• Non ci sono risultati.

a decisione di non decidere della Consulta nel caso Cappato: vizio o virtù?

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "a decisione di non decidere della Consulta nel caso Cappato: vizio o virtù?"

Copied!
3
0
0

Testo completo

(1)

Stampa | Nascondi immagini | Mostra immagini

micromega - micromega-online

La decisione di non decidere della Consulta nel caso Cappato:

vizio o virtù?

di Elisabetta Grande

Di fronte alla questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 580 del codice penale, che prevede la punibilità dell’istigazione e aiuto al suicidio anche per chi si sia limitato ad assecondare la volontà del suicida senza rafforzarne in nessun modo il proposito, la Corte Costituzionale ha deciso di posticipare la sua pronuncia di un anno per dare tempo al Parlamento di modificare la norma. La Corte decide dunque di non decidere una questione di legittimità costituzionale, cedendo momentaneamente il passo al legislatore: una così detta “sentenza monito”.

Che significato riveste una tale pronuncia in termini istituzionali? Si tratta di una rinuncia, sia pur temporanea, della Corte a svolgere un compito tecnico-giuridico affidatole dalla Costituzione o invece di una presa d’atto del ruolo necessariamente politico del giudice delle leggi, che evita per quanto gli è possibile un’invasione di campo nella sfera politico-legislativa?

Secondo il presidente emerito della Corte stessa, Valerio Onida, nel decidere di non decidere i giudici delle leggi sono venuti meno a un loro compito istituzionale, ma certamente una lettura della “non-decisione” alla luce dell’esperienza statunitense può farci capire quanta autoconsapevolezza da parte della Corte del proprio ruolo, anche politico, si nasconda dietro quella presa di posizione.

Da quando, con la decisione Marbury v. Madison del 1803, nasce il controllo di costituzionalità delle leggi, poi esportato nel resto del mondo, negli Stati Uniti si è sempre posto con forza il problema della legittimazione del giudice delle leggi. A quale titolo nove giudici, non direttamente eletti dal popolo possono cancellare una norma che la maggioranza dei cittadini ha stabilito attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento? Solo un giudice Montesquieuianamente mera bocca della legge, che cioè altro non fa che dichiarare la volontà del legislatore costituzionale, può garantire la separazione del circuito politico da quello tecnico-giuridico, ossia il rispetto del principio che sta a fondamento di tutto il diritto occidentale per il quale siamo governati non dall’uomo ma dalla legge.

Che tuttavia nell’interpretare la norma posta dal legislatore, anche costituzionale, il giudice contribuisca a definire la norma stessa, non limitandosi a scoprire la volontà del primo, è un dato ormai ampiamente accettato anche in Italia. Non per nulla si riconosce oggi l’esistenza di un principio di irretroattività alle interpretazioni giurisprudenziali di norme legislative, che pur non mutano nella loro lettera, a tutela di chi sulla precedente interpretazione poteva aver fatto conto. Ciò ovviamente soprattutto se si tratta di letture sfavorevoli di norme penali, che altrimenti si applicherebbero a chi aveva posto in essere il fatto nella vigenza di un’interpretazione secondo cui quel fatto era lecito. Il diritto

(2)

muta, insomma, non soltanto perché muta la lettera della norma posta dal legislatore, ma anche perché cambia la sua interpretazione da parte di chi la applica. La norma è

complessa, plurale, e alla sua definizione contribuisce anche il giudice nel darle applicazione.

Siccome il giudice delle leggi dà applicazione alle norme costituzionali, quando invalida una legge votata dal popolo perché la giudica contraria alla Costituzione, il problema che si pone è quello di capire quali siano le fonti della sua valutazione. Poiché cioè egli non è mera bocca della carta fondamentale, ma concorre con la sua interpretazione alla

costruzione della stessa, la questione di fondo consiste nel capire se nel farlo agisca come puro tecnico, facendo uso soltanto di quei criteri e principi giuridici di cui grazie al suo patrimonio sapienziale può disporre, oppure se operi anche come politico, interpretando la Costituzione alla luce delle proprie preferenze politico-ideologiche. Nel primo caso l’operazione interpretativa rimarrebbe tutta all’interno del circuito giuridico, nel secondo invece il giudice delle leggi invaderebbe il campo del parlamento, cui sono demandate le macro scelte pubbliche. Si porrebbe allora quella che è stata chiamata l’

“anti-majoritarian difficulty”, ossia l’imbarazzante situazione della sostituzione della

valutazione politica proveniente da un manipolo di persone, tanto più se non elette, a quella della maggioranza dei cittadini, i quali in base ai principi democratici avevano votato la previsione giudicata incostituzionale dal giudice delle leggi. Who Waches the

Wachmen?(Chi controlla i controllori?) si era efficacemente domandato Mauro Cappelletti

nel 1983.

Il confronto sul ruolo tutto tecnico o anche politico del giudice, pure delle leggi, è da tempo aperto negli Stati Uniti (e nel mondo di common law più in generale) e le posizioni possono essere assai distanti fra di loro. Così se Ronald Dworkin, nel suo Law’s Empire, ritiene che il giudice faccia sempre e solo riferimento a un sistema giuridico, sia pur complesso, all’interno del quale egli si muove per dare voce a un senso di giustizia collettivo che muta nel tempo, John Griffith nel suo The Politics of the Judiciary al contrario sostiene che le scelte del giudice non possano che essere, seppur

inconsapevolmente, sempre politiche. Difficile non prendere in qualche considerazione quest’ultimo punto di vista, soprattutto laddove il giudice, come negli Stati Uniti, o come in Italia quando è costituzionale, è reclutato solo o anche a livello politico. Gli intrecci insomma fra i due piani appaiono particolarmente possibili proprio nel caso del controllo costituzionale delle leggi, ossia laddove le conseguenze dell’eventuale invasione di campo sono più serie, poiché in ipotesi di declaratoria di incostituzionalità di una legge esse si traducono in uno scontro aperto e definitivo a vantaggio del giudice sul parlamento, dell’uomo sulla legge.

È dunque proprio la preoccupazione di scansare le accuse di eventuali ingerenze nella sfera politica a spingere i giudici costituzionali a non esprimere mai pubblicamente le proprie preferenze o opinioni: la loro immagine di puri tecnici -quasi macchine- potrà così prevalere e cancellare l’altra -più umana- di esseri inevitabilmente anche politici.

Il desiderio di scongiurare la messa in discussione di un caposaldo del mondo giuridico occidentale come il principio di legalità (la rule of law), conduce inoltre i giudici delle leggi a mettere in atto alcune strategie volte a stemperare o evitare il più possibile il conflitto con il legislatore e l’eventuale invasione di campo nella sfera politica. Vediamo brevissimamente quel che accade negli Stati Uniti.

Prendiamo il caso Brown v. Board of Education, attraverso il quale nel 1954 la Corte Suprema americana desegrega i neri con una decisione che dichiara contrarie al

principio di uguaglianza, e quindi incostituzionali, le leggi votate e fortemente volute dai cittadini americani degli Stati del Sud. Rovesciando una sua precedente pronuncia,

Plessy v. Ferguson, con la quale nel 1896 aveva dichiarato costituzionali le leggi che

imponevano la segregazione razziale, la Corte legge ora la Equal Protection Clause in maniera assai diversa da prima e interviene pesantemente sulla volontà dei legislatori del sud dichiarandola violata dalle così dette Jim Crow Laws (le leggi di segregazione). È noto come la pronuncia porti a una situazione esplosiva, ai limiti di una nuova guerra civile. Se però le cose vanno come sono andate e la Corte può permettersi uno scontro tanto pesante con i legislatori del sud è perché il contesto politico glielo permette. La guerra fredda e l’alternativa socialista costituiscono una spinta notevole nella direzione non soltanto della solidarietà sociale legislativa, quale quella inaugurata da Roosevelt, ma

(3)

anche verso la desegregazione razziale, che quasi ogni giorno la Pravda indica come esempio di ingiustizia sociale negli States. Per poter mantenere autorevolezza in un frangente in cui le accuse di aver operato come organo più politico che tecnico sembrano forti, la Corte giudica all’unanimità. Nessun giudice, pur potendolo fare, dissente, a dimostrazione che solo una è l’interpretazione tecnicamente possibile e corretta e non ci sono scelte politiche da effettuare. Dopo di allora, inoltre, la Corte mette in atto un tale il

self-restraint sul punto, da attendere fino al 1967 prima di giudicare incostituzionali le

leggi che proibivano i matrimoni interrazziali.

Consapevole del suo tallone d’Achille, di organo cioè percepibile come non solo tecnico, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha spesso ricercato un punto di equilibrio, ai limiti dell’equilibrismo, con il potere legislativo, giungendo ad autolimitarsi quando, in materie particolarmente delicate, lo sconfinamento nella sfera politico-legislativa sembrava dare palesemente luogo a quella anti-majoritarian difficulty cui si è accennato.

L’esempio più eclatante è forse quello della questione di legittimità costituzionale della pena di morte, che la Corte affronta di petto nel 1972 nel caso Furman v. Georgia dichiarando incostituzionali, perché contrarie al divieto di pene crudeli e inusuali

dell’ottavo emendamento, le leggi di tutti gli Stati che la prevedevano. Solo quattro anni dopo, però, arriva sul suo tavolo una nuova previsione legislativa della Georgia che aveva reintrodotto la pena di morte. Di fronte alla constatazione che sui 40 Stati che prima del 1972 contemplavano quella sanzione penale, ben 37 l’avevano già reintrodotta, la Corte si arrende alle valutazioni politiche dei legislatori statali. Nel 1976, in Gregg v. Georgia, la pena di morte viene così dichiarata costituzionalmente legittima, purché siano

rispettate alcune condizioni. D’altronde i limiti successivamente introdotti dalla Corte, quali il divieto di irrogazione nei confronti di malati di mente, di ritardati di mentali o di minori, o ancora la proibizione di prevederla per reati che non siano l’omicidio, tengono sempre conto del parere dei legislatori statali e solo quando la maggioranza di questi prevede gli stessi divieti essi vengono recepiti dalla Corte e imposti tramite la lettura della carta costituzionale federale su tutto il territorio nazionale. Nella sempre latente tensione fra diritto e politica la Corte trova così un equilibrio con il legislatore,

ricomponendo il conflitto -laddove possibile- in un sottile gioco di rispetto e rifiuto delle valutazioni politiche dei parlamenti statali.

Giacché le sue dichiarazioni di incostituzionalità -soprattutto se giudica questioni ad alta sensibilità collettiva- possono apparire sospette di invasione di campo politico, per il giudice delle leggi è dunque importante conservare una buona dialettica con il

Parlamento, ossia con i cittadini, se vuole mantenere autorevolezza. A volte ciò significa anche decidere di non decidere.

È quel che fa il giudice delle leggi statunitense quando, attraverso le c.d. doctrines of

justiciability, dichiara la questione non matura per essere trattata (ripeness) o al

contrario troppo avanzata e quindi inutile la sua trattazione (mootness), troppo politica (political question), o ancora proposta da chi non ha interesse a portarla avanti

(standing).

Ma è ciò che fa anche quando posticipa la propria decisione, lasciando al legislatore il tempo per intervenire direttamente, come aveva fatto per esempio nel 2003 la Corte Suprema del Massachussets. Dopo aver statuito che “impedire a una persona di sposarsi solo perché vuole unirsi ad un’altra dello stesso sesso è contrario alla Costituzione” (del Massachussets ovviamente), quella Corte -nell’aprire per la prima volta a livello

giurisprudenziale la porta ai matrimoni dello stesso sesso- aveva sospeso il proprio giudizio su uno degli argomenti politicamente più scottanti e aveva concesso ai

rappresentanti dei cittadini una finestra di 180 giorni per interpretare la sua decisione e riscrivere la legge.

Sospendere il proprio giudizio in attesa che il legislatore si pronunci su una questione politicamente assai sensibile è ciò che ha fatto anche la nostra Corta Costituzionale, esercitando -come dicono gli americani-una “virtù passiva”, per indicare come

l’autolimitazione, ossia il decidere di non decidere, per il giudice delle leggi possa essere ad un tempo fonte di legittimazione per se stesso e di opportuno stemperamento di un possibile conflitto politico.

(4)

Riferimenti

Documenti correlati

(iv) Ogni vettore non nullo, preso da solo, costituisce un sistema di vettori linearmente

Matrice inversa, cambiamento

Incalzato dalle domande della giornalista della Gazzetta Patri- zia Ginepri, Dalledonne si pro- diga in una efficace rievocazione dei principali condottieri della Storia,

È in ogni caso evidente, dato il loro situarsi specifico nell’ambito della teologia morale e del diritto canonico 18 , come le riflessioni che seguono abbiano

Due documenti, il sequestro della nave della ong ProActiva Open Arms , e il “protocollo sezione immigrazione” sottoscritto a Venezia tra il presidente dell'Ordine

• Riccardo Tartaglia - Direttore del Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente della Regione Toscana. • Gennaro Sosto - Direttore Generale Azienda Sanitaria

perfettamente si adatta alla democrazia diretta prefigurata da Grillo quel che conta è che i Sì superino i No e che fa del M5S non la rottura, ma la più compiuta realizzazione

Nel primo grafico allegato, l'area azzurra rappresenta la correzione di spesa aggregata corrente che la Regione dovrebbe compiere per uniformarsi alla spesa pro-capite per fascia