza simili dei due periodi.

Probabilmente concentrare i propri sforzi esclusivamente sul maggior aumento possibile del valore per gli azionisti non è il modo migliore perché questi traggano vantaggio. Si dovrebbe invece puntare a massimizzare la soddisfazione del cliente, in altre parole ricondurre l’impresa a perseguire il suo scopo primario: acquisire e mantenere i clienti. Ci si potrebbe chiedere, secondo tale ragionamento, se fosse possibile mirare ad un duplice obbiettivo: massimizzare sia la soddisfazione del cliente sia il valore per gli azionisti.

Purtroppo però, come sostiene la teoria dell’ottimizzazione, non esiste nessun modo per ottimizzare contemporaneamente due differenti variabili. È possibile portare ai massimi livelli il valore per gli azionisti arrecando un minimo danno alla soddisfazione del cliente, o massimizzare la soddisfazione del cliente con un minimo svantaggio per il valore apprezzato dagli azionisti, ma non è possibile ottimizzare entrambe le variabili allo stesso tempo.

Se l’idea di massimizzare il valore per gli azionisti ha sempre allettato i manager, farlo diventare realtà si rivela un lavoro complesso, e la difficoltà è legata al modo in cui viene questo valore viene generato.

Gli azionisti detengono un diritto residuale sulle attività e sui ricavi dell’impresa:

ottengono da essa ciò che rimane dopo aver liquidato tutti gli altri aventi diritto come dipendenti, fornitori, fisco e creditori. Il valore delle azioni è così il valore attualizzato dei flussi di cassa futuri, sottratti i pagamenti sopraelencati.

Non avendo certezze per il futuro, i potenziali investitori dovranno stimare quale sarà il flusso di cassa, e le loro aspettative determineranno il valore dei titoli azionari.

Ogni azionista, che attende un valore attuale dei proventi da partecipazioni future nella società inferiore al prezzo corrente, venderà le proprie azioni. Ogni azionista

21Harvard Business Rewiew Italia

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potenziale, che preveda un valore attualizzato futuro superiore al prezzo corrente, acquisterà le azioni. Tale meccanismo implica che il valore per la totalità degli azionisti non ha quasi nulla a vedere con il presente, e in effetti gli utili presenti non sono che una minima componente del valore delle azioni ordinarie. Negli ultimi dieci anni il multiplo prezzo/utili medio annuo per l’S&P 500 è stato 27x, il che significa che gli utili correnti rappresentavano meno del 4% del valore delle azioni22.

Prendendo una data impresa, se le aspettative di performance future sono positive, il valore per gli azionisti crescerà. Nel 2009 i titoli di Google sono stati scambiati a un multiplo intorno a 35, perché la gente pensava che i ricavi delle società potessero ancora crescere. I titoli della Exxon Mobil, invece, sono stati scambiati ad un valore di circa 12 volte gli utili, perché gli investitori non sono fiduciosi sul futuro a lungo termine delle industrie petrolifere.

Per i manager le implicazioni sono chiare: migliorare le aspettative sull’andamento futuro della società è l’unico modo sicuro per far crescere il valore delle azioni.

Purtroppo però i dirigenti non possono farlo a tempo indeterminato.

Gli azionisti guarderanno ai buoni risultati, si entusiasmeranno e faranno salire le aspettative fino a livelli che diventano insostenibili per i manager. È ben documentato come gli azionisti si entusiasmino troppo a seguito di buone prospettive, e come si abbattano eccessivamente di fronte a previsioni negative. Ecco per quale ragione i mercati azionari sono molto più volatili rispetto al reddito delle imprese prodotto con le consuete attività.

Alla fine del 2001, il rapporto P/E dell’indice S&P 500, costruito fra prezzo corrente del titolo e utili societari di sua pertinenza, è stato un 46x23, perché gli azionisti pensavano che il mondo degli affari fosse entrato in una nuova dimensione. Ma una volta terminata l’euforia, il rapporto P/E è andato alla deriva fino a 19x e vi è rimasto fino al 2007, per poi passare a 25x poco prima del crollo del mercato azionario del 2008.

Ai giorni nostri è ormai lecito affermare che la creazione di valore per gli azionisti è ciclica e, cosa fondamentale, non è sotto il loro controllo. È possibile aumentare il valore per gli azionisti con impennate di breve durata, ma al momento opportuno i

22Harvard Business Rewiew Italia

23Harvard Business Rewiew Italia

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prezzi inizieranno a scendere di nuovo. Così i manager investono in strategie a breve termine, e sperano di lasciare la guida dell’impresa prima dell’inevitabile crack.

Spesso poi, criticano il loro successore per non essere in grado di evitare un declino annunciato. Altrimenti, cercano di gestire le aspettative verso il basso in modo da poter aumentare costantemente il valore per gli azionisti per un periodo di tempo più lungo. In altri termini, poiché i dirigenti non possono avere la certezza di uscire vincitori dalla prova che sono chiamati a superare, cercano di creare una strategia che permetta loro di vincere per il tempo che li vede protagonisti.

È per tale motivo che l’obbiettivo di massimizzazione del valore per gli azionisti e il sistema retributivo che lo accompagna sono un male per gli azionisti. Gli stessi manager che devono raggiungere tale obiettivo si rendono conto che non è possibile.

I bravi amministratori possono accrescere la quota di mercato e le vendite, migliorare i margini e usare il capitale con maggior efficienza, ma per quanto siano abili, non possono comunque riuscire ad aumentare il valore per gli azionisti se le aspettative superano la realtà. Un valore per gli azionisti sempre in crescita significa un continuo innalzarsi delle aspettative sulle performance future, e ciò semplicemente non è possibile. Quanto più un dirigente è spinto a forzare l’aumento del valore delle azioni, tanto più sarà incoraggiato a fare mosse che in realtà danneggiano gli azionisti.

Volendo portare un esempio concreto, Jack Welch, l’amministratore delegato simbolo della massimizzazione del valore per gli azionisti, considerato il padre dello shareholder value, è famoso per essere la persona che ha trasformato General Electric da un’impresa con una capitalizzazione di mercato di 13 miliardi di dollari nel 1981 nella società di maggior valore nel mondo: 484 miliardi di dollari nel 2001, quando andò in pensione. Per far sì che il valore per gli azionisti aumentasse di continuo, Welch ha dovuto costantemente forzare la società, spingendola verso una crescita sempre maggiore. Il principale motore di crescita a sua disposizione era in principio una piccola unità chiamata GE Capital, che, alla fine della sua carriera, era divenuta la principale fonte di profitti di General Electric. Eppure nel 2009 la società ha dovuto ammettere il fallimento di GE Capital e ha assistito al crollo della propria capitalizzazione di mercato fino al minimo di 80 miliardi di dollari. Così mentre l’enorme aumento del valore per gli azionisti di 471 miliardi di dollari realizzato

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sotto la supervisione di Welch sembrava meraviglioso al momento del suo pensionamento, è lecito chiedersi quanto gli azionisti ne abbiano tratto vantaggio nel lungo termine.

Lo stesso Jack Welch ha ritrattato il suo shareholder value, che ha regnato incontrastato nel mondo delle grandi società per oltre due decenni. L’ex dirigente ha fatto marcia indietro sulle sue teorie, dichiarando al Financial Times che è “stupido”

da parte dei dirigenti concentrarsi esclusivamente sui profitti trimestrali e sull’aumento del valore delle azioni. Welch ha dichiarato che la tanta attenzione destinata dai manager allo shareholder value è stata un errore24.

2.4. Il cliente al primo posto

Capire ciò che rappresenta un valore per i clienti e concentrarsi sulla loro costante soddisfazione è una formula di ottimizzazione migliore.

Ovviamente le aziende sono soggette a dei vincoli ovvi riguardo la soddisfazione della clientela, se rendessero più felici i clienti abbassando sempre più i prezzi a fronte di costi sempre più alti andrebbero subito incontro al fallimento.

I dirigenti dovrebbero dunque cercare di massimizzare sì la soddisfazione del cliente, ma garantendo al tempo stesso che gli azionisti ottengano un rendimento accettabile per il capitale investito, corretto per tenere conto del rischio.

Si consideri Johnson & Johnson, società con una chiara visione della responsabilità aziendale. La società ha da sempre dimostrato la dichiarazione di intenti più significativa nel mondo del business, diffondendo e rispettando quello che è il suo

“credo”, rimasto immutato da quando venne creato dal leggendario presidente Robert Wood Johnson. Egli nel 1943 scrisse e pubblicò il “Credo di Johnson & Johnson”, che recita in sintesi: “Crediamo che la nostra prima responsabilità sia nei confronti dei medici, degli infermieri e dei pazienti, delle madri e dei padri e di tutti coloro che utilizzano i nostri prodotti e servizi… Siamo responsabili nei confronti dei nostri dipendenti, uomini e donne, che lavorano con noi in tutto il mondo… Siamo

24www.ft.com

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responsabili nei confronti delle comunità in cui viviamo e lavoriamo, ma anche della comunità mondiale… La nostra responsabilità finale è verso i nostri azionisti… Se opereremo in base a questi principi, gli azionisti dovrebbero riuscire a ottenere un giusto rendimento”.

Il credo spiega senza mezzi termini qual è l’ordine gerarchico dei vari stakeholder: i clienti vengono per primi, e gli azionisti per ultimi. Tuttavia, Johnson & Johnson è convinta che, quando la creazione di valore del cliente viene messa al primo posto della lista, gli azionisti ne ricaveranno vantaggi.

Fino ad oggi questo modo di operare ha ripagato l’azienda. Nel 1982 sette consumatori dell’area di Chicago morirono avvelenati in seguito all’assunzione di alcune capsule manomesse di Tylenol, un farmaco della casa Johnson & Johnson.

L’ex amministratore delegato James Burke gestì l’accaduto da manuale, mostrando di essere a capo di una società responsabile, in grado di fare la cosa giusta a prescindere dall’impatto sui profitti. Burke, infatti, dispose subito il ritiro di tutte le capsule di Tylenol in tutti gli Stati Uniti, sebbene il Governo non l’avesse richiesto e i decessi fossero avvenuti solo nell’area di Chicago. Il Tylenol rappresentava un quinto dei profitti della Johnson & Johnson, e dopo il ritiro le vendite crollarono.

I media restarono sorpresi dal fatto che un amministratore delegato di una società quotata in borsa avesse gettato dei profitti al vento, ed elogiarono Burke per la sua posizione morale esemplare. Ma la decisione dell’ex presidente forse era dettata più dal credo dell’azienda che dalla sua morale personale: gli obiettivi di Johnson &

Johnson erano chiaramente definiti e Burke li stava semplicemente rispettando da bravo amministratore delegato. I clienti venivano per primi e gli azionisti stavano solo al quarto posto, così egli agì di conseguenza: non mise in cima alla sua lista la soddisfazione delle aspettative di profitto trimestrale, la sacrificò lasciandola per ultima.

Nel lungo periodo, questa politica non danneggiò affatto la Johnson & Johnson.

Infatti la fidelizzazione verso il Tylenol aumentò dopo che la società dimostrò che la sicurezza dei clienti veniva prima di tutto, dopo che, prima al mondo, introdusse una confezione innovativa, a prova di manomissione, per i prodotti per la salute venduti senza ricetta medica.

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Nel 2009, nonostante la crisi finanziaria, la capitalizzazione di mercato della Johnson

& Johnson è stata di 167 miliardi di dollari, la nona più alta del mondo. La Johnson

& Johnson sembra quindi avere fornito più di un “giusto ritorno” agli azionisti nel lungo termine. Ma non si tratta dell’unica società ad aver favorito il rendimento per gli azionisti evitando di metterli al primo posto. Procter & Gamble, la più grande società al mondo di prodotti di consumo, ottava per la capitalizzazione di mercato, ha messo il consumatore al centro dell’universo molto tempo fa e mostra un costante impegno verso lo sviluppo sostenibile25. La dichiarazione di obiettivi, principi e valori della Procter & Gamble, concepita nel 1985, descrive una politica molto simile a quella della Johnson & Johnson:

“Forniremo prodotti di marca e servizi di qualità e di valore superiore che migliorano la vita dei consumatori di tutto il mondo. Di conseguenza, i consumatori ci ricompenseranno dandoci la leadership in termini di fatturato, profitti e creazione del valore, consentendo alle nostre persone, ai nostri azionisti e alla comunità in cui viviamo e lavoriamo di prosperare”.

In questo caso, un valore maggiore per gli azionisti è una conseguenza dell’essersi concentrati sulla soddisfazione del cliente, e chiaramente non è la principale priorità.

Tutto questo non vuol dire che le società che hanno perseguito il massimo valore per gli azionisti come obbiettivo centrale abbiano agito male. Non è stato certamente così per la già citata General Electric, che si trova ancora fra le 25 imprese migliori del mondo per capitalizzazione di mercato. Durante l’epoca guidata da Welch, la società ha accresciuto il valore delle azioni in modo più veloce rispetto all’indice S&P 500; il tasso di crescita annuo composto dell’insieme dei profitti degli azionisti della General Electric è stato del 12,3% rispetto al 10% dell’indice26. Ma la General Electric nel lungo termine non è riuscita a creare più valore per gli azionisti rispetto ad altre società leader che, senza mezzi termini, impongono agli azionisti di rimanere all’ultimo posto negli interessi dell’impresa. Johnson & Johnson e Procter &

Gamble, nei rispettivi settori, hanno creato il maggior valore per gli azionisti. E quando le si compara con la General Electric, nel periodo successivo alla nomina di Jack Welch ad amministratore delegato, le performance risultano ancora migliori: il

25www.pg.com

26Harvard Business Rewiew Italia

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tasso composto di crescita annuo è stato del 15,2% per Procter & Gamble, del 14,5%

per Johnson&Johnson e del 12,3% per General Electric.

2.5. Una cultura aziendale diversa

Analizzando i motivi per i quali le imprese che non si concentrano sulla massimizzazione del valore per gli azionisti ottengono rendimenti molto elevati, si può osservare come i dirigenti di tali società siano liberi di indirizzare i loro sforzi sulla costruzione di un business vero e proprio, invece che sulla gestione delle aspettative degli azionisti.

Alan G. Lafley, quando venne assunto come amministratore delegato da Procter &

Gamble, non ebbe difficoltà, trovando appoggio nella cultura dell’azienda, a dire agli azionisti che le cose avrebbero continuato a peggiorare nel breve periodo perché la società doveva correggere alcuni elementi del suo business, e ciò avrebbe richiesto un certo tempo. La maggior parte degli amministratori delegati sarebbe molto esitante nel mandare un tale messaggio a Wall Street. Molti di loro cercherebbero, probabilmente, di trovare soluzioni rapide piuttosto che significative. E la maggioranza dei consigli di amministrazione scoraggerebbe una comunicazione agli azionisti, o addirittura la impedirebbe.

Lafley decise addirittura di far rimuovere dalla sede centrale gli schermi che permettevano di seguire in tempo reale l’andamento dei titoli della Procter &

Gamble, dando indicazione ancor più significativa di quello che doveva essere la nuova posizione degli azionisti nella società. Questi schermi erano stati installati ovunque per ordine del precedente amministratore delegato, per stimolare i dipendenti a concentrarsi sulla creazione di valore per gli azionisti. Lafley non è affatto l’unico dirigente ad aver intuito l’importanza di tali atti simbolici.

Research In Motion (RIM), la società che produce il Blackberry, è un altro esempio di azienda che si è sempre impegnata a dimostrare di essere contraria al principio dello shareholder value. Nel 1999 i suoi fondatori concordarono una regola in base alla quale tutti i dirigenti che avessero parlato del prezzo dei titoli nei luoghi di lavoro avrebbero dovuto acquistare una ciambella per ogni persona in azienda. Le

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prime infrazioni non furono molto dolorose per i “trasgressori”, ma con la crescita della società la situazione cambiò. Nel 2001, quando il responsabile delle operazioni parlò dell’impennata del prezzo delle azioni della RIM, come punizione gli fu imposto di procurare più di ottocento ciambelle per la successiva riunione settimanale dei dipendenti, e questi dovette persino fare accordi speciali con le pasticcerie locali per averne abbastanza. Da allora sembra che la regola della ciambella sia rimasta impressa nelle menti dei dirigenti della società.

Un altro punto chiave, che fa la differenza per trasmettere una cultura d’impresa non orientata allo shareholder value, sono le retribuzioni. Quando le aziende non sono intenzionate a incrementare il valore per gli azionisti, infatti, i loro consigli di amministrazione, in genere, non distraggono gli amministratori con retribuzioni su base azionaria, collegate ai risultati di breve termine, o realizzate al momento del pensionamento.

I premi a breve termine spingono i dirigenti a gestire aspettative di breve termine, piuttosto che incoraggiarli a realizzare progressi effettivi. E premi con un certo valore al pensionamento fanno sì che i dirigenti gestiscano le attività affidate loro pensando solo a quel traguardo. Tra le numerose componenti strutturali che hanno contribuito all’attuale tracollo, spiccano anche le robuste buonuscite incassate dal top management delle aziende che nella crisi hanno avuto un ruolo attivo. I vari manager sono stati liquidati con pacchetti retributivi esorbitanti: l’ex amministratore delegato di Merrill Lynch, per citarne uno, ha incassato ben 160 milioni di dollari, mentre molti suoi ex dipendenti hanno perso il posto di lavoro e molte aziende clienti si sono trovate sull'orlo del fallimento a causa dei prodotti derivati su cui la banca li aveva fatti investire. Così, se l’azienda crolla dopo aver tagliato il traguardo, i relativi problemi saranno di qualcun altro.

Tornando a General Electric, è sufficiente guardare un grafico storico dei titoli per notare l’impatto della stock compensation legata al pensionamento di Welch. È chiaro che il suo successore, Jeff Immelt, ha preso in carico un’azienda affetta dai tipici problemi associati alla fissazione della linea del traguardo. Anche se dirigerà in maniera eccezionale, Immelt non avrà grandi possibilità di riportare nuovamente il valore per gli azionisti ai livelli raggiunti al momento della sua nomina.

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Il sistema di retribuzione di Lafley in Proctor & Gamble, invece, è stato quello di una società con una cultura volta alla soddisfazione della clientela. Circa il 90% del suo compenso totale è stato costituito da stock option e azioni vincolate. Nonostante oggi non sia affatto insolito per un amministratore, le stock option ebbero un periodo particolarmente lungo di maturazione, di tre anni, e un successivo periodo di possesso vincolato di due anni. Lafley, inoltre, scelse di tenere le opzioni il doppio del tempo richiesto e ha venduto solo quelle predeterminate dal suo piano retributivo.

Dei titoli vincolati, che rappresentavano una parte rilevante dell’incentivo di Lafley, nessuno è effettivamente maturato prima, o al momento del pensionamento. Il vesting period iniziava un anno dopo il suo ritiro per una durata di 10 anni. Se Lafley avesse gestito le aspettative degli azionisti per raggiungere il picco massimo al suo pensionamento, destinandole a crollare in seguito, avrebbe danneggiato i propri successivi compensi. È stato quindi incentivato, durante la sua dirigenza, a impostare il business sul lunghissimo termine e a far crescere un valido successore, lasciando Proctor & Gamble in ottime condizioni.

Molti manager, al posto di Lafley, avrebbero sollevato obiezioni su un sistema retributivo come il suo, sostenendo che li avrebbe ingiustamente esposti agli errori dei loro successori. È proprio qui che entra in gioco la cultura aziendale. Il sistema di compensi di Proctor & Gamble sarebbe davvero ingiusto nel contesto di una cultura aziendale in cui la retribuzione è basata sulle azioni e orientata al breve periodo, e in cui domini uno spirito egoistico. In culture simili è difficile applicare una retribuzione di lungo termine, e la mentalità rimane inevitabilmente egoistica.

Nelle culture orientate al servizio del cliente, tuttavia, accordi retributivi come quelli scelti da Lafley sono di buon senso e di non difficile applicazione, inoltre rafforzano i comportamenti che creano un valore a lungo termine.

Anche con la massimizzazione del valore per il cliente come obbiettivo principale, con la giusta mentalità e con un periodo estremamente lungo per una retribuzione basata sulle azioni, il richiamo della massimizzazione del valore per gli azionisti è sempre presente.

In Proctor & Gamble Lafley aveva ereditato un sistema retributivo logoro da anni, che legava i premi per gli alti dirigenti al Total Shareholder Return (TSR), al profitto totale per gli azionisti, definito come l’aumento del prezzo delle azioni per un

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periodo di tre anni. Il TSR di Proctor & Gamble si confrontava, nell’ambito del sistema delle retribuzioni, con i risultati di un gruppo di società omologhe: se il TSR di Proctor & Gamble fosse rientrato nella metà superiore del gruppo, allora i dirigenti avrebbero ricevuto i bonus.

Lafley, tuttavia, notò che la grande performance del TSR in un dato anno era regolarmente seguita da scarsi risultati nell’anno successivo, poiché gli elevati profitti totali per gli azionisti erano stimolati da un forte aumento delle attese, che semplicemente non potevano essere realizzate nell’esercizio successivo. Lafley si rese conto che i picchi di valore per gli azionisti erano poco correlati alle prestazioni di business reali ed erano, invece, profondamente collegati all’immaginazione degli azionisti, che speculavano sul futuro della società. Tale intuizione spinse Lafley a cambiare gli indicatori per la misurazione del bonus dal TSR ad un sistema definito TSR operativo, che si basa su una combinazione di tre misure dell’andamento reale della gestione: il miglioramento dei margini di profitto, la crescita della vendite e l’aumento di efficienza del capitale.

La sua convinzione poggiava sull’ipotesi che se Proctor & Gamble soddisfava i clienti, il TSR operativo sarebbe aumentato, e il valore dei titoli sarebbe salito autonomamente nel lungo periodo. Inoltre, il TSR operativo è una misura che i responsabili delle business unit di Proctor & Gamble possono realmente influenzare, diversamente dal TSR basato sul mercato.

Naturalmente, non tutte le aziende che pongono il cliente al centro saranno una Proctor & Gamble o una Johnson & Johnson, ma se un numero crescente di aziende farà del cliente la sua priorità, la qualità del processo decisionale migliorerà.

Pensare al cliente costringe a focalizzare l’attenzione sul miglioramento delle operazioni, dei prodotti e dei servizi offerti. Ciò, peraltro, non implica che si perderà di vista la gestione dei costi, la motivazione al profitto di certo non sparirà. I manager mirano agli utili tanto quanto gli azionisti, perché più l’impresa è in grado di generare profitti più è disponibile denaro per pagare i dirigenti.

La necessità di un buon valore delle azioni è certamente un vincolo naturale per qualsiasi altro obiettivo ci si ponga. Ma fare di quest’ultimo l’obbiettivo primario, provoca senza dubbio la tentazione di sostituire gli utili a lungo termine, derivanti dal

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valore che si crea nell’attività dell’azienda, con profitti temporanei, basati sul valore connesso alle aspettative. Così, per fare in modo che i dirigenti si concentrino sul primo è necessario reinventare la finalità dell’impresa.

La crisi innescata dai mutui subprime ha insegnato molto sulla sostenibilità degli obiettivi e sull’importanza di avere una visione di lungo periodo. Probabilmente sono caduti gli ultimi pretesti di chi credeva nella finanza come unica guida delle scelte aziendali. La capacità di definire strategie che garantiscano la sostenibilità nel tempo, e il consolidamento della relazione con il cliente sono qualità ora riconosciute come elementi portanti del manager di successo.

I modelli manageriali destinati alla sopravvivenza sono quelli che trovano le basi nel valore sociale dell’azienda come fattore di creazione di valore per la collettività, per gli stakeholder, piuttosto che alla generazione di profitto per il solo azionista.

Modelli mai pienamente contestati in passato, ma spesso sottovalutati o addirittura irrisi, considerati eticamente validi, ma teorici e poco praticabili stanno superando i sistemi del guadagno sopra ogni cosa, ormai dimostratisi poco durevoli e destinati al collasso. La battaglia di visioni e di “credo” manageriali culmina con la vittoria del capitalismo fondato sul cliente, più efficace, paradossalmente, anche nel produrre valore sul lungo termine per l’azionista.

Non c’è impatto solo sulle aziende, ma di riflesso su tutta la società e l’economia;

non ci sono scorciatoie o guadagni facili, la creazione di valore è il risultato di sforzi successivi, di radicamento del mercato, di scelte coerenti e consistenti nel tempo.

Forse è necessario riportare ai modelli manageriali qualche caratteristica originale che si è persa nel tempo: qualche qualità della gestione padronale, in cui i fondatori hanno sempre prestato attenzione alla continuità della loro impresa, a renderla solida nel tempo, a far sì che sopravvivesse a loro. Se un po’ di quello spirito venisse assorbito dal management, forse la cosa gioverebbe a tutta l’economia.

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