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Variazioni della compliance in cani sottoposti a chirurgia ortopedica: studio retrospettivo

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INTRODUZIONE

La compliance del sistema respiratorio rappresenta la somma della compliance propria dei polmoni e della gabbia toracica. Tale parametro, associato alla resistenza delle vie aeree rappresenta una variabile di fondamentale importanza nella valutazione della meccanica respiratoria al fine di descrivere la capacità polmonare (Cohen & Pittard, 2006). La compliance polmonare esprime la variazione del volume polmonare per variazione unitaria della pressione transmurale polmonare ossia la differenza vigente fra la pressione pleurica e quella alveolare. Mentre la compliance della gabbia toracica è descritta come la variazione del volume polmonare in risposta ad una variazione unitaria della pressione pleurica rispetto la pressione ambientale (Bradbrook, 2013).

Per il calcolo della compliance del sistema respiratorio espresso come valore numerico in ml/cm H2O durante l’anestesia, risulta fondamentale la spirometria. Essa, mediante la registrazione delle differenze di pressione, volume e flusso, ne calcola il valore e permette di visualizzarne graficamente l’andamento. Idealmente la compliance andrebbe misurata in condizione di assenza di flusso poiché questo, genera pressione nelle vie aeree, pressione legata alla resistenza e non realmente alla distensione dei polmoni e della gabbia toracica (compliance statica). Invece risulta facilmente misurabile la cosiddetta compliance dinamica. Essa viene calcolata considerando la pressione di picco delle vie aeree a fine inspirazione assumendo che il flusso sia nullo per un tempo brevissimo a fine inspirazione. Automaticamente, la macchina anestesiologica calcola la compliance dinamica per ogni atto respiratorio e mostra le curve pressione-volume e flusso-pressione-volume. La rappresentazione grafica aiuta l’operatore nell’identificare repentinamente eventuali variazioni della meccanica ventilatoria. (Moens & Staffieri, 2012). Molteplici studi in umana dimostrano una diminuzione della compliance durante l’anestesia ed i dati registrati suggeriscono che l’anestesia sia associata ad una riduzione della compliance polmonare da 190 a circa 150 ml/cm H2O (Tranquilli, 2007).

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Anche decubito, indice di massa corporeo ed eventuali alterazioni nelle caratteristiche delle vie aeree e nel parenchima polmonare risultano direttamente coinvolte nella variazione di tale parametro (Albaiceta et al., 2008; Zanella et al. 2010; Littleton et al.,2012). In veterinaria purtroppo non vi sono studi che approfondiscono le modalità di variazione della compliance e i suoi valori clinici rilevabili in pazienti addormentati. Durante l’anestesia si assiste sempre ad una riduzione della compliance in conseguenza di una diminuzione della CFR dovuta all’atelettasia (Duggan et al., 2005). Nei pazienti canini i valori di compliance dinamica indicizzata sul peso, misurata mediante spirometria dovrebbe aggirarsi fra 0,5 e 2 mL/cmH2O/kg (Moens & Staffieri, 2012), dato, questo, che dimostra l’elevata variabilità della compliance nella specie oggetto dello studio considerando anche la variabilità anatomica delle razze per morfotipo toracico (Soares, 2014).

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CAPITOLO 1

FISIOLOGIA RESPIRATORIA

1.1 - CENNI DI ANATOMIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO

La funzione principale dell’apparato respiratorio è garantire la respirazione, ossia permettere lo scambio di ossigeno e anidride carbonica fra ambiente e tessuti dell’organismo. Ad ogni atto respiratorio costituito dalle fasi di inspirazione ed espirazione viene introdotto ossigeno nell’organismo e rimossa l’anidride carbonica. Le principali fasi che consentono tale scambio sono: la ventilazione polmonare ossia l’aria che entra (ed esce) dall’apparato respiratorio ad ogni atto respiratorio e sua regolazione; la diffusione di ossigeno e diossido di carbonio tra alveoli polmonari e sangue; il trasporto di ossigeno e anidride carbonica nel sangue e nei fluidi corporei per e dalle cellule tissutali dell’organismo (Guyton Hall, 2006). Il sistema respiratorio risulta anche implicato nella termoregolazione, nel metabolismo di sostanze endogene ed esogene e nella protezione dell’organismo dall’inalazione di polveri, gas tossici e/o agenti infettivi (Cunningham, 2012).

L’apparato respiratorio è anatomicamente costituito dalle vie aerifere, organi cavi e tubulari (narici, rinofaringe, laringe, trachea, bronchi) e dai polmoni, organi parenchimatosi pari al cui interno decorrono i due bronchi principali; le successive ramificazioni di questi (sino a 24) portano a una progressiva riduzione del lume ed un aumento esponenziale della superficie di sezione che riduce la velocità del flusso dei gas (che diventa da turbolento a laminare) e la resistenza delle vie aeree (Bufalari & Lachin, 2013).

Nonostante la funzione principale dell’apparato respiratorio sia quella di garantire la respirazione in senso di scambio di O2 e CO2 fra ambiente e tessuti in realtà solo l’ultima parte dell’albero respiratorio partecipa

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effettivamente a tale attività. Pertanto è possibile distinguere le vie aeree in due categorie funzionali strettamente interconnesse: le vie aeree di conduzione, dalla trachea sino ai bronchioli terminali e le vie aeree di scambio, che iniziano dai bronchioli terminali e continuano fino alle loro ultime ramificazioni che insieme costituiscono la struttura dell’acino polmonare, sede della respirazione.

Le vie di conduzione costituiscono nel loro insieme lo spazio morto anatomico poiché rappresentano essenzialmente una via di passaggio per l’aria che li attraversa per raggiungere l’area di scambio. L’aria che vi si ferma, di fatto, non partecipa allo scambio e risulta essere la prima ad essere espirata. La trachea, tubo impari, flessibile e beante che fa seguito alla laringe, è mantenuta aperta dalla presenza di anelli cartilaginei caratteristici la cui successione ne rende la superficie esterna irregolare e rugosa. Tali anelli sono costituiti da lamina di cartilagine ialina contenente anche fibre elastiche che si presenta più ispessita nella sua parte ventrale che in quella dorsale, dove si interrompe. Le estremità nei carnivori, come nell’uomo si presentano tra loro relativamente distanziate di modo che la faccia dorsale risulti esclusivamente membranosa, larga e ben delimitata. Il muscolo tracheale (M. trachealis) è situato nel piano dorsale ed è composto da fasci di cellule muscolari lisce e nei carnivori è situato all’esterno degli anelli. La contrazione di questo muscolo restringe gli anelli cartilaginei diminuendo il calibro della trachea. Caudalmente la trachea si divide nei due bronchi principali ognuno dei quali si immette dopo un breve tratto nell’ilo del rispettivo polmone. Le successive divisioni bronchiali vanno a costituire il cosiddetto albero bronchiale, formato progressivamente da un numero di bronchi maggiore ma di diametro via via inferiore. La distribuzione dei bronchi determina l’architettura stessa dei polmoni. L’ arbor bronchalis inizia dal bronco principale e prosegue con la divisione in bronchi lobari, ciascuno dei quali si distribuisce ad un lobo polmonare situandosi assialmente in questo. Ogni bronco lobare emette a sua volta dei bronchi segmentari, ciascuno dei quali è destinato ad un territorio di ventilazione indipendente. A loro

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volta, i bronchi segmentari si suddividono in bronchi sub segmentali o interlobulari. Questi, dividendosi molteplici volte, danno origine a rami di diametro inferiore a 1 mm. L’area di conduzione termina a livello dei bronchioli terminali (diciassettesima generazione di bronchi). Dal punto di vista strutturale i bronchi appaiono molto simili alla trachea. L’epitelio risulta costituito da cellule caliciformi e ghiandole mucose secernenti muco. Questo, distribuendosi lungo tutto il condotto (anche nelle vie aeree superiori) intrappola particelle estranee contenute nell’aria. Le cellule ciliate, tramite il loro movimento ad una frequenza di circa 10-20 movimenti al secondo, determinano lo spostamento del muco ad una velocità di qualche millimetro per minuto verso la faringe ,dove, muco e particelle intrappolate vengono deglutite. Oltre all’azione di filtrazione, le vie aeree superiori e i bronchi svolgono due altre funzioni importanti che modificano significativamente l’aria che raggiunge gli alveoli: riscaldano l’aria inspirata e la umidificano aggiungendo vapor acqueo e ciò determina una diminuzione nella concentrazione di ossigeno dell’aria inspirata.

I bronchioli sono le prime vie aeree che non presentano più cartilagine nella loro compagine parietale, bensì, muscolatura liscia, in grado di contrarsi o rilassarsi per alterare il diametro delle vie aeree. L’area di scambio inizia a livello dei bronchioli terminali, dove, scompaiono le cellule caliciformi e l’epitelio diviene cubico semplice. Da ogni bronchiolo terminale derivano due bronchioli respiratori, i quali danno origine a loro volta a condotti alveolari da cui si originano gli alveoli polmonari, dilatazioni a fondo cieco tappezzate da estroflessioni. Essi sono disposti a grappolo d’uva e costituiscono, insieme ai bronchioli respiratori e ai condotti e sacchi alveolari, gli “acini polmonari”. Il numero considerevole di alveoli motiva la necessità di un albero bronchiale notevolmente ramificato in modo da distribuire l’aria in maniera uniforme. Lo spessore delle pareti alveolari e dei capillari che li avvolgono non è mai superiore a quello di una cellula, pertanto, l’aria che si trova all’interno degli alveoli è vicinissima al sangue circolante all’interno dei capillari. Ciò favorisce lo scambio di gas per mezzo della diffusione semplice. La barriera alveolo capillare, proprio per

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la sua estrema sottigliezza, può essere facilmente danneggiata da sbalzi pressori del flusso capillare o da insufflazioni ad elevati volumi d’aria causando un cambiamento ultrastrutturale che può determinare fuoriuscita di plasma ed eritrociti nello spazio alveolare. Il complesso intreccio di sottilissimi capillari che avvolgono la componente alveolare polmonare costituiscono l’ultima ramificazione dei cosiddetti vasi dell’ematosi che vanno funzionalmente distinti dai vasi nutritizi. I primi appartengono infatti alla piccola circolazione e si originano a livello della biforcazione terminale del tronco polmonare, punto dove il sangue venoso proveniente dal ventricolo destro raggiunge le arterie polmonari, ognuna delle quali si suddivide in arterie lobari e successivamente segmentarie rimanendo satelliti dei bronchi (con decorso ventrale ad essi) sino alla rete capillare. Le vene polmonari conducono il sangue ossigenato all’atrio sinistro del cuore. I vasi nutritizi, invece, sono appartenenti alla grande circolazione. Si distinguono: le arterie bronchiali le quali derivano dall’aorta e forniscono sangue ricco di ossigeno e nutrienti alla parete bronchiale ed al parenchima polmonare. Inoltre alcuni rami sono responsabili dell’ossigenazione della rete pleurale. I rami peribronchiali terminali formano una fitta rete di capillari intorno ai bronchioli terminali, dove si instaurano anastomosi con i rami dell’arteria polmonare. Le vene bronchiali formano una duplice rete, superficiale e profonda e quest’ultima drena le pareti dei bronchi ed i suoi rami efferenti sboccano nelle grosse vene polmonari. Mentre la rete superficiale decorre ventralmente alla pleura, comunica con la rete delle vene polmonari ed è drenata dalle vene pleuropolmonari che fanno capo alla terminazione della vena azigos (Barone, 2012).

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1.2- MECCANICA RESPIRATORIA E VENTILAZIONE POLMONARE

La meccanica respiratoria che determina l’aumento del volume polmonare durante la fase di inspirazione è dovuta in primis ad una contrazione attiva del diaframma che, spostandosi caudalmente, opera una trazione diretta sulla superficie caudale (diaframmatica) dei polmoni e secondariamente alla contrazione simultanea della muscolatura intercostale che determina un aumento del diametro ventro-dorsale della cassa toracica. Nella fase di espirazione del ciclo respiratorio, invece, il diaframma si rilascia, mentre la forza di ritorno elastico del polmone, della gabbia toracica e delle strutture addominali promuovono la fuoriuscita d’aria dai polmoni passivamente. Tuttavia, quando la frequenza respiratoria aumenta, le forze elastiche non sono sufficientemente potenti per garantire una espirazione più rapida ed efficace, pertanto intervengono i muscoli addominali che, contraendosi attivamente, spingono gli organi addominali contro la superficie caudale della cupola diaframmatica la quale esercita una compressione diretta sui polmoni(Guyton Hall, 2006). Quest’ultimi, per poter espandersi e collassare ciclicamente non presentano connessioni rigide con la parete toracica (eccetto che a livello dell’ilo tramite il quale risultano sospesi al mediastino) e sono rivestiti da una sottile pleura viscerale mentre la parte interna della gabbia toracica è rivestita dalla pleura parietale. Fra di esse vi è una modesta quantità di liquido pleurico con azione lubrificante, la cui rimozione continua per via linfatica esercita un effetto “aspirante” tra le due pleure. Ciò comporta la presenza di una pressione leggermente negativa in fase di riposo (-5 cmH2O) che diviene ancor più negativa durante l’inspirazione e che facilita l’espansione polmonare durante questa fase. Oltre alla pressione pleurica sopra esplicata, bisogna considerare la pressione alveolare, ossia la pressione d’aria contenuta negli alveoli polmonari. Quando non vi è alcun flusso d’aria, (a glottide aperta) la pressione in tutto l’albero respiratorio è uguale a quella atmosferica che viene considerata uguale a 0 cmH2O. Per consentire l’entrata d’aria negli alveoli, tale valore pressorio diminuisce al di sotto del valore basale,

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raggiungendo, durante la normale inspirazione, un valore prossimo a -1 cm H2O. Durante l’espirazione la pressione intra-alveolare ha un andamento opposto, esitando in un aumento fino a + 1 cmH2O e consentendo la fuoriuscita della medesima quantità d’aria precedentemente inspirata. La differenza fra la pressione alveolare e la pressione pleurica viene indicata come pressione transpolmonare responsabile della pressione di retrazione elastica (o pressione di ritorno elastico). Pertanto la compliance polmonare, definita anche come distensibilità polmonare, è espressa come l’aumento di volume polmonare causato da un incremento unitario di pressione transpolmonare. Le forze da cui dipende la distensibilità polmonare sono la forza elastica del tessuto polmonare, attribuita alla presenza di un intreccio di fibre di elastina e collagene che compongono il parenchima polmonare in grado di allungarsi e stirarsi quando il polmone si espande, e la forza elastica determinata dalla tensione superficiale del fluido che bagna le pareti alveolari. (Guyton Hall 2006) Tale fluido è rappresentato dal surfactante alveolare prodotto da particolari cellule presenti nell’epitelio alveolare. Quest’ultimo, anatomicamente è uno strato estremamente sottile, ed è composto perlopiù da pneumociti di I tipo (detti anche alveolocytus respiratorius) cellule appiattite e larghe, distese in un solo strato, il cui spessore varia da 0,02 a 0,05 µm e che presentano un nucleo ovalare che determina appena un leggero rilievo nel lume dell’alveolo. Oltre a queste cellule, vi sono i pneumociti di II tipo, cellule epiteliali disseminate in piccoli gruppi o singolarmente inframezzate alle cellule precedenti, meno numerose e molto meno distese e più ispessite dei pneumociti di I tipo. Per le loro dimensioni prendono il nome di Alveolocytus magnus. Essi costituiscono in totale circa il 10% della superficie degli alveoli e presentano inclusioni lipidiche all’interno dei corpi multi lamellari citoplasmatici e sono questi i responsabili della produzione del surfactante, tensioattivo costituito da una miscela di diversi fosfolipidi, proteine e ioni, responsabile della riduzione della tensione superficiale. Oltre a queste cellule nell’epitelio vi sono i macrofagi alveolari

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(phagocyti alveolares) responsabili della fagocitosi del pulviscolo e di altri elementi estranei assai piccoli (Barone, 2012).

Per comprendere la funzione del surfactante nella riduzione della tensione superficiale in sede alveolare è necessario rifarsi, innanzitutto, al principio della tensione superficiale dei fluidi, ossia la forza di coesione che si esercita fra le molecole superficiali di un liquido. Le molecole d’acqua più superficiali di una fase liquida a contatto con aria sono sottoposte ad un’intensa forza di attrazione reciproca, che riduce al minimo la superficie di contatto tra le due fasi. A livello della superficie interna alveolare questa tendenza ha il risultato di spingere l’aria fuori dagli alveoli. L’effetto netto è l’espressione di una forza di retrazione elastica che si manifesta in tutto il polmone, anche detta forza elastica di tensione superficiale. Inoltre i fosfolipidi costituenti il surfactante non sono completamente dissolti nel liquido alveolare, ma una parte della molecola, idrofila, si discioglie, mentre l’altra componente, idrofoba, si dispone sull’interfaccia acqua-aria orientandosi verso la fase gassosa. Grazie a ciò, sulla superficie del liquido alveolare si esercita una tensione superficiale che va da 1/12 a 1/2 di quella normalmente esercitata a livello di una superficie di acqua pura (Guyton & Hall, 2006).

La ventilazione, ossia lo scambio O2-CO2 fra alveolo e capillare avviene mediante il processo di diffusione. Per ottimizzare lo scambio ventilatorio gli alveoli, ognuno dei quali dal diametro di 1/3 di millimetro, hanno una forma poliedrica di modo da aumentare considerevolmente la superficie alveolare interna destinata alla diffusione che ha dimensioni totali che possono raggiungere i 100 metri quadrati. Il trasferimento di gas attraverso la membrana respiratoria (e quindi la direzione di trasferimento: alveolo-capillare o viceversa) dipende essenzialmente dal coefficiente di diffusione e dalla differenza di pressione dei gas. Il coefficiente di diffusione è determinato dalla solubilità del gas nella membrana ed è inversamente proporzionale alla radice quadrata del peso molecolare dello stesso gas. La solubilità dei gas attraverso la membrana respiratoria ha una velocità sovrapponibile a quella di diffusione nell’acqua, pertanto considerando la

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differenza di pressione parziale nell’aria, l’anidride carbonica diffonde ad una velocità 20 volte superiore a quella dell’ossigeno, che a sua volta diffonde ad una velocità doppia rispetto l’azoto. La differenza di pressione attraverso la membrana respiratoria corrisponde alla differenza di pressione parziale del gas negli alveoli e quella del medesimo gas nel sangue. Per pressione parziale alveolare si intende essenzialmente il numero delle molecole di gas che colpiscono l’unità di superficie della membrana alveolare nell’unità di tempo. Mentre la pressione parziale nel sangue è esprimibile come il numero complessivo di molecole del dato gas che colpiscono la stessa area di membrana dal versante ematico (nel lato opposto) nell’unità di tempo. La differenza fra questi due valori pressori rappresenta pertanto la tendenza netta dei gas ad attraversare la membrana. Infatti l’ossigeno (che ha pressione nettamente maggiore a livello alveolare rispetto alla sua pressione nel sangue) diffonde dagli alveoli al sangue. Mentre la CO2 (che all’opposto, presenta una pressione maggiore nel sangue rispetto l’area alveolare) diffonde dal sangue agli alveoli (John & Hall, 2012).

Per studiare la ventilazione polmonare un semplice metodo, consiste nella registrazione del volume d’aria che entra ed esce dai polmoni mediante la spirometria e il grafico che ne deriva viene detto spirogramma. Per schematizzare la descrizione degli eventi della ventilazione, in questo tipo di diagramma il volume d’aria contenuto nei polmoni viene suddiviso in quattro volumi e quattro capacità polmonari:

Il volume corrente o volume tidalico (VT) è il volume d’aria inspirato o espirato ad ogni atto respiratorio normale (ossia non forzato). Il VT nel soggetto conscio varia leggermente con la specie, da 8 ml/kg nel gatto a 10-16 ml/kg nel cane (Bufalari & Lachin, 2012).

Il volume di riserva inspiratoria (VRI) è il volume d’aria che può essere inspirato ulteriormente, nell’inspirazione forzata alla fine di un’ inspirazione normale. Il volume di riserva espiratoria (VRE) è il massimo volume d’aria che può essere espirato con un’espirazione forzata eseguita a partire dalla fine di un’espirazione corrente.

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Il volume residuo (VR) è il volume d’aria che rimane nei polmoni dopo un’espirazione massimale. Tale volume è di importanza cruciale per l’ottimizzazione della ventilazione alveolare. Infatti durante l’espirazione i bronchioli respiratori tendono a collassare a causa della pressione esterna positiva che si crea per la retrazione del torace, mentre gli alveoli data la loro forma poliedrica e la presenza del tensioattivo, tornano al volume iniziale lentamente mantenendo la loro struttura e intrappolando l’aria. Ciò permette di garantire gli scambi gassosi anche nelle pause respiratorie mantenendo costanti le concentrazioni di ossigeno e di anidride carbonica nel sangue. Le capacità polmonari altro non sono che combinazioni di volumi polmonari e risultano indispensabili per schematizzare gli eventi del ciclo respiratorio.

La capacità inspiratoria (IC) è data dalla somma del volume corrente e del volume di riserva inspiratoria ed è la quantità massima d’aria che si può inspirare partendo da una normale espirazione ed espandendo i polmoni sino al massimo volume che essi possono contenere.

La capacità funzionale residua (CFR) è uguale alla somma del volume di riserva espiratoria più il volume residuo. Rappresenta il volume d’aria che rimane nei polmoni alla fine di una normale espirazione. La CFR è il punto in cui si instaura un equilibrio fra le forze elastiche del polmone che tendono verso il mediastino e quelle della gabbia toracica, generate dal tono dei muscoli respiratori che spingono verso l’esterno. Fattori che influiscono negativamente sulla CFR di un animale sano sono obesità, gravidanza, posizione supina di decubito e anestesia. In medicina risulta talvolta indispensabile conoscere il volume d’aria che corrisponde a tale capacità poiché rappresenta un volume di riserva a cui l’organismo può ricorrere in situazioni di blocco respiratorio e contribuisce a mantenere abbastanza costante la composizione dell’aria alveolare. La sua diminuzione induce a modificazioni della distribuzione dell’aria nei polmoni e questo concorre all’instaurarsi di zone poco ventilate anche se equamente perfuse (Clement, 2009).

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La capacità vitale (VC) è uguale alla somma del volume di riserva inspiratoria, del volume corrente e del volume di riserva espiratoria. Indica il massimo volume d’aria che una persona può espellere dai polmoni con un’espirazione massimale dopo averli riempiti quanto più possibile.

La capacità polmonare totale (TC) è la somma della capacità vitale più il volume residuo ossia il massimo volume al quale i polmoni possono essere espansi con un’inspirazione massimale.

1.3- DIFFUSIONE, CIRCOLAZIONE POLMONARE, RAPPORTO VA/Q

Il passaggio del processo respiratorio che segue la ventilazione è la diffusione dell’ossigeno dagli alveoli al sangue polmonare e dell’anidride carbonica nella direzione opposta. Il processo di diffusione è semplicemente dovuto ai movimenti casuali delle molecole che incrociano i loro percorsi in tutte le direzioni attraverso le membrane respiratorie e i fluidi adiacenti (Guyton & Hall, 2006). È un movimento passivo dei gas in funzione del loro gradiente di concentrazione (pressione parziale). La direzione della diffusione netta del gas è determinata infatti dalla differenza tra i valori di pressione parziale del gas nelle due fasi. Se la pressione parziale è più elevata nella fase gassosa alveolare, come normalmente avviene per l’ossigeno, saranno in numero maggiore le molecole che diffondono dall’alveolo al sangue. Al contrario, se la pressione parziale di un gas è più elevata nella fase disciolta nel sangue come normalmente accade per l’anidride carbonica, la diffusione netta avverrà dal sangue all’alveolo. Conoscendo la composizione dell’aria alveolare è possibile determinare la pressione parziale dei gas nell’alveolo che è approssimativamente 100 mmHg per l’ossigeno e 40 mmHg per la CO2 (Lumb & Jones, 2007). Tale gradiente condiziona fondamentalmente la velocità con cui si verifica il processo di diffusione fra alveolo e sangue (VO2). Essa risulta in definitiva condizionata da: proprietà fisiche del gas

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che determinano il coefficiente di diffusione (D), dall’ampiezza della superficie disponibile per la diffusione (A) dallo spessore della barriera aria-sangue (x) e come già spiegato dalla forza propulsiva determinata dal gradiente di pressione fra alveolo e sangue (PAO2 - PcapO2):

VO2 = A • D • ( PAO2 - PcapO2) / x

Tale formula è definita come Legge di Fick. Il coefficiente di diffusione del gas (D) risulta essere proporzionale alla solubilità dei gas e inversamente proporzionale alla radice quadrata del suo peso molecolare. Vale a dire che la velocità relativa alla quale i diversi gas diffondono a parità di pressione parziale è proporzionale al loro coefficiente di diffusione. Infatti l’anidride carbonica diffonde 20 volte più rapidamente dell’ossigeno attraverso i tessuti perché presenta simile peso molecolare ma solubilità più elevata (West, 2003).

La membrana alveolo-capillare presenta uno spessore complessivo che varia da 0,2 a 0,6 µ (essendo maggiore solo in corrispondenza dei nuclei cellulari) ma al suo interno si compone in sei diversi strati: liquido che riveste l’alveolo (surfactante), epitelio alveolare, membrana basale dell’epitelio, spazio interstiziale tra epitelio e endotelio, membrana basale del capillare che in molti punti si fonde con la membrana basale epiteliale, e infine endotelio capillare. Ogni capillare presenta un diametro di appena 5µ, per cui un globulo rosso vi può passare deformandosi. Perciò la membrana dell’eritrocita è praticamente in contatto con la parete del capillare e quindi ossigeno e anidride carbonica diffondono attraverso la membrana dell’alveolo e quella del globulo rosso senza quasi dover attraversare il plasma. Ovviamente ciò concorre alla rapidità della diffusione poiché determina un assottigliamento dello spessore della membrana respiratoria. Il processo di diffusione è un processo che prosegue fino a che non venga raggiunto un equilibrio tra le due fasi e ciò avviene ad una certa velocità condizionata dalle caratteristiche sopradette. In particolare il raggiungimento dell’equilibrio tra gas alveolare e sangue

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dipende dal grado di affinità del gas con l’emoglobina. Ed è tanto più ritardato quando più alta è l’affinità dell’emoglobina per il gas. Nel caso dell’O2 il suo gradiente di pressione diminuisce rapidamente per l’incremento del valore della PO2 del sangue mentre esso scorre lungo il capillare determinando un gradiente pressorio uguale a 0 circa ad 1/3 della lunghezza del capillare, punto in cui si raggiunge l’equilibrio del suddetto gas fra aria e sangue. Per l’O2 il trasferimento è normalmente perfusione

limitato, anche se, in condizioni patologiche che determinano l’alterazione

della membrana respiratoria (ispessimento), può divenire diffusione

limitato. Inoltre, in caso di intenso esercizio fisico, l’aumentato consumo di

O2 a livello muscolare determina la diminuzione della PO2 venosa, mentre la PO2 alveolare risulta aumentata dall’iperventilazione. Il gradiente di pressione maggiore che ne risulta, associato ad un incremento della superficie di scambio dovuta ad un maggior reclutamento dei capillari, esitano in un aumento della velocità di diffusione e quindi il raggiungimento dell’equilibrio in un tempo di transito del sangue ridotto. Anche la CO2 subisce un trasferimento perfusione limitato analogamente alla O2.

L’integrità della membrana alveolare viene valutata tramite la capacità di diffusione di un gas a livello polmonare, ossia il volume espresso in ml che diffonde nell’unità di tempo (1 minuto) attraverso la membrana alveolo capillare per una differenza di pressione di 1 mmHg. Altro fattore da considerare è la resistenza alla diffusione condizionata dalla membrana, dal capillare e dalla saturabilità dell’emoglobina (Hb) per l’O2 o la CO2.

Il volume del sangue polmonare è circa il 9% del volume totale di sangue dell’intero sistema circolatorio. Di questo volume, circa il 15% è contenuto nei capillari ematici polmonari, mentre il resto è considerato pressoché equamente suddiviso fra arterie e vene polmonari.

Inoltre, in varie condizioni fisiologiche e patologiche, il volume di sangue contenuto nei polmoni può variare entro limiti compresi fra la metà e il doppio del normale. Ad esempio un’emorragia sistemica può essere in parte

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compensata mediante lo spostamento di sangue dai vasi polmonari a quelli sistemici.

Il flusso di sangue arterioso ai polmoni è essenzialmente uguale alla gittata cardiaca per cui i fattori che regolano il flusso ematico polmonare sono quelli, soprattutto periferici, che controllano la gittata cardiaca (Guyton & Hall, 2006).

La circolazione polmonare è un sistema ad alta portata (circa 6 litri/minuto) ed a bassa resistenza. Poiché le arteriole non forniscono elevata resistenza, il flusso capillare a differenza di quello sistemico non è costante ma pulsatile, ciò dipende dai movimenti respiratori e sfigmici (Fonda, 2012). Quasi sempre i vasi polmonari si comportano come condotti passivi dalle pareti cedevoli, in grado di dilatarsi conseguentemente ad un aumento della pressione o di ridurre il calibro per la diminuzione della pressione. Per ottimizzare la ventilazione e quindi ossigenare il sangue, è importante che il flusso ematico polmonare si distribuisca prioritariamente attraverso i segmenti del polmone dove gli alveoli sono meglio ossigenati. Per fare ciò esiste un controllo automatico della distribuzione del flusso ematico specifico del circolo polmonare. Quando la concentrazione di O2 nell’aria alveolare diminuisce al di sotto della norma, soprattutto quando scende sotto il 70% del valore normale (cioè al di sotto di un valore di PO2 di 73 mmHg) i vasi sanguigni in prossimità agli alveoli si costringono e la resistenza vascolare aumenta (fino a 5 volte il valore normale). Tale risposta, che è assolutamente esclusiva della circolazione polmonare, sembra essere dovuta alla produzione di una sostanza vasocostrittrice ancora sconosciuta, da parte delle cellule dell’epitelio alveolare sottoposte ad ipossia. Tale controllo, che prende il nome di vasocostrizione ipossica, risulta determinante perché consente di dirottare il flusso verso le zone polmonari con una maggiore pressione parziale di O2, evitando che il sangue raggiunga alveoli poco ossigenati e quindi poco utili ai fini dell’ossigenazione del sangue.

Inoltre, il flusso ematico a livello polmonare subisce l’effetto della pressione idrostatica, ossia il peso della colonna di sangue presente nei vasi.

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Nell’uomo in posizione eretta il punto più basso del polmone si trova a 30 centimetri di distanza dal punto più alto e ciò determina una differenza di 23 mmHg di pressione (15 mmHg rispetto alla pressione a livello dell’arteria polmonare e 8 mmHg al di sotto). Le differenze di pressione sopraelencate hanno un notevole impatto sul flusso sanguigno nelle diverse aree del polmone determinando nel soggetto in posizione eretta un’irrorazione maggiore nelle regioni dipendenti, rispetto alle aree più alte del polmone (fino a 5 volte) (Guyton & Hall, 2006)

Ai fini di spiegare e schematizzare grosso modo queste differenze del gradiente gravitazionale si descrive il polmone come suddiviso in tre zone cosiddette di “West” (successivamente modificata in quattro zone) in base al rapporto fra pressione alveolare (PAlv) pressione capillare (Pv) e pressione arteriosa (Pa):

• La zona 1, “del collasso” caratterizzata da assenza totale di flusso sanguigno in tutte le fasi del ciclo cardiaco, poiché la pressione nei capillari di questa zona non è mai(in nessuna fase del ciclo cardiaco) superiore alla pressione alveolare (PAlv> pa>Pv).

• La zona 2, “della cascata” caratterizzata da flusso sanguigno intermittente, che si verifica soltanto quando la pressione arteriosa è vicina al valore sistolico, poiché in questa zona del polmone la pressione del sangue supera la pressione alveolare solo durante la fase sistolica del ciclo cardiaco (Pa>PAlv>Pv).

• La zona 3, “della distensione” caratterizzata da flusso sanguigno continuo perché la pressione capillare in questa zona è maggiore di quella alveolare durante l’intero ciclo cardiaco (Pa>Pv>PAlv). • La zona 4, “della pressione interstiziale” caratterizzata da

imbibizione dello spazio interstiziale (aumento della Pi) e riduzione del volume polmonare (Pa>Pi>PAlv>Pv).

Generalmente nel soggetto conscio in stazione sono presenti solo regioni che hanno il comportamento delle zone 2 e 3 e precisamente zona 2 agli apici polmonari, mentre zona 3 in tutte le restanti porzioni (Guyton & Hall, 2006).

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Ma ogni zona può trasformarsi in quella continua mediante distendibilità e reclutamento. Durante l’anestesia si assiste, invece, ad un aumento delle zone 1, corrispondenti allo spazio morto alveolare (che concorre allo spazio morto fisiologico) e delle zone 4, di particolare interesse per la possibile evoluzione in edema polmonare, complicanza grave dell’anestesia che va assolutamente evitata.

Per meglio comprendere le conseguenze di uno squilibrio fra ventilazione alveolare (VA) e flusso sanguigno alveolare (Q) è necessario osservare la variabilità del rapporto fra queste due misure: VA/Q.

Il rapporto VA/Q di aree normalmente ventilate e perfuse si aggira intorno ad un valore di 0,8 con capillari alveolari che a fine scambio presentano una tensione di ossigeno pari a 100 mmHg ed una tensione di anidride carbonica pari a 40 mmHg. Mentre un abbassamento del rapporto VA/Q corrisponde ad una diminuzione del grado di ventilazione alveolare che seppure associata ad una buona irrorazione conduce ad un abbassamento della tensione di ossigeno ed un aumento di anidride carbonica nel sangue che abbandona questi alveoli. Quando il rapporto VA/Q raggiunge il valore 0 (ventilazione alveolare nulla) la tensione di ossigeno e di anidride carbonica nel sangue dei capillari alveolari raggiunge un valore pressoché uguale, pari a 46 mmHg. Mentre quando il rapporto VA/Q è alto, ossia in tutti quei casi in cui l’irrorazione polmonare è ridotta mentre la ventilazione è mantenuta, il sangue che lascia queste zone ha una più alta tensione di ossigeno ed una più bassa tensione di anidride carbonica rispetto a quello che deriva dalle unità che hanno un rapporto VA/Q di 0,8. Nel caso estremo dell’irrorazione assente (spazio morto alveolare) il rapporto VA/Q raggiunge valore infinito e la tensione di ossigeno e anidride carbonica nel capillare in uscita assume valori rispettivamente di 145mmHg e 5mmHg. (Cunningham, 2006)

Siccome la CO2 è più diffondibile attraverso la membrana alveolo capillare rispetto l’ossigeno, l’alterazione del rapporto VA/Q, comunemente, porta ad una diminuzione dei valori della PaO2 prima che si assista ad una diminuzione nei livelli della PaCO2. Infatti, è possibile compensare i livelli

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di CO2, in caso di assente ventilazione di porzioni polmonari attraverso l’aumento della ventilazione delle altre zone polmonari, mentre, la compensazione dei livelli di O2 non potranno mai essere compensati completamente in aree dove vi è un inadeguato uptake del suddetto gas. Infatti poiché la CO2 passa molto facilmente la barriera alveolo capillare ed è presente prevalentemente libera come bicarbonato od in forma solubile nel sangue, l’entità della sua diffusione nello spazio alveolare varierà linearmente con la differenza di concentrazione tra alveolo e capillare, essendo determinata prevalentemente dalla pressione parziale di CO2 a livello alveolare e quindi dalla ventilazione. Tale meccanismo consente all’organismo di superare abbastanza facilmente innumerevoli condizioni di ipercapnia. Viceversa i meccanismi di compenso della concentrazione ematica di O2 risultano molto meno efficienti e ciò deriva dal fatto che l’ossigeno, scarsamente solubile nel sangue, necessita di elevate concentrazioni alveolari dovendosi legare all’emoglobina (Lumb & Jones, 2007).

Il legame emoglobina-ossigeno avviene mediante un meccanismo cooperativo e pertanto si assiste ad una crescita non lineare delle concentrazioni di O2 in risposta alla diffusione di O2 stesso dagli alveoli al sangue. Inoltre il legame Hgb-O2 è saturabile, ossia non è possibile ottenere incrementi significativi della concentrazione di ossigeno oltre ad una certa pressione parziale del gas ed oltre il tempo necessario a completare la saturazione del legame Hgb-O2. Per incrementare la concentrazione di O2 ematica è, pertanto, necessario un continuo apporto di sangue ed una adeguata ventilazione alveolare a livello dell’intero sistema respiratorio. Quindi è evidente che in situazioni in cui il rapporto VA/Q è alterato, un aumento della ventilazione può non essere efficace per compensare la concentrazione di O2 al contrario di quanto avviene per la concentrazione della CO2.

La riduzione dell’ossigenazione nel sangue può essere condizionata da molteplici cause (oltre che dall’alterato rapporto tra ventilazione e perfusione).

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L’alterazione della velocità di diffusione a livello della membrana alveolo capillare può determinare una conseguente ipossiemia considerando che la pO2 dei capillari raggiunge quasi quella alveolare dopo 1/3 del tempo totale di contatto (ossia 3/4 di secondo). Inoltre una situazione di ipoventilazione alveolare determina una caduta dei valori della PO2 e contemporaneo aumento della PCO2, tale concetto è spiegato dalla seguente equazione:

PCO2 = (VCO2/VA) KlaPCO2

Dove PCO2 è direttamente proporzionale alla VCO2 ossia la produzione di CO2 dell’organismo mentre è inversamente proporzionale alla ventilazione alveolare (VA). Quindi l’ipoventilazione alveolare aumenta la PCO2 seppure non riduca allo stesso modo la PO2. Anche se l’aumento della PCO2 determina una riduzione della PO2 secondo l’equazione dei gas alveolari:

PAO2= (Patm-PH2O) · FIO2 – PACO2/QR

La pressione dell’ossigeno nelle vie aeree è uguale a (Patm-PH2O) moltiplicato per la frazione inspiratoria di O2 (FIO2), che quando respiriamo aria è 0,21. La PAO2 assume pertanto il valore: (760-47) × 0,21=149,7 mmHg.

Il secondo termine dell’equazione mette in relazione PACO2 ovvero la pressione di CO2 a livello alveolare (che risulta assimilabile a quella dei capillari venosi e pertanto 40 mmHg), diviso il QR (rapporto tra la produzione di CO2 e il consumo di O2 che fisiologicamente assume valore 0,8). L’equazione dei gas alveolari ci dice, in altre parole, che laPAO2 dipende dall’ossigeno che arriva negli alveoli [(Patm-PH2O) · FIO2] sottratta la CO2 che negli alveoli c’è già (PCO2/QR). Pertanto in una situazione di QR fisiologico, una riduzione di PAO2 porterà ad una riduzione di ossigeno alveolare e di conseguenza ematico, a meno che non sia incrementato il valore della frazione di ossigeno inspirata. Altra situazione che, normalmente, porta ad una diminuzione della ossigenazione

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del sangue è costituito dallo shunt polmonare (Qs/Qt). Esso consiste nel passaggio di sangue dal distretto venoso all’arterioso in assenza di ossigenazione. Fisiologicamente la quota di shunt si assesta intorno al 2% del valore della gittata cardiaca ossia la quota di sangue venoso coronarico che attraverso le vene di Tebesio si getta direttamente nel ventricolo sinistro. Il volume totale di sangue shuntato in 1 minuto è detto shunt fisiologico e può essere misurato mediante misure simultanee della concentrazione di ossigeno nel sangue venoso misto e nel sangue arterioso e della gittata cardiaca. Da questi valori è possibile calcolare lo shunt fisiologico tramite l’equazione:

Qps/Qt = (CiO2-CaO2)/(CiO2-CvO2)

Dove Qps è il valore dello shunt fisiologico per minuto, Qt è la gittata per minuto, CiO2 è la concentrazione di O2 nel sangue arterioso per un valore ideale di rapporto Va/Q mentre CaO2 è la concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso e CvO2 rappresenta la concentrazione di O2 nel sangue venoso misto. Ad un aumento del valore dello shunt fisiologico corrisponde un incremento della quantità di sangue che non può essere ossigenata passando per i polmoni. (Guyton & Hall, 2006)

1.4- TRASPORTO DI O2 E CO2 NEL SANGUE E NEI TESSUTI

Circa il 98% del sangue che dai polmoni giunge all’atrio sinistro passa attraverso i capillari alveolari polmonari dove viene ossigenato ad una PO2 di 104mmHg. Il restante 2% viene condotto dall’aorta alla circolazione bronchiale, irrorando i tessuti delle strutture più profonde del parenchima polmonare bypassando i capillari alveolari e quindi costituisce il flusso di shunt, con una PO2 simile a quella del sangue venoso sistemico normale, pari a circa 40 mmHg. Quando questo sangue si unisce nelle vene

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polmonari al sangue ossigenato proveniente dai capillari alveolari avviene la commistione venosa che determina una riduzione della PO2 del sangue che entra nel cuore sinistro ad un valore prossimo a 95mmHg e mantiene lo stesso valore sino ai capillari arteriosi, i quali risultano direttamente implicati nell’ossigenazione dei tessuti di tutto l’organismo. In condizioni fisiologiche quasi tutto l’ossigeno (il 97 %) è trasportato ai tessuti legato all’emoglobina, mentre solo una piccola parte del totale (il 3 %), raggiunge i tessuti disciolto nella fase liquida del plasma e dei globuli rossi. Il legame fra emoglobina e ossigeno che permette lo scambio di ossigeno fra sangue e tessuti è un legame reversibile che interessa il gruppo Eme dell’Hgb. Ogni molecola di emoglobina, proteina globulare a struttura quaternaria, presenta al suo interno quattro gruppi eme costituiti, ciascuno, da una molecola di protoporfirina legata ad uno ione ferro (II). L’HbO2, ossia la forma legata all’ossigeno prende il nome di ossiemoglobina mentre la sua forma ridotta Hb corrisponde alla desossiemoglobina. Data la sua struttura, ogni molecola di Hgb è in grado di legarsi simultaneamente a 4 molecole di O2 e quando ciò si verifica si dice che è “satura”. Infatti la saturazione dell’emoglobina indica il rapporto percentuale fra numero medio di molecole di O2 realmente legate all’Hgb e il massimo numero di molecole di O2 che potrebbero legarsi all’Hgb. La saturazione dell’emoglobina risulta essere condizionata dalla pressione parziale dell’ossigeno. Ciò è collegato alla variabilità conformazionale che interessa le molecole di Hgb in grado di passare da uno stato conformazionale a bassa affinità per l’O2 definito stato T (teso) ad uno ad alta affinità per l’O2 definito stato R (rilassato). L’opposto avviene in prossimità dei tessuti dove l’emoglobina rilascia ossigeno passando dallo stato R allo stato T. La curva di dissociazione dell’ossiemoglobina mostra come la percentuale di saturazione dell’Hgb aumenti, progressivamente, all’aumentare della PO2.

La normale saturazione in ossigeno del sangue arterioso sistemico è mediamente pari al 97%. Mentre nel sangue venoso la saturazione dell’emoglobina ha un valore mediamente pari al 75%. Osservando la relazione fra pO2 e percentuale di saturazione dell’Hgb è evidente, però,

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come questo rapporto non sia ad andamento lineare ma sigmoide. Ciò significa che per valori di PO2 da 95 a 60mmHg la saturazione cambia di poco: dal 98 al 90%. Mentre la saturazione diminuisce drasticamente fino al 15% man mano che si riducono i valori di PO2 da 40mmHg nel sangue venoso sino a 10mmHg nei tessuti. Questa caratteristica favorisce la cessione di O2 ai tessuti (Bufalari & Lachin, 2012).

L’assorbimento dell’ossigeno da parte dei tessuti dipende pertanto dalla curva di dissociazione dell’emoglobina. Essa è condizionata essenzialmente da quattro fattori: pH, PaCO2 (effetto Bohr), sistemi enzimatici (2,3 difosfoglicerato, DPG) e temperatura corporea. Quando il sangue diviene leggermente acido, in cui ad esempio il valore del pH si riduce da 7,4 (valore normale) a 7,2, la curva di dissociazione si sposta verso destra all’incirca del 15%. Mentre, stati di alcalemia portano la curva a virare verso sinistra. Condizioni quali ipertermia, ipercapnia ed aumento del 2,3DPG (metabolita fosforico presente nel sangue in concentrazioni che variano con le condizioni metaboliche) determinano uno spostamento della curva verso destra determinando praticamente una minore affinità per HbO2 (minore raccolta di O2 dall’ambiente), minore saturazione e quindi maggiore rilascio di O2 ai tessuti. Viceversa alcalosi, ipotermia, ipocapnia, carbossiemoglobina, metaemoglobina e riduzione del 2,3DPG determinano lo spostamento della curva verso sinistra che si traduce in maggiore affinità per HbO2 (maggiore raccolta) maggiore saturazione e quindi la cessione di O2 ai tessuti avverrà a PO2 inferiori. L’aumentata cessione di ossigeno ai tessuti conseguente allo spostamento (a destra) della curva di dissociazione dell’Hb causato dalla CO2 e dagli idrogenioni (H+) viene chiamato effetto Bohr. Mentre il sangue scorre attraverso i capillari tissutali, la CO2 diffonde dalle cellule tissutali nel sangue, incrementando la PCO2 che a sua volta determina l’aumento della concentrazione di acido carbonico (H2CO3) che dissociandosi porta ad un aumento degli idrogenioni (H+). Tali eventi si ripercuotono sulla curva di dissociazione determinandone lo spostamento a destra e in basso data la maggiore affinità della deossiemoglobina per gli ioni H+. Ciò favorisce il distacco dell’ossigeno dal suo legame con

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l’emoglobina, permettendone il rilascio ai tessuti in quantità maggiore. Viceversa, a livello polmonare, l’anidride carbonica diffonde dal sangue capillare verso gli spazi alveolari. Ciò determina una riduzione della PCO2 e quindi riduzione degli idrogenioni che aumenterà di conseguenza in modo considerevole la quantità di ossigeno che legandosi all’Hgb si renderà disponibile per il trasporto del gas ai tessuti (Clement, 2009).

Il trasporto di anidride carbonica pone meno problemi rispetto al trasporto di ossigeno dato che, anche nelle condizioni più gravi, il sangue è in grado di trasportare quantità di CO2 di gran lunga superiori a quelle di O2. Il trasporto della CO2 comincia con la diffusione dall’interno verso l’esterno delle cellule tissutali in forma di gas fisicamente disciolto. Una volta giunto nei capillari, l’anidride carbonica va incontro a diverse reazioni fisiche e chimiche indispensabili per il suo trasporto sino ai capillari polmonari, dove diffonderà negli alveoli polmonari sotto forma di gas.

Il trasporto di anidride carbonica avviene attraverso diverse modalità; innanzitutto, circa il 10 % (di CO2 che giunge al polmone) viene trasportato in forma disciolta. Tale forma di trasporto risulta avere una maggiore importanza rispetto a quanto detto per l’ossigeno dato che il coefficiente di solubilità nel sangue (α) della CO2 risulta essere più elevato rispetto all’ossigeno (αCO2 = 0,032; αO2 = 0,003). Altra forma di trasporto estremamente rilevante avviene sotto forma di bicarbonato. L’anidride carbonica disciolta nel sangue reagisce normalmente con l’acqua formando acido carbonico (H2CO3). Ma questa reazione avviene anche all’interno del globulo rosso dove l’enzima anidrasi carbonica catalizza e velocizza tale reazione di circa 5000 volte. Ciò consente che quantità enormi di CO2 reagiscano con l’acqua dei globuli rossi ancor prima che il sangue abbandoni i capillari tissutali. Successivamente, l’acido carbonico si dissocia in ioni idrogeno (H+) e ioni bicarbonato (HCO3-) Gran parte degli ioni idrogeno vengono legati con l’emoglobina presente negli eritrociti dato che l’emoglobina è un potente tampone acido-base. Mentre molti degli ioni bicarbonato formatisi diffondono dai globuli rossi verso il plasma venendo sostituiti da ioni cloro che diffondono in senso opposto. Tale processo

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prende il nome di scambio dei cloruri ed è reso possibile grazie ad una proteina trasportatrice presente sulla membrana dell’eritrocita, l’antiporto cloro-bicarbonato, proteina in grado di scambiare i due anioni con estrema rapidità. La combinazione reversibile fra CO2 e acqua, mediata dall’enzima anidrasi carbonica eritrocitario è responsabile mediamente del 70% del totale trasporto di CO2 dai tessuti al polmone. Pertanto risulta essere la forma di trasporto più rilevante del suddetto gas. Inoltre la CO2 può reagire con i radicali aminici della molecola di emoglobina e formare la carbaminoemoglobina (CO2Hb). In realtà tale legame avviene anche con le proteine del plasma che però essendo meno rappresentate quantitativamente dell’emoglobina (1/4) risulta avere scarsa rilevanza. Essendo un legame labile e reversibile la CO2 può essere liberata facilmente a livello alveolare, dove il valore della pCO2 è più basso rispetto ai capillari tissutali. Tale meccanismo si pensa sia implicato nel trasporto di non oltre il 20 % della totalità della CO2 ai polmoni tenendo in considerazione che tale reazione avviene ad una velocità di gran lunga inferiore di quella con l’acqua degli eritrociti (Guyton & Hall, 2006).

Come per l’ossigeno anche per l’anidride carbonica esiste una curva di dissociazione, la quale risulta strettamente legata alla pCO2 ed al cosiddetto effetto Haldane; fisiologicamente il valore normale di PCO2 del sangue varia tra i 40mmHg nel sangue arterioso e 45 mmHg nel sangue venoso. Così come per l’effetto Bhor si assiste al rilascio di O2 ai tessuti in corrispondenza di un aumento della concentrazione di CO2 nel sangue, l’effetto Haldane rappresenta la situazione inversa. Legandosi con l’emoglobina, l’ossigeno determina la liberazione di anidride carbonica dal sangue. Questo effetto ha un’importanza superiore dal punto di vista quantitativo nel promuovere l’eliminazione di CO2 rispetto a quella posseduta dall’effetto Bohr nel favorire la cessione di O2. Tale meccanismo permette quasi di raddoppiare la quantità di CO2 che può essere rimossa dall’organismo. L’effetto Haldane è sostanzialmente dovuto al fatto che la combinazione dell’ossigeno con l’Hgb nel polmone aumenta l’acidità di quest’ultima. L’Hgb più acida ha una tendenza inferiore a combinarsi con la

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CO2 per formare carbaminoemoglobina e oltretutto si assiste alla liberazione dell’eccesso di idrogenioni che reagendo con gli ioni bicarbonato formano acido carbonico che a sua volta si dissocia in acqua e anidride carbonica. L’anidride carbonica che si forma viene quindi liberata nell’aria degli alveoli polmonari e verrà eliminata durante l’atto espiratorio del ciclo respiratorio. Come nello scambio alveolo-capillare polmonare anche a livello tissutale lo scambio dei gas avviene mediante il processo di diffusione:

VO2 = [A · D · (PO2cap-PO2tes)]/d

Dove A rappresenta la superficie di scambio, D dipende essenzialmente da peso molecolare e solubilità del gas, d è la distanza fra capillare e tessuto (il cui valore massimo differisce per ogni organo).

La disponibilità di O2 per un tessuto dipende dal contenuto del gas nel sangue arterioso e ovviamente dal flusso ematico in quel determinato tessuto, ossia il suo grado di perfusione. La pressione parziale di O2 delle cellule tissutali dipende dall’equilibrio dinamico vigente fra disponibilità di O2 e O2 utilizzato. Dato che le cellule consumano costantemente ossigeno, la PO2 intracellulare è sempre inferiore a quella nel capillare ematico e il suo valore medio intracellulare determinato mediante sperimentazioni si attesta sui 23 mmHg. Dato che per soddisfare le esigenze metaboliche cellulari è sufficiente una PO2 di circa 1mmHg è evidente che tale valore offre un ottimo margine di sicurezza. Pertanto bisogna considerare come fattore limitante per il metabolismo cellulare la concentrazione di adenosina difosfato (ADP) nella cellula. Concludendo, la velocità di utilizzo dell’ossigeno in condizioni normali di lavoro cellulare è proporzionale all’entità della spesa energetica intracellulare, vale a dire, alla velocità con cui l’adenosina difosfato si forma a partire dall’adenosina trifosfato (ATP) e non alla quantità di ossigeno erogato dalle cellule (West, 2003).

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CAPITOLO 2

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TECNICHE DI VENTILAZIONE IN ANESTESIA

2.1-VENTILAZIONE MECCANICA A PRESSIONE POSITIVA

INTERMITTENTE (IPPV)

Essenzialmente ogni soggetto anestetizzato ipoventila. Ciò significa che nella maggior parte dei casi il paziente durante l’anestesia non riesce a mantenere la pressione parziale arteriosa di anidride carbonica vicina a 40 mmHg a causa di variazioni nella ventilazione alveolare. Ecco perché risulta fondamentale comprendere l’utilità della ventilazione meccanica svolta mediante l’utilizzo di macchinari sofisticati in grado di garantire l’ottimizzazione della ventilazione durante le procedure che richiedono l’anestesia del paziente. Sono molteplici le circostanze in cui risulta vantaggioso l’utilizzo di una ventilazione meccanica. L’indicazione assoluta per ricorrere all’assistenza meccanica della ventilazione del paziente anestetizzato è l’apnea, situazione che si verifica piuttosto frequentemente durante l’anestesia dato che la gran parte dei farmaci comunemente adoperati in anestesia determinano la soppressione della respirazione spontanea. Altre indicazioni sempre legate ad un’inadeguata ventilazione alveolare risultano essere l’ipoventilazione (FR e/o VT inadeguati) l’utilizzo di farmaci bloccanti neuromuscolari che determinano soppressione dei movimenti muscolari e pertanto anche della muscolatura coinvolta nella respirazione, interventi di chirurgia intratoracica, anestesie di durata superiore a 1,5 ore. Inoltre la ventilazione meccanica può risultare importante per facilitare l’anestesia inalatoria. Infatti soggetti in ipoventilazione potrebbero non assorbire una dose di anestetico inalatorio sufficiente a garantire un piano anestesiologico adeguato alla procedura (Lumb & Jones, 2007).

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Durante la ventilazione spontanea sono i muscoli respiratori gli organi effettori che forniscono l’energia necessaria alla ventilazione. Essi vengono sostanzialmente controllati dal nervo frenico che ne regola tempi e intensità di contrazione integrando le informazioni che derivano dai chemiocettori centrali e periferici, dai meccanocettori polmonari (sensibili alla distensione polmonare) e dalle variazioni nelle richieste metaboliche del paziente. Durante la respirazione spontanea, ad ogni atto, i muscoli generano una certa pressione (Pmus) in grado di opporsi alle caratteristiche resistive ed elastiche (di ritorno) del sistema respiratorio (Pres e Pel) per produrre rispettivamente flusso e volume. Tale condizione è spiegata dalla seguente formula:

Pmus=Pres + Pel

Dove: Pres = Flusso x Resistenza; Pel= Volume x Elastanza.

Pertanto il supporto meccanico alla ventilazione in anestesia è indicato in tutti quei casi in cui viene meno la capacità dei muscoli respiratori di generare una sufficiente Pmus come per processi patologici o in seguito a somministrazione di farmaci che deprimono la respirazione; esso trova giustificazione anche in caso di aumentata richiesta ventilatoria oltre la capacità compensatoria della muscolatura respiratoria o per aumento del lavoro associato all’atto respiratorio. Durante la ventilazione meccanica oltre alla Pmus deve essere considerata la pressione generata dal ventilatore (Pappl) secondo la seguente formula:

Pmus + Pappl = Pres+ Pel

Sulla base del contributo fornito dal paziente alla respirazione (Pmus) può essere distinta una ventilazione a supporto ventilatorio totale (ventilazione meccanica controllata) dalla ventilazione a supporto parziale (ventilazione meccanica assistita).

2.2-VARIABILI NELL’IMPOSTAZIONE DELLA VENTILAZIONE MECCANICA

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L’inspirazione a pressione positiva determinata dal ventilatore è condizionata essenzialmente da tre variabili:

• Trigger; ossia la variabile determinante l’inizio dell’atto respiratorio.

• Limite; ossia l’algoritmo che controlla il raggiungimento della pressione positiva in inspirazione;

• Ciclo; fattore che controlla la fine della fase inspiratoria condizionandone la durata.

Queste tre variabili possono essere impostate sul ventilatore sulla base delle tre maggiori variabili fisiologiche del modello respiratorio. Infatti il trigger condiziona l’inizio dell’inspirazione, il limite definisce quanto flusso e volume sono necessari per il soddisfacimento delle richieste metaboliche del paziente, il ciclo rappresenta durata e rapporto del tempo inspiratorio sulla durata del ciclo totale respiratorio.

Le variabili che regolano l’inizio della ventilazione sono il tempo (durante la ventilazione controllata) o variazioni di flusso o pressione generata dallo sforzo inspiratorio del paziente (durante la ventilazione assistita). Il ventilatore può essere settato per erogare al paziente gas in modo da raggiungere un valore di flusso, volume o pressione fisso (durante ventilazione controllata) oppure variabile (nella ventilazione assistita). Inoltre il passaggio dalla fase inspiratoria a quella espiratoria del ciclo può essere controllato dal tempo o dal raggiungimento di un certo limite di flusso o pressione (Miller et al, 2014).

2.3-VENTILAZIONE MECCANICA A SUPPORTO TOTALE (CONTROLLATA): VCV e PCV A CONFRONTO

La principale caratteristica di questo tipo di ventilazione artificiale è che la variabile utilizzata dal ventilatore per il trigger ed il ciclo è rappresentata dal tempo. Mentre la variabile che determina la somministrazione di gas ossia il limite può essere flusso e volume nella ventilazione meccanica a

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volume controllato (VCV) oppure la pressione nella ventilazione meccanica a pressione controllata (PCV). Entrambe queste modalità di ventilazione a supporto totale permettono l’interazione di un paziente completamente passivo (Pmus=0) con il ventilatore che ne controlla completamente il pattern respiratorio. Questa modalità di ventilazione risulta essere la più impiegata nei pazienti trattati con bloccanti neuromuscolari. Nella ventilazione a volume controllato, la più utilizzata in corso di anestesia, l’operatore imposta un flusso di erogazione di gas costante o no per somministrare un volume tidalico fisso (variabile indipendente) che determina una pressione applicata alla apertura delle vie aeree del paziente (Pao) che dipende dalle caratteristiche meccaniche del sistema respiratorio del paziente (variabile dipendente). Perciò l’analisi del profilo della Pao risulta utile per ottenere informazioni sulla meccanica del sistema respiratorio del paziente. Nella ventilazione a pressione controllata invece la Pao è la variabile indipendente preimpostata dall’operatore mentre il volume tidalico somministrato dipende dal tempo della fase inspiratoria ed essenzialmente dalle caratteristiche meccaniche del sistema respiratorio del soggetto. Nella letteratura non vi sono dati che supportino differenze in termini clinici fra le due modalità di ventilazione a supporto totale anche se le differenze esistenti devono essere opportunamente valutate per scegliere la tecnica ventilatoria più adatta al paziente ed alla procedura. Per esempio la modalità a volume controllato è da preferire in tutti quei casi in cui si voglia garantire un volume minuto costante. Inoltre fattori patologici come edema polmonare o chirurgici come chirurgie addominali craniali o laparoscopie determinanti una riduzione della compliance polmonare esitano in una riduzione del volume tidalico nei soggetti ventilati a pressione controllata poiché la pressione limite imposta viene raggiunta ad un volume più basso. Ciò può determinare un’ipoventilazione del paziente con la registrazione di una EtCO2 oltre il range fisiologico (> 45 mmHg) ma allo stesso tempo prevenire rischi relativi al raggiungimento di una pressione troppo elevata nelle vie aeree. Viceversa nella ventilazione a volume controllato si può incrementare

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notevolmente la pressione nelle vie aeree dato che viene garantita la somministrazione di un volume tidalico preimpostato. Pertanto risulta maggiore il rischio di complicanze quali barotrauma o volutrauma. Molteplici condizioni patologiche possono portare ad un incremento della disomogeneità del parenchima polmonare cosicché aree caratterizzate da diverse elastanza e resistenza coesistono nel medesimo paziente. Dal punto di vista teorico la ventilazione a volume controllato di questi soggetti può determinare iperinsufflazione delle aree di parenchima caratterizzate da minore elastanza e resistenza e contemporaneamente, inadeguata insufflazione di aree con alta elastanza e/o resistenza. Quindi in soggetti caratterizzati da tali disomogeneità polmonari la modalità a pressione controllata dovrebbe essere preferita poiché in grado di garantire una migliore e più omogenea diffusione del volume nei polmoni patologici. Nella ventilazione a volume controllato i settaggi da impostare nel ventilatore sono: FR (frequenza respiratoria), rapporto Inspirazione Espirazione e volume tidalico. Nella ventilazione a pressione controllata sono: FR, rapporto Inspirazione Espirazione e Pressione di Picco (Pip) (Bufalari, 2012).

2.4-VENTILAZIONE MECCANICA A SUPPORTO PARZIALE (ASSISTITA)

Tale tipologia di ventilazione meccanica risulta utile nei casi in cui il paziente anestetizzato mantiene autonomamente la respirazione ma il volume tidalico può essere non adeguato a garantire una ventilazione alveolare ottimale. Spesso il soggetto anestetizzato presenta un alterato accoppiamento neuro-ventilatorio ossia un alterato rapporto fra sforzo inspiratorio effettuato dal paziente e conseguente volume generato per cui necessita di un contributo da parte del ventilatore. Inoltre la ventilazione a supporto parziale può essere opportunamente utilizzata nei casi in cui si

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voglia ridurre il lavoro dei muscoli respiratori del paziente. Quindi il supporto ventilatorio garantito dal ventilatore si somma alla Pmus ossia l’attività ventilatoria spontanea del soggetto. In questo tipo di ventilazione il paziente mantiene una certa libertà sul controllo della respirazione e l’efficacia di queste tecniche ventilatorie dipende da una corretta integrazione fra ventilatore e paziente. Il sincronismo ventilatore-paziente non è sempre facile da ottenere nella pratica e rappresenta il limite essenziale di tali tecniche. Le tecniche di supporto ventilatorio parziale vengono impiegate in umana soprattutto nell’ambito della terapia intensiva dove la necessità di preservare l’attività diaframmatica è fondamentale per ridurre l’ipnosi e la paralisi muscolare onde evitare l’atrofia della muscolatura respiratoria e ridurre le interferenze cardiovascolari date dalla ventilazione meccanica. Inoltre secondo recenti teorie il mantenimento del tono diaframmatico garantito da tali tecniche ventilatorie, sembrerebbe incidere positivamente sulla ventilazione delle aree polmonari dipendenti, migliorando il quoziente ventilazione/perfusione di queste aree nei soggetti in cui si riesce a sincronizzare paziente e ventilatore. Nella pratica veterinaria tali modalità di ventilazione durante l’anestesia risultano molto vantaggiose nella fase di “svezzamento” del paziente dal ventilatore, ossia nella fase finale dell’anestesia, quando l’operatore vuole stimolare il ritorno ad una ventilazione spontanea del soggetto fino ad allora ventilato meccanicamente.

2.5-VENTILAZIONE MECCANICA ASSISTITA/CONTROLLATA (A/CMV)

In questa modalità il paziente attiva il trigger inspiratorio stabilendo la FR. Nel caso in cui il paziente non inspiri spontaneamente il ventilatore subentra somministrando cicli a modalità controllata ad una frequenza respiratoria basale preimpostata. La variabile impiegata dal ventilatore per terminare l’inspirazione è il tempo. Il limite è il volume o la pressione. Per

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far si che si attivi il trigger di pressione il paziente deve ridurre la pressione del circuito respiratorio al disotto della soglia prestabilita dall’operatore, mentre in un trigger a flusso (volume) il paziente deve generare un flusso che sia superiore della soglia preimpostata. Vari studi hanno recentemente messo in discussione la capacità dell’A/CMV di soddisfare la richiesta inspiratoria del paziente. Sembrerebbe, infatti, che lo sforzo inspiratorio non cessi nel momento in cui il flusso del ventilatore si attiva ed il lavoro respiratorio globale del soggetto anestetizzato potrebbe addirittura superare il lavoro effettuato durante la respirazione spontanea. Come già affermato, il sincronismo fra paziente e ventilatore risulta fondamentale per evitare un aumento del lavoro respiratorio del paziente con l’utilizzo di questa tecnica ventilatoria. Inoltre tale tecnica richiede un livello di ipnosi più profondo per essere ben tollerata dal soggetto e può causare air trapping e alcalosi respiratoria nei soggetti con iperinflazione dinamica ossia caratterizzati da un aumento cronico della capacità funzionale residua polmonare, ovvero della quantità di gas che a fine espirazione permane nei polmoni. Questa condizione clinica rappresenta una diretta conseguenza delle patologie che generano ostruzione del flusso espiratorio e determina un aumento del lavoro inspiratorio nel soggetto affetto. Le proprietà contrattili del diaframma si deteriorano e l’atto espiratorio diviene attivo. Inoltre le resistenze vascolari polmonari vengono incrementate a causa della compressione esercitata dall’iperinflazione sui vasi alveolari e della vasocostrizione ipossica; aumenta il postcarico ventricolare destro e si assiste ad ipertrofia e dilatazione del cuore destro. Il postcarico ventricolare sinistro può anch’esso aumentare a causa dell’aumento della pressione intrapleurica che si traduce in un aumento della pressione transmurale che deve essere vinta dalla contrazione ventricolare. (Mergoni et al, 2001)

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2.6-VENTILAZIONE CONTROLLATA INTERMITTENTE SINCRONIZZATA (SIMV)

La Synchronized Intermittent Mandatory Ventilation (SIMV) è una tecnica che consente al paziente di ventilare spontaneamente fra un numero impostato di respiri somministrati in modalità assistita/controllata. Gli atti respiratori controllati possono essere a controllo di pressione o di volume ed il respiro spontaneo può inoltre essere supportato da un livello variabile di supporto pressorio. Intervenendo sulla FR è possibile passare da una modalità ventilatoria a supporto ventilatorio totale al respiro spontaneo. Per ciò che concerne l’interazione ventilatore/paziente la SIMV condivide le medesime caratteristiche della A/CMV.

2.7-VENTILAZIONE A SUPPORTO PRESSORIO (PSV)

La PSV (Pressure Support Ventilation) è ad oggi la più utilizzata fra le tecniche di ventilazione a supporto parziale nella pratica. Trova largo impiego nello svezzamento dei pazienti dalla ventilazione controllata e nella ventilazione dei soggetti affetti da ALI/ARDS ricoverati in terapia intensiva. In questa tecnica è il paziente ad attivare il ventilatore. Il trigger è rappresentato, infatti, dallo sforzo inspiratorio spontaneo del soggetto e viene assistito dal ventilatore mediante una pressione costante positiva. Mentre la fine della fase inspiratoria, ossia la variabile ciclo, avviene quando il flusso inspiratorio si riduce sino ad un livello preimpostato che, in funzione del ventilatore, è una percentuale fissa o regolabile del flusso inspiratorio iniziale (PIP). Il volume tidalico dipende essenzialmente dall’equilibrio fra la Pmus la Pappl e l’impedenza del sistema respiratorio del paziente. L’utilizzo della PSV riduce il lavoro respiratorio e migliora l’interazione fra sforzo del paziente e volume tidalico: per un dato sforzo inspiratorio il paziente produce un volume tidalico maggiore rispetto alla respirazione spontanea. Inoltre è documentato da numerosi studi come tale

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