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TOMMASO D'AQUINO - il bue muto (provvisorio)

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(1)

TOMMASO D’AQUINO

(2)

La vita

Tommaso nasce nel 1225 a Roccasecca (odierna provincia di

Frosinone) dai conti D’Aquino del Regno di Napoli.

Tra il 1225 e il 1244 porta a termine la sua educazione prima

nel monastero di Montecassino poi nello studio domenicano

di Napoli. Nonostante la ostinata opposizione dei suoi parenti,

entra nell’ordine nel 1244.

Da Napoli si trasferisce a Colonia presso colui che diverrà il suo

maestro, Alberto Magno, il quale lo invia al convento

domenicano di Parigi cioè nella stessa città dove vi era la più

famosa università europea con lo scopo di completarvi

(3)

La vita (2)

Nel 1256 ottiene la licenza di insegnamento, ma si ferma nella

città francese solo due anni, essendo chiamato in qualità di

predicatore presso la corte pontificia di Alessandro IV

(1254-1261) e del suo successore Urbano IV (1261-64) su incarico del

quale compone il famoso inno Pange lingua.

Nel 1269 è ancora all’università di Parigi per insegnarvi

teologia.

Nel 1272 è a Napoli per dirigere lo studio domenicano. Muore

nel 1274 presso l’abbazia di Fossanova, tappa che aveva fatto

durante il viaggio intrapreso per recarsi al concilio di Lione al

seguito di papa Gregorio X (1271-76).

(4)

Le opere

Il primo importante scritto tommasiano è il libro in cui commenta le sentenze di Pier Lombardo, tappa fondamentale del curriculum di ogni teologo medievale (1254).

L’esordio filosofico è invece segnato dall’opuscolo De ente et essentia del 1256 in cui offre la sua visione della realtà, mutuandola dalla filosofia aristotelica con importanti aggiunte, approfondimenti e precisazioni date dallo sforzo di armonizzare il pensiero del Filosofo con il cristianesimo.

Le sue due maggiori opere sono tuttavia la Somma contro i gentili (1257-1266) e la

Somma teologica (iniziata nel 1265 e mai compiuta). Si tratta di due grandi tentativi di

sistematizzare il sapere teologico e filosofico cristiano, partendo dai fondamenti religiosi, fino alle conseguenze metafisiche, fisiche e morali della religione di Gesù.

Tra i numerosi altri suoi testi ricordiamo le Questioni disputate sulla verità (1258), le

Questioni disputate sulla potenza di Dio (1266), L’unità dell’intelletto contro gli averroisti (1270), e molti commenti ai testi di Aristotele (Fisica, Metafisica, De coelo, De anima, Etica, Politica etc.).

(5)

Ragione e Rivelazione

• La filosofia di Tommaso è una cattedrale del

pensiero, cioè una ricerca che conduce ad una

visione sistematica e complessiva del mondo

in cui si indagano le sue ragioni e si

ricostruiscono le sue strutture.

• Nondimeno la disciplina filosofica per

Tommaso non è autosufficiente ma poggia sul

fondamento della Rivelazione.

(6)

Le possibilità della ragione

• Il fine ultimo dell’uomo è la ricerca di Dio, la sua

conoscenza e sequela di suo Figlio. Conoscere Dio

eccede però le possibilità della ragione: «O

profondità delle ricchezze, della sapienza e della

scienza di Dio, quanto sono incomprensibili i tuoi

giudizi e imperscrutabili le tue vie!»(Rm 11, 33).

La ragione ha un campo d’azione molto più ristretto: le

verità naturali, quelle accessibili in base alle limitate

strutture conoscitive umane.

(7)

La Rivelazione

• La Rivelazione non solo ci offre indicazioni

preziose sulle verità più grandi e generali circa

Dio e la sua creazione, permettendoci di

raggiungere per quanto ci è possibile il nostro

fine, ma ci dà anche indicazioni su verità di

ordine naturale, di per sé accessibili alla

ragione, affinché su esse noi non cadiamo in

errore.

(8)

Filosofia subordinata ma non inutile

• La filosofia quindi va subordinata ai contenuti

della Rivelazione (tutto ciò che è riportato dalle

Scritture sacre e dalla tradizione della Chiesa),

anche se essa non risulta, in quanto subordinata,

inutile.

• Infatti la ragione filosofica è indispensabile per

1)dimostrare i preamboli della fede

2)chiarire le verità della fede

(9)

Dimostrare i preambula fidei

• I preambula fidei sono quelle verità di ordine razionale e

naturale che preparano alla fede:

per credere ai racconti delle Scritture bisogna dare per

scontato

che Dio esiste

che è unico

e che possiede determinati attributi come l’onnipotenza,

l’onniscienza etc.

Tali verità possono essere raggiunte dalla ragione naturale che

così viene disposta ad accogliere le verità di fede.

(10)

Chiarire le verità di fede

• Chiarire le verità di fede significa comprendere il

senso profondo, la coerenza e la razionalità delle

cognizioni che la Scrittura ci offre su Dio, la sua legge

e la sua creazione.

• Per esempio la dottrina della Trinità descrive una

caratteristica del Dio cristiano che è desunta dalle

Scrittura e va accettata come verità rivelata,

nondimeno l’intelletto si può e si deve esercitare per

(11)

Combattere le opposizioni alla fede

• La ragione è un ottimo strumento per dimostrare

la falsità di coloro che si sono opposti alle verità

cristiane (per esempio, in epoca patristica, i

pagani e, in epoca contemporanea a Tommaso,

eretici e infedeli mussulmani).

• La ragione è infatti un piano dove anche chi

appartiene a mondi culturali e religiosi diversi si

può incontrare con i cristiani ed è obbligato a

(12)

L’autonomia della ragione e l’armonia

la rivelazione.

• La ragione certo è UTILE alla fede e le è SUBORDINATA.

Nondimeno possiede anche una sua autonomia, poiché

è uno strumento di conoscenza della realtà che è stato

donato da Dio agli uomini e i suoi principi derivano dalla

volontà divina che ve li ha infusi.

• Per esempio Dio stesso vuole che noi riconosciamo il

principio di non contraddizione come condizione della

verità delle nostre affermazioni.

• Se è così non può esservi contrasto tra le verità rivelate

dalle Scritture e quelle acquisite con il retto uso della

ragione, visto che la ragion d’essere di entrambe è Dio.

(13)

La metafisica tomista

Una volta stabilito l’atteggiamento generale di Tommaso nei

confronti della filosofia, possiamo vederne i contenuti

effettivi.

La filosofia di Tommaso è innanzitutto una metafisica, cioè

parte dalla ricerca sui primi fondamenti della realtà, dai

quali la realtà intera, L’ESSERE, dipende. Questo perché una

metafisica concepita correttamente permette di risalire

all’essere sommo che è Dio, dimostrandone la necessità e

confermandone l’esistenza (permette cioè di arrivare a

comprendere alcuni fondamentali preambula fidei) .

(14)

Ente ed essenza , il libro

• Ora, in ambito metafisico, i concetti più importanti da

chiarificare sono quelli di ente ed essenza. A tale

compito Tommaso si dedica in giovane età, con uno

studio fondamentale che porrà le basi della sua

filosofia dell’essere: il De ente et essentia, composto tra

il 1252 e il 1256 negli anni in cui il nostro filosofo

compiva i primi passi della sua carriera di insegnante

all’università di Parigi (era ancora baccelliere, cioè una

sorta di assistente e collaboratore del professore

ordinario).

(15)

L’ente e l’essenza, i concetti

• All’esordio del suo opuscolo geniale, rimasto giustamente famoso nella sua produzione, Tommaso afferma che «l’ente e l’essenza costituiscono i

concetti primi dell’intelletto» (Tommaso, De ente et essentia, tr. it. di P.

Orlando, Dehoniane, Roma, 1986, p. 20). Non si tratta di nozioni di cui noi conosciamo il significato prima che di tutto il resto, si tratta bensì di quelle nozioni che sono presupposte in ogni uso che noi facciamo del linguaggio quando vogliamo dire qualcosa di vero.

• Anche se non conosco il senso del termine ente o quello di essenza, quando parlo, parlo sempre o di enti o di essenze. Quindi per evitare errori nel mio cammino di conoscenza appare indispensabile chiarire nella mia mente questi concetti per usarli in modo corretto e per dare alla mia visione del mondo verità e affidabilità.

(16)

Ente

• Il termine ente «può avere due accezioni: una prima quando l’ente si divide in dieci categorie, una seconda quando significa la verità di una proposizione» (Tommaso, cit., p. 22).

Cerchiamo anzitutto di comprendere meglio la SECONDA definizione di ente. «Significare la verità di una proposizione» vuol dire avere una realtà LOGICA, cioè essere solo un contenuto del nostro pensiero. Se io dico «X è Y» innanzitutto X è il soggetto di una frase che esprime il fatto che in questo momento HO IN MENTE X, e lo stesso vale per Y e per la loro unione significata dalla copula «è». Quindi la realtà di X e Y è solo logica, mentale e non è detto che X e Y esistano anche nel mondo e siano uniti anche nel mondo reale che ho attorno a me.

(17)

La negazione e le realtà privative

• Nel caso dell’ente logico, la dimostrazione della sua funzione esclusivamente

mentale, vi è quando con una proposizione o con un nome positivo indichiamo

realtà privative che non hanno esistenza reale, ma che sono propriamente la negazione di un’ esistenza reale. Per esempio noi possiamo pronunciare la frase: «La cecità è nell’occhio». Ora, il termine «cecità» evidentemente non indica niente di reale, e ha realtà solo nella nostra mente, essendo usato per

negare qualcosa che ha realtà, cioè la vista: solo la vista è reale, non la cecità

ossia solo ciò che è POSITIVO è reale, non ciò che, pur espresso con un nome positivo, significa privazione e negazione. Quindi potendo parlare di cecità, posso utilizzare il linguaggio in modo significativo, benché abbia nella piena consapevolezza che a non tutte le parole e a non tutti i concetti fa da DIRETTO contraltare una realtà esterna, e che per alcuni di essi si può dire che vi è una realtà puramente logica.

(18)

Una realtà logica e una realtà

puramente logica

• Quindi tutti i concetti hanno una realtà logica – perché

sono concet, cioè concepiti con la mente –; che questa

realtà logica sia effettiva lo dimostrano quei concetti che

hanno una realtà PURAMENTE logica (una dimostrazione

dell’esistenza dell’oro la posso dare facendo vedere che

posso isolare l’oro da tutto il resto, mostrandolo nella sua

purezza, così come per far vedere la realtà logica dei

concetti posso isolare quei concetti che hanno realtà

(19)

La prima accezione di ente

• Se la seconda accezione ci parla dell’ente logico, la prima ci parla dell’ente reale: «Sed primo modo non potest dici aliquid quod sit

ens, nisi quod in re aliquid ponat»: «Invece nel primo modo può

dirsi ente solo ciò che è presente nella realtà (in re)».

• Questo ente reale si dice nelle 10 categorie aristoteliche che descrivono i generi supremi dell’essere, cioè tutto quanto si può dire che l’essere sia, in qualsiasi modo sia e ovunque sia. L’ente reale insomma è la realtà che ci sta attorno (attenzione: non solo quella sensibile, ma anche quella sovrasensibile – gli angeli e Dio sono realissimi per un cristiano del medioevo, molto più reali dei fiumi e degli alberi) e comunque FUORI DALLA NOSTRA MENTE.

(20)

L’ente reale

• L’ente reale può a sua volta distinguersi in essenza, da un lato, e atto d’essere o esistenza, dall’altro.

• L’essenza o QUIDDITAS (il che cos’è – quid est - di una cosa) è l’ente così come viene descritto dalla sua definizione (per esempio l’essenza dell’uomo è l’essere animale razionale, sinolo di materia, animalità, e forma, razionalità). Quando io definisco un qualsiasi ente la definizione mi restituisce la sua essenza. Questa essenza mi dice l’essere profondo dell’ente, che, nel caso delle sostanze composte, cioè delle realtà sensibili, è dato dall’unione della sua materia e della sua forma, e nel caso delle sostanze semplici (gli angeli) è dato dalla loro forma.

(21)

La realtà della definizione

• La definizione tuttavia ha una realtà peculiare, affine a

quella logica. Infatti quando dico «l’uomo è animale

razionale» parlo del concetto di uomo e non ancora

dell’uomo che ha la perfezione di esistere. Allo stesso

modo potrei definire il sarchiapone o gli studenti di

Hogwards con la loro forma e la loro materia, pur

sapendo che essi non esistono nella realtà. Dire che non

esistono significa dire che essi hanno un essere

esclusivamente potenziale. Sono cioè in potenza:

(22)

Essenze che non esistono

• Il fatto che potrebbero esistere mi è confermato dal fatto

che la loro materia e la loro forma effettivamente fanno

riferimento ad una certa realtà: per esempio il sarchiapone

è un animale feroce, o gli studenti di Hogwarts sono ragazzi

dalle qualità eccezionali: animalità, ferocia, adolescenza e

possesso di qualità eccezionali sono tutti elementi positivi

per i quali vi è un riferimento alla realtà. Solo che il

sarchiapone è un animale feroce che-non-esiste e gli

studenti di Hogwarts sono ragazzi con qualità eccezionali,

che-non-esistono.

(23)

Ente logico ed ente in potenza

• Che differenza c’è allora tra l’ente logico e l’ente in potenza?

Per

Tommaso

l’ente

logico

è

caratterizzato

ESCLUSIVAMENTE dal suo essere pensabile. Tutto ciò che è

pensabile e rappresentabile con la mente, quindi anche

realtà privative e negative, è ente logico. L’ente in potenza è

un ente pensato che però potrebbe esistere poiché nella

sua definizione sono presenti termini che hanno un

corrispettivo nella realtà (termini cioè che significano cose

positive). Alla definizione, cioè alla loro ESSENZA manca

(24)

L’ente in atto, o actus essendi

• Di una certa sostanza, così come è stata definita, si può

constatare anche l’esistenza. Questa sostanza, per esempio un

albero o un cane – che possiamo rispettivamente definire

«cosa che possiede la vita» e «essere vivente capace di sentire

e volere» - , notiamo che non solo è definibile, ma è qui

presente davanti a noi in carne ed ossa. Bene, la possibilità

che esistesse si è dunque tramutata in realtà. La potenza di

essere che era implicita nella definizione della sua essenza è

diventata atto di essere, cioè essere effettivo, cioè esistenza

concreta. Quindi l’albero e il cane esistenti sono la loro

definizione + l’esistenza effettiva.

(25)

Da dove viene l’esistenza effettiva?

• Quando un essere esiste significa che la sua esistenza potenziale si è attualizzata ed è diventata esistenza effettiva. Chi ha permesso questo passaggio? Evidentemente un essere che in ultimo non deve a sua volta avere ricevuto l’essere da altro.

Cioè a dare l’essere a tutti gli enti deve essere stato un essere

• che lo possiede senza averlo ricevuto – altrimenti non l’avrebbe propriamente dato, ma solo trasmesso e rimarrebbe il problema di capire da dove originariamente venga l’essere –

• e che possedendolo in maniera EMINENTE, quindi per sua caratteristica principale, è in grado di comunicarlo anche ad altri enti che esistono solo in potenza.

(26)

Avere l’essere ed essere l’essere

• Ma possedere l’essere in maniera eminente significa che la propria essenza è quella di essere, che l’essere non si aggiunge alla propria essenza come in tutti gli enti, ma che il fatto di essere è intrinseco all’essenza. Per quale ente accade ciò? Per Dio. Dio è l’ente che non ha l’essere ma è l’essere ed, essendo l’essere, può far essere tutti gli altri enti che sono solo in potenza. Quindi in Dio essenza ed esistenza coincidono, negli enti l’esistenza si aggiunge all’essenza come un dono di Dio (la creazione). Di conseguenza Dio è necessario che esista, essendo l’essere, mentre nelle altre creature l’essere è contingente, è stato donato da Dio e da loro ricevuto, ma non era necessario che fosse così.

(27)

Dono, partecipazione e analogicità

• La creazione, cioè il conferimento dell’essere agli enti da parte di Dio è un rendere partecipi gli enti dell’essere che è prerogativa principale di Dio. Dio rende le cose esistenti, facendole partecipe del proprio essere.

• Quindi quando io dico «essere» riferito a Dio e agli uomini o alle cose non lo dico proprio nel medesimo significato, come quando – esempio mio – dico «bagnato» di qualcosa che è entrato in contatto con l’acqua o dell’acqua stessa.

• Tuttavia non lo dico con significati assolutamente diversi. Dunque il termine «essere» in Dio e nelle creature non ha un solo significato (cioè un significato univoco) né molteplici e disparati significati (cioè significati equivoci), bensì un significato ANALOGO.

(28)

L’analogicità dell’essere

• Analogo significa simile ma di proporzione diversa. Io devo

avere in mente un essere, quello di Dio, che è la pienezza

dell’essere, perché è la coincidenza di essere ed esistenza, e

poi, con questa idea, posso capire come anche le altre

creature sono, ma non come Dio, che è necessario che sia e il

cui essere non può venir meno, bensì in modo «minore»,

perché il loro essere DIPENDE da quello di Dio, è contingente

e può venir meno. Questa è l’analogia: attribuire a due o più

enti lo stesso predicato il cui significato pieno sta solo

nell’attribuzione che si fa ad uno di loro (Dio) , mentre negli

altri si ha un significato solo derivato dal primo e più debole.

(29)

I caratteri fondamentali dell’essere:

trascendentali

• Comunque sia specificato l’essere nelle dieci categorie,

ogni ente è uno, vero buono. Infatti io posso dire che

l’essere è sostanza, quantità, qualità, etc. Cioè posso

descrivere l’ essere in tutti i modi possibili, ma qualsiasi

cosa dica dell’essere, al di là di tutte le sue

determinazione (cioè trascendendole tutte), ogni

essere sarà sempre, proprio in quanto essere, uno,

vero, buono. Questi sono quelli che Tommaso chiama

trascendentali, proprio perché trascendono le dieci

categorie, che sono tutto ciò che si può dire dell’essere.

(30)

Uno, vero, buono

• UNO: non appena qualcosa è, noi scopriamo che deve avere una sua unità, una certa solidarietà, un certo collegamento tra le sue parti che ci permette di distinguerlo da altri enti, altrimenti, non sapendo che cos’è, non sapremmo nemmeno che è.

• VERO: in rapporto all’intelletto divino che lo ha creato, dandogli l’essere, ogni essere è vero, cioè corrisponde a come Dio lo ha pensato.

• BUONO: inoltre se una cosa è, è perché Dio ha voluto che fosse, ma Dio non vuole il male, dunque ogni cosa che è, per il fatto di essere, è bene.

• Uno, vero, buono poi è in modo eminente Dio, infatti se i trascendentali sono propri di ogni essere saranno proprio di quell’essere che è in modo eminente. Se le cose sono uno, vero e bene in rapporto a Dio, tanto più lo sarà Dio stesso che è fonte di unità, verità e bontà di tutto il resto.

(31)

Il protagonista viene fuori

• In tutte queste riflessioni vi è un costante riferimento a Dio,

anche se il problema messo a fuoco è più ontologico e

metafisico che non teologico. Ciò che finora è stato tralasciato

è una questione assai importante per la teologia e la filosofia:

l’esistenza di Dio. Sembra infatti che essa venga data per

scontata, ma in realtà essa non è immediatamente e

universalmente evidente (altrimenti sarebbe riconosciuta da

tutti), perché noi non abbiamo un approccio diretto alla sua

essenza, almeno in questa vita. Per tale motivo l’esistenza di

Dio va dimostrata come un preambulum fidei accessibile alla

ragione

e

tuttavia

bisognoso

di

un

adeguato

(32)

Dove viene trattato il tema

• Questo tema fondamentale sarà oggetto di trattazione, assieme a moltissimi altri, nelle due opere maggiori di Tommaso: la Summa

contra gentiles (scritta tra il 1259 e il 1264) e la Summa theologiae (scritta tra il 1265 e il 1274 ) – Summa in generale significa

compendio, composizione riassuntiva di tutto il sapere circa un dato argomento; in tal caso si tratta dei temi fondamentali di teologia (summa theologiae, somma di teologia) e degli argomenti, sempre di carattere teologico e religioso, che potevano essere opposti alla cultura pagana in difesa della ragionevolezza della scelta cristiana (summa contra gentiles, somma contro i pagani). Si tratta di due opere di vastissimo respiro di notevole ampiezza e di grande impegno, filosofico e culturale.

(33)

Argomenti a posteriori e a priori

• Nella Summa theologiae in particolare vengono esposte le

prove che Tommaso ritiene fondamentali per dimostrare

l’esistenza di Dio.

• A causa del fatto che noi non abbiamo accesso diretto

all’essenza divina, Tommaso esclude una dimostrazione sul

modello anselmiano (che egli chiama propter quid) preferendo

a questa l’elaborazione di argomenti «quia» cioè che partono

dagli effetti dell’esistenza di Dio per risalire a Dio come al loro

fondamento. Si tratta in sostanza di argomenti a posteriori,

secondo i quali dall’esperienza del mondo noi risaliamo a Dio e

non, come in Anselmo, di argomenti a priori, in cui l’esistenza

(34)

La prima via (1): ex motu

Che Dio esista si può provare per cinque vie.

La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è

mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine

del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. Per es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e cosí lo muove e lo altera (A). . Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: cosí ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza.

È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa (B).

(35)

La prima via (2)

• È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso

da un altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso

soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e

questo da un terzo e cosí via (C). Ora, non si può in tal

modo procedere all’infinito perché altrimenti non vi

sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro

motore, perché i motori intermedi non muovono se non in

quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non

muove se non in quanto è mosso dalla mano (D). Dunque è

necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso

da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.

(36)

Alcune spiegazioni della prima

prova (1)

(A) Qui Tommaso riprende la dottrina del movimento di Aristotele: il

movimento è passaggio dalla potenza all’atto, cioè da una capacità di essere (in qualsiasi modo) alla sua realizzazione. Siccome vi è un primato dell’atto sulla potenza,

nel senso che senza atto, senza un essere, non vi sarebbe nemmeno potenza, cioè capacità di essere (infatti una capacità di essere implica un riferimento all’essere),

Allora un movimento è sempre dovuto ad un essere in atto che muove, che provoca il mutamento di un altro essere in potenza, il quale è stimolato a raggiungere un dato atto, ad essere e fare, ciò che prima poteva essere e fare.

(B) Se muovesse se stessa dovrebbe essere in atto in quanto ciò che muove è

(37)

Alcune spiegazioni della prima

prova (2)

(C) Se tutto ciò che si muove è mosso da altro vi è una catena di

esseri che si muovono: il movimento che vedo è causato da

qualcos’altro che si muove, il quale, muovendosi, è stato mosso

da qualcos’altro e così via.

(D) Noi cogliamo un movimento (l’ultimo), se all’infinito

retrocedessimo nei motori, non troveremmo mai l’origine del

movimento dell’ultimo oggetto che osserviamo. Ma se questo

movimento non fosse iniziato, grazie ad un primo motore che ha

dato la prima «spinta», tale movimento non vi sarebbe, poiché

verrebbero meno tutti i movimenti degli altri motori. Dunque

deve esistere un primo motore, che non è mosso da altro, ed è

(38)

La seconda via: ex causa

La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile (A). Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa e tolto anche l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia (B). Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e cosí non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.

(39)

Alcune spiegazioni alla seconda

prova

(A) Infatti la causa viene sempre prima dell’effetto,

e una cosa non può venir prima di se stessa.

(B) Vale qui, nell’ordine delle cause efficienti, ciò

che è detto a proposito delle cause motrici: se,

retrocedendo all’infinito nelle cause, eliminassimo

la prima spinta, dovremmo eliminare anche le

cause successive, fino ad arrivare a eliminare la

causa dell’effetto che noi constatiamo, il quale

quindi non vi sarebbe.

(40)

La terza via ex contingentia

La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere (A). Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva (B). Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e cosí anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso (C). Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no (D). D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo

(41)

Alcune spiegazioni della terza via

(A) La definizione di contingente è la seguente: «Ciò che può indifferentemente essere

o non essere».

(B) Se torniamo indietro nel tempo, alla lunga, troviamo un tempo in cui ciò che può non essere effettivamente non c’era. Infatti se così non fosse, ciò che può non essere avrebbe un esistenza infinita (come infinita è la semiretta che conduce da qui all’indietro nel tempo) il che è impossibile per un essere contingente.

(C) Se tutti gli esseri fossero contingenti, tornando indietro nel tempo, ci troveremmo ad un punto in cui niente c’era. Ma se non c’era niente, come fanno ora ad esservi degli esseri, visto che dal nulla non viene nulla?

(D) Ci si domanda ora: perché un essere necessario, che deve esistere, è tale. Chi ha prodotto questa sua qualità per il quale esso non è contingente, ma deve esservi? Non potendo retrocedere all’infinito nelle cause, bisogna trovare un essere «per sé» necessario e questo è Dio. Trovo ridondante questa parte della dimostrazione: una volta detto che un essere necessario esiste, siccome necessario significa «che deve esserci» è superfluo, visto che non vi sono alternative, spiegare il perché deve

(42)

La quarta via: ex gradu

La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; cosí piú caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente (A). Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele.

Dunque vi è qualche cosa che per tut gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.

(43)

Alcune spiegazioni alla quarta

prova

• Questa prova riproduce la prove anselmiane sul significato del termine «bontà» e «grandezza» elaborate nel Monologion: noi possiamo conoscere i diversi gradi di un essere perché abbiamo una pietra di paragone assoluta, e questa è Dio.

• (A) Se c’è una massima verità vi deve anche essere un massimo ente. Può infatti esistere qualcosa che sia «vero» e che non abbia l’ «essere»? E i gradi di verità non corrispondono forse ai gradi dell’essere? Infatti quando noi diciamo «X è più o meno vero», gli stiamo attribuendo un maggiore e minore livello nei gradi dell’essere. Questo computer è vero? Sì perché è qui davanti a me e funziona. Se non funzionasse avrebbe una grado minore di verità: sarebbe un falso computer, cioè il suo essere sarebbe minore e solo

(44)

La quinta via: ex gubernatore

La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo

che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi

fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse

operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per

conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma

per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è

privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto

da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia

dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal

quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e

quest’essere chiamiamo Dio.

(45)

Alcune spiegazioni sulla quinta

prova

• Tommaso dice che solo gli esseri intelligenti

operano in vista di un fine. D’altro canto nella

natura si nota che spesso gli enti operano

come se avessero il fine di raggiungere una

data perfezione. Non essendo gli enti che

operano in tal modo intelligenti, sono

evidentemente mossi da un intelligenza che

ordina la lor esistenza .

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