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Senza quartiere. Cinque film per ri-conoscere San Martino

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Academic year: 2021

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Vicino ma fuori / a cura di Francesco Gabbi ISBN 978-88-908130-1-6

published under CreativeCommons licence 3.0 by professionaldreamers, 2013

Progetto grafico | Mubi

Immagine di copertina | Dettaglio dal Catasto napoleonico (immagine di proprietà della Biblioteca Comunale di Trento, Archivio Storico – utilizzo per gentile concessione)

professionaldreamers è un progetto editoriale indipendente che pubblica e promuove richerche sulle tematiche di spazio e società, privilegiando gli studi urbani, territoriali e la prospettiva etnografica. I progetti di libro e i manoscritti ricevuti sono sottoposti a un processo di peer-review anonima. professionaldreamers si avvale altresì della consulenza di un international advisory board.

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“VICINO MA FUORI”

Il quartiere di San Martino a Trento

a cura di

Francesco Gabbi

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Indice

Introduzione 7 Il borgo di San Martino a Trento: da periferia extra-mœnia a centro extra-urbano di Alessandro Franceschini

Una città a «foggia di cuore» e le propaggini «fuori le mura» 9 Due «vedute» di una piccola (seconda) cinta muraria 11

Il lungo Novecento 15

Da enclave nell’urbs a enclave nella civitas: la ricerca di un’identità 18

Va bene così, nulla si ripete (casalinga, 23 anni, Marocco)

di Luca Bertoldi 21

Ricerca nel quartiere 22

L’uso dello spazio 23

La percezione dello spazio 24

Considerazioni 29

Le proposte 32

Quale cultura? 37

Cultura come bene comune 37

Politiche della cultura e rigenerazione urbana. Trento, San Martino e Il fiume che non c’è di Francesco Gabbi 37

Il caso di Trento 39

Produrre un Cultural Common: San Martino e Il fiume che non c’è 41 Riprodurre un Cultural Common: Noi Quartiere 46 Alcune considerazioni conclusive 47

Senza quartiere. Cinque film per ri-conoscere San Martino di Alberto Brodesco

Raccontare un quartiere: Blue in the Face 49 Il quartiere inizia sul giroscale: La paura mangia l’anima 51 Un mestiere eccessivo: L’uomo che non c’era 54 Murato vivo: Chiedo asilo 55 Assenze: Decalogo, 3 58

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Il problema dell’incontro: il San Martino di Jacques Lacan 59

Autoproduzione del quotidiano. Dialogo con Stefano Boccalini su arte, spazio pubblico e il progetto DEEP a San Martino

a cura di Giusi Campisi 67 Postfazione – Il privilegio del margine

di Bruno Zanon 83 Bibliografia 91 Gli Autori 95

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Riconoscere vuol dire dichiarare di conoscere, ammettere una familiarità, affermare che si possiede una conoscenza pregressa di una persona, un og-getto o un luogo. Con la formula “non riconosco più il mio quartiere” si as-serisce che esso è cambiato, e di solito si intende in peggio. Il cambiamento può avvenire in contumacia, quando l’abitante si allontana dal quartiere per qualche tempo e, al ritorno, si trova di fronte uno sconosciuto; oppu-re anche in poppu-resenza, con una mutazione lenta, di cui l’abitante si accorge solo quando è già avvenuta. Non riconoscere più il proprio quartiere è quasi sempre una delusione. È come subire un furto di identità: lo scollamento dal presente della memoria d’infanzia, il ricordo di un passato che non è con-fermato dalla percezione attuale mettono in dubbio persino la realtà della propria esperienza biografica (Laino, 2012).

È difficile, oggi, riconoscere il quartiere di San Martino. Il quartiere “è cambiato”. Ma non è un compito semplice nemmeno trovare un periodo in cui esso sia “rimasto fisso”. Il cambiamento sembra un attributo storicamen-te o ontologicamenstoricamen-te connaturato a questo preciso quartiere di Trento. Un antico abitante che lo ricordava adagiato sul bordo del fiume certo non lo riconoscerebbe adesso che il fiume non c’è.

Se si fa fatica a riconoscere San Martino oggi come si faceva fatica a rico-noscerlo ieri, possiamo provare a ri-corico-noscerlo, corico-noscerlo di nuovo, da un diverso punto di vista. Per farlo, vogliamo ragionare su cinque film, rivelatori di modi diversi con cui il cinema ha preso residenza in un quartiere per restituirne il ritratto. San Martino può ri-conoscersi in Brooklyn, Monaco di Baviera, in una cittadina californiana, nel quartiere bolognese di Corticella, nella “camera da letto” di Varsavia. Avendo in mente San Martino, i cinque film forniscono spunti su temi particolarmente importanti: l’incontro, l’im-migrazione, il rapporto tra generazioni, il “degrado” e il recupero urbanistico, le piccole professioni di quartiere.

Raccontare un quartiere: Blue in the Face

Blue in the Face (id., Wayne Wang e Paul Auster, 1995), progetto collaterale e film gemello di Smoke (id., Wayne Wang, 1995), mette al centro della sua

Senza quartiere.

Cinque film per ri-conoscere San Martino

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narrazione una tabaccheria posta in un angolo di Brooklyn precisamente segnato nella mappa che apre il film. Se Smoke era un film a soggetto, Blue in the Face, in gran parte improvvisato sul set precedente, è una docu-fiction che celebra la tabaccheria di Augie, un polo d’aggregazione, un archivio di storie, una forza centripeta che raccoglie le invenzioni e le perversioni degli abitanti di Brooklyn.

In quali modi, con quali strumenti, si può raccontare un quartiere? Si può intervistare chi ci vive o ci ha vissuto; ci si può affidare al racconto di testimoni privilegiati; si possono concepire delle narrazioni che mettono in luce alcuni aspetti decisivi del luogo e dei suoi abitanti; individuare dei mo-menti chiave nella sua storia; produrre delle statistiche che lo descrivono; o si può imbastire un’inchiesta sociologica. Per raccontare Brookyln Blue in the Face adotta ciascuna di queste modalità.

1) Interviste. La troupe di Blue in the Face gira per Brooklyn con una ci-nepresa amatoriale, cercando una definizione di “Brooklyn attitude”. Un’a-dolescente di colore si lamenta del suo partner: “Il mio ragazzo ha troppa Brooklyn dentro”.

2) Testimoni privilegiati. Lou Reed, nativo di Brooklyn, si appoggia al ban-cone del negozio di Augie e parla a ruota libera. Sostiene le ragioni per cui una sigaretta può anche non essere dannosa per la salute. Illustra un nuovo modello di occhiali. Esalta la sensazione di muoversi per strade conosciute.

3) Narrazioni. Una donna viene scippata. Augie rincorre il rapinatore e lo acciuffa. Mentre sta per chiamare la polizia, la rapinata lo trattiene. Lo scippatore è un ragazzino, ne ha compassione. Dopo qualche minuto di vi-vace scambio verbale, Augie restituisce la borsa al piccolo criminale, che ri-scappa a gambe levate. Esopo a Brooklyn. Ognuno può trarne la sua morale. 4) Momenti chiave. 1957: la squadra di baseball dei Brooklyn Dodgers abbandona New York per trasferirsi in California, dove cambia nome in “Los Angeles Dodgers”. È un trauma che segna un’epoca. Viene meno un mito sportivo alla cui ombra i bambini di Brooklyn potevano crescere7. Sul sito

dove si trovava lo stadio sorge ora un complesso residenziale. Vicino alla targa che commemora i Dodgers c’è un altro cartello, un divieto: “Please no ball playing”. (fig. 4.1)

5) Statistiche. Il film fornisce una serie di informazioni statistiche: sulla popolazione di Brooklyn, sui gruppi etnici che la compongono, sul numero di cialde belghe consumate giornalmente.

6) Il questionario sociologico. Blue in the Face è un film dai tratti sociologici

7 In Underworld Don De Lillo descrive in questo modo straordinario l’atmosfera di una partita dei Dodgers: “Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell’anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell’invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita” (De Lillo, 1999, p. 5).

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che si diverte a prendere esplicitamente in giro alcune delle metodologie della sociologia, come il questionario a domande aperte. Michael J. Fox, con i calzoni corti di jeans, interroga un cliente della tabaccheria, un attonito Giancarlo Esposito, ponendogli domande quali: “detesti qualcuno così tanto da volerlo morto?”8.

Nel frattempo nel quartiere di San Martino… La tabaccheria si è spostata nel locale a fianco, non è più all’angolo della strada. Sulla vecchia vetrina si leg-ge la scritta “affittasi”.

Il quartiere inizia sul giroscale: La paura mangia l’anima

La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf, Rainer Werner Fassbinder, 1973) racconta di una signora tedesca, Emmi, che sposa “Alì”, un marocchino di vent’anni più giovane conosciuto al bar. (fig. 4.2) Sin dal primo invito a salire in casa rivolto da Emmi ad Alì, la presenza perturbante dello straniero è notata da un’inquilina che staziona dietro una finestra del giroscale. La vicina ferma Emmi con una scusa, poi si precipita ad avvisare dello scanda-lo la dirimpettaia. Il passaggio per il giroscale di Emmi e Alì segna l’ingres-so della loro relazione in uno spazio di ambiguità. Il giroscale si manifesta come il luogo di intersezione tra lo spazio privato dell’abitazione e lo spazio pubblico del bar. Il bar è disegnato per imbattersi nel dissimile: ospita una pluralità di lingue, gusti alimentari, preferenze musicali, eccetera. All’interno della casa si incontra invece il simile, qualcuno che ci somiglia per tradizione (appartenenza familiare, identità culturale) o per vocazione (simpatia, scelta amicale).

Tanto al bar quanto in casa possono avvenire degli incontri spiazzanti (un’anziana tedesca e un giovane magrebino si piacciono), che rimango-no però relegati in un terrerimango-no “inrimango-nocuo”, esterrimango-no o interrimango-no, rimango-non mettorimango-no in pericolo lo status quo. L’autentico luogo del trauma è invece il pianerottolo, ciò che si colloca in un’ingombrante posizione di mezzo: tra il simile e il dissimile, tra il dentro e il fuori, tra il nostro e il loro. Nemmeno un incontro intimo in camera da letto tra Emmi ed Alì creerebbe tensione (in casa, da stereotipo, “si fa quel che si vuole”) se non fosse per quella salita per le sca-le. Anche successivamente nel corso del film sono proprio degli episodi di vita sul pianerottolo (tra cui due picnic condominiali) a dar dimostrazione del grado di violenza ostracizzante che può sprigionare un gruppo sociale compatto. Lo spazio intermedio che segna il transito dal pubblico al privato e viceversa è il terreno generativo delle tensioni drammatiche. Il quartiere inizia sul giroscale: il pianerottolo è il primo terreno d’incontro con l’altro, e di conseguenza anche il primo terreno di scontro.

Nel frattempo nel quartiere di San Martino… Giuro che mentre riguardavo il film una vicina si è sporta sul giroscale per lamentarsi del volume troppo alto.

8 Qualche altro esempio: “Credi che sugli altri pianeti ci sia la vita o credi che siamo soli nell’universo?”; “Pensi che gli atleti professionisti siano pagati troppo?”; “Guardi gli escrementi prima di tirare l’acqua del gabinetto?” (Auster, 1995, p. 164).

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Un mestiere eccessivo: L’uomo che non c’era

Quello del barbiere è un mestiere eccessivo. Costringe a un eccesso di vi-cinanza, a un’intimità fisica forzata: il barbiere taglia i capelli, tocca la testa, sposta le orecchie, rade il collo… Costringe inoltre a un eccesso di parola, a svuotare sul cliente la propria logorrea o ad assecondare la sua; e costringe infine a un eccesso di relazioni, ad avere a che fare ogni giorno con una piccola massa di persone con cui occorre confrontarsi. L’importanza cine-matografica del personaggio del barbiere9, dovuta certamente a questi tre

tipi di eccesso, è il sintomo di una centralità sociale, di un ruolo da protago-nista all’interno della vita di un quartiere. Il barbiere è infatti il fulcro di un movimento che avviene tutto intorno, da cui però lui sembra voler rimanere esente. Prova di questa sottrazione al cambiamento è l’abitudine a esporre alle pareti del negozio le foto del quartiere com’era una volta. Proprio per questa capacità di garantire continuità (anche generazionale: è un mestiere che si trasmette di padre in figlio), il barbiere è una figura in grado di ricon-ciliare essenza corporea e presenza spaziale. Lo testimonia Claudio Coletta (2007: 6):

C’è questo quadro dal barbiere. Corrisponde pressappoco alla veduta dalla vetrina d’ingresso: la stessa piazza del paese, com’era qualche decennio fa e neanche tanto diversa da ora […] Quando rientro dalle mie parti, tagliarmi i capelli mi aiuta a ricomporre la relazione tra il territorio della cute e quello geografico […] Dice: come te li faccio? Come al solito, dico io. E come al so-lito è sempre diverso, che da un taglio all’altro passano mesi, che il numero dei capelli non è quello dell’ultima volta e alla porta d’ingresso della saletta ho notato un fiocco rosa e sopra c’è scritto Angelica.

Un barbiere che rinnega questa funzione è destinato a finir male. Lo dimostra Ed Crane, il barbiere negletto de L’uomo che non c’era (The Man Who Wasn’t There, Joel Coen, 2001). Ed Crane ha il negozio a Santa Rosa, Ca-lifornia. È un barbiere svogliato, taciturno. Lavora in coppia con il cognato, che interpreta invece il mestiere nel modo più tradizionale, inondando di parole i clienti. Ed cerca riparo da tutti gli eccessi cui lo espone la sua pro-fessione. Non gli piacciono le relazioni. Non gli piace toccare la gente. Vor-rebbe cambiare lavoro, aprire una lavanderia a secco, o fare da impresario a una giovane pianista. Non gli piace conversare. Lo sentiamo monologare

9 Ne ricordiamo la presenza (negativa o positiva) in Scarface – Lo sfregiato (Scarface, Howard Hawks e Richard Rosson, 1932), Furia (Fury, Fritz Lang, 1936), Il grande dittato-re (The Gdittato-reat Dictator, Charles Chaplin, 1940), Joe’s Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads (Spike Lee, 1982), Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street, Tim Burton, 2007), Cosmopolis (id., David Cronenberg, 2012). Nei film di gangster, nei western e nel cinema comico, il negozio del barbiere è inoltre spesso il luogo deputato all’attentato, all’imboscata o all’esecuzione mafio-sa: citiamo Il mio nome è Nessuno (Tonino Valerii, 1973), Lo straniero senza nome (High Plains Drifter, Clint Eastwood, 1973), Lo chiamavano Bulldozer (Michele Lupo, 1978), Chissà perché capitano tutte a me (Michele Lupo, 1980), Johnny Stecchino (Roberto Benigni, 1991).

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a lungo (è la voce narrante del film) ma non dialoga quasi con nessuno. La velocità cui costringe in particolare lo small talk da salone da barbiere non gli lascia il tempo per pensare, per pesare le parole. Ma al barbiere non è richiesta profondità o ponderazione. Gli è richiesto di occupare uno spazio, di esserci. Ed Crane la pagherà cara. L’“uomo che non c’era” non può essere perdonato. (fig. 4.3)

Nel frattempo nel quartiere di San Martino… Se si percorre via san Martino e un pezzo di via Malvasia fino alla chiesa del patrono si incontrano due negozi di barbiere e due negozi di parrucchiere. Uno dei barbieri espone ancora oggi in vetrina il manifesto di un reading (da Elogio della calvizie di Sinesio di Cirene) lì prodotto durante “Il fiume che non c’è” 2012.

Murato vivo: Chiedo asilo

Al di là delle vicende di cronaca che ne giustificherebbero la chiusura, un asilo murato non è un simbolo da poco. Piantato ai margini del quartiere di San Martino, l’asilo murato è un segno perturbante e vagamente spettrale. Sembra uscito dall’immaginazione di Edgar Allan Poe. L’asilo, come in San Martino, può essere murato, porte e finestre, da mattoni e malta. Oppure, in altri casi, da barriere immateriali. Chiedo asilo (Marco Ferreri, 1979) trova la sua ambientazione nel quartiere bolognese di Corticella, ai margini della città, dove inizia la campagna. La scuola materna è soffocata in mezzo a grossi condomini senza pregio, che segnano l’evidenza della repressione cui è sottoposta l’infanzia. Arriva nell’asilo un nuovo maestro, interpretato da Roberto Benigni.

Il personaggio di Benigni è un non-adulto, un trickster che enfatizza que-sta oppressione e le si contrappone. Non solo insegna ai bambini a gridare “ora e sempre Resistenza”, ma compie una serie di azioni che la traducono in pratica. Come prima cosa mette in crisi l’educazione di genere dei bambini: si presenta come “la nuova maestra” e poi si mostra con un finto pancione, dichiarando di essere “un uomo che partorisce”, stimolando e accettando le obiezioni dei bambini. Benigni è un maestro che si lascia correggere. Suc-cessivamente introduce nello spazio vitale dei bambini delle figure estra-nee all’ambiente urbano e sociale in cui l’asilo si colloca: porta a scuola un asino e ne studia l’interazione con i bambini. “È un’innovazione”, sostiene compiaciuto. La presenza extra-contestuale dell’animale agisce come una martellata surrealista che stacca, lettera per lettera, la serie di comandi abi-tualmente tramandata dal linguaggio10. Benigni conduce infine i bambini a

visitare un mondo esotico, sino ad allora invisibile e sconosciuto: la fabbrica dove lavorano i padri. (fig. 4.4)

10 Il maestro, in definitiva, si oppone alla macchina dell’insegnamento obbligato-rio che “non comunica informazioni, ma impone al bambino coordinate semiotiche attraverso le basi duali della grammatica (maschile-femminile, singolare-plurale, sostantivo-verbo, soggetto d’enunciato-soggetto d’enunciazione, ecc.)” (Deleuze e Guattari, 2010, p. 123). Se “si danno ai bambini linguaggio, penne e quaderni come si distribuiscono pale e picconi agli operai” (id.), Benigni fornisce invece loro un asino.

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Se in San Martino i mattoni servono a tener lontani gli anarchici, nel film di Ferreri gli anarchici – gli scolari e il maestro – sono i legittimi abitanti dell’edificio. Un asilo resta un asilo, anche quando è murato. In quanto asilo, rimane sempre vivo, memore della presenza viva che ha ospitato. Un asilo murato non può che essere murato vivo.

Nel frattempo nel quartiere di San Martino… Sui muri dell’asilo murato si legge fra le altre cose: “L’assillo continua”.

Assenze: Decalogo, 3

Il Decalogo (Dekalog, Krzysztof Kieślowski, 1988) è ambientato nel quartiere di Ursynów, la “camera da letto” di Varsavia. I personaggi del film si muovo-no fra cupi casermoni residenziali che delimitamuovo-no una geografia ristretta. Le persone che si incrociano sono sempre le stesse, ma all’interno dei dieci episodi che compongono il Decalogo i vari personaggi assumono una rile-vanza o un peso diversi. Una volta la storia che viene raccontata è la tua, la volta dopo è quella di un altro: chi nell’episodio precedente era il protago-nista è ora un comprimario, cui spetta solo un cameo.

Che le vite di tutti siano strettamente intrecciate è ormai un luogo co-mune cinematografico11, ma nel Decalogo non si tratta solo di questo: in

ag-giunta, le biografie che si allacciano sono sottoposte a uno sguardo. All’in-terno del quartiere sembra svolgersi “un esperimento sociale misterioso a beneficio di un osservatore esterno, che forse è semplicemente lo spetta-tore […] o, in definitiva, Dio stesso” (Žižek, 2010, p. 183). Su quest’ultimo il film, fedele alle sue intenzioni teologiche, lascia filtrare una serie di dubbi. (fig. 4.5)

Il Decalogo mostra spesso il “punto di vista di Dio”: la macchina da presa si posiziona all’altezza dei tetti, con un’angolazione verso il basso. In diversi passaggi di Decalogo, 3 (Dekalog, trzy) la macchina da presa è posta a fianco a un colonnato, all’altezza di un capitello corinzio. Inquadra un largo inne-vato, un’aiuola-spartitraffico di forma triangolare su cui sono parcheggiate le macchine dei due protagonisti dell’episodio, Ewa e Janusz. Al bordo del quadro, in basso a destra, si nota un albero di Natale. Decalogo, 3 racconta di una donna, Ewa, che, preoccupata per l’assenza da casa di suo marito, chie-de aiuto al suo vecchio amante. Janusz la porta in giro in taxi per le strachie-de innevate della città, abbandonando la famiglia la vigilia di Natale. Un tempo protagonista della vita di Ewa, Janusz torna a esserlo, solo per una notte.

Oltre al punto di vista di Dio, in Decalogo, 3 si segnala un altro sguardo dall’alto, quello di una camera di sorveglianza che domina la hall della sta-zione dei treni. Janusz e Ewa salgono nella sala di controllo per verificare se la camera ha rilevato traccia della persona che cercano. La stanza è vuota, sguarnita. Janusz e Ewa si imbattono nell’addetta alla sorveglianza mentre gira con uno skateboard per i lunghi corridoi della stazione. L’osservatore

11 In particolare nel cinema americano: da America oggi (Short Cuts, Robert Altman, 1993), a Magnolia (id., Paul Thomas Anderson, 1999), a Crash – Contatto fisico (Crash, Paul Haggis, 2004), a Disconnect (id., Henry Alex Rubin, 2012).

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che dall’alto dovrebbe governare le nostre vite è impotente, distratto o an-noiato. Forse anche Dio è assente perché sta in giro con lo skate.

Nel frattempo nel quartiere di San Martino... San Martino sembra un quar-tiere riemerso da poco da cinquant’anni di socialismo reale. È sorvegliato dall’al-to dalla dall’al-tomba socialista di Cesare Battisti.

Il problema dell’incontro: il San Martino di Jacques Lacan

Quelli di cui abbiamo parlato sono tutti film che mettono al centro l’incon-tro – con il simile, il diverso, lo straniero, tra differenti generazioni... –, un tema che nel quartiere di San Martino si vive in modo particolarmente forte (fig. 4.6). Non possiamo quindi non approfittare della chiusura straordinaria che ci offre un passaggio del Seminario VII di Jacques Lacan, dove, parlando di incontro, viene nominato proprio il nostro santo:

San Martino divide il suo mantello, e se ne è fatto un gran caso, ma alla fin fine è una semplice questione di approvvigionamento: la stoffa appartiene all’altro tanto quanto a me. Senza dubbio si tratta qui di un termine primiti-vo, ossia del bisogno da soddisfare, dato che il mendicante è nudo. Ma forse, al di là del bisogno di vestirsi, costui mendicava altro, che San Martino lo uccidesse per esempio, o lo fottesse. Sapere cosa significhi in un incontro la risposta, non della beneficenza, ma dell’amore, è tutta un’altra questione. (Lacan, 2008, p 219)

“Sapere cosa significhi in un incontro la risposta, non della beneficenza, ma dell’amore, è tutta un’altra questione”. Poche frasi sprofondano in un dubbio altrettanto lancinante. Come si fa a conoscere quel che vuole vera-mente il mendicante, in modo da produrre un incontro che sia davvero frut-tuoso? Il pur legittimo ragionamento di San Martino (è nudo: ha bisogno di una veste) è smascherato in tutta la sua banalità. La generosità materiale o mercantile del santo ne esce dileggiata: si tratta – dice Lacan – di una sem-plice questione di approvvigionamento.

Il problema dell’incontro ha a che fare sia con ciò che desideriamo noi (per noi stessi, per l’altro) sia con ciò che desidera l’altro (per se stesso, per noi). Il gesto a cui noi siamo disposti (dividere il mantello) può non interes-sare all’altro; mentre possiamo invece rigettare il dono cui l’altro ambisce (essere ucciso o fottuto). Più radicalmente, viene qui messa in dubbio la possibilità stessa di identificare non un bisogno ma il desiderio, compreso il proprio. Persino una domanda diretta rivolta al mendicante potrebbe fuor-viare. Come si fa a sapere cosa si desidera davvero? E, ammesso che lo si sappia, come si fa a dirlo: fottimi, uccidimi?

I cinque film su cui abbiamo ragionato mostrano, ciascuno a suo modo, uno scostamento dalla logica dell’approvvigionamento. L’incontro tra San Martino e il mendicante può oltretutto trovare in ognuna di queste pellicole un dissonante terreno di applicazione. Non va intanto sottovalutato il dove avviene l’incontro: guardando La paura mangia l’anima sorge il sospetto che se San Martino avesse incontrato il mendicante sul giroscale di casa lo

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avrebbe più probabilmente scacciato che rivestito. Il rapporto con il men-dicante del San Martino di Lacan sembra inoltre caratterizzato dall’eccesso di vicinanza (nudità, rapporti carnali, assassinio…) aborrito dal barbiere de L’uomo che non c’era. Chiedo asilo ribadisce che non sempre la nudità ha bisogno di un mantello. In Decalogo, 3 l’assenza di Dio sottrae alla facilità di obbedire ai suoi precetti, costringendo invece allo sforzo di reinterpretarne la parola, che sia uno dei dieci comandamenti (santificare le feste) oppure una delle sette opere di misericordia (vestire gli ignudi).

La risposta dell’amore

Affiancati all’illuminante apologo lacaniano, i cinque film trattati sembrano rivolgere, oltre al resto, anche un suggerimento di tipo epistemologico, un invito a superare una concezione della ricerca sociale intesa quale strumen-to di “approvvigionamenstrumen-to di dati” alla politica, ai decisori, ai pianificastrumen-tori urbani. (fig. 4.7)

Blue in the Face e il suo Witz sul tema dell’inchiesta sociologica aprono una pista preziosa. Michael J. Fox si presenta come uno scienziato sociale appartenente alla “Fondazione Bosco”: “Sostanzialmente andiamo in giro e scegliamo la gente a caso. Poi prendiamo le loro risposte e le inquadriamo in una filosofia… che li aiuta a vivere meglio”. Questa spiegazione della lo-gica dell’approvvigionamento sociologico e dell’(in)utilità della ricerca so-ciale è davvero ragguardevole. Visti gli abiti (i jeans) strappati con cui Fox è vestito, non richiede uno sforzo eccessivo immaginarselo nei panni del nostro santo-cavaliere, un San Martino foxy-lacaniano che accosta con una batteria di item il mendicante: “Hai bisogno di un mantello? ☐ per nulla; ☐ poco; ☐ abbastanza; ☐ molto; ☐ moltissimo”; “Hai bisogno di essere fottuto? ☐ per nulla; ☐ poco; ☐ abbastanza; ☐ molto; ☐ moltissimo”… Individuato grazie al questionario il bisogno del mendicante, San Martino si straccia la veste e gli fornisce la soluzione che lo “aiuta a vivere meglio”.

In questa ipotesi il ricercatore è il santo che arriva a cavallo, indaga sulle esigenze dei cittadini-mendicanti e dà risposta al loro bisogno. Lo scenario opposto è altrettanto legittimo: anche l’abitante del luogo può recitare la parte del santo che dona una parte del suo mantello (del suo vissuto, della sua esperienza, della sua conoscenza del quartiere…) al ricercatore che la mendica. Tanto il ricercatore quanto il cittadino possiedono le competenze (Crosta, 2013) per assumere la posa equestre di San Martino. Il ricercatore può comunicare all’abitante “ciò che ti serve è questo” e fornire un brano di mantello; il cittadino dire al ricercatore la stessa cosa e regalare il proprio pezzo di tessuto. Ma questo è approvvigionamento, non è certo amore: il ricercatore, studiando l’abitante, osservandone la nudità, deduce che gli serve un mantello; e l’abitante approvvigiona a sua volta il ricercatore, nudo di dati, fornendogli il mantello che viene a mendicare.

Come può nascere allora una relazione non d’approvvigionamento ma “d’amore” tra studioso e abitante, pianificatore e pianificato, ricercatore e ri-cercato? Secondo un’altra celebre formula di Jacques Lacan (1974, p. 613),

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“l’amore è dare ciò che non si ha”. Il dono d’amore “resta assolutamente irri-ducibile al registro dell’utile” (Recalcati, 2004, p. 128): “È questo il valore che nell’amore assume il niente (‘Cosa vuoi come dono? Niente, voglio solo te!’)” (p. 129). (fig. 4.8)

Nel nostro contesto possiamo tautologicamente definire “amore” ciò che ha a che fare con il sentimento, ciò che sa andare al di là del freddo “dato” oggettivo. Lo stesso quartiere di San Martino sembra resistere ontolo-gicamente a qualsiasi pretesa di “oggettivazione”, è per molti versi indefini-bile nelle sue denotazioni, a partire dai suoi stessi confini. L’allontanamento da ogni volontà di oggettivare i bisogni di quello strano organismo che è un quartiere avvicina emotivamente al suo desiderio. Appoggiandoci an-cora a Decalogo, 3 potremmo affermare che la situazione di ricerca ideale si realizza quando, con amore, un osservatore osserva persone non-osservabili. Sia il ricercatore che l’abitante sono “maestri ignoranti” (Rancière, 2008): come nel caso di Chiedo asilo, l’allievo impara dal maestro ciò che il maestro non sa. Tra ricercatore e ricercato si frappone il quartiere, un’entità terza, simbolica, estranea, senza proprietari, di cui nessuno detiene il senso.

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