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Pierre Michon, Vite minuscole, Adelphi, p. 204, euro 18,00
A distanza di trentadue anni da quando fu scritto, arriva nelle librerie italiane quello che ormai è considerato un classico: Vite minuscole di Pierre Michon. Un libro che ha aperto la strada a un filone, un romanzo di racconti scritto in una lingua unica, un capolavoro finalmente consegnato alla nostra lettura da Adelphi nell’efficace traduzione di Leopoldo Carra, che ha ben saputo sintonizzarsi a un fraseggio complesso e fatto di innumerevoli intarsi.
Alla base della concezione di questo gran libro c’è l’idea che per capire dove stia andando la nostra storia personale, la si debba andare a snidare in quelle di tanti altri, persone che senza che ce ne accorgessimo hanno partecipato alla costruzione del nostro destino. Di modo che, raccontando le loro vite, alla fine, come in una sorta di mosaico, venga a comporsi, e a svelarsi così a noi stessi, la nostra. Un’autobiografia spezzettata per interposte persone, nata dalla sensazione dell’autore che qualcosa gli sfuggisse, del cammino intrapreso. Che quel qualcosa fosse necessario recuperarlo nelle memorie altrui, e che dalla giustapposizione di tante piccole storie potesse venir fuori il disegno mancante. Storie minuscole, come dice il titolo, di gente lontana, fantasmi in fuga. I cui volti opachi, resi nitidi dalla scrittura, venissero a delineare un autoritratto alla Arcimboldo.
Pierre Michon aveva già trentasette anni quando si mise a scrivere queste Vite. Dedicataria del libro è Andrée Gayaudon, nome che dice poco al lettore comune, fino a che qualcuno non gli riveli essere quello della madre dell’autore. Il quale ha affermato più volte: “Vite minuscole è una verità ad uso di mia madre”. E in effetti è sempre per testimoniare a qualcuno di qualcosa che si scrive, spiega Michon. Queste vite minuscole sono vaghe tracce di esistenze evanescenti che sfiorando la sua l’hanno orientata. Michon se le inventa, o le immagina come quei pochi, isolati attimi del loro passato lontano gli fa pensare che si siano svolte. E non a caso i lembi di memoria da cui prendono origine i racconti sono offerti all’autore dalla nonna materna che li estrae come fossero tesori preziosi da due scatola di latta, di quelle servite un tempo a contenere i biscotti.
Può capitare di leggere che autori come Plutarco o Svetonio sarebbero gli antecedenti di Michon. Ma quello che è andato a cercare nella campagna profonda dov’era nato e aveva trascorso infanzia e adolescenza, la Creuse, non è una serie di modelli, bensì tutto al contrario una serie di negatività, di atti o persino si potrebbe dire di esistenze mancate. Da André, colui che avrebbe potuto essergli nonno e non lo fu – perché la sua strada lo portò altrove – alla sorellina che avrebbe avuto se fosse sopravvissuta. A tutti gli altri, il muto Foucault, il parroco alcolista, il contadino che a sua volta inventa un destino per il proprio figlio non sapendo dov’è, i nonni paterni dolcemente in controluce, i fratelli conosciuti a scuola figura del doppio, l’amante di strada stupefatta e svanita. Accomunati dal fascino delle loro diverse forme di fuga.
Storie, vite, reinventate ad uso di sua madre: perché con lei, maestra, abbandonata dal marito, il bambino Michon aveva scoperto il mondo dei libri e delle storie. Con lei aveva imparato a leggere nella vecchia cascina di Les Cards gli autori da lei amati e poi dimenticati in favore di Bataille e Sollers, all’epoca in cui, cresciuto, era scappato dalla campagna per buttarsi nel ’68. E perché dopo, sgonfiatosi il sogno rivoluzionario e toccato con mano il fondo di una via probabilmente senza uscita, di autolesionismo in cui neppure la fuga era più possibile, aveva avuto bisogno di tornare all’inizio del percorso, per rileggerlo, rileggere la sua storia segnata dall’assenza del padre, tornando a usare gli strumenti fornitigli dalla mamma ma alla luce di una consapevolezza nuova. Il risultato dell’esperimento è stupefacente. Una sinfonia di voci – reali e letterarie – che compongono quella dell’autore, finalmente trovata e fattasi capace di dire l’impossibile.
Gabriella Bosco