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Principi e valori alla base della deontologia forense.

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1: Il codice deontologico.

1.1. Breve storia del Codice Deontologico italiano. 1.2. Fonti normative e riferimenti sovranazionali.

CAPITOLO 2: Diritti fondamentali. 2.1. Premessa. 2.2. Principi Fondamentali. 2.2.1. Dignità. 2.2.3. Libertà. 2.2.4. Eguaglianza. 2.2.5. Solidarietà. 2.2.6. Cittadinanza. 2.2.7. Giustizia.

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CAPITOLO 3: Norme deontologiche e novità del nuovo codice

forense. 3.1 Premessa.

3.2 Natura delle norme deontologiche. 3.3. Novità Codice Deontologico. 3.3.1. Tipizzazione delle condotte.

3.3.2. Principio di autonomia dei procedimenti.

3.3.3. Procedimento disciplinare.

CAPITOLO 4: Avvocato ed etica.

4.1. Premessa.

4.2. Come può un avvocato difendere un assassino? 4.3. Virtù Professionali.

4.3.1 Competenza e breve panoramica sulla

pubblicità in Italia.

4.3.2 Indipendenza.

4.3.3 Lealtà e riservatezza.

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CAPITOLO 5: L’avvocato e il minore. 5.1. Premessa.

5.2. Gli Art.56 e Art 57 del Nuovo codice deontologico Forense.

CAPITOLO 6: Avvocati e Magistrati. 6.1. Premessa.

6.2. Fonti Normative.

6.3. Natura dei codici dei magistrati. 6.4 Rapporti Magistrati-Avvocati.

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

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Premessa.

Si è scelto di affrontare lo studio di questa materia, in una prospettiva assiologica, quindi non focalizzandosi, prettamente, sull’esegesi delle norme con l’esame analitico del diritto positivo, ma privilegiando un inquadramento di tipo sistematico-assiologico.

Il primo capitolo, sarà incentrato sull’inquadramento della materia e la ricerca della fonti normative, con una panoramica sulla genesi del codice deontologico nel nostro paese e sugli importanti riferimenti sovranazionali, quali il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa, l’organizzazione che rappresenta circa un milione di avvocati europei attraverso gli ordini e le associazioni forensi, e la sua concreta espressione, ossia il Codice Deontologico degli Avvocati Europei.

L’importanza dei riferimenti sovranazionali ci farà capire come oggi tutti noi cittadini europei viviamo immersi in un sistema giuridico multilivello che ci protegge nell’ambito della nostra vita sociale, e come tutto ciò influenza anche gli avvocati e il modo in cui si esercita la professione forense, un “modo” che ovviamente differisce da paese

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la responsabilità sociale dell’avvocato e delle istituzioni dell’avvocatura europea.

Nel secondo capitolo introdurremo il discorso sui Diritti

Fondamentali, il punto in comune sul quale tutti gli avvocati europei

convergono, e la cui nozione si deve ricavare dalle tradizioni culturali di ogni singolo paese e dall’evoluzione che i diritti hanno avuto nel tempo, una nozione legata al diritto positivo ma soprattutto, indissolubilmente, alla persona.

Non possono allora mancare i riferimenti alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, nonché il ruolo fondamentale che le Corti europee hanno svolto in tutti questi anni nel loro sviluppo e nella loro promozione e difesa.

Questo processo ha trovato un passaggio importante nella Carta per

i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, detta comunemente

anche Carta di Nizza, che grazie al Trattato di Lisbona ha assunto forza vincolante, acquisendo lo stesso valore giuridico dei trattati e confermando il ruolo della Corte di Strasburgo.

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Ci soffermeremo dunque su quei principi chiari e fondamentali, su cui essa è stata strutturata: la dignità, la libertà, l’eguaglianza, la

solidarietà, la cittadinanza e la giustizia, e di come questi “super

principi” entrino in contatto, nello svolgimento dell’esercizio della professione di avvocato, e siano la base della deontologia forense.

Nel terzo capitolo approfondiremo il tema sulle norme del codice deontologico, in particolare sulla loro natura, e dunque, sulla discussione fra chi ha sostenuto la tesi della giuridicità di tali regole, e chi ha sostenuto la tesi opposta, già maggioritaria e ancor oggi diffusa, che relegava la deontologia al campo della morale, o addirittura a quello della buona educazione, una discussione di non facile risoluzione visto e considerato il comportamento della nostra Corte di Cassazione, che ha mutato più volte il suo indirizzo.

Cercheremo poi di analizzare alcune fra le più importanti novità che il nuovo Codice Deontologico Forense ha posto, fra cui il tema sulla tipizzazione delle condotte, e dunque di come il legislatore abbia imposto al C.N.F di emanare un codice deontologico che prevedesse la tipizzazione delle condotte illecite nonché delle sanzioni, una scelta

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non è infatti rinvenibile nei codici deontologici Europei una simile apertura verso una così importante forma di garanzia.

Inoltre restando in tema di novità, si accennerà brevemente al principio di autonomia dei procedimenti, e all’analisi della nuova tutela disciplinare.

Nel quarto capitolo affronteremo una questione essenziale, e si parlerà di avvocato ed etica, in particolare di quelle “virtù” e di quei principi generali che sottendono allo svolgimento della professione forense, quali la competenza, l’indipendenza e la lealtà e riservatezza, e di come l'applicazione di questi principi dia vita ad alcuni problemi che l’avvocato deve affrontare.

Tutti gli avvocati, infatti, incontrano problemi etici, perché essi si trovano costantemente a confrontarsi con situazioni nelle quali devono necessariamente prendere decisioni su ciò che è giusto e ciò che non lo è.

A tal riguardo cercheremo di rispondere, per esempio, ad una domanda che spesso viene fatta agli avvocati ossia: come può un avvocato

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Nel quinto capitolo affronteremo un tema delicatissimo, la tutela del minore, e di come il nostro codice deontologico abbia per la prima volta in modo esplicito questa materia; una materia che richiede necessariamente un maggior rigore deontologico da parte dei professionisti anche perché si coinvolge l’ambito più intimo delle persone, la famiglia, ove peraltro la parte più debole è costituita da soggetti minori In questi casi, infatti, spetta all’avvocato rispettare e far rispettare i diritti fondamentali del minore, anche contro scelte difensive pretese dalla parte assistita.

Nel sesto capitolo ci dedicheremo anche in chiave comparativa della deontologia dei magistrati, analizzando i codici etici dei magistrati, la natura di queste norme deontologiche e infine il rapporto Magistrati-Avvocati, mettendo alla luce le differenze sostanziali fra il ruolo del giudice e quello degli avvocati, e di come esse influiscano sulla disciplina etico-professionale di entrambi.

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Introduzione

Il termine deontologia è un neologismo coniato dal filosofo inglese J. Bentham, appare per la primavolta nel 1834 in un suo trattato postumo : Deontology or the Science of Morality , definita in quest’opera come una scienza del conveniente, cioè una morale fondata sulla tendenza a seguire il piacere e fuggire il dolore, che per ciò prescindeva da ogni appello al dovere e alla coscienza: “il compito del deontologo è quello

di insegnare come l’uomo debba dirigere le sue emozioni in modo che

esse siano subordinate al proprio benessere” .

La deontologia, nell’ottica utilitaristica di Bentham, è quindi una scienza del bene e dell’opportuno, per il conseguimento del benessere dell’uomo.

Siamo partiti da questa definizione di deontologia, che è e rimane la prima ad essere esposta in termini filosofici, ma è piuttosto un’altra elaborazione ad aver poi ispirato la concettualizzazione dei codici etici professionali: infatti la matrice filosofica della deontologia professionale, come la intendiamo noi oggi, non va rinvenuta negli enunciati di Bentham, quanto piuttosto in quelli di Immanuel Kant, il

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filosofo di Konisberg, che, attraverso l’elaborazione della categoria del cosiddetto imperativo categorico , voleva ricostruire un insieme di principi universali attraverso il quale poter giudicare la bontà delle azioni.

Più fedele al senso etimologico della parola deontologia (che deriva dal greco “deòn”, “dovere”: quindi il termine sostanzialmente significa “parola, discorso sui doveri”), Kant ambiva a stabilire, con la formulazione filosofica della deontologia, un sistema etico che non dipendesse dall’esperienza soggettiva ma da una logica inconfutabile. La correttezza etica di un comportamento sarebbe un dovere assoluto e innegabile, alla stessa maniera in cui nessuno potrebbe negare che due più due fa quattro.

Opposta dunque appare la sua posizione, anche da un così breve sguardo, a quella di Bentham che invece poneva nel profilo al massimo soggettivo, rappresentato dall’utilitarismo e dal conseguimento del benessere, la ragion d’essere della deontologia.

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preservare la propria professionalità, l’onorabilità della categoria di riferimento e il miglior svolgimento della professione stessa, tenuto conto anche del ruolo sociale svolto.

Le norme comportamentali in discussione sono quelle che solitamente vengono formulate in un cosiddetto “codice etico”, ossia in quello che, sempre in modo sintetico, potrebbe definirsi quell’insieme di principi di condotta che rispecchia, in riferimento a un determinato contesto temporale, culturale, sociale e professionale, particolari criteri di adeguatezza e opportunità.

Per quanto pur così sommariamente detto, la definizione di “codice etico” rimanda inesorabilmente all’antica e complessa problematica della morale, ovvero dell’esistenza di principi universali ai quali dovrebbero ispirarsi le azioni dell’uomo; in particolare, la locuzione “codice etico” acquisisce un suo valore specifico nella contemporaneità, proprio quando, parallelamente all’indebolimento dei cosiddetti “pensieri forti” tradizionali (le ideologie politiche, filosofiche e religiose, che dettavano in modo rigido le norme della convivenza sociale), si assiste alla crescente domanda di regole capaci di determinare i limiti e le condizioni della prassi umana.

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Il mio lavoro si concentrerà sulla deontologia forense, ossia quell’insieme di regole di condotta proprie dell’attività professionale degli avvocati.

Possiamo considerare la deontologia come un triangolo i cui lati sono1:  I comportamenti considerati dal diritto (il rispetto delle

leggi).

 I comportamenti valutati solo in chiave etica.

 I comportamenti ripetuti e costanti nella pratica giudiziaria e forense.

Analizzeremo l’insieme di regole giuridiche, di contenuto etico e comportamentale, che disciplinano la correttezza dell’attività del professionista nei rapporti con il mondo esterno, sia nell’ambito lavorativo che in quello privato.

Si tratta infatti di vere e proprie norme giuridiche, che prescindono dalla loro natura originaria (morale, giurisprudenziale, consuetudinaria o positiva), giacché la violazione di esse comporta sanzioni giuridiche; come tali sono quindi vincolanti per tutti gli appartenenti alla professione, sia avvocati che praticanti.

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Capitolo 1

Codice Deontologico.

In Italia nel vigore della legge professionale del 1933 e fino al 1997 non era stato redatto nessun codice deontologico; infatti la legge professionale faceva riferimento alle regole deontologiche soltanto in due articoli (l’art. 12 e l’art. 38 l.p.f. previgente) che sembravano attribuire al Consiglio Nazionale Forense la sola potestà sanzionatoria e non anche quella regolamentare, che ha dovuto aspettare un attento approfondimento per essere riconosciuta.

Con la importante valorizzazione della giurisprudenza disciplinare si è dunque giunti alla redazione del codice deontologico del 1997 dove le norme son state divise in norme deontologiche e in canoni complementari.

Il codice del 1997 è stato modificato più volte nel corso degli anni ed è rimasto in vigore fino all’emanazione del nuovo codice deontologico; infatti la legge n.247 del 31 dicembre 2012 ne ha previsto tra i suoi adempimenti la stesura, vera magna charta della categoria affidata alla sua autoregolamentazione sulla base di alcuni

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caratteri fondamentali, e di alcuni riferimenti altrettanto decisivi alla Costituzione, all’ordinamento euro-unitario, ai trattati internazionali. Come già si evinceva dal preambolo del 1997: “… Nell’esercizio della

sua funzione l’Avvocato vigila sulla conformità delle leggi ai princìpi

della Costituzione nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia

dei diritti umani e dell’Ordinamento Comunitario; garantisce il diritto

alla libertà e sicurezza e l’inviolabilità della difesa, assicura la

regolarità del giudizio...2”.

La stessa riforma è stata approvata principalmente per cercare di colmare il vuoto normativo che si stava realizzando, anche se in realtà tutto ciò non è bastato a dare una risposta esaustiva ai tanti problemi che riguardano la professione dell’avvocato.

E’ stato solo un inizio, il cammino da fare è ancora lungo, tante sono ancora le questioni che necessitano di una risposta esauriente al fine di orientare gli avvocati e coloro che si apprestano ad entrare in questo mondo professionale.

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Il nuovo codice, giunto all’approvazione definitiva da parte del

plenum del C.N.F. nella seduta del 31 gennaio 2014, è stato pubblicato

sulla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014 ed è in vigore dal 15 dicembre 2014.

Fonti normative e riferimenti sovranazionali.

La scienza del diritto ha ormai da tempo superato la tradizionale

concezione del positivismo giuridico, che individuava tutto il diritto

nella legge positiva, ed ha affermato il principio che la legge è un

sistema complesso, formato da fonti internazionali, sovranazionali e

nazionali e dalla giurisprudenza di corti europee e nazionali, nel

quale oggi hanno fatto irruzione in Europa i diritti fondamentali della

Carta di Nizza, ai quali l’art. 6 del Trattato di Lisbona riconosce lo

stesso valore giuridico dei trattati e i diritti umani riconosciuti nella

convenzione europea del 1950, che lo stesso trattato considera come

principi generali del diritto europeo3.

Il Trattato di Lisbona ha posto l’avvocatura dinanzi a nuove e precise responsabilità. Avere attribuito efficacia giuridica nel diritto europeo,

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e quindi nel diritto interno degli Stati dell’U.E., ai diritti umani della Convenzione del 1950 e ai diritti fondamentali della Carta di Nizza del 2000 ha infatti fatto emergere anche nuovi doveri.

Come è scritto nel preambolo della Carta di Nizza il godimento di questi diritti fa infatti sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future, e si tratta di responsabilità e di doveri che investono direttamente il ruolo degli avvocati sia nella società che nel processo e nella vita di tutti i giorni.

Trattato di Lisbona. Preambolo secondo capoverso,

«Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche

dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti

inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della

democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto»;

Articolo 1bis

«L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della

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a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una

società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla

tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e

uomini.».

Come possiamo intuire, l’avvocato oggi si trova ad operare in un sistema giuridico multilivello, nel quale accanto alle fonti nazionali esistono fonti sovranazionali del diritto che interagiscono, con criteri diversi rispetto alla tradizionale gerarchia delle fonti del diritto interne a ciascuno stato.

Il ruolo dell’avvocato è stato anche richiamato in modo puntuale nella Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 12.5.2004, raccomandazione alle quale gli Stati hanno prestato scarsa attenzione, anche se sul terreno politico l’U.E. ha intrapreso iniziative importanti a difesa dei diritti fondamentali.

In Europa gli avvocati hanno promosso notevoli iniziative per promuovere l’effettività della tutela dei diritti umani e fondamentali: ricordo per esempio la Convenzione degli avvocati del Mondo (Parigi 6.12.2008) dove è stato sottoscritto l’impegno a difendere tali diritti sempre e dovunque.

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All’interno dei singoli paesi tuttavia il tema dei diritti umani non ha prodotto significativi sviluppi nel sistema della deontologia professionale, non sempre si è sviluppata una nozione di responsabilità sociale dell’avvocato nell’esercizio della sua attività e il concetto di deontologia non si è ancora trasformato in un più ampio sistema di etica professionale, comprensivo dei doveri verso la società ed esteso al rispetto dei diritti umani e fondamentali.

La deontologia dell’avvocato è rimasta circoscritta ai doveri inerenti al mandato conferito dalla parte assistita, al rapporto processuale, al rapporto con i magistrati, con i colleghi, in pratica al profilo privato del ruolo, mentre alla base del concetto di responsabilità sociale dell’avvocato vi è la convinzione che ciò non sia sufficiente.

E’ infatti necessario valutare anche le conseguenze delle scelte dell’agire professionale (il che è proprio della responsabilità morale in ogni aspetto di vita della persona), e ciò in base ad un’etica della responsabilità nei confronti della società, degli altri e dei beni comuni e nel rispetto di principi universalmente riconosciuti che oggi trovano una elevata espressione nel Trattato e nelle carte internazionali.

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Sono evidenti gli aspetti del ruolo dell’avvocato nei quali emerge una tale responsabilità: ad esempio si è affermata la esigenza di un’etica del “giusto processo”, fondata su valori fondamentali di giustizia processuale ai quali devono uniformarsi i comportamenti pratici e le scelte processuali degli avvocati; questi doveri di rispetto dei diritti umani emergono chiaramente, ad esempio, nei processi di famiglia, dove spesso i diritti dei figli minori sono coinvolti e a volte strumentalizzati nei conflitti tra coniugi, nei processi del lavoro, nei casi di inquinamento ambientale e nelle truffe finanziarie.

Una tale concezione dell’etica professionale non soltanto interpreta le esigenze dei cittadini europei, consapevoli di vivere in società nelle quali gli interessi economici e politici ostacolano una tutela effettiva dei diritti, ma rafforza anche l’indipendenza della professione legale sempre più soggetta ai condizionamenti della economia di mercato, che ha come fine esclusivo la massimizzazione del profitto.

L’evoluzione lenta ma inarrestabile del sistema dei diritti fondamentali la notiamo anche attraverso la giurisprudenza delle Corti europee, e richiede all’avvocato un forte impegno culturale che investe

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la presa di coscienza della identità della professione nella società contemporanea.

Un riferimento importante in questo senso è il Consiglio degli Ordini

Forensi d’Europa - “C.C.B.E.” che è l’organizzazione che

rappresenta circa 1 milione di avvocati europei attraverso gli ordini e le associazioni forensi, appartenenti a 31 stati che fanno parte dell’unione europea ed altri 11 paesi associati e osservatori.

Il C.C.B.E è riconosciuto come voce della professione legale europea dagli ordini nazionali e associazioni forensi da un lato, e dalle istituzioni dell’unione europea dall’altro, ed uno dei suoi scopi è assicurare il rispetto dei diritti dell’uomo e la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali, inclusi il diritto di accesso alla giustizia e la tutela del cliente; così come la protezione dei valori democratici intimamente legati all’esercizio di tali diritti.

Espressione concreta dell'attività del C.C.B.E è il Codice

Deontologico degli Avvocati Europei, che risale al 1988 ed è stato

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Il preambolo recita:

“1.1. La funzione dell’avvocato.

In una società fondata sul rispetto della giustizia, l’avvocato svolge

un ruolo di primo piano.

Il suo compito non si limita al fedele adempimento di un mandato

nell’ambito della legge.

L’avvocato deve garantire il rispetto dello Stato di Diritto e gli

interessi di coloro di cui difende i diritti e le libertà. L’avvocato ha il

dovere non solo di difendere la causa del proprio cliente ma anche di

essere il suo consigliere. Il rispetto della funzione professionale

dell’avvocato è una condizione essenziale dello Stato di diritto e di

una società democratica.

 La funzione dell’avvocato gli impone vari doveri e obblighi

(a volte, apparentemente, tra loro contraddittori), verso:

 Il cliente;

 I giudici e le altre autorità innanzi alle quali l’avvocato

assiste o rappresenta il cliente;

L’avvocatura in generale e ogni collega in particolare;

 Il pubblico, per il quale una professione liberale e

indipendente, legata al rispetto delle regole che essa stessa

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salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato

e degli altri poteri nella società.

Al Codice europeo si è affiancata poi nel 2006 la Carta dei Principi Fondamentali dell’Avvocato Europeo, che si rivolge non solo agli avvocati ma a tutti i cittadini europei, e che individua dieci principi:

a) Indipendenza e libertà di garantire la difesa del proprio cliente;

b) Rispetto del segreto professionale e della riservatezza delle controversie oggetto del mandato; c) Prevenzione dei conflitti d’interesse tra vari clienti o

tra il cliente e l’avvocato stesso; d) Dignità, onorabilità e probità; e) Lealtà verso il cliente;

f) Correttezza in materia di onorari; g) Competenza professionale; h) Rispetto verso i colleghi;

i) Rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia;

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Capitolo 2

Diritti fondamentali.

Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea, Articolo 6.1

«L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta

dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000,

adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore

giuridico dei trattati. »

Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea, Articolo 61.1

«L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel

rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti

giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri. »

Nei principi generali del Titolo I del nuovo codice deontologico forense l’articolo 1 al comma 2, che recepisce il contenuto del preambolo del 1997, recita:

“L’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità

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dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di

quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e

delle libertà fondamentali, a tutela e nell’interesse della parte

assistita”.

Abbiamo visto l’importanza dei riferimenti sovranazionali e di come influisca sul vivere comune il sistema giuridico multilivello; tutto ciò quindi si riflette anche sugli avvocati e la professione forense.

Vivere la professione dentro la società e i suoi problemi, significa rendersi conto che l’etica professionale è più estesa di quanto risulti dai codici interni alla professione, perché comprende principi e regole contenute in diverse fonti normative, nelle convenzioni sociali, nelle dichiarazioni universali dei diritti, così rivelandosi alla società la visione che l’avvocatura ha dei suoi doveri e del suo ruolo.

Interpretando e applicando i principi dell’etica professionale e della responsabilità sociale si intende quindi anche esercitare la funzione disciplinare in modo da rendere effettiva la tutela dei diritti dei cittadini, assolvendo un dovere primario nell’interesse generale.

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Esiste un punto in comune, sul quale tutti gli avvocati europei convergono: ci riferiamo - a questo punto lo si può intuire -ai diritti

fondamentali, quei diritti dei quali non sempre si dà una definizione

puntuale. La loro nozione, infatti, si ricava dalle tradizioni culturali di ogni singolo paese e va letta nel quadro dell’evoluzione che i singoli diritti hanno avuto, tenendo conto tanto del legame al diritto positivo che al concetto di persona ora rivitalizzato.

Dal punto di vista del diritto positivo noi cittadini europei ne conosciamo la genesi: solo nel novecento, dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, le Costituzioni dei paesi membri dell’Unione e quindi il diritto dell’ordinamento euro-unitario, nonché il ruolo fondamentale che le Corti europee hanno svolto in tutti questi anni nel loro sviluppo e nella loro promozione e difesa.

Questo processo ha trovato un passaggio importante nella Carta per

i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza,

proclamata in quella città il 7 dicembre 2000 ed entrata in vigore con il trattato di Lisbona in tutti i paesi dell’Unione (ad eccezione del Regno Unito, della Polonia e della Repubblica Ceca).

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Grazie al Trattato di Lisbona si imprime forza vincolante alla Carta di Nizza sancendone lo stesso valore giuridico dei trattati e confermando il ruolo della Corte di Strasburgo.

Con la Carta l’Europa abbandona dunque una dimensione esclusivamente “economica” per aprirsi alla protezione dei valori fondamentali della convivenza civile.

“Essa ha manifestato caratteri di originalità e peculiarità notevoli,

perché non rappresenta una volontà costituente, ma piuttosto un

patrimonio già esistente” 4; alcuni hanno parlato di un “Bill of Rights” per l’Europa, quel che è certo è che la Carta, come ha sottolineato Stefano Rodotà, sia stata e rimanga un momento fondamentale nella costituzionalizzazione europea della persona.

“Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la

cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e

giustizia” 5: i principi chiari e fondamentali su cui essa è stata

strutturata sono la dignità, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà,

4

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la cittadinanza e la giustizia, quei “super principi” (per usare il

termine del Bundesverfassungsgericht) che qualcuno oggi definisce “classici” e che abbiamo imparato a conoscere e valorizzare.

Nella Carta figurano però anche norme che accolgono tutti quei principi che l’evoluzione e lo scorrere del tempo hanno fatto emergere; non possiamo non citare alcune norme molto significative, come l’art.

3 sull’integrità della persona, che potremmo descrivere con una

terminologia approssimativa come la norma che richiama alla considerazione le questioni della bioetica, o l’art. 8 sulla tutela dei dati personali, che potremmo definire come il riflesso delle novità legate alla tecnologia e all’informatica, per arrivare all’art. 9 riguardante la costituzione delle unioni familiari e quindi il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia riducendo – tra l’altro - il riferimento alla diversità di sesso.

Questo articolo segna una rottura col passato e ci fa capire come la Carta di Nizza sia originale e risponda ad esigenze attuali.

Ritornando ai c.d. “Super principi” è emblematico il comportamento delle Corti nazionali dopo la proclamazione della Carta, ed è utile riportare alcuni casi in cui possiamo vedere da vicino questo fenomeno.

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Sulla Dignità.

Per l’art 1 della Carta di Nizza: “La dignità umana è inviolabile. Essa

deve essere rispettata e tutelata”.

Questo è il punto di partenza che è stato scelto come fondamentale, ed a tal proposito parliamo di un caso molto noto, il caso Omega6, nel quale si è dovuta accertare la compatibilità con il diritto comunitario di attività che comportano l’utilizzo di giochi basati sull’uccisione simulata di persone.

Omega era titolare di un contratto di franchising con una società inglese che produceva e commercializzava le attrezzature usate legalmente in quel paese; il Sindaco di Bonn aveva vietato tale attività in quanto contraria all’ordine pubblico, ciò che determinò un ricorso alla Corte federale. Questa confermò il giudizio negativo, ma simultaneamente richiese l’intervento della Corte di Giustizia per valutare la compatibilità con il diritto comunitario della questione, e per accertare se la facoltà degli Stati di limitare le libertà fondamentali (in questo caso di libera circolazione dei beni e di prestazione dei servizi) “ sia subordinata alla condizione che tale restrizione si basi

(29)

su di una concezione del diritto comune a tutti gli Stati”, l’avvocato

Generale 7 ebbe ad affermare che, tranne la Germania, tutti gli Stati nazionali considerano la dignità un principio costituzionale ma non un precetto autonomamente azionabile, un concetto di genere che può essere specificato mediante l’ordine pubblico che i singoli Stati sono liberi di valutare, salvo un controllo della Unione Europea in presenza di “ una minaccia effettiva e abbastanza grave per uno degli interessi

fondamentali della collettività”, che si è reputata presente nel nostro

caso.

La Corte di Giustizia sostenne cosi che c’era effettivamente una violazione della dignità della persona e utilizzò questo parametro normativo in quanto doveva limitare l’esercizio di un altro diritto, quello di libertà economica (ciò’ che veniva opposto dall’Omega era infatti il libero esercizio dell’impresa).

Per noi italiani è forse più facile condividere questa decisione perché l’art. 41 della nostra costituzione dice con estrema chiarezza che il diritto di iniziativa economica non può essere esercitato se in contrasto

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con la sicurezza, la libertà e la dignità umana, e questo ci porta a un’altra importante riflessione, ossia che il ricorso a questi principi non è solo concettuale ma arriva a ridurre l’autodeterminazione della persona imponendo la forza di un (super) principio su altri: quello della dignità previsto dalla Carta di Nizza .

Sulla Libertà.

Fra i quattordici articoli del secondo Capo, che contengono libertà, diritti civili e politici, vi sono disposizioni più volte richiamate da parte delle Corti nazionali.

La nostra Corte Costituzionale ha fatto riferimento all’art. 7 a tutela della vita privata e familiare in riferimento all’estensione delle intercettazioni fra persone presenti, e ha utilizzato l’art. 9 per censurare la previsione del celibato o della vedovanza come requisito per l’accesso ad uffici pubblici come, nel caso esaminato, il reclutamento nella Guardia di Finanza.

Ciò perché la discrezionalità legislativa non deve tradursi “in una

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matrimonio e di non essere sottoposti ad interferenze arbitrarie nella vita privata (art. 8 della CEDU).

Sull’Eguaglianza.

Il capo terzo contiene sette articoli sul divieto di discriminazione, il riconoscimento della parità fra uomini e donne, la garanzia di speciali trattamenti per i bambini, gli anziani e i disabili.

Ed è chiaro anche qui il significato ‘costituente’.

La parità esige il rispetto e la tutela delle diversità, e la Corte di giustizia ha affrontato numerosi casi di discriminazione.

Dopo aver dichiarato l’illegittimità del licenziamento di un transessuale per motivi attinenti al cambiamento di sesso, ha rilevato il contrasto della legislazione inglese, che non ammette la rettifica dei dati anagrafici, con il diritto comunitario in relazione alla richiesta del diritto alla pensione di reversibilità di un transessuale, anche se si è riconosciuto al giudice nazionale di verificare se in tale ipotesi una persona possa “invocare l’art.141 TCE affinché le si riconosca il

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diritto di far beneficiare il proprio convivente di una pensione di

reversibilità”.8

In modo analogo la Corte (prima dell’introduzione nel luglio 2004 della legge inglese sul riconoscimento del genere) ha deciso per il caso di un transessuale, nato di sesso maschile, che aveva presentato domanda di pensione al compimento del sessantesimo anno e si era visto respingere la domanda per non aver raggiunto l’età di 65 prevista in Inghilterra per gli uomini.

Sulla Solidarietà.

I dodici articoli del quarto capo comprendono una prima serie (27-32) sulle disposizioni relative alla posizione del lavoratore, un secondo gruppo (33-35) sulla protezione della vita familiare e della maternità, e un’ultima parte sulla garanzia di accesso ai servizi di interesse economico sociale e sul riconoscimento di un elevato livello di tutela dell’ambiente e dei consumatori.

Nel precisare il diritto fondamentale alla salute e sicurezza nei posti di lavoro, da un lato si rende effettiva tale tutela “attraverso una corretta

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interpretazione del diritto alle ferie retribuite”, dall’altro si

contrastano con il richiamo diretto a tali principi le deroghe convenzionali alla normativa sull’orario di lavoro, mentre particolare spicco si attribuisce al divieto di licenziamento ingiustificato e alla parità di trattamento.

In tutti questi casi la Carta di Nizza ha funzionato come punto di riferimento nell’interpretazione delle leggi nazionali di accoglimento delle Direttive, e i diritti sociali, in essa previsti, si sono imposti come limiti di un esercizio arbitrario dei poteri imprenditoriali; d’altra parte molto spesso il diritto a condizioni di lavoro sicuro e dignitoso (art.31) e il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza (34) sociale sono invocati assieme anche dai Giudici nazionali, mentre l’accesso ai servizi di interesse economico e sociale, la tutela dell’ambiente e dei consumatori hanno costituito la base per la elaborazione di principi invocati dagli avvocati generali e dalle Corti nazionali.

Sulla Cittadinanza.

Per quanto attiene al quinto capo, si è osservato che dalla Carta emergono più gli individui che i lineamenti di una società politica europea, tanto che le “forme di partecipazione democratica non

(34)

acquistano aspetti di significativa novità e sembrano essere

condannati ad essere cosa nazionale.”9

Lo stesso tema dello status di cittadino europeo resta oggetto di dubbi e incertezze, pur tuttavia il diritto ad una buona amministrazione è stato oggetto di ampi richiami nella giurisprudenza comunitaria e nazionale, mentre la libertà di circolazione e di soggiorno “è

generalmente qualificata come il nucleo forte della cittadinanza

europea e come premessa per l’esercizio di altri diritti riconosciuti,

espressamente o implicitamente, al cittadino comunitario (diritto di

esercitare un’attività economica, diritto di acquistare beni immobili,

di donare di stipulare contratti etc.”)10.

L’importanza di questo principio è evidentissima se solo si pensa alla esigenza di regole comuni sulla destinazione e separazione dei beni e sulla disciplina del trust; il conflitto fra autonomia privata e diritti dei terzi, posto a dura prova dalle nuove esigenze di una società complessa, attende negli Stati nazionali e in Europa una composizione e un nuovo equilibrio che può essere solo frutto di una soluzione unitaria.

(35)

Sulla Giustizia.

Come ben sappiamo lo Stato italiano è stato più volte oggetto di condanna da parte della Corte di Strasburgo, con specifico riferimento alle violazioni del diritto ad un giusto processo, tutelato dall’art. 6 CEDU per ciò che, in particolare attiene alla eccessiva durata dei processi.

L’accertata situazione di violazione permanente del diritto ad un giusto processo, ha portato alla necessità di riformare l’art. 111 Cost. e di introdurre, data l’evidente incapacità a risolvere in maniera efficace il problema, la ben nota Legge Pinto11, onde assicurare alle vittime un ristoro patrimoniale.

Si è già accennato più volte a come il Trattato di Lisbona abbia reso giuridicamente vincolante la Carta di Nizza accettando dunque la giurisdizione della C.E.D.U. e compiendo quindi un passo fondamentale per la tutela, la promozione e lo sviluppo dei diritti umani; è però utile ricordare come la Carta prima ancora di avere “valore giuridico” abbia svolto un ruolo importantissimo.

11 Legge, 24/03/2001 n° 89, G.U. 03/04/2001.le recentissime modifiche apportate

(36)

Dal 2000 (Proclamazione Carta di Nizza) centinaia di giudici nazionali e la Corte di Giustizia Europea hanno utilizzato la Carta come ausilio interpretativo e poi come vera ratio decidendi, rafforzando l’interpretazione (che già si era consolidata fra gli studiosi e gli avvocati) che le disposizioni della Carta fossero già rilevanti nei rapporti fra privati.

D’altronde sappiamo che la maggioranza delle decisioni giurisprudenziali che hanno dato rilievo alla Carta (il 90% e forse più) si riferivano a diritti sociali, e ciò che ci permette di rispondere a chi vede la Carta solo come manifesto del libero mercato in Europa, smentendo con i fatti un suo ruolo meramente simbolico.

Nel sistema multilivello che abbiamo descritto la formazione degli avvocati diventa una questione fondamentale, senza la cui soluzione tutto il castello potrebbe crollare, e l’insegnamento dei diritti umani diventa essenziale per poter promuovere e difendere questi diritti; il Consiglio degli Ordini Forensi Europei (CCBE) ha svolto e svolge una battaglia per l’insegnamento dei diritti umani nella formazione iniziale degli studenti in giurisprudenza e in generale dei candidati all’ingresso

(37)

nella professione, una formazione che deve proseguire per tutta la carriera.

Da questo punto di vista, anche gli avvocati italiani son stati attivi, e negli stessi percorsi universitari son frequenti i richiami ai diritti umani, il cui approfondimento si rivela lo strumento essenziale per proteggere e difendere i diritti e le libertà individuali: ciò che rappresenta di per sé l’essenza del ruolo dell’avvocato, ossia la capacità di usare la legge al fine di conservare una società e una vita migliori per le persone, avere conoscenze e competenze approfondite, muoversi con competenza tra gli strumenti legali internazionali.

Più di 500 milioni di persone da 47 Paesi possono oggi, attraverso la proposizione di un ricorso individuale alla CEDU, far valere una violazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ancorate alla Convenzione.

I ricorsi hanno ad oggetto questioni di notevole difficoltà per le autorità ed i Tribunali dei Paesi membri, come ad es. il matrimonio persone dello stesso sesso, la questione del “velo” per le persone di

(38)

fede musulmana, l’adozione di minori da parte di omosessuali, o la procreazione assistita.

Gli oltre 500.000 ricorsi individuali, inoltrati alla Corte testimoniano la fiducia riposta, anche se questo impressionante numero ha condotto alla ratifica del 14° Protocollo aggiuntivo alla CEDU, che ha portato ad una rivisitazione delle regole con finalità dello snellimento e della semplificazione delle procedure di esame delle istanze; è ovvio che un ruolo importantissimo in questo quadro lo detiene l’avvocato, nelle diverse fasi del processo dinnanzi alla corte.

È possibile introdurre un ricorso davanti alla Corte qualora si ritenga di essere vittima diretta di una o più violazioni dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione o dai suoi protocolli. La violazione deve essere imputabile a uno degli Stati vincolati dalla Convenzione (anche se non è necessario avere la cittadinanza di uno degli Stati membri del Consiglio d’Europa).

In questa fase del procedimento non è necessaria l’assistenza di un avvocato, ma la prassi mostra che la maggior parte dei ricorrenti sia

(39)

rappresentata da un avvocato già nel momento della proposizione del ricorso.

Il ruolo del professionista è importantissimo perché un ricorso elaborato in maniera giuridicamente precisa, corredato da un’analisi di casi simili, accresce le prospettive di successo innanzi alla Corte, il cui giudizio non incarna un vero e proprio “estremo mezzo” di impugnazione, nel senso che essa non verifica se ai tribunali statali siano sfuggite circostanze di fatto o errori di diritto; piuttosto, la Corte giudica se siano stati violati diritti umani e libertà fondamentali.

Non appena la Corte abbia comunicato la questione al governo coinvolto dal ricorso, affinché esso possa prendere posizione al riguardo, si impone l’obbligo di difesa tecnica (non esiste una lista di avvocati autorizzati a discutere davanti alla Corte, un ricorrente può essere rappresentato da qualunque avvocato ammesso al patrocinio in uno degli Stati membri).

(40)

Capitolo 3

Norme deontologiche e procedimento disciplinare.

Dopo la panoramica sui diritti fondamentali dello scorso capitolo, ci focalizzeremo adesso sull’ambito nazionale, partendo dalla diatriba sulla natura delle norme deontologiche e analizzando in seguito alcune fra le più importanti novità che il nuovo codice deontologico forense italiano ha posto.

All'avvocato è attribuita un'elevata funzione nella società civile, che trascende la difesa del singolo assistito.

Lo specifica l’art. 1 del Codice Deontologico Forense, precisando che

“L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità

e l’effettività della difesa…”.

Il suo intervento, dunque, è ritenuto necessario per garantire il buon andamento della funzione giurisdizionale e la corretta applicazione delle leggi; il difensore fornisce, infatti, un contributo dialogico essenziale alla formazione della migliore decisione della controversia. A tanto rilievo non possono che corrispondere diritti ed obblighi: i

(41)

È proprio nel codice deontologico e nella legge professionale 31 dicembre 2012, n. 247 che troviamo la sostanza della tutela disciplinare.

Natura delle norme deontologiche.

Art. 2 – Norme deontologiche e ambito di applicazione:

1. Le norme deontologiche si applicano a tutti gli avvocati nella loro

attività professionale, nei reciproci rapporti e in quelli con i terzi; si

applicano anche ai comportamenti della vita privata, quando ne

risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della

professione forense.

La deontologia è rappresentata in senso normativo da un articolato complesso di norme impositive delle regole di condotta, che devono essere rispettate nello svolgimento dell’attività professionale.

Nel corso degli anni si è dibattuto spesso sulla natura delle norme deontologiche; molti autori (tra cui uno dei “padri” della deontologia italiana, Remo Danovi) nel corso dei decenni hanno sostenuto la tesi della giuridicità di tali regole, in contrapposizione con la tesi opposta che relegava la deontologia al campo della "mera" morale.

(42)

Una delle più felici intuizioni di Danovi riguarda la distinzione tra il contenuto delle norme (che può anche essere etico) e la loro natura, che in questo caso è giuridica, in quanto norme inserite nell’ordinamento professionale.12

Secondo un orientamento della Corte di Cassazione nell’ambito dell’espressione “violazione di legge” di cui al comma 7 dell’art 111 Cost., deve essere ricompresa anche la “violazione delle norme di

codici deontologici degli ordini professionali trattandosi di norme

giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’Albo ma che

integrano il diritto soggettivo ai fini della configurazione dell’illecito

disciplinare”,13 statuendo quindi che le regole contenute nei codici

deontologici sono norme giuridiche obbligatorie che integrano il diritto oggettivo e che sono sottoposte al principio di ragionevolezza.

La grande novità della legge professionale 31 dicembre 2012, n. 247, attuata con il nuovo codice deontologico, è quella di sciogliere ogni dubbio, inserendo nella legge il fondamento del potere disciplinare e la natura delle regole.

(43)

La natura delle regole deontologiche, infatti, può ricondursi al rinvio della legge formale, alle regole consuetudinarie, o all'autonomia privata di categoria14; fra i vari indirizzi contrapposti tutti concordano nell’affermare che alla prima fascia (quella delle norme giuridiche a pieno titolo) appartiene il codice dei notai, poiché la L. 27 giugno 1991, n. 220 assegnava al consiglio notarile il compito di elaborare il codice deontologico.

Se pertanto una disposizione di legge prevede un codice deontologico e designa l’autorità decentrata chiamata a redigerlo, le successive norme di attuazione dovranno considerarsi giuridiche a tutti gli effetti senza necessità di indagare sulla loro natura consuetudinaria e a prescindere dal contenuto etico, che ne costituisce la base ma non riduce la forza imperativa.

La disposizione legislativa è oggi la legge professionale che agli articoli 3, 35 comma 1 lett. D e 65 dovrebbe sancire definitivamente la natura giuridica del codice deontologico e delle regole in esso

(44)

contenute, designando nel CNF l’autorità pubblica chiamata a redigerlo e in seguito aggiornarlo.

Questo aspetto non dovrebbe più essere oggetto di discussione, se è vero che le stesse sentenze del passato, quando definivano i codici deontologici come espressione dei poteri di autogoverno e/o di consuetudine, precisavano che il discorso “reggeva” perché detti codici non erano direttamente recepiti da norme di legge15: dunque secondo questo indirizzo, le norme deontologiche sono giuridiche e sono sottoposte alla relativa interpretazione da parte dell’organo giurisdizionale: il CNF e poi, in sede di legittimità, la Corte di Cassazione.

Non vi è contraddizione in questo duplice ruolo del CNF (creatore delle norme, con potestà esclusiva, e poi suo interprete): lo stesso corpo professionale crea le proprie regole e poi le applica (esattamente come accade per i notai e i medici, e come del resto la stessa magistratura italiana ed internazionale rivendica16), con un controllo di legittimità che in ultima istanza compete alla Suprema Corte e uno

(45)

di ragionevolezza e di rispetto dei principi costituzionali e comunitari, che può essere rimesso alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia, come peraltro è già avvenuto in diverse occasioni.

E’ pacifico fin da Cass. sez. Unite, 20 dicembre 2007, n. 26810, che l’interpretazione e l’esame della fonte non sono demandate soltanto al giudice del merito ma alla Suprema Corte nel suo ruolo nomofilattico, e la concentrazione di poteri in capo al CNF risponde invece a esigenze logico/storiche che non sembrano in grado di creare disfunzioni al sistema.

Potremmo quindi oggi affermare con sufficiente certezza, che il codice deontologico racchiude norme di diritto, con contenuto etico, formatesi per consuetudine e oggi legificate: tuttavia di recente la Cassazione sembra aver modificato (o precisato) il proprio orientamento, lasciandoci dunque in una situazione di incertezza e ritornando al concetto che “il codice deontologico forense non ha

carattere normativo ma è costituito da un insieme di regole che gli

organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori

(46)

sede giurisdizionale solo in quanto si colleghi all’incompetenza,

(47)

Novità Codice Deontologico

Tipizzazione delle condotte.

Una delle novità principali del nuovo codice deontologico italiano, inserita dall’art. 3 comma 3, della nuova legge professionale, è l’obbligo di tipizzazione delle condotte illecite.

Questa prescrizione normativa è l’epilogo di un percorso interpretativo delle norme deontologiche in chiave garantista, nel rispetto principio nulla poena sine lege e quindi dell’articolo 25 comma 2, della nostra Costituzione (“nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”).

Il legislatore dunque, ha imposto al C.N.F di emanare un codice deontologico che prevedesse la tipizzazione delle condotte illecite nonché le sanzioni.

Questa, come ricordato, è stata una scelta che ci distingue in Europa rispetto a tutti gli altri Paesi.

Già i lavori preparatori del codice del 1997 evidenziavano che:

“nella sua struttura, il Codice opera una sintesi tra la necessità di

indicare i principi generali e al contempo di tipicizzare i

(48)

l’astrattezza dei principi è temperata dalla tipicizzazione dei

comportamenti... che individuano le fattispecie concrete più

ricorrenti.”18

La giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense ha poi avuto modo di osservare che i canoni contenuti nel codice deontologico:

“adempiono alla funzione di tipizzare, solo nella misura del possibile,

comportamenti deontologicamente rilevanti desunti dall’esperienza di

settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare e sono comunque

esplicitazioni delle regole generali, inidonei quindi ad esaurire la

tipologia delle condotte punibili 19.”

Il codice deontologico del 1997 veniva già a costituire in un certo modo una forma di tipizzazione di regole di comportamento attraverso l’enunciazione di principi generali seguiti dalla indicazione di condotte che si ritenevano lesive di questi stessi principi generali, il

(49)

giurisprudenza del C.N.F. trova oggi rispondenza nella locuzione “per

quanto possibile” adottata dall’art. 3 della legge n. 247/2012 e che:

“deve essere inteso nel senso che ‘di regola’ l’illecito è tipico o

tipizzato – secondo l’interpretazione giurisprudenziale – ma può

essere ricostruito anche sulla base della norma di chiusura, che è

contenuta nella legge forense medesima (articolo 3,comma 2)”20

Nel nuovo codice dunque si attua concretamente la tipizzazione delle condotte illecite per quanto possibile nel senso che di regola l’illecito è tipico, ma può essere ricostruito anche sulla base di una norma di chiusura, contenuta nella legge forense.

In pratica troviamo nel testo del codice una parte speciale con indicate le condotte illecite in maniera specifica, riservandosi poi attraverso l’art. 9, nei principi generali, una norma di chiusura che conferisce coerenza al sistema nel rispetto delle indicazioni di cui all’art. 3 della legge professionale.

(50)

Tale interpretazione ha trovato una conferma ufficiale da parte dell’organo apicale della categoria con l’ormai nota decisione C.N.F. n.137 del 18 settembre 2015, secondo la quale: “Il nuovo Codice

Deontologico Forense è informato al principio della tipizzazione della

condotta disciplinarmente rilevante, “per quanto possibile” (art. 3 c.

3 L. 247/2012), poiché la variegata e potenzialmente illimitata

casistica di tutti i comportamenti (anche della vita privata) costituenti

illecito disciplinare non ne consente una individuazione dettagliata,

tassativa e non meramente esemplificativa….

Conseguentemente, ove l’illecito non sia stato espressamente previsto

(rectius, tipizzato) dalla fonte regolamentare, deve quindi essere

ricostruito sulla base della legge (art. 3 c. 3 cit.) e del Codice

Deontologico, a mente del quale l’avvocato “deve essere di condotta

irreprensibile” (art. 17 c. 1 lett. h)"

L’art. 3 L.247/2012 inoltre dispone che le norme disciplinari dovranno espressamente contenere l’indicazione della sanzione applicabile. Quest’ultima è una novità di non poco conto visto e considerato che nessuna delle norme del vecchio codice deontologico prevedeva una apposita sanzione, che era rimessa alla discrezionalità dell’organo

(51)

medesimo, sia infine la scelta della pena da applicare tra quelle previste.

La nuova legge prevede quattro sanzioni e precisamente: avvertimento e censura, di natura non interdittiva, o sospensione e radiazione, di natura interdittiva.

Anche qui il C.N.F. ha precisato, con la decisione n.137/2015 sopra ricordata, che “Nel caso di illecito atipico, inoltre, per la

determinazione della relativa pena dovrà farsi riferimento ai principi

generali ed al tipo di sanzione applicabile in ipotesi che presentino,

seppur parzialmente, analogie con il caso specifico”.

Principio di autonomia dei procedimenti.

Un altro carattere innovativo della legge professionale è il principio di autonomia dei procedimenti: l’art. 54 stabilisce: “il procedimento

disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni

autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi

(52)

Questa disposizione ha introdotto una novità davvero importante; prima della nuova normativa, infatti, i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale avente ad oggetto il medesimo fatto erano caratterizzati dalla sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del processo penale pregiudiziale.

Infatti, secondo la sentenza della Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 4893 del 2006, in caso di pendenza del procedimento penale avente ad oggetto un medesimo fatto pendente anche nel procedimento disciplinare, quest’ultimo doveva sospendersi necessariamente; la sentenza stabiliva inoltre che a seguito della novella introdotta dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, con la quale venne modificato l’art. 653 c.p.p., quest’ultimo non poteva che interpretarsi nel senso di stabilire una vera e propria pregiudiziale penale rispetto al procedimento disciplinare.

Il procedimento disciplinare doveva quindi essere immediatamente sospeso in attesa di una sentenza penale definitiva.

(53)

Questa condivisibile interpretazione circa la portata dell’art. 653 c.p.p. ha senz’altro influito sulla durata del procedimento disciplinare che, vista la durata di quelli penali, rimaneva talvolta sospesa per anni. In virtù invece di quanto dispone l’art. 54, comma 1, legge n. 247/12, il nuovo procedimento disciplinare si svolgerà e sarà definito con procedure e con valutazioni autonome rispetto al processo penale e ciò anche quando quest’ultimo avrà per oggetto i medesimi fatti. Quindi nessun dubbio sul fatto che la nuova legge professionale afferma un principio di piena autonomia del processo disciplinare con tutte le relative conseguenze.

Proprio il processo disciplinare è l’altro grande “protagonista” delle novità che il che il nuovo Codice Deontologico Forense ha prodotto, ed è' importante darvi uno sguardo costituendo il momento essenziale dell'applicazione delle norme deontologiche.

Il procedimento disciplinare.

Il procedimento disciplinare per gli avvocati è sempre stato oggetto di critiche in quanto si discute, da un lato, l’indipendenza del giudice, cioè il rapporto esistente tra l’incolpato e i consiglieri dell’ordine giudicante, che lo stesso incolpato concorre a nominare e, dall’altro

(54)

lato, la terzietà del giudice, data la concentrazione dei poteri nel Consiglio e l’immedesimazione esistente tra l’organo di iniziativa, l’organo istruente e l’organo giudicante.

La normativa previgente era lacunosa e la giurisprudenza è stata costretta a intervenire con numerose pronunce, richiamando di volta in volta le norme del codice di procedura civile o penale; una riforma è sempre più vigorosamente stata ritenuta necessaria, affermandosi l’idea di affidare il giudizio disciplinare a organi a livello territoriale diversi da quelli esistenti, oltre alla necessità di operare con norme precise e semplificate.

E’ sorto cosi il Consiglio distrettuale di disciplina (C.D.D.), istituito e regolamentato dagli artt. 50 e segg. dalla legge professionale. Il C.D.D esercita dunque il potere disciplinare in primo grado (art. 50.1 e 51.1) per accertare le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta dettati dalla legge o dalla deontologia.

Per quanto riguarda l’impugnazione avverso la decisione del C.D.D, il ricorso si propone sempre avanti al Consiglio Nazionale Forense, costituito in apposita sezione disciplinare: la Legge consente inoltre al C.N.F. anche particolari poteri ispettivi, (art. 63) in ordine all’attività

(55)

Il regolamento n. 2/2014, in conformità al dettato della nuova legge professionale, disciplina le fasi del procedimento disciplinare che si apre, a seguito della notizia di illecito (tramite esposto o denuncia) pervenuta al Consiglio dell'Ordine, il quale è tenuto a darne notizia all'iscritto, invitandolo a presentare le proprie deduzioni entro un termine perentorio, e a trasmettere immediatamente gli atti al C.d.d. competente.

Il procedimento disciplinare consta di tre fasi: la prima, preliminare, in cui viene acquisita la notizia dell'illecito e viene svolta l'istruttoria pre-procedimentale entro sei mesi dall'iscrizione della notizia stessa nell'apposito registro; la seconda, in cui avviene la formulazione del capo di incolpazione e la citazione a giudizio, ovvero la deliberazione dell'archiviazione; la terza, infine, del dibattimento e della decisione, che può concludersi con il proscioglimento (con formula "non esservi luogo a provvedimento disciplinare") ovvero con un richiamo verbale nel caso di infrazioni lievi o, infine, con l'irrogazione della sanzione.

Il C.d.d. competente è quello del distretto in cui l'avvocato (o il praticante) è iscritto oppure quello nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto di indagine o di giudizio disciplinare.

(56)

È previsto l'obbligo, a carico del consigliere istruttore, di redigere verbali da cui risultino tutte le attività espletate (testimonianze, acquisizione di atti, informazioni, ecc.), nonché il diritto di accesso agli atti per l'incolpato.

Viene altresì disciplinato, come accennato, uno speciale potere ispettivo del Consiglio Nazionale Forense, il quale può richiedere notizie ai C.d.d., nominare ispettori per esaminare gli atti, compresi quelli relativi ai procedimenti archiviati, al fine di vigilare sul corretto svolgimento dei procedimenti e sul regolare funzionamento degli organi disciplinari, potendo anche disporre la decadenza dei componenti.

Una volta ultimata la fase decisoria, copia del provvedimento deve essere notificata, da parte della segreteria del C.d.d, sia all'incolpato che al Consiglio dell'Ordine presso cui lo stesso è iscritto, nonché al pubblico ministero e al procuratore generale presso la corte d'Appello del distretto in cui ha sede il C.d.d..

Contro la decisione, è possibile proporre ricorso, entro trenta giorni dalla notifica, ed i soggetti legittimati a ricorrere sono: l'incolpato; il

(57)

Consiglio dell'ordine presso cui l'incolpato è iscritto, e il procuratore generale presso la corte d'appello.

Ove decorrano i termini per l'impugnazione, la decisione diviene esecutiva e il Consiglio dell'ordine presso il cui albo è iscritto l'incolpato deve provvedere all'esecuzione delle sanzioni disciplinari inflitte.

Il procedimento disciplinare ha natura strettamente amministrativa e non giurisdizionale per cui il provvedimento conclusivo dinanzi al C.D.D. è propriamente una decisione e non già una sentenza.

Le sanzioni disciplinari irrogabili agli avvocati sono quattro, quelle di tipo formale (avvertimento e censura) e quelle sostanziali e concretamente afflittive (sospensione e radiazione).

Il primo comma dell’art 22 descrive compiutamente il contenuto della sanzione; per l’avvertimento è un’informazione all’incolpato dell’illecito compiuto, con invito ad astenersi dal commettere altre infrazioni; per la censura è un biasimo; per la sospensione la misura sanzionatoria è l’esclusione dall’esercizio della professione

(58)

temporaneo, da un minimo di due mesi a un massimo di cinque anni; per la radiazione è l’esclusione definitiva dall’albo.

Il quarto comma dell’art 22 introduce inoltre il “richiamo verbale”, che non costituisce sanzione disciplinare, che non comporta alcuna conseguenza pratica nella vita professionale dell’incolpato e che può essere adottata per le violazioni più lievi.

La scelta del codificatore di tipizzare e tassativizzare le sanzioni è sicuramente apprezzabile, perché sottrae al giudice disciplinare un potere troppo ampio e troppo discrezionalmente usato.

Restando in tema di tipizzazione e tassatività delle sanzioni parliamo adesso di un tema sul quale è stata attratta di recente l’attenzione sotto un profilo deontologico, parliamo dunque della negoziazione assistita, che come sappiamo consiste nell’accordo (c.d. convenzione di negoziazione) tramite il quale le parti in lite convengono “di cooperare in buona fede e lealtà”, al fine di risolvere in via amichevole una controversia, tramite l’assistenza di avvocati, regolarmente iscritti all’albo ovvero facenti parte dell’avvocatura per le pubbliche amministrazioni.

(59)

La convenzione deve contenere, a norma dell’art. 2 del d.l. n. 132/2014, sia il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, che non può essere inferiore a un mese e superiore a tre (salvo proroga di 30 giorni su richiesta concorde delle parti), sia l’oggetto della controversia, che non può, come dispone expressis

verbis la norma, riguardare né i diritti indisponibili né materie di

lavoro.

La convenzione deve essere redatta, a pena di nullità, in forma scritta e deve essere conclusa con l’assistenza di uno o più avvocati, i quali certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte all’accordo sotto la propria responsabilità professionale.

Il problema per quanto qui ci riguarda, nasce dalla mancata indicazione della sanzione dei nuovi illeciti espressamente contemplati come tali dal D.L. n.132:

 art.2, c.7 dovere informativa

 art.5, c.4 divieto impugnazione accordo  art. 9, c.1 e 2 lealtà – riservatezza.

(60)

Noi infatti sappiamo, come menzionato in precedenza, che secondo l’Art.3,c.3 L.247/2012 :

“Tali norme (quelle che hanno rilevanza disciplinare) per quanto

possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio

della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa

indicazione della sanzione applicabile”

Tuttavia in questa importante materia mancano del tutto le indicazioni sulle sanzioni, e dunque ci si chiedeva quale fossero le soluzioni praticabili in questo “vuoto” normativo, restando altrimenti la soluzione affidata solo alla retta coscienza dell’avvocato ed al controllo dell’ordine professionale21. Per esempio nel caso della violazione dell’art. 2 sul dovere di informativa sappiamo quale sanzione prevede il Codice Deontologico nell’art. 27 per la violazione dei doveri di informazione, del quale in sostanza la nuova norma è una ipotesi particolare: quella dell’avvertimento;

così per l’art.5, c.4 sul divieto di impugnazione dell’accordo possiamo citare senz’altro l’art. 44 C.D. che rinvia alla censura. Infine la violazione dell’art. art 9, c.1 e 2 sulla lealtà e riservatezza può

(61)

rimandare all’Art. 28 sul riserbo e segreto professionale (ed anche qui si parla di censura)

Come si può notare, possiamo trovare dei riferimenti deontologici che l’avvocato deve o dovrebbe seguire, pur in mancanza delle sanzioni tipizzate che la norma dovrebbe riportare; ed abbiamo sopra ricordata che quella proposta è effettivamente la soluzione poi adottata dal C.N.F. nella decisione n.137/2015, ma il rimedio definitivo non può che essere l’esplicito intervento del C.N.F., che ha tutti i mezzi e i poteri per poter codificare le sanzioni e quindi colmare le lacune normative, e non solo quelle palesate dal d.l. n. 132/2014.

Discusso delle novità che il nuovo codice deontologico ha posto, nel prossimo capitolo entreremo ancor più nel vivo di questo studio parlando dei principi che accompagnano l’avvocato nella sua carriera e di come questi principi diano vita ad alcuni problemi etici controversi.

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