TESI DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE E TECNICHE
DELL’ATTIVITÀ MOTORIE PREVENTIVE E ADATTATE
Ruolo dell’attività fisica adattata nel mantenere e
ristabilire la funzionalità dell’articolazione
coxofemorale
Relatore:
Candidato:
Alberto FRANCHI
Gianluca VILLANI
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
1
Indice
1 Introduzione ... 5
2 Attività fisica adattata ... 8
3 Descrizione dell’articolazione coxofemorale ... 10
3.1 Ruolo dei legamenti e dei muscoli nella stabilizzazione dell’articolazione coxofemorale ... 13
3.2 Movimenti dell’anca ... 16
4 Alterazioni e limitazioni funzionali nell’articolazione coxofemorale ... 20
4.1 Patologie degenerative e fratture che richiedono intervento protesico ... 21
4.1.1 Patologie neonatali che possono richiedere intervento ... 25
5 Protocolli AFA per patologie croniche ... 28
6 Protesi di anca: fase preoperatoria e fase post-intervento ... 29
6.1 Protocollo AFA in soggetti protesizzati ad anca in fase cronica ... 33
6.2 Stabilità dell’anca in condizione statica e dinamica ... 35
6.2.1 Ruolo della rieducazione neuromuscolare in soggetti con protesi ... 44
7 Esiti pci: alterazioni a livello dell’anca ... 52
7.1 Case study: esercizi di mobilizzazione e allungamento nella PCI ... 55
7.1.1 Studio Osservazionale ... 56
8 Conclusioni ... 59
2
Elenco delle figure
Figura 10: opuscolo per prescrizione di attività fisica adattata ... 9
Figura 1:angoli di inclinazione e antiversione ... 11
Figura 2: cavità cotiloidea, visione esterna ... 12
Figura 3:veduta anteriore muscoli e legamenti ... 13
Figura 4:veduta posteriore muscoli e legamenti ... 14
Figura 5:azione degli abduttori e adduttori ... 15
Figura 6:flessione-estensione dell'anca ... 17
Figura 7: abduzione-adduzione dell'anca ... 18
Figura 8:rotazione interna ed esterna ... 18
Figura 9:radiografia che mostra coxartrosi sinistra ... 24
Figura 11:protesi ... 30
Figura 12: posizione da evitare post-intervento ... 32
Figura 13:equilibrio statico del bacino ... 36
Figura 14:azione degli adduttori predominante ... 37
Figura 15:appoggio unilaterale ... 37
Figura 16:analisi del cammino ... 38
Figura 17: segno di Duchenne-Trendelenbourg ... 39
Figura 18: fasi del passo e attivazioni muscolari ... 40
Figura 19:pedana stabilometrica ... 40
Figura 20:angoli di flessione e estensione durante il cammino ... 42
Figura 21: angoli di adduzione e abduzione durante il cammino ... 42
Figura 22: momento di forza abduttori e adduttori ... 43
Figura 23:sistema recettoriale ... 45
Figura 24 ... 46
Figura 25: effetti della rieducazione neuromuscolare ... 48
Figura 26:allungamento muscolo-fasciale adduttori e hamstrings ... 49
Figura 27:posture in allungamento ... 50
Figura 28:esercizi di abduzione ... 50
3
Figura 30:coxa valga, ginocchio valgo ... 54
Figura 31:mobilizzazione anca ... 56
Figura 32:intra extra rotazione ... 57
Figura 33:allungamento ileopsoas e adduttori ... 57
4
Elenco delle Tabelle
Tabella 1:risultati test equilibrio statico ... 41 Tabella 2: Informazioni sul soggetto e metodi ... 55
5
1 I
NTRODUZIONE
Il nostro organismo è dinamico ed è governato da innumerevoli processi che permettono al nostro corpo di mantenere l’equilibrio. Dinamico perché tanto costruisce tanto distrugge. Si pensi, per fare un esempio, ai vari processi che interessano l’apparato muscolo scheletrico. L’osteoporosi, ad esempio, è governata da un’azione di rimodellamento e distruzione ossea a carico di due componenti cellulari che comunicano tra loro, gli osteoclasti e gli osteoblasti. L’osso che raggiunge il suo picco di crescita intorno ai 25 anni e lo fa grazie ad una prelevata azione osteoblastica al cospetto di quella osteoclastica, mantiene uno stato di equilibrio tra 25 e 40 anni, dovuta ad un’azione complementare delle due cellule e va incontro a degenerazione quando gli osteoclasti, con la loro capacità di rimozione ossea, determinano una fragilità tale da poter indurre fratture anche con minimi movimenti. Discorso analogo vale per l’artrosi, dove a degenerare non è il tessuto osseo ma la cartilagine articolare, il cuscinetto ammortizzatore delle articolazioni che ha il compito di agevolarne il movimento. Nell’artrosi si realizza un disequilibrio tra i processi di rigenerazione riparativa e quelli di consumo della cartilagine, a sfavore di quelli riparativi. Quando io cammino, mi muovo, corro, i microtraumi che esercito sulla cartilagine sono riparati dall’organismo che ne ridetermina l’equilibrio. Quando questo non accade più il problema sorge a livello della cartilagine articolare con area di perdita focale di cartilagine iniziale, e poi, man a mano che il processo va avanti, la sofferenza si propaga a livello dell’osso subcondrale determinando scompensi articolari. Queste patologie degenerative comportano sensazioni di dolore, riduzione della mobilità e compensi che determinano squilibri posturali. Il dolore che si ha nell’artrosi e nell’osteoporosi è un dolore di tipo meccanico, un dolore determinato dall’attrito tra i capi articolari. Capita a volte, con una frequenza molto minore, che si presenti un dolore di tipo infiammatorio. Nelle patologie scheletriche questo dolore infiammatorio può essere determinato dall’artrite reumatoide, la quale comporta limitazioni e deformità a livello delle articolazioni. Anche l’osteoporosi tramite fragilità ossea e rischi di fratture più prevalenti può portare a limitazioni articolari. Delle volte capita invece che, patologie congenite o neonatali, abbiano alla base
6 malformazione di capi articolari o alterazione di vie di conduzione nervosa che possono determinare squilibri che, a lungo andare, tramite processi di sublussazione e lussazione, portano alla disintegrazione e alla degenerazione dell’articolazione. L’artrosi è la causa più rilevante di degenerazioni articolari, le quali, se si presentano con dolore e con una funzionalità non più tollerabile, possono portare ad interventi di protesi con l’intento di dare al soggetto la possibilità di non sentire dolore, e di poter svolgere le normali azioni quotidiane in armonia con il proprio corpo. Vedremo come queste metodiche possono apportare miglioramenti nell’articolazione interessata e nell’intero assetto posturale. Per fare questo c’è bisogno di una continua ed attiva fase di rieducazione, prima e dopo l’intervento, quando la protesi, ormai, è diventata condizione permanente dell’individuo. L’intervento di protesi comporta miglioramenti effettivi nella mobilità, nella diminuzione della sensazione di dolore, nel ciclo del passo. Tuttavia, senza un trofismo muscolare e una consapevolezza corporea adeguati, i miglioramenti non persistono, i compensi aumentano, le protesi vanno più facilmente incontro ad usura e l’individuo ritorna a svolgere in modo difficoltoso le attività quotidiane costernate da continue sensazioni di dolore. Per questo è importante identificare un corretto piano di lavoro che non si basi solo sul rinforzo muscolare post-intervento ma che abbia una continua attenzione su quella che è la rieducazione neuromuscolare e la percezione del proprio corpo nello spazio. Il concetto di rieducazione funzionale si basa sul fatto che il sistema si compone di un’integrazione di varie strutture, l’alterazione delle funzionalità di un sistema porta al compenso o adattamento degli altri. Se a seguito di intervento di protesi un soggetto presenta muscoli deboli o un’alterazione coordinativa che porta ad un cattivo allineamento posturale, con fenomeni associati, questa situazione molto probabilmente se protratta nel tempo porterà a diminuzione del controllo neuromuscolare, a microtraumi con possibili infortuni, a compensi che determineranno l’insorgenza di uno stesso problema che era stato già risolto. Mentre nelle patologie degenerative si assiste ad una degenerazione delle strutture articolari con conseguente alterazione delle vie di conduzione nervosa, determinata da sensazioni di dolore che alterano il movimento, nella displasia congenita dell’anca e nella PCI, per esempio, il quadro artrosico è secondario. Si assiste, da un lato ad una malformazione anatomica delle strutture articolari, dall’altro ad una contrazione ripetuta di muscoli importanti nella gestione della stabilità articolare. Queste disfunzioni determinano l’insorgenza di sublussazioni e lussazioni a livello dell’articolazione coxofemorale che comportano degenerazione delle strutture coinvolte. Questo lavoro si pone quindi
7 l’obiettivo di confermare, tramite ricerche scientifiche e spiegazioni anatomo-fisiologiche, l’importanza di un protocollo di rieducazione funzionale in soggetti con protesi di anca per cercare di dare valore ad un processo rieducativo che altrimenti sarebbe limitato. Nello stesso tempo tratta tematiche di tipo congenito o neonatale spiegando come, in questo tipo di soggetti, sia per fattori di età, sia per limitazioni importanti già presenti a causa della patologia, si cerca di porre molta attenzione nella mobilizzazione e nell’allungamento di strutture che giocano un ruolo fondamentale nell’articolazione coxofemorale.
8
2 A
TTIVITÀ FISICA ADATTATA
L’organizzazione mondiale della sanità ha sottolineato il legame tra cronicità e disabilità. L’attività fisica adattata (AFA) in condizioni di cronicità ha assunto molta rilevanza soprattutto negli ultimi anni. Quando sentiamo parlare di condizione cronica si fa riferimento ad uno stato patologico che altera il funzionamento comportando disabilità. A questo punto serve intervenire in maniera continuativa per garantire al soggetto un mantenimento funzionale. Per fare questo, si interviene con protocolli mirati in riferimento alla condizione che accompagnerà il soggetto per tutta la vita. Per rieducazione si intende quel processo che, attraverso programmi adattati per specifiche patologie croniche, permette al soggetto con limitazioni funzionali, di raggiungere un livello di vita possibilmente migliore. Questi protocolli hanno come fine il mantenimento delle abilità motorie di base per avere un buon livello di autonomia e sono garantiti da laureati magistrali in scienze motorie preventiva e adattata. Il termine attività fisica adattata fu introdotto per la prima volta nel 1973 con il termine inglese A.P.A (adapted physical activity). La federazione internazionale di attività fisica adattata (IFAPA), nel 1973 ha deciso di definire l’AFA come: “qualcosa che si riferisce al movimento, all’attività fisica e agli sport nei quali viene data una “enfasi particolare agli interessi e alle capacità degli individui caratterizzati da condizioni fisiche svantaggiate, quali diversamente abili, malati o anziani”[7]. Quindi il ruolo di questa disciplina è formulare protocolli di esercizi non sanitari predisposti per soggetti con patologie croniche, definiti “fragili”. Inoltre, lo svolgimento di esercizi in maniera corretta permette anche di prevenire queste patologie croniche. Sono stati identificati due sottogruppi di categorie in questa attività:
- AFA di tipo A: prevista per soggetti con bassa disabilità, ovvero programmi per sindromi croniche che non limitano le capacità motorie di base. Esempio possono essere sindromi algiche da ipomobilità, osteoporosi, artrosi, protesi in condizione cronica. Viene prescritta dal medico curante.
- AFA di tipo B: prevista per soggetti con alta disabilità, cioè per patologie croniche che limitano le capacità motorie e hanno quadri di disabilità stabilizzata. Viene prescritta, al contrario di quella di tipo A, da uno specialista.
9 Quello che bisogna considerare è che non è pensabile fare fisioterapia per tutta la vita. È auspicabile dare seguito ad un intervento fisioterapico più o meno protratto nel tempo con un programma di ginnastica specificamente adattata. Quando si hanno di fronte patologie che accompagnano un soggetto per tutta la vita, questi programmi assumono una certa importanza per via della funzione benefica del movimento. La regione Toscana e Usl 5 di Pisa, predispongono una strutturazione del servizio che funziona così:
• il paziente si rivolge al proprio medico per farsi prescrivere un percorso AFA di tipo A in base alle problematiche che sussistono.
• Riceve un opuscolo, contratta la centrale operativa e si rivolge alla struttura convenzionata su indicazione del medico.
• Questa struttura lo prenderà in carico e, sotto personale specializzato, seguirà un programma definito.
Nell’AFA di tipo B il procedimento è lo stesso, ma come è stato detto precedentemente, la prescrizione è opera dello specialista e non del medico di base. Nella Figura 1, in basso, si può notare un esempio di opuscolo che viene rilasciato dal medico curante [8].
Figura 1: opuscolo per prescrizione di attività fisica adattata
Questa breve spiegazione di quello che è il ruolo dell’attività fisica adattata è utile per capire, in maniera ottimale, l’ambito lavorativo di determinati professionisti
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3 D
ESCRIZIONE
DELL
’
ARTICOLAZIONE
COXOFEMORALE
L’anca è un’enartrosi a tre assi e tre gradi di libertà che consente un’ampia gamma di movimento come la spalla. A differenza di quest’ultima però, ha minore mobilità e più stabilità per il semplice fatto che l’articolazione scapolo-omerale tende a lussarsi con la forza di gravità, mentre l’articolazione coxofemorale è favorita dalla gravità soprattutto nella posizione eretta. Questo permette ad essa di non andare incontro a lussazione con la stessa incidenza che si verifica a livello della spalla. È una struttura molto importante per le normali azioni come la deambulazione, la corsa e per tutte quelle attività dove è fondamentale l’unione tra il tronco e gli arti inferiori. L’anca è un voluminoso osso piatto costituito da tre strutture distinte: ileo, ischio e pube. Queste tre ossa si riuniscono nel margine esterno dove si trova l’acetabolo che accoglie la testa del femore costituendo l’articolazione coxofemorale [1]. La cavità acetabolare e l’epifisi prossimale del femore formano l’articolazione coxofemorale che in determinate patologie, può andare incontro a degenerazione e lussazione, costringendo il soggetto a richiedere intervento chirurgico per recuperare una funzionalità tale da permettere lo svolgimento delle normali funzioni quotidiane. Il femore è formato da un corpo e due estremità. L’estremità superiore è costituita dalla testa femorale che si articola con l’acetabolo. L’epifisi prossimale e distale del femore è costituita da una lamina superficiale compatta che avvolge un trabecolato spugnoso, motivo questo per il quale c’è un rischio alto di fratture in questa sede soprattutto a causa dei processi di invecchiamento. Prendendo in considerazione queste due strutture anatomiche che formano l’articolazione si può notare che la testa del femore è costituita per i 2/3 da una sfera e per la restante parte da un collo che permette la connessione con la diafisi. Da di una veduta frontale si osserva come l’asse obliquo del collo forma con l’asse della diafisi femorale un angolo d’ inclinazione che dovrebbe essere di 125°. Da una veduta orizzontale si osserva come l’asse obliquo del collo femorale forma un angolo di declinazione o di antiversione di 10° - 30° [2]. Entrambi sono visibili nella Figura 2. Questi
11 angoli vengono descritti e illustrati per comprendere meglio, più avanti, quello che anatomicamente succede in alcune patologie.
Figura 2:angoli di inclinazione e antiversione
Nella Figura 3, in basso, viene descritta la cavità cotiloidea che ha la funzione di accogliere la testa femorale per formare l’articolazione coxofemorale. Questa cavità è limitata nel suo contorno dal labbro acetabolare. La faccia semilunare è rivestita di cartilagine ed è interrotta nella parte inferiore dall’incisura ischio pubica. La parte centrale dell’acetabolo è il retrofondo cotiloideo costituito da tessuto adiposo e situato, come indica la parola stessa, in profondità rispetto alla faccia semilunare, e non ha contatto con la testa del femore. Il cercine cotiloideo permette di ingrandire la cavità acetabolare che accoglie così più comodamente la testa femorale. A livello del margine superiore del cotile, nel tetto acetabolare, si ha la massima pressione esercitata dalla testa del femore. In alcuni casi è stato osservato come il tetto cotiloideo sia sfuggente ed alla base di questa situazione per la maggior parte delle volte c’è una malformazione genetica. Le superfici che hanno strati più spessi di cartilagine sono la faccia semilunare e la testa femorale [2]. Le due strutture articolari descritte non sono esattamente corrispondenti ed è per questo motivo che è fondamentale il ruolo del cercine cotiloideo. Questo ci permette già da adesso di capire che, quando nell’artrosi e nelle varie patologie si osserva disgregazione e degenerazione della cartilagine articolare, ci sono delle strutture che più delle altre vanno incontro a sofferenza.
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Figura 3: cavità cotiloidea, visione esterna
La cartilagine che riveste l’articolazione coxofemorale è quella ialina. È un tessuto avascolare e privo di innervazione. Riceve sostanze nutritive dal liquido sinoviale e dall’osso subcondrale. È composta da cellule chiamate condrociti e da matrice extracellulare formata maggiormente da acqua e da macromolecole come proteine e glicosamminoglicani. È costituita anche da fibre collagene che rappresentano il 25% del peso a secco della cartilagine e si può notare come essa sia bianca, brillante, translucida e liscia. Il processo che comporta l’alterazione della struttura cartilaginea è l’artrosi [4]. L’articolazione è avvolta da una capsula articolare che svolge anch’essa una funzione fondamentale nel mantenimento di una normale integrità dell’articolazione coxofemorale. Questa struttura è un manicotto di tessuto connettivo denso. Si trova solo nelle articolazioni diartrodiali. Ha funzione di proteggere il complesso articolare e mantenere saldi i due capi dell’articolazione. Ha un foglietto interno che è la membrana sinoviale, la quale riveste il ruolo, tramite la produzione di liquido sinoviale, di ridurre l’attrito tra le due strutture che formano questa enartrosi. In riferimento all’articolazione dell’anca, secondo un esperimento dei fratelli Weber, se si andasse a sezionare, a dividere, quelle parti molli (capsula) che permettono l’adesione dell’ileo al femore, non si assisterà comunque ad un’uscita spontanea della testa del femore dall’acetabolo. Per far sì che questa venga estratta
13 c’è bisogno di esercitare molta forza. Un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dell’articolazione coxofemorale è esercitato dai legamenti e dai muscoli [2].
3.1 Ruolo dei legamenti e dei muscoli nella stabilizzazione
dell’articolazione coxofemorale
I legamenti rinforzano la capsula articolare anteriormente e posteriormente. Anteriormente vi sono i legamenti ileo femorale e pubofemorale. Sulla parte posteriore vi è il legamento ischio femorale. Questa disposizione garantisce un certo equilibrio nelle funzioni di queste strutture. Nella faccia anteriore dell’articolazione i muscoli sono pochi e i legamenti sono potenti, nella faccia posteriore accade il contrario, i muscoli hanno un’azione dominante (Figura 4 e Figura 5).
14
Figura 5:veduta posteriore muscoli e legamenti
Per quanto riguarda la funzione dei legamenti, questa cambia a seconda dei movimenti che vengono effettuati. Ciò ci aiuta a capire per esempio quali movimenti, in caso di intervento di protesi, bisogna evitare e quali invece è bene che vengano migliorati. Quando la posizione dell’anca è in estensione, i legamenti sono tesi e i capi articolari sono ancorati. Nella posizione di flessione, invece, i legamenti sono rilassati e non vi è più una situazione ottimale. Da questo si deduce che la flessione dell’anca è un movimento che comporta una lassità legamentosa e quindi un’instabilità articolare. Se oltre alla flessione viene aggiunto un movimento di adduzione, è sufficiente un urto diretto secondo l’asse femorale per determinare una lussazione posteriore della testa femorale, il classico accavallamento delle gambe in posizione seduta [2]. I muscoli hanno anche loro un ruolo molto importante nel mantenimento di una buona integrità articolare. Bisogna analizzare molto attentamente il ruolo degli abduttori e quello degli adduttori per capire meccanismi che stanno alla base di una buona stabilità dell’articolazione (Figura 6). I muscoli abduttori, con il loro decorso in senso parallelo al collo femorale, esercitano una forza che riesce a mantenere in contatto i due capi articolari. I muscoli adduttori invece hanno un decorso longitudinale, non parallelo al collo femorale ma parallelo alla diafisi femorale e una loro maggiore attività potrebbe causare lussazione della testa femorale al di sopra del cotile. L’azione dei due muscoli dovrebbe essere equilibrata, in quanto se quella dei muscoli adduttori prevale su quella dei suoi antagonisti si va incontro a lussazione. Questo meccanismo è visibile nella paralisi
15 cerebrale infantile. I muscoli abduttori che hanno un ruolo fondamentale in questa stabilizzazione sono il piriforme (1), l’otturatore esterno (2), il piccolo e il medio gluteo (3). Come è stato già spiegato il loro decorso è parallelo a quello del collo femorale [2].
Figura 6:azione degli abduttori e adduttori
I muscoli con la loro funzione garantiscono l’equilibrio del bacino. Sono suddivisi in base ai movimenti possono essere effettuati. Muscoli flessori, estensori, abduttori, adduttori e rotatori interni ed esterni. Nelle articolazioni a tre gradi di libertà, la particolarità è che, ad ogni diversa posizione, i muscoli svolgono ruoli diversi. Uno sbilanciamento di forze derivante da muscoli più attivi o inibiti, può provocare disequilibrio a livello della normale biomeccanica dell’anca determinando disfunzioni e patologie. Suddividendoli per le loro funzioni vediamo che:
▪ I fasci anteriori dei muscoli medio e piccolo gluteo e il tensore della fascia lata sono flessori-abduttori-rotatori interni.
▪ Il sartorio è flessore dell’anca e accessoriamente abduttore e rotatore interno.
▪ Retto anteriore è un flessore dell’anca: si utilizza per esempio nel cammino quando l’anca è flessa e il ginocchio esteso.
▪ Fibre più alte del grande gluteo e fasci posteriori dei muscoli medio e piccolo hanno un’azione di estensione- abduzione e rotazione esterna.
16 ▪ L’ileopsoas, il pettineo, e il medio adduttore sono flessori-adduttori e rotatori esterni. ▪ Il quadrato del femore è adduttore e rotatore esterno.
▪ Semitendinoso, semimembranoso, bicipite femorale, grande parte del grande gluteo, fasci inferiori del grande adduttore sono estensori-adduttori.
▪ Piccolo e medio adduttore, fascio superiore del grande adduttore, retto interno sono flessori-adduttori.
▪ Otturatore interno ed esterno sono rotatori esterni.
Nella Figura 4 e nella Figura 5 sono ben visibili origine e inserzione di questi.
Nell’artrosi, conseguentemente alla sensazione di dolore, si instaurano delle alterazioni delle vie motorie che comportano asimmetria nel carico sugli arti inferiore. Di solito un andamento basculante è associato ad una diminuzione dell’attività dei muscoli abduttori. Funzioni e attività di questi muscoli ci permettono di capire come, tramite squilibri muscolari, si possano instaurare alterazioni nell’articolazione coxofemorale.
3.2 Movimenti dell’anca
È stato già accennato precedentemente come l’anca sia un’articolazione che permette un’ampia gamma di movimenti quali: la flessione, l’estensione, l’adduzione, l’abduzione, la rotazione interna e la rotazione esterna. La descrizione dei muscoli che permettono questi movimenti è importante per capire, quando si cerca di ripristinare una normale funzione (dopo intervento), dove bisogna lavorare e cosa bisogna evitare per aumentare il rischio di declino articolare.
Per flessione dell’anca si intende un movimento che permette l’avvicinamento della coscia al tronco. A che grado può fisiologicamente arrivare questa flessione dipende dal ginocchio. Questo perché a ginocchio esteso la flessione dell’anca può arrivare ad un massimo di 90°, mentre a ginocchio flesso, con il rilassamento dei muscoli situati nella parte posteriore della coscia, la flessione dell’anca può arrivare a un’ampiezza di 120°. Questo quando si tratta di flessione attiva, in quella passiva, la flessione supera i 120°, e a ginocchio flesso è più o meno di 145°. Per quanto riguarda l’estensione dell’anca, prendendo in considerazione un piano frontale, l’arto inferiore viene portato posteriormente. Anche qui facendo una distinzione tra movimento attivo e passivo ci sono delle differenze. Nei movimenti di estensione il ginocchio gioca un ruolo contrario a quello precedente. A ginocchio esteso,
17 l’estensione dell’anca, che normalmente è minore della flessione per la tensione del legamento ileo-femorale, è di 20°. A ginocchio flesso, invece, la flessione è di 10°. Questo è dovuto dal fatto che i muscoli estensori dell’anca, che prima avevano un ruolo nell’aumentare l’angolo di flessione, lavorano per flettere il ginocchio e quindi hanno utilizzato gran parte del loro lavoro in questo movimento. Nell’estensione passiva a ginocchio esteso si arriva comunque a 20° durante l’affondo, mentre nell’estensione a ginocchio flesso si può arrivare anche a 30°. Attenzione però, questo angolo aumenta con il contemporaneo aumento della rotazione anteriore del bacino con conseguente accentuazione dell’iperlordosi lombare.
Figura 7:flessione-estensione dell'anca
L’abduzione è il movimento che allontana l’arto inferiore dal suo normale piano di simmetria. Una caratteristica particolare di questo movimento è che compiendo un movimento di abduzione con un’anca, contemporaneamente si compie un’abduzione uguale nella controlaterale. Questo perché il movimento è accompagnato da una rotazione del bacino con inclinazione della linea che congiunge le spine iliache superiori e posteriori. Quindi prendendo in riferimento questa linea cambia anche l’asse di simmetria del bacino. Più aumenta l’abduzione più la rotazione e l’inclinazione della linea congiungente le spine iliache aumenta. Questo rende il movimento di abduzione massimo di 90° tra gli arti inferiori un movimento di abduzione delle anche che in realtà è massimo a 45°. La colonna vertebrale interviene in questo movimento compensando l’inclinazione del bacino. Questi angoli si riferiscono ad angoli fisiologicamente presenti in un soggetto normale.
18 Ovviamente l’allenamento può comportare un aumento come nel caso per esempio delle ballerine. L’adduzione invece è il movimento opposto all’abduzione, l’arto inferiore si avvicina al piano di simmetria del corpo. L’adduzione è un movimento combinato, non potremmo compierlo con un movimento puro perché gli arti inferiore in posizione indifferente sono praticamente a contatto. Allora si combina, si associa ad una flessione, ad un’estensione o ad un’abduzione dell’anca controlaterale, la quale si è detto che sposta il piano di simmetria con l’inclinazione del bacino. La massima adduzione fisiologica è di 30° [2].
Figura 8: abduzione-adduzione dell'anca
I movimenti di rotazione interna ed esterna vengono considerati in posizione prona per essere compresi maggiormente.
Figura 9:rotazione interna ed esterna
Nella Figura 9 si può notare al centro la posizione di partenza per la misurazione degli angoli di rotazione. Dal centro, a destra si ha la rotazione interna con l’arto inferiore portato in dentro, e a sinistra si ha la rotazione esterna con l’arto inferiore portato in fuori. Gli angoli
19 fisiologici sono, rispettivamente di 60° e 30°. Il movimento di circumduzione, come in tutte le articolazioni a tre gradi di libertà, è una combinazione di questi movimenti descritti, attorno ai tre assi.
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4 A
LTERAZIONI E LIMITAZIONI
FUNZIONALI NELL
’
ARTICOLAZIONE
COXOFEMORALE
Nel caso in cui una o più di queste componenti illustrate dovesse perdere la sua normale funzione, si assisterebbe all’insorgenza di patologie che potrebbero modificare l’architettura e la funzionalità dell’articolazione coxofemorale. Quando si va incontro ad una limitazione articolare importante, il pensiero fa subito riferimento a processi degenerativi che alterano la normale struttura articolare a tal punto da percepire sensazioni di dolore ti tipo meccanico, che riducono la mobilità e la funzione dell’articolazione, condizionando anche normali attività di vita quotidiana. Nell’osteoporosi e nell’artrosi, o osteoartrosi, la parola stessa ci indica una degenerazione a livello osseo e una degenerazione a livello articolare (-osi = degenerazione), si assiste ad un’alterazione della loro integrità e ad una diminuzione del loro funzionamento legate soprattutto a processi di invecchiamento e di squilibrio delle componenti cellulari, delle ossa e della cartilagine. L’artrite invece, è una patologia degenerativa a carattere infiammatorio con età d’insorgenza tra i 30 e i 50 anni che può causare limitazione articolare importante. Quando invece si parla di displasia congenita dell’anca e di PCI, non si fa riferimento a patologie nascenti da degenerazione di una delle componenti articolari, ma a malformazioni congenite e a forze squilibrate che determinano instabilità articolare. Sono patologie che si instaurano dai primi anni di vita e che se non curate, danno luogo a continue lussazioni e sublussazioni. La PCI è una patologia a carattere non progressivo che determina alterazioni della postura. Bisogna svolgere degli esercizi che possano evitare di creare un quadro di sublussazione e lussazione in questi soggetti. Questo perché continue alterazioni strutturali dell’articolazione comportano come conseguenza una degenerazione, con il risultato di un’artrosi che nasce secondariamente. I soggetti con dolore cronico e significativo deficit funzionale derivanti da queste alterazioni articolari, possono andare incontro a intervento protesico. Le indicazioni per la chirurgia protesica di anca più rilevanti sono l’artrosi (93%), l’osteonecrosi (2%), la frattura del collo del femore (2%), l’artrite (1%), la displasia congenita dell’anca (2%) [3]. La paralisi
21 cerebrale rientra in un quadro di sublussazione e lussazione che può andare incontro a intervento ma non con la stessa frequenza delle sopra citate.
Le prime quattro sono determinate da processi di invecchiamento, da un mancato afflusso di sangue nella testa femorale, da fratture determinate da traumi bruschi o osteoporosi (anziano) e da un sistema immunitario che attacca se stesso. Tutte queste condizioni comportano una degenerazione e un’alterazione della normale architettura articolare con rischio alto nell’artrosi e, con un rischio più basso nelle altre patologie elencate, di andare incontro a intervento di sostituzione protesica. Nella displasia congenita e nella PCI, invece, può essere richiesto un intervento di sostituzione protesica per la presenza di un quadro artrosico secondario a continue sublussazione e lussazioni dell’anca.
4.1 Patologie degenerative e fratture che richiedono intervento
protesico
Le malattie reumatiche sono affezioni croniche che accompagnano il paziente per tutta la vita da quando vengono diagnosticate. “Reuma” in greco significa che scorre, e quindi stava ad indicare una malattia come umore malefico che scorre all’interno del corpo andandosi a localizzare a livello delle articolazioni o nei diversi organi connettivali. Sono divise in più sottogruppi che ci danno più o meno un’idea sull’impegno articolare, sul tipo di dolore percepito, sul rischio di sviluppare deformità o patologie di tutti quegli organi che possono essere colpiti. Le artriti primarie si dividono in un sottogruppo di patologie ad elevato impegno muscolo scheletrico. L’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante (dalle spondiloentesoartriti), la polimialgia reumatica e l’artrite psoriasica, sono malattie rare e difficilmente diagnosticabili soprattutto per una non così elevata età d’insorgenza. Possono causare un danno irreversibile all’articolazione che se non curato nell’età d’esordio può scaturire in deformità importanti. Il dolore tipico dell’artrite, ce lo dice la parola stessa, è di tipo infiammatorio ed è la causa della rigidità mattutina che è presente in questi pazienti. Il dolore, in questo caso, è conseguente ad uno squilibrio tra la quantità di produzione notturna di sostanze infiammatorie e quella della produzione mattutina di sostanze antinfimmatorie. Quando ci svegliamo questo squilibrio è già presente e quindi comporta rigidità. A seconda del tipo di artrite si può avere un interessamento più prevalente di un’articolazione rispetto ad un’altra. Nell’artrite reumatoide assistiamo ad una degenerazione delle articolazioni diartrodiali. È una patologia sistemica, cronica, ad eziologia sconosciuta e a patogenesi
22 autoimmune. La causa è sconosciuta, il nostro sistema immunitario si occupa della risposta protettiva del corpo contro tutto ciò che è estraneo e che vorrebbe aggredirci. Nelle patologie autoimmuni il sistema immunitario in qualche modo sbaglia il bersaglio da colpire e aggredisce noi stessi. Le articolazioni (principale bersaglio) che vengono colpite sono quelle dove i due capi articolari sono tenuti insieme da una capsula articolare, la quale ha un foglietto interno che è la membrana sinoviale. Questa è costituita da cellule chiamate sinoviociti che producono il liquido sinoviale che ha il compito di lubrificare i due capi articolari. Articolazioni diartrodiali sono: le dita delle mani, i gomiti, le spalle, le anche, il ginocchio, la caviglia e le dita dei piedi [1]. Il sistema immunitario attacca la membrana, crea una sinovite, che la rende non più un foglietto unico ma un vero e proprio panno sinoviale. Questa patologia ha due fasi ben distinte: un momento d’esordio e una fase avanzata dove sono ben evidenti le deformità articolari. La prima fase è caratterizzata da segni e sintomi come tumefazione e dolore infiammatorio, che coinvolge prevalentemente mani e polsi caratterizzando deformità articolari e contratture in flessione. Nella fase avanzata invece ci può essere un impegno delle altre articolazioni tranne quelle della colonna. Le componenti articolari subiscono più o meno lo stesso processo che è stato prima descritto. Può colpire il piede determinando difficoltà nella deambulazione e in misura minore può colpire l’anca e il ginocchio. È possibile riscontrare dolore e limitazione funzionale a carico delle anche. Si osservano problemi iniziali come difficoltà a mettere scarpe e calzini, successivamente possono comparire dolore e limitazione funzionale che progredendo rendono necessario un intervento di protesi. Si può notare dalle percentuali come, il rischio di andare incontro ad intervento sia basso [4].
La frattura del femore può avvenire in qualunque età. Nei giovani, di solito, è dovuta da traumi violenti e bruschi. Nell’anziano invece, avviene per via di una diminuita densità minerale ossea con aumento della sua fragilità. Nell’osteoporosi le componenti cellulari di rimodellamento e rimozione ossea vivono una continua fase di reciproca dominanza. In alcuni momenti della vita il rimodellamento osseo prevale, in altri quella che prevale è la componente cellulare di rimozione ossea. Questo stato porta, nell’anziano specialmente, ad andare incontro a fragilità ossea, e quindi ad un maggior rischio di fratture. L’immobilizzazione determina una riduzione della funzionalità comportando perdita di forza e rischi sempre maggiori di cadute. Le fratture del femore più frequenti interessano la zona del collo femorale e possono essere suddivise in mediali (intracapsulari) e laterali (extracapsulari). Nell’anziano uno stato di osteoporosi, con progressivo declino dei riflessi
23 e dell’equilibrio, può causare cadute che determinano queste fratture, che interessano generalmente l’estremità prossimale del femore, con limitazione funzionale notevole. Quando si ha una frattura mediale scomposta si valuta l’opzione di rimozione della testa femorale e la sostituzione di questa con protesi [5].
L’osteonecrosi è causata da un mancato afflusso di sangue alla testa del femore. Questo blocco dell’apporto sanguigno genera un crollo della testa del femore che non riesce più a sorreggere il peso del corpo. Oltre al crollo osseo si assiste ad una degenerazione della cartilagine con sviluppo di artrosi. Tale alterazione del flusso sanguigno e perdita di integrità articolare, è riscontrata in età compresa tra 40 e 65 anni. Si cerca di intervenire prima che avviene il completo collasso della testa femorale. Se l’osteonecrosi è in uno stato avanzato e si è già verificata la deformazione ossea a livello della testa del femore, allora il trattamento migliore diventa l’intervento di sostituzione con protesi [4].
Ultima ma non per importanza è l’artrosi. L’artrosi è la patologia che richiede il 93% dei casi di intervento di sostituzione. Si ha prevalentemente a livello di rachide, anca, ginocchio mano e piede. La sua alta percentuale nel richiedere un intervento protesico deriva dal fatto che, ogni patologia può secondariamente portare all’insorgenza dell’artrosi. È una artropatia caratterizzata da usura progressiva e perdita di integrità della cartilagine articolare ed il dolore percepito è di tipo meccanico, da sforzo. Si tratta del classico dolore che è massimo dopo il movimento e chi ne è affetto predilige il riposo all’attività. Quello che si osserva il più delle volte nell’osteoartrosi è la ridotta produzione di liquido sinoviale che ha la funzione di lubrificare i capi articolari per permettere un movimento più fluido. Come citato nel primo capitolo questa cartilagine è nutrita dal liquido. Nell’artrite ne viene prodotto troppo per attacco del sistema immunitario alla sinovia, nell’artrosi una ridotta nutrizione cartilaginea comporta degenerazione della stessa e può determinare, nei casi gravi, un aumento del suo angolo di antiversione con conseguenti sublussazioni e lussazioni. Negli sportivi possono instaurarsi dei casi di produzione di poco liquido. Se per esempio un soggetto entra in palestra e subito comincia a lavorare al massimo della sua forza, con un’escursione articolare importante, si rischia di causare un dolore meccanico all’articolazione dovuto ad una diminuita lubrificazione garantita dalla membrana sinoviale. Per evitare questo è consigliato fare riscaldamento per dare opportunità a questa membrana di produrre il liquido che permette di ridurre l’attrito tra i due capi articolari. Stesse condizioni si possono osservare nelle attività lavorative che fanno uso di molta forza e nelle attività quotidiane. Un altro motivo per cui la sua percentuale è così alta è il fatto
24 che non è una patologia rara ma è legata a processi di invecchiamento ed interessa in prevalenza dai 60 in su. Si perde la normale anatomia dell’articolazione per creazione di aree di perdita focale della cartilagine. L’osso subcondrale subisce un ispessimento e si vengono a formare dei becchi che si chiamano osteofiti, i quali sono la causa di rigidità articolare. La cartilagine frammentata che si perde all’interno dell’articolazione viene percepita come se fossero tanti sassolini. Questi sassolini innescano una risposta infiammatoria che coinvolge in seguito anche la sinovia, determinando gonfiore. Sono diversi i quadri di artrosi e artrite. Nel primo caso si ha un coinvolgimento secondario della sinovia, nel secondo caso si ha un attacco alla membrana sinoviale diretto.
Figura 10:radiografia che mostra coxartrosi sinistra
Ci sono più elementi che alterano la cartilagine articolare. Tra questi l’età, la razza, fattori geografici, assetto genetico, sesso, fattori ormonali, meccanici, obesità, ecc. Particolare attenzione va riversata sull’obesità. Il soggetto obeso grava di più sull’articolazione quindi rischia più di un soggetto longilineo. L’artrosi viene classificata in:
- Artrosi primaria
- Artrosi secondaria (traumi, dismetria, scoliosi, varismo, valgismo, gotta, obesità, malattie della tiroide, artrite reumatoide, batteriche, emofilia, ecc.)
- Artrosi correlata a malattie congenite [4]
Si è detto che è una patologia ad andamento progressivo che ci accompagna per tutta la vita.
25 A livello dell’anca il dolore provocato da questa patologia è intenso, ed infatti insieme al ginocchio sono le articolazioni che più vanno incontro ad intervento di sostituzione dell’articolazione. Il dolore all’anca ha irradiazione che non permette di sbagliare, perché si irradia dal fianco in senso mediale sull’inguine e scende a livello del ginocchio sempre in senso mediale. Si tratta di quella che viene solitamente chiamata coxoartrosi (Figura 10). Quello che accade è che tra la testa del femore e la cavità acetabolare viene sempre di più a mancare il distanziamento fisiologico. Lo spazio si riduce, aumenta l’attrito, l’osso subcondrale si addensa, si ispessisce, si formano gli osteofiti e c’è un progressivo appiattimento della testa femorale con perdita della normale architettura dell’articolazione. A livello del tetto cotiloideo come spiegato nel capitolo 1 si ha la massima pressione esercitata dalla testa. La testa spinge, si appiattisce fino a diventare a forma di “cuneo e si può verificare la migrazione della testa femorale in senso antero-superiore. Questo spostamento causa sublussazione e lussazione.
In ogni processo è stato valutato il rischio di richiedere l’intervento protesico perché è importante, quando si parla di patologie croniche, sapere quali sono le condizioni da affrontare per il paziente. È chiaro che per un processo progressivo come l’artrosi, quando il soggetto arriva a riferire sensazioni di dolore ad ogni minimo movimento, l’idea migliore è quella di richiedere un intervento di sostituzione, per provare a tornare a svolgere attività con la consapevolezza di poterlo fare.
4.1.1
Patologie neonatali che possono richiedere intervento
Si è detto che l’articolazione coxofemorale è composta dall’epifisi prossimale del femore e dall’osso iliaco, che, tramite l’unione di tre ossa, forma, nel margine esterno, una cavità che accoglie la testa del femore. Questo nell’adulto, nel neonato invece, ileo, ischio e pube sono separate e in parte cartilaginee perché non è ancora avvenuta la calcificazione delle tre strutture anatomiche; strutture che sono riunite in una zona chiamata a Y nel fondo del cotile. La testa del femore è composta interamente di cartilagine e non è ancora formata. Nella displasia congenita dell’anca si ha un difetto nello sviluppo dell’articolazione coxofemorale che, se non evidenziato e curato, spesso può evolvere nella sublussazione e lussazione dell’anca. Come spiegato nel paragrafo precedente, ci sono alcune strutture che giocano un ruolo importante per la stabilità e per l’integrità dell’articolazione. Viene da sé pensare che una lassità legamentosa e un cotile meno profondo sono fattori che possono
26 determinare anca displasica. Questa displasia è quindi caratterizzata da un non perfetto ancoraggio dell’epifisi prossimale nella cavità acetabolare. Si parla di sublussazione quando avviene una perdita di contatto parziale tra i due capi articolari mentre si parla di lussazione quando questa perdita di contatto è totale. Si è visto in Figura 2, sul piano frontale, l’esistenza di un angolo di antiversione che normalmente dovrebbe andare da un minimo di 10° ad un massimo di 30°. Nella displasia questo angolo risulta essere maggiore. Conseguentemente a questo difetto di anca antiversa, il soggetto displasico, per cercare di mantenere l’epifisi prossimale ancorata, assume un atteggiamento compensatorio ruotando le punte dei piedi verso l’interno. L’eziopatogenesi di questa patologia è da ricercare in fattori genetici, legati alla familiarità e alla lassità legamentosa che genera una predisposizione del soggetto a instabilità soprattutto a livello dell’anca. Altre cause possono essere trovate nei fattori anatomici (dismorfismi a livello cotiloideo ad esempio) e in quelli ambientali. Queste continue sublussazioni e lussazioni comportano sfaldamento dell’integrità e della funzione articolare (artrosi) interessata con possibilità di intervento. In percentuale le possibilità sono molto basse. La terapia utilizzata per risolvere subito il problema, e non andare incontro in futuro a intervento artroprotesico, è incentrata sul mantenimento dell’anca in abduzione, in maniera continua nelle 24 ore. Per fare questo vengono utilizzati ortesi varie: divaricatori, cuscini, pannolini rigidi [4].
La PCI è determinata da una lesione a livello del sistema nervoso centrale che causa un’interruzione delle vie nervose ascendenti e discendenti del midollo spinale. Questi disturbi non progressivi del cervello infantile generano deficit di sviluppo del movimento e della postura, alterando percezione, sensazione, comunicazione e comportamento. Quadri di spasticità, discinesie, iperreflessia, muscoli antagonisti eccessivamente contratti e malformazioni muscolo scheletriche secondarie disturbano il controllo muscolare. Il disturbo del movimento nella paralisi cerebrale è identificato come una sindrome del motoneurone superiore. Si identificano in questa sindrome dei segni positivi e dei segni negativi. I segni positivi sono quelli già elencati nel disturbo del controllo muscolare, e sono caratterizzati da un’assenza di inibizione dei circuiti corticali. I segni negativi includono debolezza, scarsa coordinazione, scarso equilibrio e scarsa capacità di camminare. Questi sono dovuti da un’assenza di meccanismo del controllo sensomotorio. Deficit del controllo motorio includono eccessiva eccitazione riflessa a riposo con riflessi da stiramento esagerati, mancanza di inibizione del muscolo antagonista durante i movimenti volontari e deficit di reazioni posturali, segni che causano anche disfunzione del
27 cammino. Studi hanno evidenziato che un’alterata proiezione della corteccia motoria ai motoneuroni nei pazienti con paralisi cerebrale, determina uno sviluppo dei circuiti corticali diverso rispetto ai bambini senza paralisi cerebrale [6]. In questo elaborato si evidenzia come i disturbi del controllo motorio vanno ad alterare la biomeccanica dell’articolazione coxofemorale causando sublussazioni e lussazioni che possono richiedere intervento protesico.
28
5 P
ROTOCOLLI
AFA
PER PATOLOGIE
CRONICHE
Nell’articolazione dell’anca, come è stato illustrato, vi possono essere squilibri delle componenti fondamentali che portano a segni e sindromi che ci accompagnano per tutta la vita. Prendendo come riferimento quadri di declino articolare, che possono richiedere intervento protesico, si può subito dedurre come queste siano patologie con cui convivere, salvo la displasia congenita dell’anca, per la quale il fisioterapista dovrebbe intervenire in fase acuta, o comunque neonatale, per limitare e risolvere il problema. È nella fase cronica che diventa importante il ruolo dei professionisti AFA, il cui compito è quello di formulare protocolli mirati per far sì che questi soggetti riescano a convivere con la patologia, mantenendo un buon stato di salute e di autonomia. Il problema è che queste malattie possono progredire fino a limitare totalmente la funzione dell’articolazione interessata. Si assiste, inoltre, a cambiamenti nell’integrazione e nella risposta delle vie motorie, che vanno a determinare una deambulazione non fisiologicamente corretta, comportando uno squilibrio al sistema neuromuscolare. Quando la convivenza con queste problematiche diventa insostenibile, ci si rende conto che anche l’attività fisica adattata, nonostante rimanga particolarmente consigliata per il rinforzo muscolare e per l’allungamento, non è più sufficiente. Arrivati a questo punto si ricorre all’ intervento di protesi per ristabilire un equilibrio e una funzionalità ormai mancanti. Dopo 1 o 2 anni la protesi diventa condizione permanente dell’individuo e vengono strutturati protocolli motori per cercare di ristabilire una funzionalità adeguata a livello dell’articolazione coxofemorale. Nella PCI il trattamento è diverso. Le limitazioni del paziente sono già molte e sono derivanti da una lesione che altera postura e movimento. Quindi, mentre nelle patologie progressive l’intervento protesico è consigliato per ripristinare sensazione di benessere, nei pazienti con paralisi cerebrale infantile si cerca di evitare la sostituzione con protesi, focalizzandosi sulle problematiche che determinano sublussazione e lussazione dell’anca, per cercare di compensarle con esercizi appositi.
29
6 P
ROTESI DI ANCA
:
FASE
PREOPERATORIA E FASE POST
-INTERVENTO
Nel capitolo 3 sono state messe in evidenza tutte le patologie che determinano uno sfaldamento dell’articolazione coxofemorale. Trattandosi, nella quasi totalità, di problematiche che rientrano in una condizione cronica, è stato messo l’accento sul ruolo dei professionisti che elaborano protocolli per ristabilire e mantenere una funzionalità motoria accettabile. Quando questa degradazione arriva a livelli eccessivi, si interviene con la sostituzione dell’articolazione con una “nuova”. La chirurgia si pone come obiettivo la riduzione del dolore e il miglioramento della funzionalità articolare. Nel 1960 è iniziata la diffusione delle protesi dell’anca. I primi interventi sono stati caratterizzati da impianti semplici. Charnley eseguì il primo reale intervento, dove venivano utilizzate componenti femorali in metallo e quelle acetabolari in Teflon, materiale che poi si scoprì essere troppo di facile usura e quindi inutilizzabile. Con il passare degli anni la chirurgia protesica dell’anca ha avuto una grande evoluzione. L’ età media dei soggetti che si sottopongono a sostituzione è scesa mentre la capacità di resistenza delle protesi è divenuta sempre più ampia. Più del 90% degli impianti ha una sopravvivenza maggiore di 10 anni. Uno dei tanti motivi per definire questo intervento una certezza è il miglioramento della qualità della vita rispetto alla situazione antecedente all’operazione [9]. Nonostante vi sia un miglioramento netto, verrà poi discussa in questo elaborato l’aggiunta di una rieducazione neuromuscolare utile per garantire un benessere assoluto. Le protesi impiantate negli interventi possono essere di 3 tipi:
▪ Artroprotesi: sostituzione dell’intera articolazione coxofemorale (cotile e epifisi prossimale del femore).
▪ Endoprotesi: si interviene solo per quanto riguarda il femore, preservando l’acetabolo.
30 ▪ Revisione o riprotesizzazione: viene sostituito un dispositivo impiantato
precedentemente.
Figura 11:protesi
I materiali utilizzati per la sostituzione delle componenti danneggiate prevedono:
➢ Per il cotile il metallo su cui viene inserito un inserto di polietilene, ceramica o metallo.
➢ Per il femore uno stelo metallico su cui viene inserita una testa metallica o di ceramica.
Entrambi vengono fissati all’osso con protesi cementata o con protesi non cementate (vengono inserite le protesi nella sede senza utilizzo di cemento). Quest’ultime sono generalmente realizzate in titanio e presentano una superficie porosa che riesce a favorire la crescita dell’osso, la quale va ad avvolgere la protesi.
I fattori che influenzano la sopravvivenza di un impianto hanno una certa importanza e queste sono il sovrappeso e le patologie che hanno determinato questo intervento, vedi l’artrite reumatoide o le fratture dovute a traumi o osteoporosi. Quello che è stato riscontrato è che, soprattutto nelle fasi iniziali, il rinforzo muscolare e la mobilizzazione giocano un ruolo importante per alleviare la sensazione di dolore post-intervento. È opera dell’operatore sanitario realizzare tutto questo, agendo in maniera precoce. Prima dell’intervento, particolare rilevanza è stata assunta dall’attività preoperatoria basata sul rinforzo muscolare, sull’elasticità e su esercizi aerobici. Molti studi hanno evidenziato che
31 chi ha fatto esercizi prima, ha miglioramenti nella funzionalità e nella riduzione del dolore nella fase postoperatoria rispetto a chi non ha eseguito il protocollo [3]. Altri studi suggeriscono che l’attività motoria preoperatoria ha un impatto positivo più sulla testa del paziente che sul grado di attività presente nel muscolo dopo l’intervento. È preferibile indicare nei pazienti con osteoartrosi e che vanno incontro prossimamente a sostituzione, la riduzione del peso corporeo, per evitare sovraccarichi, sia nello stato artrosico sia nell’anca operata. Nella fase riabilitativa acuta e sub acuta si cerca subito di intervenire, sia su problemi cardiocircolatori determinati dall’immobilità, sia sulla mobilizzazione dell’arto interessato. Nei successivi giorni dopo l’intervento è opportuno sin da subito iniziare la fase di deambulazione con il fisioterapista, con l’aiuto prima di un deambulatore e poi delle stampelle per non creare sovraccarichi. È consigliato quindi inserire nei protocolli AFA il rinforzo degli arti superiori oltre a quelli inferiori. La riabilitazione in questa fase si pone come obiettivo il recupero della forza muscolare, della coordinazione, della mobilità articolare e dello schema del cammino. Questa fase di recupero è importante per ridare ai muscoli responsabili della stabilità dell’articolazione, un adeguato trofismo muscolare.
L’operatore sanitario dà delle indicazioni al paziente anche sui movimenti da evitare a casa, oltre agli esercizi che bisogna continuare a svolgere. Sono stati illustrati i movimenti di normale attività quotidiana che possono favorire un’instabilità articolare. Dopo l’intervento di protesi l’articolazione non ha componenti muscolari in grado di garantire una perfetta stabilità, ed è per questo che vengono indicati una serie di comportamenti da evitare. Nella posizione seduta, con anche in flessione e con le gambe accavallate, si ha una detensione dei legamenti e un’attività maggiore dei muscoli adduttori, fattori questi che indicano come sconsigliata questa posizione. Altri movimenti da evitare subito dopo l’intervento possono essere la flessione del busto per raccogliere qualcosa da terra, chinarsi avanti con il tronco da posizione seduta e un angolo tra coscia e busto minore di 90°. Nella Figura 12 si può vedere un esempio.
32
Figura 12: posizione da evitare post-intervento
È importante, nelle indicazioni operative, spiegare altri comportamenti da eseguire nelle situazioni di tutti i giorni, come scendere e salire le scale, come sedersi e alzarsi sul water e sulla sedia per evitare segni di sublussazione e lussazione della protesi appena impiantata [9].
Superata la fase acuta e sub acuta post-intervento, la protesi diventa condizione cronica del soggetto, e in riferimento a quanto detto sul ruolo dell’attività fisica adattata, diventa importante elaborare protocolli che mantengano uno stato di benessere e che migliorino la funzionalità dell’articolazione riportandola ai livelli normali. È stato riscontrato come l’intervento migliori la mobilità e allievi la sensazione di dolore. È importante però continuare a fare attività, perché questi soggetti devono diminuire di peso e mantenere una forma fisica che sia ottimale per non sovraccaricare la protesi ed andare incontro ad usura anticipatamente. Pensare che l’intervento sia la fine dei problemi è sbagliato, la sostituzione deve essere vista come una risoluzione delle problematiche instauratisi, ma se non è associata a un mantenimento di un buon trofismo muscolare può comportare altre problematiche, siano esse relative alla protesi stessa o a posture sbagliate favorite da atteggiamenti compensatori. La fisioterapia prevede anche sedute di idrochinesioterapia, esercizi in acqua che aiutano a migliorare la mobilità. Gli interventi di protesi hanno evidenziato netti miglioramenti a livello di benessere psico fisico. Quello che manca però è lo studio di protocolli che proseguono questo miglioramento, limitando comparse di compensi dovute da un disequilibrio muscolare che persiste, anche se più in leggerezza.
33
6.1 Protocollo AFA in soggetti protesizzati ad anca in fase
cronica
Prima di elaborare un protocollo motorio è obbligatorio ovviamente sapere quali sono le componenti da migliorare. In questo elaborato sono state prese in considerazione le condizioni che determinano stabilità articolare. È stato illustrato il ruolo fondamentale della capsula, della cartilagine e soprattutto dei legamenti e dei muscoli nella gestione dell’articolazione dell’anca. Gli abduttori giocano un ruolo di primaria importanza. Essendo un’articolazione mobile su tre assi e tre gradi di libertà, è stato osservato come ad ogni posizione dinamica che si assume, il ruolo dei muscoli cambia. Un muscolo può svolgere funzione di flessione dell’anca o di estensione, di abduzione o di adduzione, di rotatore interno o esterno ma nello stesso tempo, nel corso di attività dinamica può svolgere questi tre ruoli contemporaneamente. I protocolli di esercizi devono mirare a stabilizzare l’articolazione, ma anche a dare al soggetto una dimensione funzionale del movimento, per svolgere senza problemi attività quotidiane e ritornare a praticare sport con il piacere di farlo. Il numero di revisioni-riprotesizzazioni è aumentato negli ultimi anni. Questo fattore può essere spiegato dall’aumento degli impianti in una fascia di età più bassa. Bisogna incentivare il ritorno a svolgere attività sportive che venivano svolte prima della sostituzione. L’attività fisica mostra benefici innumerevoli per contrastare problematiche che possono instaurarsi all’interno del corpo, siano esse cardiocircolatorie o muscolo scheletriche.
I protocolli AFA che vengono utilizzati per protesi d’anca, prevedono, oltre al rinforzo dei muscoli abduttori e degli estensori, un allenamento globale del corpo per ridare al soggetto la capacità di svolgere qualsiasi attività quotidiana. Un esempio di protocollo di lavoro prevede:
❖ esercizi aerobici: la cyclette, per esempio, un movimento ciclico e a basso impatto. L’allenamento aerobico serve a questi soggetti per diminuire di peso e non sovraccaricare troppo la protesi e l’arto controlaterale.
❖ lavoro a terra: abduzioni-bicicletta in decubito laterale. Dalla posizione di decubito supino sollevare il bacino (ponte) per aumentare la forza a livello del grande gluteo. Da decubito prono sollevare la gamba tesa con un peso dietro la caviglia. Un esercizio simile può essere svolto in piedi con l’elastico, con l’aiuto di un bastone. Sappiamo che il
34 movimento di estensione consiste nel portare l’arto inferiore posteriormente dal piano frontale.
❖ salite e discese da step reggendosi sulla spalliera: rinforzo forza arti inferiori per la salita delle scale che in questi pazienti mostra deficit anche dopo intervento.
❖ potenziamento abduttori con macchine isotoniche: non si usa per motivi che sono stati già espressi, l’adductor machine.
❖ potenziamento gastrocnemio e soleo: esercizi di sollevamento delle punte e esercizi con macchina isotonica (calf da seduto).
❖ co-contrazioni: la perdita di corretta sequenza motoria è un evento che si verifica in questi soggetti. Questo co-contrazioni consistono nel contrarre simultaneamente i muscoli anteriori e posteriori della coscia. Da seduto, angolo di 90° tra coscia e gamba, spingere sul tallone come se si dovesse schiacciare qualcosa.
❖ studiare, osservare se ci sono problemi nella deambulazione.
❖ potenziamento dei muscoli addominali: ovviamente in una posizione di sicurezza con blocco osseo. Consistono in un sollevamento delle gambe flesse, nelle retrazioni addominali, ecc.
❖ potenziamento arti superiori.
❖ esercizi di mobilizzazione per allungare muscoli che tendono a irrigidirsi. ❖ allungamento o sequenza yoga adattata.
❖ GRI: ginnastica respiratoria intrinseca [8].
Ragionare nell’insieme è fondamentale per ristabilire sensazioni di benessere in un individuo. Questo protocollo prevede esercizi di rinforzo dei muscoli dell’anca e il rinforzo di quasi tutti i muscoli del corpo. Si vuole ridare funzionalità al movimento con esercizi di respirazione, con tecniche di yoga che migliorano l’equilibrio e con co-contrazioni che hanno l’obiettivo di ridare una corretta sequenza di attivazione muscolare. Prima di cominciare a svolgere gli esercizi è opportuna una fase di allungamento muscolare per ridare al muscolo il suo allineamento e evitare retrazioni muscolo-fasciali. Un disequilibrio muscolare comporta adattamenti di altri muscoli che possono portare all’instaurarsi di rigidità e deformità. Un muscolo può essere tonico o può essere fasico, cioè formato per lo più rispettivamente da fibre ossidative e aerobiche o fibre glicolitiche e anaerobiche. La muscolatura tonica è soggetta a retrarsi, la muscolatura fasica a indebolirsi. Nel caso nell’anca, pensando a questo andamento avremo muscoli adduttori, estensori (hamstrings) retto femorale, ileopsoas, piriforme e tensore della fascia lata più soggetti a retrazioni.
35 Mentre i muscoli stabilizzatori piccolo e medio gluteo, il muscolo grande gluteo e i due vasti laterale e mediale sono soggetti a indebolimento. Viene da sé pensare su quali muscoli è importante fare opportuno allungamento.
Questa tesi vuole evidenziare il ruolo dell’allenamento neuromuscolare per migliorare l’andatura e l’equilibrio posturale, le quali dimostrano ancora carenze in soggetti con protesi d’anca, anche dopo due anni dall’intervento. Quando si deve ristabilire una mobilità normale dopo intervento di protesi, bisogna considerare che il soggetto può avere forti rigidità muscolari e schemi di movimento errati, dovuti alla condizione precedente. Le patologie degenerative illustrate nel capitolo 3 non comportano solo una perdita di integrità, ma anche squilibri muscolari, asimmetrie, alterazioni delle vie che governano il movimento e che controllano movimenti involontari come la postura e il cammino. Nonostante la sostituzione dell’anca sia un intervento molto efficace nel migliorare la sensazione di dolore e la mobilità, e nonostante la fisioterapia subito dopo l’intervento, migliori molto la funzionalità dell’articolazione, è stato riscontrato, secondo alcuni studi, come vi siano ancora delle limitazioni sull’andatura, sulla velocità del cammino e sull’equilibrio statico e dinamico anche dopo 2-3 anni. Nel primo periodo dopo l’intervento deficit propriocettivi possono instaurarsi sia per l’adattamento del soggetto ad una condizione nuova, sia per la condizione precedente all’intervento che ha determinato alterazioni della postura e del cammino. Se questi deficit persistono è bene associare a esercizi di rinforzo qualcosa che stimoli tutte le componenti che controllano l’equilibrio del corpo. Vi è un netto miglioramento rispetto alla funzionalità preoperatoria ma ci sono ancora differenze significative rispetto alla normalità. Per avere informazioni sulla funzionalità del soggetto si effettuano test che danno informazioni sulla statica e sulla dinamica[10] [11] [12].
6.2 Stabilità dell’anca in condizione statica e dinamica
Prima di introdurre studi che evidenziano limitazioni persistenti, è bene avere la massima chiarezza sul ruolo dei muscoli nella stabilizzazione dell’anca in posizione eretta e nella deambulazione.
In appoggio bilaterale l’equilibrio del bacino sul piano trasversale è garantito da un’azione bilaterale dei muscoli abduttori e adduttori [2] (Figura 13). Ogni muscolo nei movimenti che vengono compiuti a livello dell’articolazione può avere un ruolo oppure ne può avere un altro. Quando si sente parlare di muscolo agonista e antagonista si vuole indicare:
36 - nel primo caso un muscolo che svolge un’azione di sua competenza.
- nel secondo caso un muscolo che si oppone al movimento dell’agonista garantendo stabilità.
Figura 13:equilibrio statico del bacino
Queste funzioni se sono in equilibrio mantengono il bacino in posizione simmetrica garantendo equilibrio statico. Quando l’azione degli adduttori predomina, il bacino si inclina verso il lato dove c’è maggiore forza, aumentando il rischio di caduta (Figura 14).
37
Figura 14:azione degli adduttori predominante
Nell’appoggio unilaterale l’azione dei muscoli abduttori mantiene da sola l’equilibrio trasversale del bacino. Sotto il peso del corpo che viene applicato sul centro di gravità, il bacino compie movimenti pendolari attorno all’anca portante. Per mantenere orizzontale la linea passante per il centro delle anche, è necessario che i muscoli abduttori (medio piccolo gluteo e tensore della fascia lata) abbiano una forza sufficiente per mantenere in equilibrio il peso del corpo (Figura 15).
38 Quando l’azione dei muscoli sopra citati diviene insufficiente a mantenere l’equilibrio del bacino, avviene un piegamento sull’arto opposto all’insufficienza muscolare. Più diminuisce la forza degli abduttori più vi è un aumento dell’inclinazione. Il tensore della fascia lata garantisce stabilità al bacino e al ginocchio. Con il passare del tempo una sua insufficienza e retrazione determinano un’apertura dell’interlinea articolare comportando un atteggiamento in valgo del ginocchio [2].
L’azione degli abduttori è fondamentale durante la deambulazione. Durante la marcia si ha un’alternanza di fasi di appoggio e di doppio appoggio podalico (Figura 16). La fase di appoggio è la più studiata per capire se vi sono delle variazioni sia sulla struttura podalica sia sulla funzione del piccolo e medio gluteo e del tensore della fascia lata [15].
Figura 16:analisi del cammino
Il cammino è uno schema motorio di base, ovvero una forma di locomozione che ogni essere umano raggiunge per sviluppo ontogenetico. Nella fase di appoggio-oscillazione avviene una gestione del peso del soggetto sia a favore che a sfavore della gravità terrestre. La stabilità in questa fase è garantita dai muscoli abduttori dell’anca e dai muscoli situati antero-posteriormente all’arto in appoggio. L’attivazione dei muscoli piccolo e medio gluteo e del tensore della fascia lata è coadiuvata dall’azione del quadrato dei lombi controlaterale ed è inibita dall’attivazione dei muscoli adduttori omolaterali. Se si verifica un disequilibrio dei muscoli agonisti e antagonisti spiegato in precedenza, si creano delle situazioni in cui c’è, o un’attivazione maggiore delle catene muscolari di chiusura (adduttori), o un’attivazione maggiore delle catene muscolari di apertura (abduttori).
39 Quando vi è l’appoggio singolo, la linea che unisce le due spine iliache superiori rimane orizzontale alla linea delle spalle. Se i muscoli abduttori non hanno una forza sufficiente il bacino si inclina dal lato opposto (Duchenne-Trendelenbourg) aumentando il rischio di caduta (Figura 17).
Figura 17: segno di Duchenne-Trendelenbourg
Il ruolo dei muscoli anteriori e posteriori della coscia è molto importante per una gestione del peso del corpo sia a favore che contro gravità. Limitazioni nell’andatura in soggetti con protesi di anca possono essere causate anche da una flessione o estensione marcata. Nella flessione marcata durante la deambulazione vi può essere un possibile cedimento della muscolatura anteriore della coscia o rigidità della muscolatura posteriore della stessa. Marcata flessione determina minore estensione nella fase terminale del cammino. L’attivazione in sequenza dei muscoli durante la deambulazione è visibile in Figura 18.