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Gli ottant'anni di Francesco Paolo Casavola. Cronaca di due giornate

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a Gian Luigi Falchi nel giorno del suo passaggio di vita in vita 29 luglio 2012

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LXXVIII 2012

PONTIFICIUM INSTITUTUM UTRIUSQUE IURIS

F A C U L T A S I U R I S C I V I L I S

STUDIA ET DOCUMENTA

HISTORIAE ET IURIS

D I R E C T O R ✠ H E N R I C U S D A L C O V O L O R E D A C T O R F R A N C I S C U S A M A R E L L I A S E C R E T I S S E B A S T I A N U S P A C I O L L A L A T E R A N U N I V E R S I T Y P R E S S

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I N D E X

– Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola. Cronaca di due giornate, a

cura di Francesco Amarelli e Francesca Galgano . . . . IX

STUDIA

JOSEPH GEORG WOLF, Bussen, Einkommen und Preise . . . . . 3 GIUSEPPINAMARIAOLIVIERONIGLIO, Lo status femminile nei

ca-noni conciliari e nella legislazione tardoantica . . . . 23 PAOLA LUIGIA CARUCCI, Questioni di paternità nel diritto d’età

impe-riale . . . . 41 LUCIA FANIZZA, Cultura aristocratica e amministrazione della provincia

asiatica. Scaevola, Tubero, Cicero . . . 87 MAURIZIO D’ORTA, La traccia del diritto naturale dai fondamenti

clas-sici alla tarda antichità . . . . 103 ARÁNZAZU CALZADA, Reversio in potestatem de las res furtivae et vi

possessae . . . . 167 CARMELA RUSSO RUGGERI, Gaio, la parafrasi e le ‘tre anime’ di

Teofilo . . . . 197 M. LUISA LÓPEZ HUGUET, Domicilium liberti. Precisiones sobre

una supuesta limitación de la libertad domiciliaria . . . 221 SARALONGO, Gai. 3.145 e la locatio in perpetuum degli agri

vec-tigales municipum . . . 255 VIRGINIAABELENDA, Protección del ‘consumo sustentable’ en la

regula-ción del regimen romano de derivaregula-ción de aguas públicas . . . . 323

DOCUMENTA

– No¥moi secolari tradotti ex lingua rhomaea in lingua siriaca

(tradu-zione a cura di Francesca Galgano) . . . 349 † LUCIO BOVE, Saulus autem, qui et Paulus (SAYLOS DE¥ , O

KAI PAYLOS: Act. Ap. 13.9): nativo di Tarso in Cilicia, giudeo

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VI Index NOTAE

DONATO ANTONIO CENTOLA, Riflessioni sulla problematica della

motivazione della sentenza nel processo romano . . . . 407 FAUSTO GIUMETTI, La difesa in giudizio: spigolature plautine . . . 429 ANA ISABELCLEMENTE FERNÁNDEZ, Sobre el origen y el significado

del verbo latino augeo . . . . 445

EVENTA

LEANDRO POLVERINI, Rostovcev e Mommsen . . . 469 – Lo ‘Spartaco’ di Aldo Schiavone. Le letture di Paolo Mieli e Marc

Fu-maroli . . . . 495

VARIA

ANDREA DE MARTINO, Il ruolo degli studi di storia del diritto nella

formazione del giurista . . . 507 FEDERICO FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Il potere politico nel pensiero di

Isidoro di Siviglia . . . . 513 ALFREDO MORDECHAI RABELLO, Sulla Mishnà ed il capitolo VII

di Bavà Metzi’à: sull’ingaggio di operai . . . . 539 VALERIO MASSIMO MINALE, L’Ekloge Isaurica e il mondo slavo:

ri-flessioni sulla continuità in Russia . . . . 563 BELEA SIMION, La civiltà e la giurisprudenza nei territori della Dacia

romana . . . 577 – La commemorazione di Luigi De Sarlo tenuta da Feliciano Serrao il 13

marzo 1990 nell’Università di Pisa . . . 595 ANTIQUITAS POSTERIOR

[a cura di Salvatore Puliatti, Ulrico Agnati e Federica De Iuliis] 601

RECENSIONES LIBRORUM

J. DUBOULOZ, La propriété immobilière à Rome et en Italie. I-IV siècles

(Luigi Capogrossi Colognesi) . . . 631 PAOLA BIANCHI, Iura-Leges. Un’apparente questione terminologica della

tarda antichità. Storiografia e storia (Lucio De Giovanni) . . . 639 ALFREDO MORDECHAI RABELLO, Ebraismo e diritto. Studi sul

Di-ritto Ebraico e gli Ebrei nell’Impero Romano (Emanuele Stolfi) . 642 FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Ritratti italiani. Individualità e

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VII Index

ANTONIO FERNÁNDEZDE BUJÁN, Derecho publico romano (Alfonso

Agudo Ruiz) . . . 664

AGLAIA MCCLINTOCK, Servi della pena. Condannati a morte nella

Roma imperiale (Antonio Banfi) . . . . 685 FABIANA TUCCILLO, Studi su costituzione ed estinzione delle servitù nel

diritto romano. Usus, scientia, patientia (J. Michael Rainer) . . 690 ALEJANDRO GUZMÁN BRITO, El derecho como facultad en la

Neoe-scolástica española del siglo XVI (Francisco Cuena Boy) . . . 695 ALFONSO CASTRO SÁENZ, Cicerón y la jurisprudencia romana. Un

estudio de historia juridica (Francisco Cuena Boy) . . . 702 ANTHONY GRAFTON, GLENNW. MOST AND SALVATORESET

-TIS, The Classical Tradition (Giorgia Zanon) . . . 712

CHRONICA

– Aequum iudicium e processo romano della tarda antichità: princìpi

gene-rali e tecniche operative (Federico Pergami) . . . . 721

– The Society of Law Teachers of Southern Africa & the Southern African Society of Legal Historians. 2011 Conference: «Fraud and corruption in the private and public sphere». Un manuale per la tarda antichità.

Stellenbosch University 17-19 January 2011 (Carla Masi Doria) 743

– Ricordo di Mario Talamanca presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’

(Giovanni Finazzi) . . . 745 – Lingue e testi tecnici antichi (Oriana Toro). . . . 755 – IX Convegno Internazionale ARISTEC. Scienza giuridica,

interpreta-zione e sviluppo del diritto europeo (G. Guida e S. Galeotti) . . 757

GRATA RERUM NOVITAS

– Politica antica (Francesca Reduzzi Merola) . . . 769

IN MEMORIAM

– Giuliano Crifò (Stefano Giglio, Carlo Lorenzi e Marialuisa

Na-varra) . . . 773 – Perdite dolorose (Francesco Amarelli) . . . . 817

LIBRI IN EPHEMERIDE ACCEPTI

[a cura di Donato Antonio Centola, Giovanni Papa, Giuseppina

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GLI OTTANT’ANNI DI FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

CRONACA DI DUE GIORNATE

a cura di

Francesco Amarelli e Francesca Galgano

La sera dell’11 gennaio dell’anno passato, ospiti, in un bell’albergo partenopeo, di un prestigioso club rotariano della città, alcuni amici, auspice Luigi Cavalli, avvo-cato e past president del sodalizio, si son dati appuntamento per parlare del libro di Franco Casavola dal titolo Ritratti italiani. Individualità e civiltà nazionale tra XVIII e XXI

secolo. Ad illustrarlo Vincenzo Galgano, Procuratore Generale presso la Corte di

Appello. Dalle sue parole, e da quelle poche pronunciate da chi ha curato queste pagine, emerse però sùbito che la presentazione del libro era stata soltanto un pretesto per augurare in anticipo all’autore buon compleanno: una ricorrenza, questa, che il giorno dopo sarebbe stata solennizzata, proprio a ottant’anni esatti dalla nascita, nell’Aula Pessina della Facoltà di Giurisprudenza della ‘Federico II’ e con grande rilievo sulle pagine de Il Mattino e su quelle delle edizioni napoletane de

Il Corriere della Sera e Repubblica aperte dagli affettuosi interventi di Biagio De

Giovanni, Luigi Labruna e Carlo Franco.

Davanti a S. Em.za il Card. Crescenzio Sepe e al cospetto del Prefetto Andrea De Martino, del Sindaco Rosetta Iervolino, dell’Assessore regionale alla Università Guido Trombetti, di Fulvio Tessitore già Rettore della ‘Federico II’ e del Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa Francesco De Sanctis e di numerosissimi altri colleghi e amici (tra cui i vertici, oltre quelli militari, della magistratura, del foro, e della Facoltà che lo ebbe preside), Lucio De Giovanni, che ne ha ereditato la carica di ampissimo, ha dato, innanzi tutto, lettura del messaggio indirizzatogli dal Quiri-nale, col quale Giorgio Napolitano ha voluto sottolineare il rigore, la coerenza, l’equilibrio e l’indipendenza sempre esibiti da Franco Casavola nel suo servizio in favore dell’Università italiana e delle istituzioni repubblicane.

Hanno poi voluto testimoniare il loro affetto, con il loro dire e i loro ricordi, Giuseppe Camodeca, Stefano Cianci, Giacomo De Cristofaro, Giuseppe Giliberti, Francesco Lucrezi, Antonio Palma, Angelo Puglisi, Vincenzo Scarano Ussani e Tullio Spagnuolo Vigorita.

Le parole qui immediatamente riprodotte sono invece quelle che Franco Casavola ha voluto pronunciare in chiusura dell’intenso pomeriggio:

Eminenza, Signor Sindaco, Signor Prefetto, Autorità, Colleghi, Amici, ho un senso di colpa per aver incomodato tante persone per un evento privato quale è un compleanno. Non avrei mai ceduto dinanzi alla inizia-tiva di onoranze accademiche, fedele al modello di maestri come Mario Lauria e Francesco de Martino, che seppero evitarle. Ma ho capitolato per una festa di famiglia, che riunisce quei figli particolari che sono gli allievi. Non avrei immaginato l’eco che i miei ottanta anni avrebbero avuto sui media. Debbo ringraziare Biagio de Giovanni e Luigi Labruna per quanto hanno scritto su Il Mattino e Il Corriere del Mezzogiorno, interpre-tando quel che mi è capitato di fare fin qui.

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X Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

Ma se devo dare a me stesso insieme a voi un significato a questo amarcord, occorre che ripensiamo gli anni della contestazione giovanile, dal ’68 in avanti.

La nostra età di allora era vicina a quella dei nostri studenti, così come prossime erano tra loro le età degli assistenti e di noi giovani professori. Si vivevano le stesse idee e speranze, e bisogni di cambiamento. In primo luogo avvertivamo che il modello tradizionale della lezione cattedratica era anacronistico in aule che ospitavano migliaia di studenti. Decidemmo di sostituire la lezione con gruppi seminariali, in cui gli studenti potessero svolgere relazioni preparate anche su testi diversi dai manuali, e discutere con i docenti assegnati a quel gruppo. Sparivano assistenti e professore, i primi venivano indicati come collaboratori del secondo. Tutti insieme svolgevamo la funzione docente. Era una prima attuazione sperimentale di quella istanza caldeggiata dalla neonata associazione dei professori, che si usava chiamare del Docente unico. Qualcuno di quei seminari per il prevalere di orientamenti critici decamparono in controcorsi. Il problema stava infatti oltre il modulo di comunicazione didattica. Era non più accet-tabile la tripartizione di Storia, Istituzioni e Diritto romano. Andava risolta mescolando società, economia, cultura intellettuale e materiale, per intendere il diritto antico come forma generale dell’organizzazione collet-tiva e ricavarne il valore etico, che ne consencollet-tiva la sopravvivenza fino ai nostri giorni nella civilizzazione occidentale. Dunque quell’esperienza un po’ allegra e tumultuaria era in realtà fondata su riflessioni meditate e già allora responsabili di mutamenti metodologici ed epistemologici delle discipline romanistiche, che dovevano di lì a poco seguire, e vedere proprio da Napoli partire, dal congresso su Gaio nel suo tempo del 1965, una trasformazione europea dei nostri studi.

Non a caso questa festa di compleanno personale che si è voluta cele-brare forse con qualche enfasi è anche estesa ad un compleanno trenten-nale dei Giuristi adrianei, finiti di raccogliere nel 1980, e che ora l’Erma di Bretschneider va a rieditare ad apertura di una collana di testi classici del pensiero romanistico del Novecento, cui si è voluto dare il titolo di

Incuna-bula mentis, di iniziazione per una formazione intellettuale di giuristi

consa-pevoli della storicità del diritto antico, come di ogni diritto per qualunque tempo e società umane.

Accompagnando i miei ottant’anni con i trenta dei Giuristi adrianei mi sembra di avere qualche ragione di essere scusato per il disturbo che questa riunione potrebbe aver arrecato ai programmi personali di ciascuno di voi in questo 12 gennaio che nel 1931 ha dato inizio alla mia vita.

Ringrazio i miei allievi e collaboratori del bel tempo della nostra comune giovinezza, che oggi ne hanno riacceso la nostalgia, ma anche una meritoria e non inutile memoria.

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XI Cronaca di due giornate

Un mese dopo, il 23 febbraio, è stato invece il Laterano il luogo dei festeggia-menti.

Accolti da Gianluigi Falchi e dall’estensore di questi pochi tratti, si sono alter-nati alla tribunetta dell’Aula Pio XI della Pontificia Universitas Laternensis, con intensità di affetti e accenti commossi, Renato Quadrato, Maria Campolunghi, Valerio Marotta e Lorenzo Franchini. Chi scrive e Aldo Schiavone hanno infine consegnato al festeggiato il primo volume della nuova collana intitolata Incunabula

mentis. Testi chiave per una formazione di giurista e aperta dalla riedizione di Giuristi adrianei.

Il pubblico è stato quello delle grandi occasioni: da S. Em.za il Card. Vallini a S. Em.za il Card. Farina; da Colombo a De Mita, Ruperto, Nocilla, Monorchio, Bernabei, Gnagnarella, Vari, Meoli, Panebianco; da Siniscalchi a Laurini; da Garbarino a Saporito, Acocella; da Lipari a Ferrara; da Bellini a Brutti, Marrone, Fabbrini, Campitelli, Marasco, Luchetti, Puliatti, Polara, Costabile, Bianchini, Bassanelli, Giliberti, Fusco, Lanza, Lovato, Giglio, Giachi, Pergami, Baccari; da Bove fino al più giovane degli allievi della ‘Federico II’, a rappresentare, insieme a tantissimi altri, gli amici e i colleghi delle sedi di Milano Statale e Bocconi, Genova, Alessandria, Bologna, Firenze, Urbino, Macerata, Perugia, Napoli ‘Fed. II’, Salerno, Bari, Reggio Calabria, Palermo.

Le pagine che seguono servono a dar conto dei quattro interventi, delle parole conclusive pronunciate dal festeggiato, ma, prima ancora, di quelle con cui il Magni-fico Rettore S. Ecc.za Mons. Enrico dal Covolo ha introdotto il pomeriggio con il suo saluto.

Dopo aver ricordato gli anni spesi in Laterano lungo la prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso innovando l’insegnamento di Ius

romanum e dopo aver dato lettura della bella lettera di commiato inviata da

Casavola, appena chiamato alla Consulta, all’allora Rettore S. Ecc.za Mons. Pietro Rossano, Monsignor Rettore ha così proseguito: «Casavola

continua a essere un buon esempio per tutti noi. L’assenza di vanità e d’invidia, insieme alla discrezione gli hanno consentito di svolgere, sopra le parti e nell’interesse del Paese, il ruolo di giudice costituzionale e di presidente della Corte, ma anche di presidente del-l’Enciclopedia Italiana e di garante dell’editoria in un momento drammatico per il gior-nalismo democratico. Giurista, ma anche giudice e custode inflessibile della Costituzione, egli è ancor oggi un protagonista dell’Italia migliore, l’Italia capace di coniugare la fede cristiana, vissuta e professata senza compromessi, con la dottrina della laicità dello Stato e dell’autonomia delle realtà terrestri».

FRANCESCO PAOLO CASAVOLA: ‘PERSONA’ TRA LOGOS, PATHOS, ETHOS

Sono emozionato, perché ho la gioia, e il privilegio, di festeggiare il compleanno del mio maestro: maestro non solo di studi, ma anche di vita, e la cui nascita, il 12 gennaio, coincide con la data in cui è nato mio padre. Una felice congiuntura astrale, una coincidenza, se posso dire, di ‘paternità biologica e paternità scientifica’, che ha segnato il percorso del-la mia esistenza: umana, culturale e accademica; sì, anche accademica, perché devo a Lui se sono rimasto all’univesità a svolgere, a continuare a svolgere, il mio lavoro di docente, in quell’intreccio di Berufung e Bildung, le immagini che Casavola, nel rievocare in Index 1995 la figura di

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XII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

Lauria e Ormanni, maestro e allievo, adopera per indicare ‘didattica e ricerca’. Era il 1965 e, dopo avere pubblicato alcuni articoli, ero impe-gnato in una ricerca di taglio monografico sul tignum iunctum: tema che, anch’esso, secondo una prassi allora alquanto diffusa nell’accademia, di assegnare, anzi quasi imporre, ai giovani studiosi gli argomenti su cui svolgere le ricerche, mi era stato affidato dal professore de’ Robertis, al quale devo, dopo la tesi di laurea con lui, il mio accesso alla carriera universitaria: iniziata così con lavori dati e non scelti, pur appartenendo io, come Franco Casavola dice di sé, di Biagio de Giovanni e di Alberto Auricchio, ad «una generazione ... che non ha amato farsi assegnare il compito dai Maestri», pur rispettandoli e venerandoli: «uomini nuovi rispetto al mondo accademico», «tre amici stretti ... chiamati Trinità», nella rievocazione, colorita, che ne ha fatto De Giovanni su Il Mattino del-lo scorso 12 gennaio, e che «si ritrovano insieme, ormai in cattedra, dopo gli anni di studi napoletani» a insegnare nella Facoltà giuridica barese, come ancora Casavola scrive nel 1983, nel ricordare Alberto, l’amico «improvvisamente» scomparso, approdato a Bari nel suo peregrinare qua e là, dopo Urbino e Macerata. Il tema che mi era stato assegnato era complesso, ostico e scomodo: per la difficoltà in sé, e a causa della esiguità delle fonti e perché all’argomento aveva dedicato appena un anno prima, il 1964, un bel libro un collega napoletano, Generoso Melillo. Il che rendeva il mio lavoro ancora più arduo oltre che – perché non dirlo? – accademicamente sconsigliabile. Ebbene, sfiduciato, anzi disperato, perché, dopo alcuni mesi di intensa e febbrile indagine, non riuscivo a cavare un ragno dal buco, a trovare nulla che potesse giustifi-care una nuova pubblicazione, non dico una monografia ma neppure uno straccio di articolo, mi rivolsi al professor Casavola confessandogli il mio sconforto e manifestandogli la volontà, sì la volontà, e nonostante fossi già assistente di ruolo, di abbandonare l’università e cercare di intra-prendere un’altra strada, magari quella della magistratura, scelta con successo da alcuni dei miei colleghi di corso. Dopo aver sentito il mio sfogo, con quella capacità di ascolto che è propria della sua indole, della sua humanitas – che per lui, sotto la scorta di Gellio (N.A.13.7.1) «non è soltanto benignità e filantropia» ma «paideia» e cioè «erudizione ed educazione alla virtù» (Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d. C.: il

senso del passato, in Sententia legum tra mondo antico e moderno, I, Napoli, 2000,

111) – il Professore cercò di rincuorarmi, esortandomi a proseguire, a insi-stere, perché, mi disse – ripeto le sue testuali parole: come potrei dimenti-carle? – «lei è capace di inventarsi i frammenti»: sì, disse proprio così, «inventarsi i frammenti», pensando forse all’invenire della lingua latina. Mi lasciò, sul momento, allibito, sconcertato. Ma quelle Sue parole, che esprimevano una fiducia illimitata nelle possibilità di quel giovane studioso, suscitarono in me tanta di quella energia che mi ributtai con

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XIII Cronaca di due giornate

una determinazione inimmaginabile nell’indagine, riuscendo, non so neppure come, a individuare, meglio a «trovare» (per restare nell’area semantica dell’inventare – invenire), una nuova chiave di lettura del tema – confortata da un passo della Parafrasi di Teofilo, trascurato dagli studiosi dell’argomento – che mi consentì di realizzare l’impresa. Ma non senza affanno. Portai, infatti, a conoscenza di Casavola la mia ipotesi di lavoro, speranzoso, anzi persuaso, di ottenerne il placet, in un incontro tenuto nella sua stanza alla Casa dello studente di Bari e da lui sottoposta ad una verifica severa, anzi severissima, condotta con una esegesi minuziosa delle fonti e con una padronanza dell’istituto straordinaria, quasi mostruosa, stupefacente per uno studioso, pur del suo calibro, ma chiamato a misu-rarsi per la prima volta col tema. Dopo una lunga, anche movimentata discussione – come la ricordo quella serata, a tratti, non esagero, dram-matica perché il dialogo, anzi di fatto un monologo per lo sfinimento del-l’interlocutore, pareva ormai avviato sempre di più, e inesorabilmente, verso una stroncatura del lavoro – ad una mia osservazione, sommessa, fatta in extremis, per disperazione, in articulo mortis mi verrebbe da dire – legata alla presenza in uno, il solo, dei pochissimi testi in materia, del vocabolo pretium, unanimemente interpretato come duplum e non già come equivalente pecuniario del tignum, come invece sembrava a me – Casavola ebbe un momento di esitazione, di dubbio, di meditazione – fu, il suo, un rapido, silenzioso, interrogarsi – e dopo una pausa, quasi all’improvviso, ebbe a dirmi: «Ha ragione lei». E me lo disse con un’espressione felice, quasi liberatoria: che rivelava il travaglio da lui vissuto, diviso tra il dovere di un giudizio scrupoloso – riflesso di quell’«impegno culturale e ideale», del «rigore» riconosciutogli anche dal Presidente della Repub-blica nel suo messaggio augurale – e il bisogno, un’esigenza profonda-mente sentita, di non deludere l’aspettativa fiduciosa del giovane allievo. Fu per me un momento indescrivibile. Era notte fonda e, ancora incre-dulo, in preda ad una emozione grandissima, tornai a casa, correndo e saltando per la gioia. E per strada pensavo, con gratitudine e affetto (anzi amore), a quel docente, venuto da Napoli, entrato per caso nella mia vita, che non era, non lo era ancora, accademicamente parlando, il mio maestro, ma che lo era diventato allora, in quell’occasione, con la forza edificante del suo comportamento: esemplare per grandezza di mente e di cuore, per la capacità di guidare e di donare. Avevo finalmente scoperto – ma era solo la conferma di una sensazione che avevo avvertito fin dal primo incontro – la persona a cui affidare la mia persona: un «giurista a misura d’uomo», riprendendo la bellissima immagine da lui coniata per Vincenzo Arangio Ruiz, su Il Mattino del 2 febbraio 1984, nell’esaltare l’opera di un «giurista e romanista», assai diverso dagli altri, tra «tutti i grandi maestri della romanistica italiana ... il più moderno, e vicino, attraverso le sue pagine, a ciascuno di noi, intento a soccorrerci

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XIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

con la sua incantevole amabile affettuosa intelligenza in una conversa-zione interiore, che non interromperemmo mai». È, sì, l’elogio che Casa-vola fa di Arangio, ma che sembra scritto, senza volerlo, per se stesso: quasi un ritratto autobiografico. Ho raccontato questo episodio, ma potrei raccontarne tanti altri, ripercorrendo con la memoria e, lo confesso, con grande nostalgia, i quarantanove anni – a pensarci, quasi mezzo secolo – di vita trascorsi sotto la sua guida, da quando, nei primi mesi del 1962, l’ho conosciuto. Come dimenticare ad esempio quanto mi sia stato vicino, in occasione della libera docenza, venendo apposta a Roma da Napoli, dove era stato trasferito già da due anni, e nonostante i suoi impegni via via sempre più numerosi: prezioso sia nella scelta deli-cata dell’argomento su cui fare la lezione, sia nell’aiutarmi a prepararla fin quasi all’alba. E indugerei sui ricordi ovviamente non per parlare di me, ma soltanto perché attraverso la mia esperienza personale, dal racconto dei gesti e dei comportamenti di cui sono stato testimone e beneficiario, emerge la figura di Casavola, il suo modo di essere: non quello che appare ad un allievo devoto, che gli deve quello che è oggi, ma quale è nella realtà il Casavola noto a tutti, rispettato da tutti, amato da tutti. Molti, allievi e non, si sono giovati del suo aiuto, del suo incoraggia-mento e della sua sapienza. In tanti lo hanno testimoniato nel festeggiarlo a Napoli, circa un mese fa, il 12 gennaio, per il suo compleanno, narrando gli incontri che si svolgevano, e con frequenza, a casa sua. Che non era solo il luogo di residenza della famiglia, ma la domus, una sorta di «oracolo della comunità» (totius oraculum civitatis), nella rappresentazione metaforica che, in un passo del De oratore (1.45.200), citato anche da Casa-vola nel Gaio nel suo tempo (Sententia legum, I, 19), Cicerone fa della casa di Quinto Mucio Scevola, come «attestano la porta e il vestibolo ... giornal-mente visitati da un gran numero di cittadini e da personaggi ragguarde-volissimi» (cotidie frequentia civium ac summorum hominum splendore celebratur). Non era dunque solamente il domicilio privato, il posto in cui abitava e abita con la sua famiglia, ma rappresentava una sorta di ‘seminario’ la sede in cui studiosi si ritrovano, si radunano, si riuniscono sotto la guida del maestro per discutere di ricerca e anche di didattica. Mi viene alla mente Sesto Elio, amplissimus et clarissimus vir, famoso per il «grande cuore» (egregie cordatus homo) e per la «sagacia» (catus), come, sempre Cice-rone citando Ennio, lo ritrae in una notissima pagina del De oratore (1.45.198): pronto a mettere a disposizione dei suoi concittadini, o passeg-giando per il foro o ricevendoli in casa, il suo sapere e la sua saggezza: doti che si riscontrano in Casavola. La casa diventava dunque lo spazio in cui si incontravano gli allievi del maestro – come è emerso nella manife-stazione del 12 gennaio, dalle testimonianze dei discepoli e collaboratori napoletani –, l’ambiente ideale per Casavola dove continuare a svolgere il magistero esercitato nei luoghi pubblici: un docere inteso non in un senso

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XV Cronaca di due giornate

strettamente pedagogico, ma in un’accezione più ampia, aperta: un compito che può estrinsecarsi con molte sfaccettature, «col consiglio, le esortazioni, le domande, lo scambio di idee, e talvolta leggendo insieme e ascoltando», potendo così «migliorare gli altri» (meliores facere), nella descrizione che Cicerone – non mi stanco di citarlo – fa, in una sequenza di ben sei verbi, e al gerundio, ritmata da un susseguirsi di si: monendo,

cohortando, percontando, communicando, una legendo, audiendo (Orator 42.144). Un

modo di lavorare e stare insieme, in gruppo, in una sorta di cenacolo in cui tutti sono un po’ attori, pur se accompagnati, ma in maniera discreta, da colui che li guida: e che, muovendosi come uno di loro, da pari a pari, li coinvolge, li associa a sé, assimilandosi a loro fin quasi ad oscurare la propria individualità, il proprio io. Sembra di vedere «la viva scena della comunità dei discepoli, attivamente diretta dal maestro e riassunta per la tensione del comunicare dalla persona di lui», disegnata da Casavola, ancora nel Gaio nel suo tempo (Sententia legum, I, 23) nell’illustrare la partico-larità dell’insegnamento gaiano, caratterizzato dall’uso continuo del ‘noi’, in una dimensione collettiva del lavoro, un plurale di «modestia», non di ‘maestà’. Vi si può scorgere, in qualche modo, la maniera di fare di Casa-vola, la sua umiltà che è pari alla sua grandezza: «Tutti i grandi sono modesti», Alle grossen Männer sind bescheiden, afferma Lessing nelle sue

Lettere sulla letteratura contemporanea. E Casavola fa parte, si potrebbe dire

riprendendo una riflessione di Seneca (Ep. 52.8), della schiera, purtroppo non folta, di «coloro che insegnano con la loro vita» (qui vita docent) e «non contenti di dirci ciò che dobbiamo fare ... ce ne danno l’esempio con le loro azioni» (qui cum dixerunt quid faciendum sit probant faciendo). Ma c’è una differenza, e non da poco, rispetto a quegli antichi giureconsulti. Che il ‘nostro’, nella sua casa, non se ne stava seduto su di un trono, sedens in

solio (immagine usata da Cicerone: De legibus 1.3.10 e De oratore 3.33.133),

su di una sedia elevata («l’alto seggio», direbbe Dante: Inf. 1.128), e dunque in una posizione di preminenza, di superiorità rispetto agli altri, gli auditores: ma sedeva in mezzo a loro, inter pares. Io non ho partecipato a quegli incontri con i suoi allievi napoletani, perché vivevo a Bari. Ma ho potuto godere, in quanto ‘studioso fuori sede’, di un privilegio non minore, anzi maggiore, poiché quando avevo bisogno di recarmi da lui per sottoporgli i miei scritti, avevo il Maestro tutto per me. E non solo per alcune ore, ma a volte anche per giorni, quando si trattava della lettura e correzione di un lavoro monografico. Sì, per giorni: due, e talora anche tre, nonostante i suoi tanti impegni, di insegnante, preside e poi di giudice costituzionale. Giorni che io trascorrevo nella sua abitazione, come fossi della famiglia: circondato dall’affetto dei suoi, della signora Luisa, consors

omnis vitae, e di Paola e Peppino, gli amatissimi figli, che ho visto nascere e

crescere in serenità ed armonia. Sono stati momenti bellissimi, che hanno segnato la mia vita. E non sarò mai sufficientemente grato al mio maestro

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XVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

per ciò che mi ha donato in tanti anni sia sul piano umano che scientifico. Ebbene, in quel luogo, in questo clima, io sono cresciuto, mi sono formato, ‘educato’ – uso il verbo pensando alla sua radice, educere – fino a divenire, come, con una benevolenza non comune, nel riferirsi – nella

Postfazione al terzo volume della raccolta dei suoi scritti (Sententia legum tra mondo antico e moderno, Napoli, 2004, 569) – agli ‘scolari’ a lui ‘venuti

dall’insegnamento barese’, ha voluto chiamarmi, in una sorta di Berufung senza tempo, con la magnanimità di cui è capace, ‘successore degno e fedele nella cattedra di Istituzioni’.

Prescindendo, ovviamente, dal destinatario, che è beneficiario ancora una volta di un dono così grande da parte del maestro da suscitare un non lieve imbarazzo, desidero soffermarmi un po’ sui due termini da lui adoperati, ‘degno’ e ‘fedele’: vocaboli usati non a caso, e che apparten-gono al lessico interiore di Casavola. Termini molto vicini, complemen-tari, e che insieme disegnano una mappa dei comportamenti, tracciano un’etica del vivere anche accademico. C’è, a questo proposito, un passo che desidero leggere, tratto dal corpus dei suoi scritti, dai quali emerge in filigrana una sorta di biografia, una narrazione della sua vita, che non attiene soltanto al piano letterario, ma che tocca quello, più profondo, del mondo intimo, che è il territorio dei sentimenti, dell’affetto, dell’anima.

Il brano, nel quale ricorre tra l’altro, e usato non casualmente, il termine ‘degno’, è estrapolato ancora una volta dal ricordo di Alberto Auricchio. E riguarda la maniera in cui Casavola, insieme a Biagio e Alberto – gli ormai famosi inseparabili componenti del trio – viveva il rapporto con i maestri, l’ ‘orgoglio’, come scrive, «di stare accanto a uomini che riconoscevamo superiori, non umiliazione adulatoria, osten-tata per propiziare i padroni delle nostre carriere». «Dunque», continua, «dinanzi ai Maestri eravamo come provinciali a Roma» (mi piace questa immagine, assai suggestiva, che mi fa pensare, mutatis mutandis, al giurista, anche lui in un certo senso provinciale a Roma, studiato a fondo, come si vedrà meglio in seguito, da Casavola: che lamenta il giudizio spesso nega-tivo, ingeneroso, espresso da una parte della dottrina romanistica su Gaio, «ridotto ... ad «una modesta figura di studioso di provincia», secondo una tesi, quella della ‘provincialità’, rivelatasi ‘inconsistente’). «E tuttavia», prosegue Casavola nella sua riflessione, «capivamo che non l’imitazione ci avrebbe reso degni di loro» – eccolo il vocabolo cruciale! – «ma l’utilizzazione del loro insegnamento per battere nuove strade con nuovi metodi e nuove ipotesi. D’istinto eravamo portati a crescere, diven-tando, con gradualità biologica, diversi da loro. Ci siamo resi conto più tardi, guardando a generazioni più giovani ed incalzanti, che la ricerca della somiglianza rischia la parodia, e che quella della contrapposizione ad ogni costo sfiora la situazione complessuale del parricidio». Che bella pagina, quale testimonianza: una stupenda, mirabile, lezione di vita. C’è

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XVII Cronaca di due giornate

in questo straordinario frammento, quasi un manifesto del pensiero di Casavola, un insegnamento, e un monito: l’invito, rivolto al discepolo, a difendere, sì, la propria libertà autonomia indipendenza, a non lasciarsi sopraffare, dominare dai maestri, traendo invece da loro stimoli, incentivi ad andare avanti verso nuovi traguardi; ma si avverte al contempo il richiamo ad un comportamento leale, ‘fedele’ – l’altro termine che Casa-vola accompagna a «degno» – ad una condotta rispettosa dell’auctoritas, di chi – è sempre Casavola che parla – «aveva nella propria mente più notizie, più esperienze, più sapere di quanto l’età non potesse aver concesso a lui»: l’avvertimento a non cadere in un facile ribellismo, assu-mendo un atteggiamento di disubbidienza preconcetta, di trasgressione sconsiderata. C’è saggezza, e tanta, in quelle parole. Nel raccontare di sé, della propria esperienza – un racconto che assume a tratti il tono anche di una confessione – Casavola esorta a non eccedere, a non esagerare. Invita insomma alla misura, al modus, alla moderatezza, che è caratteri-stica della sua persona: un valore che si ritrova in Gaio quando esorta a «non usare male il proprio diritto», come sollecita a fare, e con un non

debemus che ha una forte valenza morale, in un passo importante delle

Istituzioni (1.53), la cui rilevanza non è sfuggita all’occhio acuto e sensi-bile del maestro, il quale, nell’occuparsi nel 1968, di «Potere imperiale e stato

delle persone tra Adriano ed Antonino Pio» (in Sententia legum, I, 61 ss.), non

manca di dedicare la sua attenzione al documento, che contiene il commento che il giurista adrianeo riserva all’intervento di Antonino Pio diretto a limitare, coercere, il potere del padrone sugli schiavi, a punirne la sevizia, se smisurata (supra modum), esaltando la linea «lungimirante» del principe, che mira a contenere sia «la soggezione al potere paterno», sia «la soggezione al potere schiavistico», e «garantisce che né l’una né l’altra giungeranno più ad annientare l’esistenza fisica di un essere umano»: «una sorta di habeas corpus da opporre ... contro le angustie e le oppressioni della società patriarcale e schiavistica» (p. 64). In questa visuale c’è la consapevolezza che – scrive ancora Casavola – «lo schiavo è persona, è uomo, e come tale ha un ius suum che il padrone non deve disconoscergli». E si giunge così ad uno dei temi sentiti, il più sentito: il tema della persona, o persona umana, come talvolta preferisce dire, con una specificazione che implica il «nesso tra homines e personae» («I diritti

umani», in Sententia legum, III, 349). E che è il tema della dignità dell’uomo,

‘dignità umana’ come si legge con una specificazione solenne, non certo enfatica, nell’art. 41 comma 2odella Costituzione, che è – e qui si sente

anche la passione del giurista attento ai valori della nostra Carta – «il prototipo e la fonte di tutti i diritti fondamentali, nella qualificazione tedesca, inviolabili nell’aggettivazione presente nella Costituzione italiana»: diritti che «sono riconosciuti e garantiti, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua «personalità» (art. 2), onde assicurare «il pieno

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XVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

sviluppo della persona umana» (art. 3 co. 2), e il suo «rispetto» (art. 32 co. 2). La dignità dell’uomo è, infatti, una proprietà morale, un valore assoluto, non negoziabile, una prerogativa che gli deriva dalla natura, dal fatto di essere innanzitutto un essere umano, dalle sue qualità, dal suo

status, dal rispetto che egli ha di sé e che genera negli altri.

La persona è argomento centrale del pensiero di Casavola: è il nocciolo della sua cultura, professione di fede, della sua stessa esistenza. Non c’è differenza fra l’intellettuale e l’uomo, lo studio e la vita. In lui i due aspetti si intrecciano, si fondono. Sono il mezzo per la ricerca della verità. Ma la persona è un tema cruciale anche in Gaio – il giurista non a caso valorizzato da Casavola – uno dei cardini della sua ideologia. E infatti, modificando una linea antica che poneva l’eredità al primo posto nella sistematica del ius, il giurista colloca la «persona» al primo posto, assegnandole un ruolo di preminenza nell’ordinamento, facendone il centro dell’intera costruzione giuridica nella molteplicità dei suoi aspetti. Una innovazione profonda, una vera rivoluzione che tende ad orizzon-tare il diritto – ‘tutto il diritto’, omne ius come ripeterà più tardi, riecheg-giando il Gaio di Institutiones 1.8, Ermogeniano, e rivelando, nonostante la distanza temporale, un’affinità, una ‘sorta di vicinanza ideale’ con ‘il più antico maestro’, come perspicacemente nota Elio Dovere, altro compo-nente dell’ampio circolo culturale di Casavola – indirizzandolo verso il suo destinatario naturale, l’uomo, a beneficio del quale è stato posto.

Hominum causa secondo Ermogeniano (D. 1.5.2), hominum gratia per Gaio,

come si evince da D. 22.1.28.1, il passo in cui affrontando la ‘vecchia questione’ del partus ancillae, il giurista adrianeo critica con veemenza, qualificandola ‘assurda’, la posizione di quanti consideravano i nati da una schiava ‘frutti’, e cioè cose, al pari dei nati dagli animali (pecudum fetus) e degli altri prodotti provenienti da loro, come il latte il pelo la lana. E, nell’imprimere al problema un taglio antropologico, una novità rispetto all’orientamento giurisprudenziale anteriore, quello rappresentato da Bruto e al quale pure sembra rifarsi – motiva la esclusione dei figli della schiava dal novero dei fructus appellandosi alla natura – un richiamo che non si trova in nessun altro giurista, né prima né dopo di lui – una natura che, osserva, omnes fructus rerum ... comparaverit, «ha creato tutti i frutti delle cose», hominum gratia, «per amore degli uomini». L’uso della parola causa o

gratia può sembrare, a prima vista, una mera curiosità filologica, una

sotti-gliezza se non proprio una sofisticheria, ma non lo è. Indugio sul punto solo perché il dubbio relativo alla eventuale differenza di significato fra le due preposizioni, l’una, causa, con valore meramente ‘causale’, l’altra,

gratia, con un suono diverso, di tono solidaristico, fu – un evento per me

indimenticabile, uno dei momenti più alti ed emozionati di tutta la mia vita – l’occasione di un dialogo, breve ma bellissimo, con Sua Santità Giovanni Paolo II avvenuto nel maggio del 1996, a margine dell’XI

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XIX Cronaca di due giornate

Colloquio Internazionale Romanistico Canonistico su «Etica e diritto nella formazione dei moderni ordinamenti giuridici», svoltosi proprio qui, nello stesso magnifico luogo in cui ho oggi l’onore di parlare, congresso al quale partecipò anche Casavola. Di quell’incontro c’è traccia in un mio breve studio sulla «Solidarietà nel mondo antico», pubblicato in un volume di scritti in onore di Giovanni Paolo II, Omaggio dei giuristi a Sua

Santità nel XXV anno di Pontificato (Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio, Roma, 2003, 537 s.). Ne faccio menzione perché in quella

raccolta – un florilegio di riflessioni di oltre 420 autori, tutti compatti nel condividere l’esigenza di utilizzare l’arma del diritto per tutelare l’uomo e per promuovere il dialogo fra i popoli – c’è, non poteva mancare, uno scritto di Casavola con un titolo, Se tutto il mondo desse ascolto alla voce del

Papa, che racchiude speranza, auspicio, esortazione, supplica: un lavoro in

cui, nel riassumere il discorso tenuto da Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico nel gennaio 2001 – una sollecitazione forte ai «grandi leaders della vita civile del mondo» per, come scrive, richiamarli «tutti alle verità incontestabili dei fini propri alla natura umana», Casavola cita le parole pronunciate dal Pontefice: «Ogni uomo è mio fratello» (pag. 1000). È un messaggio, un appello che ci riporta al tema della persona che, nella visione di Casavola, è l’asse attorno al quale far ruotare i temi, fondamen-tali, dell’uguaglianza e della giustizia: argomenti, valori, che ricorrono continuamente nei suoi scritti, e non soltanto in quelli che compaiono in riviste scientifiche, atti di congresso ecc., e cioè in luoghi destinati ad un pubblico ristretto, specialistico, ma anche negli interventi che hanno come destinataria una platea diversa, più vasta, quella dei cittadini che comprano e leggono i giornali: i quotidiani, in particolare Il Mattino di Napoli, e Il Messaggero di Roma, sui quali Casavola è solito scrivere, anche due volte la settimana, con articoli che, nonostante il taglio giornalistico, hanno spessore e dignità culturale non inferiore a quella degli scritti ospi-tati in altre sedi. Ebbene, fra i tanti articoli pubblicati negli ultimi mesi da Casavola, ce n’è uno, apparso il 27 dicembre 2010 su Il Mattino, che desi-dero citare, meritevole di una particolare attenzione, e non solo per il contenuto ma per il tema in sé. Perché riguarda, sì, un compleanno – l’occasione che ci vede qui riuniti a festeggiare Casavola – il compleanno però non di una persona, ma di una intera comunità: l’anniversario del nostro Paese, dell’Italia, la «patria nostra», come Casavola tiene a chia-marla nel concludere un suo lavoro del 2001, Patria italiana e diritto, in cui afferma con forza che «il diritto prima che strumento di governo di una collettività nazionale è valore etico di una comunità» e, osserva, che «se le vie della politica non possono non essere plurime e talora indispensabil-mente e sanaindispensabil-mente antagoniste» – un’etica dell’agire politico che oggi è, ahinoi, del tutto ignorata, anzi mortificata, umiliata – «la via del diritto, secondo una antichissima metafora, non può che essere una, aperta e

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XX Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

bene illuminata sulla quale tutti possono andare sicuri di muoversi in una casa comune» (Sententia legum, III, 527). Per uno strano, beneaugurante gioco del destino, una coincidenza di tempi stagioni vicende, gli ottan-t’anni di Casavola, iniziati nel 1931, collimano con i centocinquanottan-t’anni dell’Unità d’Italia, iniziati nel 1861 – l’articolo uscito su Il Mattino, e collo-cato non a caso, per il suo pregio, in prima pagina, s’intitola: «Unità d’Italia con esame di coscienza». Il discorso si apre con una domanda – ma è tale solo apparentemente –: «A che cosa servono i compleanni se non per ricordare la vita trascorsa e comprendere come e perché essa è giunta alla data che ne apre un altro tratto per l’avvenire? Questo vale per ciascuna esistenza personale, non può non valere per la storia di una grande nazione». Prosegue, con l’intonazione amara di un’aspettativa delusa, tradita: «Avremmo desiderato che per i tre cinquantenni del-l’Unità d’Italia, al di là delle iniziative di celebrazioni, si fossero sollevate domande radicali, tali da commuovere l’opinione pubblica, che appare oggi smemorata del passato remoto e recente, oppure incline a cedere alle lusinghe di scrittori che prediligono la storia dei se, fino a sognare una o più Italie senza unità. Occorreva porsi da tempo la meta di studi destinati ad una paideia italiana, una educazione degli italiani alla conoscenza critica della nazione, dei suoi processi formativi, culturali, sociali, econo-mici, amministrativi, politici, spirituali». Continua, a pagina 12, con un altro interrogativo, e dello stesso tenore, sconfortato: «Stiamo ispirando la nostra convivenza nazionale ai valori spirituali ed etico-politici, prima che giuridici, della Costituzione?»; e va avanti con un avvertimento: «Se il centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita deve essere onorato, lo sia con un esame di coscienza collettivo che risponda alla domanda se per caso non stiamo dimenticando l’eguaglianza dei cittadini, la giustizia sociale, il diritto al lavoro, la libertà di coscienza, la libertà della scienza e della scuola, il diritto all’ambiente e alla pace». È un passaggio cruciale, in cui riappare puntuale in Casavola il richiamo a quei «diritti umani costi-tuzionalmente inviolabili», al cui futuro bisognerebbe badare con molta attenzione: uno ‘sguardo’ senza il quale, avverte concludendo l’articolo, «la festa del compleanno della nostra Patria, per noi, suoi figli, sarà occa-sione di scontata retorica o di rabbia». È un documento di grande inten-sità, nel quale si ritrovano tutti i temi cari a Casavola: un elenco di diritti non violabili, ‘sacri’ verrebbe da dire, ma in un’accezione ovviamente laica: un catalogo che ricalca il quadro dei valori che la nostra Costitu-zione considera essenziali, primari. Ebbene, in questo discorso, un memo-randum per il tono vibrante, di implorazione e insieme di denuncia, c’è, in sintesi, Casavola: l’uomo, il cittadino, il cultore della scienza giuridica nelle vesti varie, ma vicine, di insegnante storico giudice costituzionale. È il Casavola che medita sulle «ragioni dell’uomo e del mondo normativo che lo circonda»; che «interroga l’antico, ne scruta le tensioni, ne

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riper-XXI Cronaca di due giornate

corre l’ansia conoscitiva» (p. XV): una ricerca che non si consuma, «non può esaurirsi tutta nel passato, ma deve riconsegnare lo storico del diritto al proprio presente, rendendolo uomo fra gli uomini, cittadino fra i citta-dini»: come ebbe a scrivere, uso il verbo al passato nel ricordo dell’amico scomparso, e con l’ammirazione e l’affetto grandissimo che lo legava al maestro che festeggiamo, Federico D’Ippolito nella sua nota, una prefa-zione ai tre tomi di Sententia leguum (p. XXIV). Pure in questa lettura, che è anche testimonianza di un allievo riconoscente, risulta l’impegno, la premura di Casavola per il tema della «persona», il «primo dei diritti umani», come ha cura di sottolineare, titolandone così la prima parte, nel saggio su «I diritti umani»: che si apre con l’analisi del «termine persona», e che «costituisce», come si legge nelle battute iniziali (p. 347), «un nodo semantico centrale nella cultura dell’uomo occidentale e, attraverso questo, nella civilizzazione del mondo»; che «raccoglie ... sia l’individuo concreto e particolare nei ruoli manifesti della relazionalità sociale, sia l’essenza della dignità e il corredo delle profonde vocazioni e universali istanze dell’essere umano». E ancora: «L’oscillazione tra il singolo e la specie congiunge e mescola natura e storia, fatti e valori: persona umana e contemporaneamente l’umanità che è presente in ognuno di noi e la figura individuata in una formazione sociale. Non è per caso che i maggiori impieghi linguistici di persona si siano verificati nell’ambito del diritto e della teologia, cioè nel sapere che ordina la vita sociale degli uomini, e in quello che tende a pensare, in termini accessibili all’uomo, la vita di Dio». Il che rende ‘indispensabile’ ripercorrere il cammino della parola, rifacendone il lungo, avventuroso tragitto, che muove, come si sa, dal teatro, dalla maschera nell’etimologia fornita da Gavio Basso e giun-taci tramite Gellio – etimo di cui, per Casavola, «non c’è ragione di dubi-tare» – e avente la funzione di amplificare la voce dell’attore sulla scena, accrescendone il suono. Ora, la maschera nasconde i volti di coloro che la portano, occultandone le differenze. Dietro lo schermo, «l’indumento del-la bocca», indumentum oris come del-la raffigura lo scrittore del-latino, gli individui perdono la loro identità, sembrano tutti uguali. Ebbene, della enorme potenzialità concettuale della parola persona si rende conto Gaio (è sempre il giurista rivalutato da Casavola) che, adoperandola nel campo giuridico, se ne serve per indicare, in un impiego in cui si avverte l’influenza della cultura stoica, ogni essere umano, indipendentemente dal suo status. È un’iniziativa importante, e nella quale si manifesta la linea culturale, l’ideologia dell’intellettuale adrianeo, contrario alle discriminazioni vigenti nella società e nell’ordinamento giuridico di Roma: che contrap-pone liberi e schiavi (nella rappresentazione che dei ‘tre generi’ di uomini Ulpiano fa in D. 1.1.4, il genus dei servi è descritto come contrarium a quello dei liberi: liberi et his contrarium servi), distingue cittadini e stranieri, separa maschi e femmine. È l’inizio di una nuova era, in cui anche gli schiavi, res

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XXII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

per il ius, vengono considerati uomini: «sono, sì, schiavi, ma pur sempre uomini», servi sunt, immo homines, come afferma Seneca nella sua famosis-sima «equazione» (Ep.47) – la parola è di Casavola – che rappresenta «la sfida dell’egualitarismo stoico alle tavole sociali e giuridiche della disugua-glianza, che confina lo schiavo tra gli oggetti del patrimonio» (I diritti

umani, 349). È una raffigurazione ricca di pathos, e con la quale, mediante

l’avverbio immo volto a rettificare l’assunto precedente (servi sunt), Seneca asserisce invece l’appartenenza degli schiavi al genere umano: immo

homines. Perché, come si adopera a dire nella stessa Epistola (47.10), lo

schiavo non è diverso, per natura, dall’uomo libero. Essendo infatti «nato dagli stessi semi» (ex isdem seminibus ortum), egli può «godere dello stesso cielo» (eodem frui caelo), «respirare, vivere e morire in egual modo» (aeque

spirare, aeque vivere, aeque mori). È una riflessione in linea con l’idea che tutto

ciò che si vede «è un tutt’uno» (unum est), «in cui è compresa ogni cosa divina ed umana» (quo divina atque humana conclusa sunt); che gli uomini sono «membri di un grande corpo» (membra ... corporis magni), «parenti per natura» (natura nos cognatos edidit), «creati con gli stessi elementi e per gli stessi fini» (cum ex isdem et in eadem gigneret). È l’immagine di una società umana universale, una «società ... molto simile a una volta di pietre» (societas ... lapidum fornicationi simillima est), «che cadrebbe se le pietre non si sostenessero a vicenda, reggendo così tutta la volta» (quae casura nisi in vicem

obstarent, hoc ipso sustinetur). Una metafora assai efficace, che segue, nella

trama del discorso di Seneca, la citazione di un verso di Terenzio, da tenere, raccomanda il filosofo di Cordoba, «nel cuore e sulla bocca» (in

pectore et in ore): «sono uomo e penso che nulla che riguardi l’uomo mi sia

estraneo»: verso famosissimo (Il punitore di se stesso, 77: homo sum, humani

nihil a me alienum puto), che può essere elevato a emblema dell’umanesimo,

ricordato più volte, e non soltanto dagli antichi, pagani e cristiani – Cice-rone lo cita in tre luoghi, De off. 1.30, De leg. 1.33, De fin.3.63, in due dei quali, nel De legibus e nel De finibus, se ne serve con un richiamo alla natura, che è comune a tutti gli uomini e crea, come si ritiene da parte degli stoici, «una reciproca solidarietà fra loro»; Ambrogio nel De officiis 3.7.45, Agostino in Ep. 155.4 – ma anche da scrittori di epoca più recente, come Montaigne e Herder. È una posizione che può stupire in uno scrit-tore pagano, e che assomiglia all’idea cristiana dell’unità del genere umano e dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio che Paolo di Tarso, l’apostolo attento alla cultura stoica, secondo Wendland, sostiene e divulga: come emerge dalle sue Lettere, a cominciare dal brano, notis-simo, della lettera ai Galati (3.28: «Non vi è Giudeo né Greco, non vi è servo né libero, non vi è maschio né femmina»), testimonianza significa-tiva dell’antropologia cristiana dell’eguaglianza, che Casavola ama citare, e non una sola volta. La rammenta una prima volta in una relazione tenuta, nell’agosto del 1987, all’«Europäisches Forum Alpbach» sui termini

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XXIII Cronaca di due giornate

‘eguaglianza’ e ‘giustizia’ nell’esperienza giuridica romana e nella giuri-sprudenza costituzionale italiana (Sententia legum, III, 63 ss.), ritenendola la matrice culturale dello «statuto originario dell’eguaglianza» anche nelle «ideologie rivoluzionarie» (p. 70). È un assunto, quello di San Paolo, che si ritrova nella lettera ai Colossesi (3.11: «Non vi è né Greco né Giudeo, ... barbaro, Scita, schiavo, libero») e che ritorna, in un’ottica universalistica, nell’affermazione che tutti, come si legge nella prima lettera ai Corinti (12.12-13; 20) «formano un unico corpo ... che ha, però, molte membra»: «un corpo intero, connesso e unito strettamente da tutte le giunture di cui è provvisto», come è scritto nella lettera agli Efesini (4.16). È una visuale che si lega, per l’appunto, allo stoicismo, che insegna la fratellanza e la solidarietà fra gli uomini, l’appartenenza di «tutti gli uomini» – omnes

homines, come si esprime Gaio sia nelle Istituzioni (1.9) sia nelle Res cotti-dianae (D. 41.1.1 pr.) – al ‘genere umano’ (genus humanum): altra immagine

adoperata sempre da questo giurista, vicino anche lui alla dottrina stoica, per raccogliere, in una rappresentazione onnicomprensiva, l’insieme degli esseri umani, senza distinzioni. Ebbene, «l’ingresso dello stoicismo», come osserva Casavola, «è nella storia delle idee l’evento che illumina di un grande valore l’unità del genere umano» ; e segna il passaggio «dall’ecumene stoica all’ecumene imperiale», come recita il titolo di un discorso da lui pronunciato in Campidoglio il 21 aprile 2003: uno scenario nel quale, dice, «potrà poi esprimersi, in una radicale assunzione di realtà e non per una proclamazione utopica, la fede cristiana di Paolo» (Sententia legum, III, 559 s.): e qui torna la menzione del frammento tratto dall’Epistola ai Galati, 3.28. È la strada dei diritti umani, la via per combattere le discriminazioni, tutte, e non soltanto quella fra liberi e schiavi. Un disegno che – è il proposito di Gaio – si affida alla «ragione naturale», la quale, come il giurista adrianeo si affanna a sostenere in varie occasioni, fonda «il diritto comune a tutti gli uomini», «ispira le leggi e i costumi di tutti i popoli» (Inst.1.1). Ed è una linea che collima con la visione politico-universalistica di Adriano – è famoso l’elogio di Elio Aristide dell’impero come «un’unica grande città» – e di Marco Aurelio, per il quale «gli Stati sono come le singole case di un’unica città». È, questo, «lo schema rappresentativo della cosmopoli stoica», che Gaio, tra i giuristi romani, è «l’autore che più consapevolmente sembra avere assimilato»: come sostiene Casavola in quel suo splendido lavoro, che non mi stanco di citare, su Cultura e scienza giuridica nel secondo

secolo d.C. (Sententia legum, I, 166). Naturalis ratio che è «la chiave di volta

dell’architettura giusnaturalistica gaiana», come la descrive Aldo Schia-vone (Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, 491 nt.17), altro allievo di Casavola, sia pure, per così dire, discipulus communis, come risulta dalla dedica a più amici e maestri che si legge negli Studi sulle logiche dei

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XXIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

Non a caso, nel «grande sforzo di razionalizzazione del diritto» che caratterizza il pensiero giurisprudenziale di questa età, «la ricerca delle

rationes è presente», nota Casavola (Sententia legum, I, 127), «in Gaio più che

in alcun altro giurista del secolo»: i giuristi «adrianei» (così li chiama tutti, unificandoli in una denominazione che «vuole esprimere un dato cultu-rale, non cronologico») come precisa nella Prefazione al libro licenziato nell’estate del 1980: un libro «corredato da amplissime Note di prosopografia

e bibliografia», curate, ha l’amabilità di sottolineare, «con rara competenza,

da Giacomo De Cristofaro, mio collaboratore ed assistente», e dedicato – un particolare da segnalare anche per la motivazione, densa di significato – «a tutti i maestri della romanistica italiana, che nel volgere di pochi anni, consegnandoci il ricordo del loro insegnamento, hanno reso più acuta la responsabilità del nostro». Lo studio delle rationes, che qualche giureconsulto, Nerazio in particolare, ritiene – ma per Casavola a torto – un esercizio pericoloso, potenzialmente «eversivo», è invece in Gaio un’utile occasione di verifica del ius, di ammodernamento di istituzioni sociali «provenienti da un passato remotissimo» (Sententia legum, I, 121 s.). È «ricerca di un collegamento tra società e diritto» (p. 127), ed è lo stru-mento di cui Gaio si avvale soprattutto per opporsi al trattastru-mento disu-guale che l’ordinamento giuridico romano riservava alle donne, la cui «condizione è in molti campi inferiore a quella degli uomini»: in multis

iuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum, come attesta

Papiniano in un documento dai toni aspri (D. 1.5.9), di una «schiettezza un po’ brutale», come lo giudica J. H. Michel in uno scritto su L’infériorité

de la condition féminine. È un impegno, quello del giurista, volto non certo ad

una impensabile, impraticabile equiparazione dei sessi, ma tendente per lo meno a migliorare la situazione delle donne, le quali, nell’ottica di Musonio Rufo, intellettuale anche lui di formazione stoica, «ricevono dagli dei lo stesso logos dei maschi». E Casavola, nel suo lavoro, attende a scrutare i movimenti di Gaio, a coglierne le istanze, le inquietudini, a seguirne i passi. Senza pregiudizi – libero dai condizionamenti di una dottrina per troppo tempo refrattaria al nuovo, e mosso anche dal fatto, strano, e da lui puntualmente evidenziato, di «una presenza umana, tanto attiva e pur completamente ignorata dai contemporanei e dai posteri immediati, che esplode improvvisa alla fama nella legge delle citazioni e guadagna la più alta fortuna nelle scuole di Oriente e di Occidente» (Gaio

nel suo tempo, in Sententia legum, I, 18) – Casavola esamina i testi gaiani, li

interroga, e scopre una faccia del giurista prima sconosciuta. Segnala la sua critica, aspra, all’opinione corrente (quae vulgo creditur) che giustifica la tutela muliebre con «la suggestionabilità del temperamento che espone le donne ai raggiri altrui e che perciò era giusto che fossero sorrette dal controllo del tutore»: una «spiegazione» che Gaio ritiene «apparente e non vera, dal momento che le donne adulte amministrano da sé i propri

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XXV Cronaca di due giornate

affari e il tutore interviene solo per adempiere ad una formalità, e spesso egli è persino costretto da una ingiunzione del pretore a prestare suo malgrado la propria auctoritas» (Sententia legum, I, 121). È la traduzione, letterale ma elegante, che Casavola fa di Inst. 1.190, un passo celebre, nel quale «applicando il metodo delle rationes», l’istituto della tutela mulieris rivela il suo anacronismo, denuncia la sua inattualità e, annota Casavola, «si vanifica in un insensato rituale» (p. 122). Ma l’apporto di Casavola ad una esplorazione serena del pensiero di Gaio non si ferma qui. Indagando ancora nel tema della parentela, dei legami familiari, rileva un altro importate contributo del giurista, diretto a contrastare la concezione tipica, tradizionale della famiglia romana «come aggregato agnatizio, fondato sulla posizione di potere del padre» e a sostenere un’idea di «famiglia vissuta, nella sua più immediata naturalità, da tutte le altre nazioni» (p. 119): un modello lontano da un costume maschilista e in linea con una visione della parentela non più legata ad un criterio artificiale, l’agnatio, ma fondata sul vincolo di sangue, la ratio sanguinis come la chiama Gaio in D. 38.8.2. È una svolta epocale nella cultura romana: l’acquisi-zione della consapevolezza che ci sono diritti fondati sulla natura, iura

naturalia, che vanno rispettati, tutelati: diritti che «la ragione civile non

può caducare», non può «corrompere»: civilis ratio naturalia iura corrumpere

non potest, come Gaio afferma, icasticamente, in D. 4.5.8 e Inst. 1.158,

rivendicando il ruolo dinamico della ragione naturale che, «nella misura in cui ... è strumentale alla critica dell’ordinamento giuridico esistente ... si pone come attuale e creativa», secondo l’esegesi, magistrale, che Casa-vola fa dei testi relativi (p. 120). E anche questa è una peculiarità della posizione gaiana, che Casavola ha avuto il merito di evidenziare, scor-gendo pure nella «sintassi» del giurista «l’energia di una disposizione simpatetica dello scrittore per il termine universale che limita l’ordina-mento particolare. Vi si esprime cioè», è sempre Casavola che scrive anzi parla, «quella fede nelle due patrie – Roma per il cittadino, il mondo per l’uomo – che nell’apparente serenità della formulazione di Marco Aurelio nasconde il dramma della ragione in questo secolo, l’inquietudine intellet-tuale più intensa, il senso di costrizione indotto dall’ordinamento partico-lare, percepito come gabbia, oltre la quale la natura è libertà». E così, attraverso Gaio, dando voce alla sua voce, Casavola riesce a registrare la crisi di un regime arretrato che, come quello decemvirale, in materia di successione intestata, «è rigorosamente coerente con l’organizzazione agnatizia e gentilizia della società originaria»: un ius che il giurista giudica

strictum e causa di iniquitates (Inst. 3.18, 25). L’attenzione che Casavola

dedica alle rationes che, come scrive, «non vengono identificate ontologica-mente, ma verificate nella comprensibilità e accettabilità dell’opera loro da parte di ciascun uomo», non si ferma al versante storico, all’indagine del romanista, ma si ritrova nella sua esperienza di giudice costituzionale,

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XXVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

la funzione che Casavola – votato dal Parlamento con un suffragio larghissimo, pressoché unanime, un vero plebiscito, segno di una stima generale – è stato «chiamato» (uso il verbo nella sua accezione autentica, quasi religiosa, di «vocazione») a svolgere. Ebbene, nell’esercizio di questo compito, un officium delicatissimo, Casavola ha sempre usato quel «penetrante strumento di osservazione e di valutazione», come lo defi-nisce, «quale è quello della ragionevolezza» (Sententia legum, III, 73). E la ragionevolezza – rationabilitas nella lingua latina – nel rinviare alla sua radice ratio, indica non solo un criterio giuridico ma anche una virtù morale: un contegno che richiede prudenza, saggezza, fronesis: una capa-cità dianoetica che, come insegna Aristotele nell’Etica Nicomachea (VI, 5.1140, 25), è la capacità di « decidere ciò che è bene e utile » (taù...aßgauaù kaıù symfe¥ronta). Che non è, beninteso, un giudicare a proprio piacimento, arbitrariamente, ma un deliberare con equilibrio, col buon-senso, grazie anche all’«autopoiesis della ragionevolezza» che, come scrive Jörg Luther nella voce Ragionevolezza (delle leggi), apparsa nel Digesto delle

Discipline Pubblicistiche (XII, 1997, 343), «sta nel pretendere un controllo

sulle funzioni del legislatore che non degeneri in co-legislazione e nel sottoporre il proprio giudizio alla critica della società aperta degli inter-preti della costituzione» e «deriva dal fatto che si esclude l’infallibilità non solo del legislatore ma anche quella del controllore». È una visione non miracolistica della ragionevolezza, ma una concezione misurata, sarei tentato di dire «umana»: una «virtù» che, come dice Tommaseo, «ha l’idea del possibile ... piuttosto che quella del vero». Ed è la virtù che, per la discrezione che lo caratterizza, e che è nello stesso tempo rigore equani-mità serenità, Casavola ha cercato sempre di praticare nel ruolo di giudice delle leggi, nelle tante decisioni, sentenze o ordinanze, da lui redatte, e che «devono essere motivate e argomentate persuasivamente secondo ragione», come ha ribadito lo scorso 21 febbraio, in un articolo pubblicato su Il Mattino nel difendere, e con forza, la funzione particolare della Consulta che, a differenza del Parlamento, luogo in cui «le delibera-zioni ... si reggono sui numeri», decide invece con una logica profonda-mente diversa dal momento che «dove si discute in termini di diritto la forza della ragione non deve scambiarsi con le quantità aritmetiche». Tra queste pronunce mi piace citare la sentenza n. 183 del 10-18 febbraio 1988, in tema di adozione: l’istituzione che per P.A. Fenet, autore di una raccolta completa dei lavori preparatori del Codice Napoleone, «le Code de la nature», secondo Cambacérès, ed elogiato da Casavola (Dalla

proprietà alla solidarietà: appunti per una riflessione in tema di diritti individuali, in Sententia legum, III, 367 ss., part. nt. 3), è «l’immagine vivente della

natura», natura che è «la terra ferma» su cui costruire l’edificio della slazione civile, con la conseguenza che, in materia di filiazione, «una legi-slazione conforme a natura non può tollerare discriminazioni tra figli

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XXVII Cronaca di due giornate

naturali e legittimi». Ebbene, nell’esprimersi, nella veste di relatore, nel giudizio di legittimità dell’art. 79, primo comma, della legge 4 maggio 1983 n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), Casa-vola considera «palese l’intento del legislatore italiano ... di accostarsi alle prescrizioni» della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967 che, all’art. 8 n. 3, «esige ... che tra adottante ed adottando intercorra quel divario di età che è naturale nel rapporto genitori – figli». E ricorda che in questa norma «è ... riecheggiata la regola romana», conservata nella compliazione giustinianea, secondo cui «l’adozione imita la natura» (adoptio naturam imitatur), che «sarebbe mostruoso il fatto che il figlio sia più grande del padre» (pro monstro est ut maior sit filius quam pater), con l’ovvia conseguenza che l’adottante debba «precedere di diciotto anni» (decem et

octo annis praecedere) l’adottato (Inst. 1.11.4). Una regola che è servita al

legi-slatore italiano del 1983 per adeguarsi alla Convenzione europea. Ho citato questa sentenza perché il Casavola giudice, nel motivare la deci-sione, e rafforzarla, ricorre anche all’antico, torna per un po’ ad indossare la veste dello storico del diritto, facendo coincidere nella sua persona due ruoli, parti, figure, quella del romanista e quella del giurista. Torna così indietro nel tempo, non certo con l’intento di attualizzare il passato, di far coincidere l’ieri e l’oggi in un’assurda illusione di continuità ma, nella consapevolezza della distanza e non solo cronologica tra l’olim e l’hodie, col proposito di risvegliare la nostra memoria, prendendo dal passato ciò che è entrato nella nostra cultura e ha contribuito a costruire la nostra attua-lità. Forse in quel suo operare si sono rese comprensibili le parole che nell’inverno del 1951, quando con uno «sparuto gruppetto» di altri debut-tanti, all’età di vent’anni, entrava quale allievo interno nell’Istituto di diritto romano dell’Università di Napoli, sentì pronunciare da Mario Lauria, che ne era allora il direttore: «Non vogliamo farvi diventare romanisti, ma giuristi». Parole che, confessa Casavola nel ripercorrere nella Postfazione a Sententia legum alcune tappe del suo cammino (III, 567 ss.), «non hanno mai cessato di inseguirmi, divenendo sempre più chiare nel loro significato a mano a mano che la vita si è inoltrata negli studi, nell’insegnamento, nelle responsabilità pubbliche». E così, continua, «quella frase di Mario Lauria ... è compresa da me, oggi, come non lo fu né poteva esserlo allora», nel senso che «il diritto, anche quello che ad una visione sistematica e costituzionale appare come legiferato è nel momento della sua interpretazione applicativa, diritto controverso e casistico, cioè giurisprudenziale. Ha importanza secondaria la qualità formale della fonte di questo diritto, la scienza o la giurisdizione. Il nucleo essenziale è rappresentato dall’essere il diritto giurisprudenziale non un comando, ma un’argomentazione ... Non è sufficiente che la legge sia razionale, occorre che sia ragionevole. E la ragionevolezza della legge va dimostrata in ordine al caso da regolare» (pp. 571-572). E dunque col

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XXVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola

tempo, col trascorrere della vita, il Casavola non più ventenne «comincia a comprendere la direzione verso cui è stata volta», e a individuarne «con maggior chiarezza le suggestioni che l’hanno guidata» (pag. 571). Eppure quel giovane, anche a voler ammettere che all’inizio della sua attività scientifica non potesse capire se il programma enunciato da Lauria fosse «troppo modesto o troppo ambizioso» sfuggendogli «la dimensione dei due termini, romanista e giurista», doveva sin da allora (e ancor prima) – a giudicare dai risultati via via conseguiti: brillanti in tutti i ruoli, svariati, da lui ricoperti – già possedere in sé doti straordinarie di ingegno e saggezza, di lungimiranza (prudentia). Qualità che non si acquistano con l’età ma con l’intelligenza, non aetate verum ingenio apiscitur sapientia, come nota Plauto nel Trinummus (367-368) perché «l’età può solo offrire condi-mento, ma è la saggezza a fornire il cibo all’età» (sapienti aetas condimentum,

sapiens aetati cibust). Una massima che si ritrova in Persio, il quale nella

quarta Satira, riferendosi ad Alcibiade, nell’esaltarne attraverso Socrate «l’ingegno» e «l’assennatezza», scrive che «giunsero veloci, prima della barba»: ingenium et rerum prudentia velox ante pilos venit (4-5).

Qual’è il messaggio, ma anche insegnamento ammonimento e auspicio insieme, che viene da Franco – permettetemi di chiamarlo ora, soltanto una volta, per nome, violando una regola, non solo accademica, che pure amo rispettare – dal suo pensare e dal suo agire, di persona e di giurista? Lo si può trarre dalla pagina che chiude la sua Postfazione. Dopo aver osservato che «la crisi novecentesca del codice e più in generale della legislazione ha fatto riascoltare come un monito, e non soltanto una definizione, le parole di Celso ‘ius est ars boni et aequi ’», e che perciò «il diritto è un sapere operativo che realizza i valori etici del bene con quelli logici di una equilibrata argomentazione», nel proporre l’esempio del giurista – il «modello umano», come scrive, «che i romani indicavano come prudens, cioè saggio» – conclude con l’aspirazione ad una scientia iuris che, uscendo «dalle angustie accademiche», «sappia contribuire tramite gli allievi propri ed altrui, a dare alla società il bonum et aequum, la giustizia che attende e che ha diritto di ottenere». Parole di alto valore, morale e culturale, che sintetizzano, con rara efficacia, il significato del suo magi-stero, il suo credo. Il credo di una vita. Una vita trascorsa nel professare e additare principi modelli valori, riassumibili in tre parole: logos, pathos,

ethos. Che sono le «chiavi» – come Casavola ha scritto di recente in Munu-scula (Napoli 2010, 41 ss.) nel commemorare, insieme ad altri studiosi

(colleghi, amici, allievi), Luigi Amirante, più precisamente nel «Come ricordare Luigi Amirante»: che è il titolo esatto della memoria, ove l’avverbio pare esprimere il proposito di non limitarsi ad una lettura delle opere pubblicate o inedite ma di «tentare di comporre cose lette e cose vissute», sembra implicare il desiderio di ritrarre nella maniera più bella e autentica la figura di un altro «significativo componente» di «quel vivace

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