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La Leggenda del Grande Inquisitore e la questione ontologica della libertà

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Academic year: 2021

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Indice

. Introduzione ... p. 3

. Cap. 1: La Leggenda del Grande Inquisitore

a) Il preambolo alla Leggenda ... p. 6 b) La vicenda ... p. 13 c) Le ragioni dell’Inquisitore ... p. 15

. Cap. 2: La libertà

a) La questione ontologica ... p. 22 b) La questione politica ... p. 41

. Cap. 3: La genesi del pensiero di Dostoevskij

a) La filosofia del sottosuolo ... p. 61 b) Stavroghin ... p. 68 c) Ivan ... p. 76

. Cap. 4: Le contraddizioni ontologiche della liberà e il loro superamento

a) Una logica scandalosa ... p. 87 b) L’unità del molteplice come ideale di libertà ... p. 100

. Conclusioni ... p. 113 . Bibliografia ... p. 123

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Introduzione

In questa tesi cercheremo di affrontare una problematica da sempre dibattuta in filosofia, ovvero quella del rapporto tra l’uomo e la libertà. Ci lasceremo provocare da un grande pensatore del XIX secolo, che per molti non può essere definito un filosofo nel senso tradizionale del termine, a causa della mancanza di un suo pensiero sistematico e totalizzante ma che sicuramente ha offerto un grande contributo alla filosofia. Stiamo parlando di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Per alcuni filosofi, invece, egli meriterebbe di essere menzionato nei manuali di filosofia, proprio per la genialità con la quale ha saputo discutere delle grandi questioni filosofiche, come la libertà, il problema di Dio, del bene e del male. Giovanni Reale, addirittura, è arrivato a paragonare Dostoevskij a Platone: <<Io sono profondamente convinto che Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha fatto con i suoi dialoghi, che sono – come i più attenti studiosi hanno riconosciuto- la trasposizione sul piano dialettico delle due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, ossia della tragedia e della commedia.1>>Per studiare il delicatissimo rapporto tra uomo e libertà, partiremo dall’analisi di un poemetto intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore, che si trova all’interno del romanzo I fratelli Karamazov. In questo racconto nel racconto, è racchiusa una geniale riflessione sulla libertà, le sue conseguenze, su come l’uomo ne faccia uso e soprattutto la sua origine. Bisogna premettere, che per comprendere pienamente il significato di questa storia, occorre leggere anche il suo preambolo, dove vengono esposte una serie di provocazioni sul male e in particolare sul significato della sofferenza dei bambini. Ad essere chiamato in causa da simili circostanze è direttamente il Dio creatore onnipotente. Quelle provocazioni così profonde, sono ancora di un’attualità incredibile e interpellano la coscienza di ciascuno a riflettere sul senso della vita e

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dei suoi misteri. Troppo spesso si sente ripetere la domanda <<perché>> di fronte a qualche misfatto e sovente una risposta pare non esserci o meglio, forse non è così evidente. È l’inevitabile imbattersi in ciò che costituisce ontologicamente l’uomo, la libertà. Essa è la sorgente che contiene quel possibile che permette alle persone di scegliere come agire e cosa fare della loro vita. Ci si può anche nascondere dietro i più alti muri della necessità o affidarsi a coloro che si promuovono come tutori del bene e della felicità, evitando in questa maniera di esercitare la libertà e quindi rinnegando il proprio essere uomini, ma lungo il percorso della vita, la libertà si presenta ineluttabilmente come una questione che interpella l’essere umano nella sua integrità. Purtroppo nel mondo di oggi, il concetto di libertà risulta essere sempre più minacciato da coloro che pretendono di farsene i promotori e garanti, quando in realtà sono i primi a distorcerne il significato, violentando così la parte costitutiva dell’essere dell’uomo.

Con la Leggenda, sembra che Dostoevskij voglia suggerire un modello di libertà da seguire, Cristo. Dal processo in cui Gesù stesso si ritroverà ad essere l’imputato sotto le accuse dell’Inquisitore, sembra tralucere l’evidente necessità avvertita da Dostoevskij, di porre al centro della sua società la questione della libertà ai suoi occhi inscindibile dalla questione dell’esistenza e della natura di Dio. Il modo in cui analizza questi intricati rapporti, colpisce per la profondità di saggezza e di profezia. Nikolaj Berdjaev, un filosofo russo tra i massimi interpreti di Dostoevskij, non esita di riferirci quanto sia stato importante per il suo pensiero la lettura della Leggenda: <<La mia precoce inclinazione ai problemi filosofici era legata ai problemi maledetti di Dostoevskij […] In gioventù mi penetrò profondamente nell’anima il tema della Leggenda del Grande Inquisitore. Il mio primo Cristo fu il Cristo della Leggenda. L’idea di libertà è stata fondamentale per la mia intuizione e concezione religiosa del mondo, e in tale intuizione iniziale della libertà ho trovato in Dostoevskij la mia

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patria spirituale2>>. Con queste premesse, cercheremo nella fase conclusiva di avanzare delle proposte alla luce delle problematiche della società contemporanea, soprattutto per difendere la libertà dall’attacco dei nuovi inquisitori.

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Cap. I

La Leggenda del Grande Inquisitore

a) Il preambolo alla Leggenda

All’interno del quinto libro de I fratelli Karamazov, troviamo il celeberrimo racconto della Leggenda del Grande Inquisitore, una storia inventata da uno dei protagonisti del romanzo, Ivàn, il quale decide di raccontarla al fratello Aljòša durante un loro incontro in una locanda. Mentre Ivàn è stato visto come l’incarnazione vivente di una concezione nichilistica del mondo, Aljòša rappresenta il mondo religioso e spirituale tradizionale. Infatti, sin dalle prime pagine del romanzo possiamo apprendere che frequenta un monastero ortodosso. La Leggenda possiede dei contenuti così provocatori e interessanti, che ha suscitato la riflessione di molti autori, i quali ne hanno offerto diversi piani di lettura. Si possono appunto individuare varie interpretazioni: filosofiche, teologiche, ed anche socio-politiche. Occorre rilevare, però, che non basta leggere queste venti pagine in modo totalmente autonomo dal resto del romanzo e soprattutto dal suo prologo. Infatti, mentre per alcuni – come ad esempio Rozanov- la Leggenda potrebbe essere letta in modo indipendente:

“ Com’è noto, essa costituisce soltanto un episodio della sua ultima opera,

I Fratelli Karamazov ma il legame con la fabula di questo romanzo è così esile

che può essere analizzata come una opera a parte. Però, se tra il romanzo e la

Leggenda non c’è un legame esteriore, esiste un legame intrinseco: è proprio

la Leggenda a costituire in un certo senso l’anima di tutta l’opera, che si raccoglie intorno ad essa, come le variazioni intorno al loro tema; racchiude il pensiero più profondo dell’autore, senza il quale non solo non sarebbe stato scritto il romanzo stesso, ma neanche molte opere sue: per lo meno, esse risulterebbero prive dei passi

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migliori e più elevati.”3

Per altri autori invece, la Leggenda non può essere compresa realmente, se staccata da tutto il contesto intorno a cui è costruita, soprattutto se si trascura l’importanza che ha il suo preambolo, rappresentato dal dialogo dei due fratelli nell’osteria. Tale interpretazione è avanzata dal Pareyson:

Di solito se ne stralcia la Leggenda, nell’idea che essa contenga il messaggio essenziale

del pensiero proprio di Dostoevskij, e quindi sia facilmente isolabile e possa essere considerata per se stessa. Da quanto sto per esporre, apparirà invece che […]il dialogo che precede la

Leggenda e la Leggenda stessa, riguardano entrambe il pensiero di proprio di Ivàn e sono

coessenziali e pertanto inseparabili. Ciascuna di esse ha pari importanza […] sono indivisibilmente connesse fra loro, ciascuna rinvia all’altra e la richiama, legate da

un’articolazione che ne fa i due momenti essenziali d’una trattazione unica, organica e continua.” 4

Anche Givone, riprendendo quanto detto dal suo maestro a tal proposito, afferma che: <<Quella di Ivàn Karamazov è una concezione organica ed unitaria, nei diversi momenti che scandiscono lo sviluppo del suo contenuto speculativo. E come tale va letto.5>> Esaminiamo meglio di che cosa si parla concretamente in queste pagine così discusse.

La tematica principale che emerge sin dall’inizio della conversazione fra i due fratelli, sembra vertere sulla sofferenza ed il suo significato. Perché esiste la sofferenza e soprattutto, perché soffrono anche le creature più innocenti come i bambini? Per Dostoevskij, la sofferenza è <<non soltanto l’inevitabile punizione d’un delitto particolare, ma anche

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Vasilij Rozanov, Legenda o Velikom Inkvizitore F.M Dostoevskogo. Opyt Kritičeskogo kommentarija (Pietroburgo 1894), tr. di Nadia Caprioglio La Leggenda del Grande Inquisitore, Casa Editrice Marietti, Genova 1989, p. 6.

4 Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa. Einaudi, Torino 1993, p. 180.

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l’inesorabile espiazione d’un destino di colpa che grava sull’umanità intera.6>> Ivàn si ribella proprio contro questa onnicolpevolezza universale, non tanto contro Dio, di cui può ammettere anche l’esistenza. È il mondo e il suo ordinamento che egli rifiuta di accettare: <<Non è Dio che non accetto, comprendi, ma il mondo da lui creato, è il mondo di Dio che non accetto…7>> Da questa frase, Ivàn comincia ad elencare ad Aljòša tutta una serie di situazioni nelle quali i bambini sono vittime di violenze da parte degli adulti e per la maggior parte delle volte, questa violenza è derivata solamente dalla scelleratezza dei più grandi verso i più piccoli, quasi a voler sottolineare l’elemento sadico che esiste nell’uomo. Dostoevskij è un maestro nel descrivere il male, non risparmia nessun dettaglio, anzi il particolare viene sottolineato proprio come se fosse l’elemento indispensabile della descrizione. Infatti, perché raccontare di come due genitori percuotano la loro figlioletta e di come il <<babbino sia lieto che le bacchette siano nodose, poiché faranno più male>> sul povero corpicino della piccola creatura? E che dire della madre che costringe la figlia di cinque anni a mangiare i propri escrementi, visto che la piccola non è in grado la notte di avvisare i genitori in tempo dei propri bisogni? In tutti questi episodi, si pone l’accento più volte su quanto l’inoffensività dei bambini seduca i loro torturatori. Inoltre, Ivàn, fa notare a suo fratello come questi misfatti coinvolgano tutte le classi sociali, anche quelle più colte ed agiate. Per il lettore è veramente difficile continuare a leggere di fronte a questi racconti. Lo è anche per Aljòša, tanto che dopo l’ultimo episodio narrato, dove un generale e ricco proprietario terriero fa sbranare un bambino dai suoi cani da caccia, si lascia prendere dalla rabbia e cade nella provocazione del fratello, il quale gli chiede se bisognasse fucilare un tale uomo per riparare il senso morale offeso: <<Sì, fucilarlo!8>> Così risponde Aliòša. Per un attimo, anche in lui, mite seminarista, il risentimento verso questa ingiustizia umanamente inspiegabile prende il sopravvento,

6 Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 170.

7 Fëodor Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy (1879-80),tr. di Alfredo Polledro, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1974, p. 251.

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lasciando adito al senso di ribellione e di indignazione. Solo per un attimo, visto che resosi conto di quello che aveva appena detto, soprattutto di fronte al commento di Ivàn <<guarda un po’ l’asceta! Hai dunque anche tu un diavoletto nel cuore9>> si corregge subito, asserendo che forse ha detto una sciocchezza. Tutto questo, nella mente euclidea di Ivàn – è così che egli definisce il suo spirito – serve per esporre al fratello minore il totale rifiuto del concetto di armonia universale, secondo cui le sofferenze dei bambini servono per bilanciare le colpe dei padri. Non c’è nessuna spiegazione teleologica che possa giustificare il male su delle creature innocenti. Ivàn può accettare l’idea di una caduta originaria dell’umanità, pure la solidarietà umana nell’espiazione, ma quella dei bambini nel peccato e la loro partecipazione al processo di espiazione, proprio non la può condividere. Perché estendere la colpa dei padri ai figli? Nemmeno in virtù di un’armonia finale una tale teoria può essere accettata. E non serve nemmeno un eventuale inferno che vendichi le ingiustizie compiute nel mondo:

“Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è questa, se c’è l’inferno? Io voglio perdonare, voglio abbracciare, e che non si continui a soffrire. E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per l’acquisto della verità, io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un simile prezzo.”10

Ed ecco alla fine di tale discorso, che Ivàn dice che si è dato eccessivo valore a quell’armonia e che <<l’ingresso costa troppo caro […] mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso […] non è che non accetti Dio, Aljòša, ma Gli restituisco nel modo più rispettoso il mio biglietto.11>> Secondo Pareyson, questa restituzione del biglietto fuor di metafora non è altro che una professione radicale di ateismo12, d’altronde, se Dio è il senso del mondo e

9 Op. cit., p. 259. 10 Op. cit.,p. 262. 11 Ibidem. 12

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quest’ultimo contiene intrinsecamente delle assurdità, ciò che si deduce da questo ragionamento di Ivàn è chiaro. Al povero Aljòša non resta che affermare: <<Questa è una rivolta>>. Il termine usato non piace a Ivàn, però, quello che emerge dalle sue parole è effettivamente una vera e propria ribellione: <<Qui si ribella contro Dio il divino che c’è nell’uomo, ossia il sentimento di giustizia che c’è in lui e la coscienza della propria dignità.13>> Secondo Berdjaev, è proprio in questa esposizione di Ivàn, che Dostoevskij dimostra l’esistenza di Dio:

“Dio appunto perciò esiste, perché esiste il male e il dolore nel mondo: l’esistenza del male è una prova dell’esistenza di Dio. Se il mondo fosse esclusivamente buono e giusto, allora Dio non sarebbe più necessario, allora il mondo sarebbe dio. Dio esiste perché esiste il male. Ciò

significa che Dio esiste, in quanto esiste la libertà.”14

Infatti, anche Aljòša verso la fine della Leggenda dirà a Ivàn che tutto quello che ha detto non è altro che l’elogio della figura del dio cristiano, Cristo. D’altra parte, anche Dostoevskij ha ripetuto più volte nel corso della sua vita, di essere giunto all’osanna di Dio tramite il crogiolo del dubbio. Da questo, si può opinare che, forse, anche l’autore prediliga questa strada, piuttosto che quella visione cosmoteandrica esposta dallo stàrets Zosima al termine della sua vita, dove si ha l’idea del mondo come segno profondo dell’amore divino e dell’armonia universale di tutto quanto il creato. In difesa di questa, interviene nuovamente Aljòša, proponendo la teoria della redenzione di Cristo. Con tale risposta del giovane seminarista, che quindi si contrappone a Ivàn, possiamo evincere meglio quanto sia difficile individuare un punto di vista preciso, un protagonista, nel quale Dostoevskij si immedesimi totalmente. Per questo possiamo concordare con la definizione di romanzo polifonico

13 Vasilij Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, cit., p. 74. 14

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avanzata da Bachtin,15 a riguardo delle opere dostoevskijane. Infatti, nei vari romanzi troviamo sempre una molteplicità di voci che espongono idee, le quali sono incarnate innanzi tutto dai personaggi stessi, che spesso confliggono l’uno con l’altro e tramite i quali possiamo riflettere sul pensiero dell’autore. Dostoevskij non ha permesso d’ intendere direttamente il suo punto di vista, ha lasciato libero il lettore di crearsene uno proprio, in virtù di questa molteplicità di voci, che spingono alla riflessione critica e che per qualcuno sarebbe proprio il punto debole dello stile narrativo dostoevskijano. Riprendiamo però adesso la risposta di Aljòša al fratello.

Ormai, sentendosi colpito nei punti nevralgici della sua fede, egli decide di esporre la teoria della redenzione di Cristo, il nucleo del cristianesimo:

“Egli può perdonare a tutto e a tutti e per conto di tutti, perché Egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Tu l’hai dimenticato, ma è su di Lui che si eleverà l’edificio, e starà a Lui gridare: « tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate.»…”16

Mentre Ivàn si prende gioco di queste riflessioni del fratello, criticandolo di usare espedienti metafisici per difendere le teorie insensate della religione, per Pareyson, invece, questo è il momento in cui viene proposta l’unica risposta a tutta quanta la sofferenza inutile del mondo: la theologia crucis17. In questa ottica, il dolore assume un significato teogonico e si entra in una dimensione che è umanamente incomprensibile, in altre parole nella cosiddetta chenosi, lo svilimento della figura divina del Padre nella figura del Figlio, il Cristo uomo. È il momento ateistico della divinità, il rinnegare la propria condizione per assumerne una

15 Cfr. Michail Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo (1963), tr. di. Giuseppe Garritano: Dostoevskij. Poetica

e stilistica, Einaudi, Torino 2002. p.13.

16 Fëodor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 262. 17

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inferiore, quella umana, arrivando addirittura a prendere su di sé, nel momento della crocifissione, tutta la sofferenza, il dolore universale e arrivando a rinnegare se stesso:

“È un mistero grande e terribile, profondo e insondabile, che per un verso l’atto con cui Dio riscatta il dolore prendendolo su di sé sia anche l’atto con cui Dio si oppone a se stesso […] e che per l’altro verso l’atto con cui Dio si oppone a se stesso, e vuol soffrire e morire […] e anzi si distrugge da sé consegnandosi alle potenze trionfanti del dolore e della morte, sia anche quello con cui egli vince la sofferenza, redime l’umanità, conferma se stesso […] La punta infima dell’impotenza di Dio, cioè il Cristo sofferente, è anche il culmine della sua più splendida onnipotenza.”18

È la vittoria del Cristo sofferente sul male, qui sta l’onnipotenza di Dio, incomprensibile per una mente euclidea come Ivàn.

Tutto questo preambolo sul dialogo precedente alla Leggenda è fondamentale proprio ai fini della piena comprensione di questa, d’altronde:

“Se nel discorso di Ivàn si distinguono due parti, il colloquio con Aljòša e l’esposizione della Leggenda, si dovrà riconoscere per un verso che esse sono inscindibili: la Leggenda non è che il secondo tempo dell’intero discorso; e per l’altro che il nesso fra di loro è costruttivo: senza la trattazione della sofferenza dei bambini la Leggenda risulta

in fondo incomprensibile”.19

Queste due parti costituiscono in realtà un tutto unitario: è necessario dunque considerarle insieme. Adesso possiamo veramente entrare nel vivo del racconto della Leggenda.

18 Op. cit., p. 216. 19

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b) La vicenda

Di che cosa si tratti concretamente la Leggenda del Grande Inquisitore è talmente noto, che basterà menzionare rapidamente i momenti più rilevanti della vicenda.

Una volta resosi conto di aver provocato abbastanza il fratello, Ivàn decide di raccontargli un poemetto da lui inventato e mai scritto. Il tutto si svolge nella Siviglia del XVI secolo, periodo in cui l’Inquisizione spagnola metteva al rogo molto facilmente chiunque potesse essere considerato eretico o giudaizzante, inoltre, è trascorso molto tempo ormai dall’ultima apparizione di Cristo, infatti:

“Già quindici secoli sono trascorsi dacché Egli promise di tornare nel regno Suo, quindici secoli dacché il suo profeta scrisse: <<Verrò ben presto>>.<< Quanto poi a quel giorno e all’ora, non li conosce nemmeno il Figlio, ma solo il Padre Mio celeste>> […] Ma l’umanità Lo attende con l’antica fede e con l’antica commozione.20”

In questo clima di totale rassegnazione e subordinazione al terrore instaurato dagli inquisitori, Cristo decide finalmente di fare ritorno sulla Terra. Le sue sembianze sono sempre quelle del figlio dell’uomo e in tale veste umana eccolo passare in mezzo alle centinaia di persone riunite per le strade della città andalusa. Il giorno prima, su ordine dell’Inquisitore, erano state bruciate più di cento vittime. Cosa strana, tutti riconoscono Cristo immediatamente, si fanno benedire e toccare, i bambini cantano inni di lode… insomma, il popolo è totalmente attratto dalla sua presenza. Ad un certo punto, arrivato sul sagrato della cattedrale, si ferma davanti ad una processione funebre dove viene trasportata una bara che contiene una bambina morta. La madre della vittima, disperata, chiede al Cristo: <<Se sei tu, risuscita la mia creatura!21>>E ripetendo le medesime parole dette a Lazzaro, <<talitha kum>>, Cristo riesce a far risuscitare la giovane defunta fra lo stupore e la gioia di tutti. La

20 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 264 21

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folla si agita, esulta <<grida e singhiozza>>. Ed ecco sopraggiungere proprio in quel momento, il Grande Inquisitore, un cardinale ormai novantenne, <<alto e dritto, col viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come scintilla di fuoco, splende ancora una luce>>. Ha visto tutta quanta la scena, anche lui ha riconosciuto Cristo ed ordina alle sue guardie con un semplice gesto della mano di arrestarlo. Il popolo, docile, pavido e sottomesso all’autorità del cardinale, non accenna neanche per un istante a protestare contro questa cattura. Anzi, tutti quanti si inginocchiano davanti al Grande Inquisitore che, elargendo benedizioni, passa silenziosamente oltre la folla. Il Prigioniero, invece, viene portato nel carcere del Santo Uffizio. Passa il giorno e <<sopravviene la scura, calda e afosa notte di Siviglia>>, dove l’aria <<odora di lauri e di limoni>>. Le tenebre ormai hanno preso il sopravvento, quando improvvisamente la porta del carcere si apre ed entra il Grande Inquisitore. D’ora in poi, comincia un dialogo-monologo di quest’ultimo, che interroga Cristo in modo molto provocatorio, muovendogli delle aspre critiche sul modo in cui ha agito ed ha considerato l’uomo. Cristo tace per tutto il tempo. L’unico gesto che si permette di fare, alla fine di tutta l’accusa, è quello di baciare le <<esangui labbra novantenni>>dell’Inquisitore. Gesto che suscita in quest’ultimo un sentimento di imbarazzo e rabbia, tanto da decidere di cacciare subito Cristo dal carcere, ingiungendogli di andare via per sempre, senza neppure venire messo al rogo come promesso. Per certi versi, il modo in cui si svolge tutto quanto l’episodio, sembra riproporre la scena analizzata in precedenza tra Ivàn e Aljòša riguardo al dialogo sulla sofferenza degli innocenti, poiché anche qui ritroviamo un accusatore che presenta le sue incomprensioni del messaggio evangelico in modo molto appassionato, ad un accusato che ascolta in modo silenzioso e senza controbattere.

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c) Le ragioni dell’Inquisitore

Di solito, se scorriamo i numerosi commenti che hanno eletto a loro oggetto la Leggenda del Grande Inquisitore si può notare come ciò su cui si è dibattuto maggiormente sia il rapporto che sussiste tra bene, male e libertà. Occorre, però, rilevare che al suo interno si possono scorgere anche altre interessanti questioni sulle quali riflettere. Inoltre, bisognerebbe anche cercare di capire le motivazioni dell’Inquisitore, che cosa lo spinga a pronunciare quelle affermazioni così accusatorie nei confronti di Cristo. Possiamo domandarci, se l’Inquisitore abbia veramente così torto a dire quelle parole. Quali sono queste imputazioni così pesanti, che il vecchio prelato muove nei confronti del Cristo? La principale è senza ombra di dubbio quella che riguarda la libertà:

“Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta tra il bene e il male? Nulla è all’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza,

ma nulla è anche più tormentoso.”22

L’uomo, secondo l’Inquisitore, non è fatto per la libertà. È troppo debole e incapace di custodire un bene così grande. Anzi, nel momento in cui esperisce questa dimensione, cade nell’angoscia, poiché si rende conto di essere chiamato a scegliere in prima persona. Questo è il più grande tormento umano. Cristo, pur conoscendone tutte le debolezze, ha avuto una considerazione troppo elevata della sua creatura. Ed è proprio in virtù di quella libertà che ha donato all’uomo che adesso il prigioniero può essere interrogato dall’Inquisitore. Abbiamo un rovesciamento delle parti quasi comico, se guardiamo meglio la situazione dei due protagonisti. Il vecchio prelato, giudica e indaga in virtù di un’autorità religiosa, che gli deriva proprio da colui che ha fatto arrestare. Il dramma maggiore della libertà, secondo

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l’Inquisitore, starebbe nel rendere infelice l’uomo. Cristo, quindi, nonostante conoscesse la natura umana, ha preferito continuare nella sua predicazione di una fede libera, caricando l’uomo di un peso troppo gravoso per lui e rendendogli la vita molto più difficile e tormentosa. O meglio, solo una schiera di eletti, <<quelle decina di migliaia di uomini grandi e forti>> sarebbe riuscita a sopportare un tale giogo e a seguire la sua via. Ecco, quindi, l’altra accusa: di quei restanti milioni di esseri deboli, peccatori e ribelli, che cosa accade? La strada proposta da Cristo, la quale riguarderebbe solamente una piccola minoranza di eletti, escluderebbe la stragrande maggioranza delle persone che, a causa della loro debolezza, non sarebbe mai capace di percorrerla. In altre parole, quella di Cristo è una concezione aristocratica23. A tale verità il cardinale è giunto solo dopo essere passato anche lui per la strada del deserto. Inizialmente, infatti, anch’egli aveva scelto la via dei pochi. È tornato indietro, però, dopo averla percorsa e non perché sconfitto dall’austerità di quella proposta ma per un senso di pietà, che provava nei confronti di quei milioni che non ce l’avrebbero mai fatta a camminare su un sentiero così impervio:

“ Sappi che anche io fui nel deserto, che anche io mi nutrivo di cavallette e radici, che anche io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti gli uomini, che anche io mi ero preparato a entrare nel numero dei tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti[…] Ma mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili per la felicità di questi ultimi.”24

Il prelato -seppur a suo modo- ama gli uomini, vuole la loro felicità. La schiera degli eletti, invece, sembra andare avanti per la sua strada elitaria. In una simile frattura, occorre trovare un rimedio ed ecco che subentrano i correttori dell’azione di Cristo. Cardinali, inquisitori e

23 Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari 2011, p.10.

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tutte le altre forme di autorità religiosa di cui la Chiesa si è dotata, sarebbero il segno evidente della necessità di intervenire per modificare la proposta di Cristo, altrimenti, oltre ai santi, agli eletti, ai pochi forti e intrepidi, chi avrebbe avuto la capacità di sopportare la vita, una vita che poggiasse sulla libertà e responsabilità individuale? L’azione condotta da questi correttori ha l’obiettivo dell’eudemonia sociale. Essi conoscono bene le debolezze degli uomini, sanno che i vizi fanno parte della loro vita e quindi, da bravi tutori del bene sociale, consentono anche di peccare, il tutto sempre sotto la loro sorveglianza. Sono gli uomini stessi, che pur di uscire dal tormentoso giogo dell’angoscia causato dalla libertà, hanno preferito spogliarsene, consegnandola nelle mani di coloro che si sono mostrati disposti a guidarli e a favorire la loro vita materiale. Come dice l’Inquisitore, una volta ottenuta la rinuncia degli uomini alla libertà, questi diventeranno mansueti e sottomessi e verranno persuasi facilmente che questo è l’unico modo per essere felici. Ovviamente, si parla di una felicità non proprio vera e matura, infatti, il prelato lo afferma senza nessuna esitazione: <<Proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei bimbi, ma che la felicità infantile è la più dolce di tutte.25>> Tutta quanta la vita dei cosiddetti molti, si ritrova gestita da coloro che hanno fatto una scelta consapevole: rinunciare alla via della perfezione per governare la vita dei deboli e fare in modo che questi possano credere di essere felici, perché solo in questa maniera potranno essere convinti di esserlo. Coloro che hanno fatto questo sacrificio, i correttori, hanno preferito rinunciare alla vera felicità, alla salvezza, a una via santa, divenendo così i detentori di un segreto esistenziale molto pesante, da custodire con estrema attenzione. Hanno preferito il potere di condurre la vita degli uomini, alla felicità proposta da Cristo, una via troppo elitaria. Terribili sono le parole dell’Inquisitore, quando spiega come viene gestito il loro potere:

“[…] Ci ammireranno e avranno paura di noi, e saranno fieri che noi siamo così potenti

e così intelligenti da aver potuto pacificare un così tumultuoso e innumere gregge. […]

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Certo li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro vita come un gioco infantile […] noi consentiremo loro il peccato […] e ci ameranno perché permetteremo loro di peccare […] ci adoreranno come benefattori che saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio. E per noi non avranno segreti […] Tutti i loro più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal terribile tormento quotidiano di dover liberamente e personalmente decidere ”26

Nel giorno del Giudizio Finale, i correttori potranno alzarsi di fronte a Dio e ammettere sì che hanno mentito, ma che ciò è servito per rendere sopportabile l’esistenza a moltissime persone, ai più. Sono quelli come l’Inquisitore, che si sono caricati i peccati di tutti nell’inconsapevolezza generale, ad aver compiuto il vero sacrificio per amore dell’uomo, non Cristo. Miracolo, mistero e autorità, le tre tentazioni con le quali Satana ha cercato di corrompere inutilmente Gesù, sono le fondamenta del potere dell’Inquisitore. Inoltre, l’astuto prelato ha capito che la fede della maggioranza degli uomini si basa su questi tre pilastri. Quindi, anche il potere sfrutta questa debolezza umana per assicurare un andamento della società che risulti sopportabile.

L’obiezione che Aljòša muove nei confronti della Leggenda è molto condivisibile, diciamo che è la prima che può sopraggiungere appena giunti al termine del racconto del fratello Ivàn:

“Ma…è un assurdo! Il tuo poema è l’elogio di Gesù, non la condanna[…] Quella è Roma

e neppure tutta Roma, sbaglio: sono i peggiori fra i cattolici, sono gli inquisitori, i gesuiti! […] sono semplicemente l’armata romana per il futuro regno universale terreno con

l’imperatore, il pontefice romano, alla testa […] la più semplice brama di potere […]”27

26 Op. cit., p. 276. 27

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Ecco come reagisce il povero seminarista di fronte alle provocazioni della mente euclidea, spingendosi addirittura alla fine, ad asserire quasi adirato: <<Il tuo Inquisitore non crede in Dio, ecco tutto il suo segreto!>> Aljòša si sente colpito nel punto nevralgico della sua fede, il poema del fratello lo ha penetrato profondamente del messaggio di Cristo. Solo la fede può essere la risposta a questa potente provocazione ed Aljòša con le sue parole ha compreso a dove voleva arrivare il fratello, il quale, infatti, afferma: << E anche se fosse così? Infine tu hai indovinato. È proprio così, è bene qui soltanto che sta tutto il segreto.28>> Ecco, allora, che si svela la realtà di questo edificio, che non crede per primo in quella verità che dice di rappresentare e che gli permette di governare sugli uomini. È vuoto dentro:

“Possono esserci le speranze, rinsaldate dalle innumerevoli tortuosità della dialettica; e l’amore con la volontà di ceder tutto al prossimo, per la più piccola gioia di sacrificargli tutta la felicità della propria vita, ma nel contempo non c’è la fede, e tutto l’edificio delle dimostrazioni e dei sentimenti, che si accumulano l’una sull’altro e si consolidano reciprocamente, fa pensare ad un bellissimo palazzo in cui non abiti nessuno.29”

Questa condizione in cui si è ritrovato l’Inquisitore ha origine da quella terribile menzogna, che ha dovuto custodire per tutti quei lunghissimi anni dentro di sé, un segreto che ha affaticato e tormentato il prelato, che, adesso, ritrovandosi a poter discutere con la causa della sua sofferenza, può finalmente far trapelare la sua verità. Una rivelazione veramente spaventosa, se si considera il suo contenuto. Egli ha vissuto per tutto quel tempo, con la consapevolezza che la sua menzogna si fondava su qualcosa di vuoto, ciò che diceva di professare e testimoniare, in realtà non esisteva affatto ma ha dovuto fingere che in realtà

28 Op. cit., p. 277. 29

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fosse tutto vero, per il bene dei suoi poveri fedeli, i quali avevano riposto solamente in lui le loro aspettative di felicità.

Da questo poemetto, certo, si può cogliere una visione dell’uomo molto negativa e proprio una tale posizione pessimista nei confronti del genere umano, costituisce il pensiero del cardinale, in altre parole, è la sfiducia negli uomini30 che spinge il Grande Inquisitore a occuparsene in quella maniera, da una parte la passione per il potere e dall’altra il fastidio per l’arroganza degli eletti. Non bisogna demonizzare immediatamente la figura di questo vecchio prelato, anche se è egli stesso a un certo punto a sollevare tale questione dicendo: << […]Noi non siamo con te, ma con lui, ecco il nostro segreto! […] Ripudiammo te e andammo dietro lui31.>> Occorre, invece, riconoscere al cardinale la capacità di aver conosciuto profondamente tutte le debolezze umane e <<di aver combattuto una guerra antropologica preventiva ed efficacissima contro la speranza.”32 Egli ha strenuamente difeso la sua causa, riuscendo a isolare gli eletti, facendo percepire alla maggioranza degli uomini troppo distante il divario con la schiera dei santi, i quali invece si propongono di sconfiggere le debolezze umane, richiedendo però in cambio delle azioni e dei gesti che troppo spesso si presentano come forzature della natura dell’uomo. L’Inquisitore lavora proprio su questa soglia, cercando di separare la maggior parte delle persone dagli eletti, nelle sue parole: <<un’aristocrazia boriosa e innamorata della propria perfezione.33>> In altre parole, l’astuto prelato cerca di avvelenare i pozzi, di inquinare il messaggio salvifico degli eletti, rafforzando e coltivando la debolezza degli uomini, la quale viene usata come scudo contro i migliori. La fragilità umana è ciò su cui si fonda il potere dell’Inquisitore, che cerca di distogliere la massa dalla retta via, presentata come un inutile abisso dentro al quale sprofondare. Egli, incarnando l’autorità, è il vero pastore che conduce le sue pecorelle alla felicità, è lui che si è fatto carico del duro peso

30 Franco Cassano, L’umiltà del male, cit., p. 21.

31 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., pp. 274- 275. 32 Franco Cassano, L’umiltà del male, cit., p. 23.

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del distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo. Per combattere questo rischio, cioè quello di permettere l’isolamento degli eletti e quindi di lasciare la moltitudine nelle mani dell’inquisitore di turno, occorre lavorare affinché questa distanza si riduca e per arrivare a questo risultato bisogna che vi sia <<un’idea di salvezza e di perfezione diversa, libera da ogni angelismo e capace di ospitare al suo interno quella debole e imperfetta creatura che è l’uomo.34>> Questo non vuol dire sminuire l’uomo, infatti, non bisogna accondiscendere come suggerisce l’Inquisitore. Occorre essere consapevoli dei limiti e delle inclinazioni, che sono insite nell’essere umano e cercare di non trascurarle ma comprenderle e dove possibile soddisfarle. Allo stesso tempo, però, bisogna evitare che tali esigenze diventino una scusante per rinunciare a percorrere la strada degli eletti, che sebbene lunga e tortuosa, non è assolutamente impossibile da intraprendere, necessita solo un costante allenamento, soprattutto sulla coscienza individuale. Cristo stesso non pretende che gli uomini camminino come lui per quaranta giorni digiunando nel deserto, è consapevole, ad esempio, di come la fame sia un bisogno primario da soddisfare. Con le parole <<non di solo pane>> intende solamente ricordare che le necessità materiali non devono prendere il sopravvento sull’uomo, altrimenti non si è più liberi. Per permettere, dunque, questa <<salvezza dell’uomo>> , quindi che non sia lesa la sua libertà e affinché tale proposta non risulti né troppo svalutante né troppo pretenziosa, si necessita allora, di un grande lavoro culturale, in cui, forse, la filosofia può essere la guida principale tramite cui riuscire a risvegliare la coscienza e il suo rapporto ontologico con la libertà. Occorre ammettere, dunque, che i meriti dell’Inquisitore, sono dipesi sia dalla sua capacità di farsi sentire più vicino alle esigenze degli uomini rispetto alla figura del Cristo, sia anche dai demeriti e quindi dalla scarsa credibilità della schiera degli eletti, i quali troppo spesso hanno rischiato e rischiano ancora oggi, di apparire degli ingenui utopisti.

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Cap. II La libertà

a) la questione ontologica.

Il problema della libertà, è uno dei maggiori temi affrontati nei vari romanzi da Dostoevskij e raggiunge il massimo dell’approfondimento nella Leggenda. Tramite i vari personaggi delle sue opere, l’autore cerca di presentarci le differenti idee di libertà che possono nascere a seconda del modo in cui si voglia intendere questa parola. Dostoevskij, non ci presenta una sua precisa definizione di libertà, ma lascia che sia il lettore a dedurre la complessità del significato di questo termine astratto, tramite le vicissitudini dei protagonisti dei suoi romanzi. L’autore, infatti, riesce a presentare per intero il significato delle varie idee incarnate dai personaggi, pur conservandone una certa distanza e senza travisarne il contenuto o influenzandolo in qualche maniera35. Una cosa è molto importante ricordare, ovvero, che l’idea di libertà per Dostoevskij è intimamente connessa all’uomo e al suo destino:

“Il problema dell’uomo e del suo destino per Dostoevskij è prima di tutto il problema della della libertà. La libertà determina il destino dell’uomo, il suo doloroso errare. La libertà sta al centro stesso della concezione di Dostoevskij. Il suo sacro pathos è il pathos della libertà”36

Possiamo quindi affermare che il problema della libertà, è il nucleo fondamentale delle opere dello scrittore russo. Dostoevskij, infatti, vuole comunicare ai suoi lettori quanto la libertà sia un elemento imprescindibile dell’essere umano, il quale lungo il percorso della sua vita, ne constata la travagliata bellezza e importanza. Nel momento in cui viene svelata l’essenza della libertà, non si può che imbatterci anche nel suo fardello. Essa ha un caro prezzo per l’uomo. Essere liberi, comporta pesanti responsabilità, soprattutto, implica

35 Michail Bachtin, Dostoevski. Poetica e stilistica, cit. p. 111. 36

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l’inevitabile esperienza del male, della sofferenza e del dolore, perché, infatti, il termine libertà non è sinonimo di bene assoluto, di pace e di assenza di tutto ciò che è negativo. La libertà è ontologicamente autosussistente; la libertà è libertà. Essa contiene intrinsecamente varie possibilità di interpretarla, a seconda delle intenzioni del soggetto, quindi tramite di lei si può accedere al bene come al male. Dostoevskij, intravede in questa maniera di vivere la libertà la massima espressione dell’essere umano e dell’amore di Dio, infatti, “la libertà per lui è antropodicea e teodicea37”, quindi la giustificazione dell’uomo e di Dio. Nei suoi romanzi, Dostoevskij, ci presenta varie sfaccettature della libertà, fra cui anche quel modo di interpretarla secondo il principio del «tutto è permesso» (là dove ovviamente viene a mancare l’istanza del Dio rimuneratore). Questo implica che all’uomo è concesso anche di compiere il male, gli è concesso persino distruggersi, perché alla verità deve arrivare per una libera adesione e non per costrizione, pensiero che non accetta il Grande Inquisitore. Se andiamo ad analizzare Delitto e castigo, osserviamo chiaramente come questo discorso venga incarnato dal protagonista, Raskòl’nikov, il quale vuole esperire concretamente che cosa significa bene e male, o per dirla nietzschianamente, cosa comporta l’andare al di là del bene e del male. Egli arriva in questo modo a scoprire gli abissi nei quali si può sprofondare, a seconda del modo in cui si cammina nelle strade della libertà:

“Egli desiderava di conoscere per esperienza, di «provare» l’ultima essenza di ciò che gli uomini chiamano «male» e «bene», gli ultimi confini della libertà umana.

E li conobbe. Ma le deduzioni dell’esperienza superarono la sua aspettativa: egli pensava che l’uomo fosse libero, ma tuttavia non pensava che l’uomo fosse libero a tal segno. Questa illimitatezza della libertà egli non la potè sopportare: essa lo schiacciò più di tutto il peso della legge punitrice.”38

37 Op. cit., p. 67.

38 Dmitrij Sergeevič Merežkovskij, Tolstòj i Dostoevskij (1901), tr. di Alfredo Polledro: Tolstoj e Dostoevskij.

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Senza alcun dubbio, Dostoevskij è stato uno dei più grandi maestri e conoscitori delle profondità dell’uomo, egli nei suoi romanzi riesce a condurre il lettore nei più tetri abissi immaginabili dei suoi protagonisti, i quali riescono a raggiungere dei livelli di così estremo arbitrio che finiscono per distruggersi. Proprio per questa sua capacità, fu definito da Michailovskij, <<un ingegno crudele>>. Crudeltà che se andiamo ad analizzare, consiste solamente nel saper descrivere magistralmente la realtà umana e quindi anche il male, la sofferenza. D’altra parte non si può parlare della libertà, senza tener conto del male, come viceversa non possiamo dimenticare il bene. L’importante è che non vi siano costrizioni da entrambe le parti, nel senso che non si consideri solo una parte. Dostoevskij ci presenta una concezione tragica della libertà39, dove a metterla in atto, sono i suoi protagonisti, i quali spesso però fanno trascendere questa in arbitrio, in una ribellione verso il mondo e il suo ordinamento, affermando unicamente se stessi ed arrivando anche alle sue estreme conseguenze, l’affermazione dell’Uomo-dio di Kirillov40:

-[..] Tutto è bello ( Kirillov) - Tutto? (Stavroghin)

- Tutto. L’uomo è infelice, perché non sa di essere felice; solo per questo. È tutto qui! Chi saprà di essere felice, colui lo diventerà subito, sull’istante[…] Tutto è bene, tutto. Tutto è bene per coloro che sanno che tutto è bene[..] Ecco tutta l’idea, tutta, non ce ne è nessun’altra! […] Chi insegnerà che tutti sono buoni, rifarà il mondo.

- Chi lo insegnava fu crocifisso.

- Egli tornerà e il suo nome sarà uomo-dio. - Dio uomo?

- Uomo-dio, in questo sta la differenza.

39 Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, Romanzo ed esperienza religiosa, cit. p. 125. 40

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Kirillov è colui che rappresenta un po’ l’antesignano delle idee di Nietzsche, egli ha capito che il mondo può avere una svolta nel momento in cui l’uomo riesce a distruggere l’idea di Dio, del Dio incarnato che si fa uomo per il bene di tutti. Kirillov rovescia i rapporti tra il cielo e la terra, è l’uomo, che una volta capito che tutta la sua infelicità risiede nell’idea di Dio, si eleva a divinità, divenendo così in grado di compiere tutto ciò che reputa bene. Questa concezione è il preludio dell’uomo nuovo, il quale non avrà più paura del dolore e quindi della morte, poiché egli stesso diverrà Dio:

“ […] Dio è il dolore che nasce dalla paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diverrà Dio. Allora vi sarà la vita nuova, l’uomo nuovo, tutto sarà nuovo[…] Chiunque voglia la libertà suprema, deve avere il coraggio di uccidersi. Chi ha il coraggio di uccidersi, ha conosciuto il segreto dell’inganno […] Chi ha il coraggio di uccidersi, quello è Dio.”41

Kirillov è il tipico esempio di colui che è riuscito a liberarsi dalle catene delle sovrastrutture umane, è uno spirito eroico, che finalmente è riuscito ad andare oltre i valori tradizionali di bene e di male. È un personaggio compiuto, cosa che non si può affermare di Raskòl’nikov, il quale dopo il delitto, si accorge di non essere riuscito a varcare quella soglia che gli avrebbe permesso di passare dalla parte degli uomini superiori, vivendo in un senso di colpa costante proprio come un castigo, punizione che si sente di meritare a causa del suo fallimento. Kirillov, invece, riesce a rimanere fedele alle proprie convinzioni, ha coraggio e fermezza verso la più grande sfida dell’essere umano, la morte. Egli si sente di aver scoperto la via d’uscita dall’inganno che ha intrappolato l’uomo all’infelicità. Con questa teoria, Kirillov crede di essersi elevato sullo stesso piano di Dio, arrivando ad individuare nel libero arbitrio, l’attributo divino che è nell’uomo:

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“Tutti sono infelici, perché hanno paura di proclamare il loro libero arbitrio. Per questo appunto l’uomo è stato finora così infelice e povero, perché temeva di proclamare il libero arbitrio nel suo più alto significato e si contentava di commettere arbitri di straforo […] l’attributo della mia divinità è il Libero Arbitrio! È tutto ciò, con cui io posso dimostrare il punto supremo della mia rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa. Io mi uccido per affermare la rivolta e la mia paurosa libertà.”42

Dostoevskij non aveva un atteggiamento totalmente negativo nei confronti di Kirillov, il quale in fondo rappresentava un elemento fondamentale per il suo studio antropologico della libertà. Personaggi come Kirillov gli erano indispensabili per poter sperimentare cosa c’era dopo una certa soglia; nei suoi romanzi c’era sempre bisogno di uomini che stessero dalla parte opposta del bene inteso in senso tradizionale ma non per dare giudizi morali, lungi dalle intenzioni di Dostoevskij. Sappiamo, infatti, che durante il peregrinare della sua vita ha vissuto momenti simili a quelli dei suoi protagonisti, quindi non possiamo definirlo il tipico moralista che tende a giudicare e sentenziare in modo ipocrita su cosa siano il bene e il male, criticando qualsiasi atteggiamento tendente all’umanodivinità. Possiamo anzi arrivare ad affermare, che in Dostoevskij la dialettica che avviene nei protagonisti è sempre immanente43. Infatti, troviamo in ognuno di loro, un percorso personale che lo ha accompagnato a raggiungere una determinata meta, positiva o negativa. Dostoevskij aveva solo bisogno di far vivere nei personaggi dei suoi romanzi ogni tipo di idea, lasciandoli liberi di agire come meglio essi credessero, tenendo così tanto alla loro libertà che ha permesso loro di percorrere vie pericolose e maledette, che hanno condotto anche alla perdizione. Con il principio della dialettica immanente, Dostoevskij è arrivato anche a presentarci un altro tema a lui molto caro, quello del «tutto è permesso». Perché Raskòl’nikov, nonostante si ostini a sforzarsi di

42 Op. cit., pp. 634-635.

43 Nikolaj Berdjaev, La rivelazione dell’uomo nell’opera di Dostoevskij, in : Il dramma della libertà. Saggi su

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credere in questo principio, non riesce ad esserne convinto pienamente? Lo stesso discorso vale per Ivàn, soprattutto alla fine della storia, durante il terzo ed ultimo colloquio con Smerdjàkov, quando la verità comincia a venire fuori ed Ivàn, turbato dalla rivelazione del fratellastro, viene ripreso da questi, in modo stupito, con le stesse parole che gli aveva rivolto Ivàn in passato: “Allora avevate tanta baldanza, «tutto è permesso», dicevate, e ora quanto spavento!- mormorò Smerdjàkov, meravigliato.44”. Perché questi protagonisti si imbattono in una porta aperta ma che non riescono a valicare? Dostoevskij ha una concezione dell’uomo troppo elevata, ama in modo viscerale la persona umana e non può concepire che questa possa distruggersi. Tutto questo, perché l’uomo contiene intrinsecamente la possibilità di compartecipare ad una realtà infinita, quella di Dio. Per Raskòl’nikov ed Ivàn, il «tutto è permesso» non può valere per questo motivo e non perché essi siano intimoriti dalle norme giuridiche della società o perché siano dei codardi. Essi si scontrano con qualcosa che è immanente a loro, celato nelle profondità più recondite delle loro coscienze e che li tormenta fino a farli ammalare. Ed è grazie alla presenza di questo elemento divino presente in ciascun uomo, che ogni persona ha il medesimo valore di fronte alle altre. Tutti hanno la stessa dignità. Anche gli assassini, le prostitute, gli alcolizzati, in altre parole coloro che sono scartati dalla società perché devianti dalla morale comune, sono per Dostoevskij persone che hanno valore come tutte le altre, perché anche loro contengono la stessa capacità di dilatarsi verso una realtà infinita. Anzi, sembra proprio che Dostoevskij tenesse particolarmente a queste categorie di persone, forse perché le conosceva direttamente. Perfino la vecchia usuraia uccisa da Raskòl’nikov, avida e spietata, che per la società è solo dannosa, anche lei è una persona umana che ha in sé la possibilità di partecipare alla realtà divina e per questo non merita di essere uccisa. Eppure, sappiamo bene che Dostoevskij, da bravo giocatore d’azzardo spesso in debito, di certo non nutriva grosse simpatie verso gli usurai! A questa concezione

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però, l’autore è arrivato attraverso le sofferenze e i dolori della vita, (l’esperienza dei campi di lavoro e del patibolo sicuramente) testimoniate dai suoi eroi. Per questo possiamo dire che:

“Tutta la dialettica di Ivan Karamazov, come di altri suoi personaggi, è la sua stessa dialettica, anche se in Dostoevskij tutto è più complesso e più ricco che nei suoi personaggi, egli sa più di tutti loro. L’elemento essenziale per Dostoevskij non va ricercato nell’umiltà («umiliati uomo superbo»), o nella coscienza del peccato, ma nel mistero dell’uomo, nella libertà […] per Dostoevskij l’uomo esiste nella grazia, nella libertà.”45

La libertà di cui parla Dostoevskij, è una libertà che ha la caratteristica di tendere all’infinito, è una libertà che alla luce di una mente euclidea può risultare irrazionale, in quanto non rispecchia un ordine coerente e preciso, esplicato tramite la logica delle tre dimensioni. Tutta la dialettica della libertà con le sue contraddizioni, deve essere interpretata secondo una concezione che preveda anche una quarta dimensione. Solo tramite questa, si può comprendere il significato profondo dell’illimitata libertà dostoevskijana, che è data a tutti esperire. I problemi sorgono nel momento in cui l’uomo si ribella di fronte all’essenza della libertà e si arroga il diritto di gestirla a suo piacimento, arrivando così all’eterogenesi dei suoi fini: la trasformazione da libertà illimitata a dispotismo illimitato, di cui il Grande Inquisitore è l’emblema più indicativo. Per Dostoevskij, un assetto societario imposto in questo modo, non poteva coincidere con la sua ideologia. Non poteva concepire una società, dove tutti avessero da mangiare e una casa, ma non la libertà di scegliere. Non poteva ammettere una società dentro alla quale non poteva essere commesso il male o comunque qualcosa che potesse andare contro tutto ciò che era normativamente definito bene. Una società così per lui era una società maligna per l’uomo, poiché non lo considerava ontologicamente tale. Da qui la sua avversione per qualsiasi forma politica di totalitarismo e per il cattolicesimo. Per lo

45 Nikolaj Berdjaev, La rivelazione dell’uomo nell’opera di Dostoevskij, in: Il dramma della libertà. Saggi su

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scrittore russo, doveva essere la libertà a far scaturire l’ordine e l’armonia e non viceversa. Il modello ideale di Dostoevskij, è uno solo, la figura di Cristo, che può valere per tutti, anche per coloro che non aderiscono a nessuna fede, permettendo così che differenti realtà possano coesistere. Tale approccio al mondo è il medesimo che caratterizza i suoi romanzi, per questo lo possiamo definire polifonico, nel senso che le varie ideologie che incarnano i suoi diversi personaggi, vanno a convergere sotto un unico punto di riferimento:

“Grazie a questo approccio ideologico dinanzi a Dostoevskij si dispiega non un mondo di oggetti, illuminato e coordinato dal suo pensiero monologico, ma un mondo di coscienze che si illuminano a vicenda […] In mezzo ad essi, egli

cerca l’orientamento più alto e autorevole e lo assume non come suo reale pensiero, ma come pensiero di un altro uomo reale e della sua parola. Nella immagine dell’uomo ideale o nella immagine del Cristo si presenta a lui la soluzione delle sue ricerche ideologiche. Questa immagine […] deve coronare il mondo delle voci, organizzarlo e sottometterlo.”46

Nella figura di Cristo risiede il vero spirito libero cui l’uomo deve tendere, in cui si realizza in un uomo libero una fede libera. Per Dostoevskij, quello che conta non è tanto se siano giuste o meno le sue convinzioni, quello che a lui sta maggiormente a cuore è la fedeltà alla figura di quest’uomo ideale:

“L’immagine dell’uomo e la sua voce estranea all’autore è il criterio ideologico ultimo per Dostoevskij: non la fede nelle sue convinzioni né la veracità delle convinzioni stesse, astrattamente prese, ma la fedeltà alla autorevole immagine dell’uomo.”47

46 Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, cit. p. 128. 47

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Bachtin, rileva come questa immagine ideale possa essere considerata un limite della concezione di Dostoevskij, poiché non se ne trova una compiuta realizzazione nei suoi romanzi. Infatti, anche il tentativo di rappresentare un personaggio veramente buono, puro, definito dagli altri idiota, come il principe Myškin, fallisce in una società corrotta come quella di Pietroburgo. Possiamo però sempre formulare l’ipotesi che, forse, quest’uomo ideale si sarebbe potuto realizzare proprio nel personaggio incompiuto di Aljòša, poiché non sappiamo come avverrà il suo ritorno nel mondo dopo il mandato dello stàrets Zòsima (Dostoevskij, infatti, non fece in tempo a portare a termine il suo lavoro come avrebbe voluto a causa della morte). Inoltre, potremmo tentare anche una risposta a questa critica, usando le parole di Dostoevskij, in risposta alla polemica che si era accesa con il giurista, storico d’indirizzo liberale Kavelin. Questi, aveva criticato l’autoperfezionamento morale predicato da Dostoevskij, dando invece importanza al miglioramento delle condizioni sociali del popolo, anche se con l’unico fine rivolto esclusivamente a se stesso. In tale maniera, egli escludeva totalmente la figura di Cristo. Dostoevskij, dopo aver risposto a tale provocazione, arriva con poche parole a sintetizzare tutta quanta la sua posizione: “Preferisco restare con l’errore, con Cristo, piuttosto che con voi”.48. D’altra parte, in quest’ottica può essere letto anche il bacio finale che Cristo dona sulle esangui labbra dell’Inquisitore, in fondo può simboleggiare una ostinata adesione al comportamento idiota del Figlio di Dio, piuttosto che una accettazione delle teorie del cardinale, le quali si fondano sulle tre tentazioni compiute dal diavolo nel deserto e che rappresentato chiaramente anche l’assassinio definitivo della libertà dello spirito umano. Si è molto discusso se Dostoevskij fosse veramente convinto che una figura del genere difficilmente sarebbe potuta sopravvivere nel mondo umano, ed è per questo che il modo in cui fa terminare la Leggenda con il Cristo che una volta liberato, viene lasciato allontanarsi per «le vie oscure della città», cacciato dal mondo che lui stesso aveva creato e

48 Fëdor Dostoevskij, Neizdannyj Dostoevskij. Zapisnye knižki i tetradi (Mosca 1971), tr. di Piero Cazzola, Tania

Gargiulo, Anton Maria Raffo, Sergio Rinaldelli, Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini, Vallecchi, Firenze 1980, p. 409.

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che è arrivato a ripudiarlo, lascia ampio spazio alle riflessioni. Per certi versi, si può affermare che la visione del mondo di Dostoevskij è estremamente pessimistica, ma se rileggiamo la Leggenda con uno sguardo alla profondità che contiene dietro ad ogni singola parola, scorgiamo in realtà quanto la fede di Dostoevskij fosse veramente radicata in lui e di come la professasse non con parole bieche e impregnate di sentimentalismo, ma con una fermezza così estremamente legata al suo vissuto, che non se ne può non rimanere affascinati. Inoltre, si può anche opinare che dietro a tanto pessimismo, si celi in realtà una speranza che dopo un travagliato vissuto, l’uomo potrà trovare la vera felicità. A riguardo della sua fede, ci risuonano forte quelle parole che adoperò per definire il suo credo, sempre in risposta ad un’altra polemica con Kavelin:

“ L’Inquisitore e il capitolo sui bambini. Al cospetto di questi capitoli voi potreste rivolgermi a me, non dico di no, in modo più o meno scientifico […] Neppure in Europa c’è o c’è mai stata una forza di espressione atea pari a quella da me descritta. Non dunque alla stregua di un bambino io credo nel Cristo e Lo professo, ma il mio osanna è passato attraverso il grande crogiolo

dei dubbi…”49

Quest’ultima celeberrima affermazione, è quella che è stata maggiormente ripresa dagli studiosi di Dostoevskij, poiché vi hanno visto riassumere il modo di concepire la fede da parte dell’autore. La cosa interessante è che sono le stesse parole che adopera il diavolo nel dialogo con Ivàn,50 quando gli deve spiegare quale sia la sua missione nel mondo, ovvero « negare », altrimenti senza la critica la fede non avrebbe senso. Da questa esposizione del suo credo, possiamo evincere come sia importante per Dostoevskij l’esperienza del dubbio, della contestazione dell’esistenza di Dio. Essa, è fondamentale per poter arrivare ad una piena e

49 Op. cit., p. 424. 50

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vissuta esperienza di fede. Se non si mette in discussione ciò in cui si crede, se non se ne approfondiscono criticamente gli aspetti fondanti il corpus fidei, non si può affermare di essere veramente fedeli al proprio credo. È importante invece metterne a nudo i limiti, le debolezze, sottolinearne le contraddizioni. Tutto questo deve essere compiuto non solo da un punto di vista speculativo ma anche da un punto di vista dell’esperienza di vita, proprio come arrivano a fare Kirillov o Ivàn. Sembra quasi che in Dostoevskij, l’esperienza della negazione sia quasi necessaria per l’affermazione delle sue idee. Occorre però fare attenzione e non pensare che la concezione dostoevskijana possa essere paragonata a una dialettica suddivisa in fasi, simile a quella hegeliana. Il mondo dello scrittore russo non è assolutamente così ordinato e basato sulla necessità delle azioni, organizzate secondo una tesi, un’antitesi e una sintesi. Tutt’altro. Il suo modo di scrivere e di rappresentare la realtà sono stati giudicati più vicino al dionisiaco che all’apollineo e spesso giudicati per questo motivo troppo caotici, privi di un sistema ben organizzato. Dostoevskij quando scrive, vuole mostrare come il mondo in cui viviamo sia basato sul principio della libertà, incarnato nella figura di Cristo e che permette all’uomo di scegliere il proprio destino. In tale concezione non è ammessa la necessità, o meglio solo in un caso, proprio quello della scelta:

“[…] egli può sentirsi libero da Dio, ma non dalla necessità di scegliere. Perché se se ne fosse liberato, bisognerebbe cambiare la sua ontologia. Il rifiuto di scegliere diventa necessariamente un male inconsapevole in quanto presuppone

l’esteriorizzazione del principio del bene”51

La libertà impone all’uomo solo una cosa: scegliere. Ed è il tormento più grande, che, secondo l’Inquisitore, attanaglia maggiormente la coscienza umana. Allo stesso tempo, però, nel momento in cui viene avvertito il fardello della necessità, gli uomini si ripiegano in se

51 Pavel Evdokimov, Dostoevskij et le problème du mal, (Paris, 1978), tr. di Elisabetta Confaloni, Dostoevskij e il

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stessi, evitando di assumersi la responsabilità di compiere scelte importanti ed impegnative, preferendo magari declinare tali responsabilità verso chi li governa, non rendendosi conto che in tale maniera compiono inconsapevolmente una scelta che per Dostoevskij equivale ad aver scelto il male. Il campo del discernimento, quindi, è l’unico in cui sembra essere presente la necessità, per il resto, Dostoevskij appare, anzi, essere critico verso tutto ciò che è già prestabilito ed ordinato. Sappiamo bene che egli aborriva quella parte dell’intelligencija liberale e razionalista che credeva nelle leggi della natura, nel positivismo e nel progresso. Dostoevskij giudicava questo modo di intendere l’assetto della società, veramente degradante per l’uomo, poiché offensivo verso ciò che lo costituiva ontologicamente, la libertà. A tal riguardo è interessante la riflessione ironica che fa il protagonista delle Memorie del sottosuolo, a proposito del rapporto fra libertà ed aritmetica:

“[…] del resto il due per due quattro non è più vita, signori, bensì il principio della morte […] il due per due quattro è pur sempre una cosa arcinspopportabile. Il due per due quattro, secondo la mia opinione, non è che sfacciataggine […] ma se proprio si ha da lodar tutto, anche il due per due cinque è una cosuccia graziosissima.”52

Da queste riflessioni molto sarcastiche circa l’aritmetica e l’ovvietà delle azioni della vita, si deduce abbastanza chiaramente l’idiosincrasia che intercorreva fra Dostoevskij e il mondo scientifico, al quale non perdonava l’ottusità mentale propria di chi vive secondo schemi ideali ben definiti e sicurezze aritmetiche che non portano mai alcuna novità. Il mondo dostoevskijano è tutt’altro che organizzato e inquadrato. Esso rispecchia quella concezione polifonica su cui si fondano i suoi principali romanzi, in cui non prevale il divenire della

52 Fëdor Dostoevskij, Zapiski iz podpol’ia (1864), tr. di Alfredo Polledro, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 2002, p. 35.

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realtà, ma la coesistenza e l’interazione53 delle varie entità che la vanno a comporre. È veramente magistrale il modo in cui Dostoevskij, riesce a presentare questa caleidoscopica visione del mondo che ha in mente, in essa possono coabitare e confrontarsi personaggi che incarnano principi diametralmente opposti, dove comunque l’elemento base che lega tutte queste differenti voci, è sempre lo stesso: il problema di Dio. Questo, è il filo conduttore che accompagna i suoi più grandi romanzi, che a partire dalle Memorie del sottosuolo arrivano a raggiungere il culmine con I fratelli Karamzov. In poco meno di vent’anni, Dostoevskij è riuscito a maturare la sua ideologia riguardante la libertà, estrapolandone le contraddizioni e i limiti più evidenti, riconducendo la questione all’origine, ovvero alla tormentosa domanda dell’esistenza di Dio e della sua natura.

Sia Berdjaev54 sia Evdokimov55 affermano l’esistenza di due tipi di libertà, riprendendo un po’ quanto diceva Sant’Agostino a riguardo dell’esistenza di una libertas minor e di una libertas maior. La prima consisterebbe in quella della fase iniziale, ovvero, quella della possibilità di scegliere tra bene e male, dove quindi è anche possibile ribellarsi ed esperire il peccato, di cui l’emblema più evidente è l’episodio biblico di Adamo ed Eva. La seconda, invece, consisterebbe nella libertà in Cristo, o nel bene, detta anche la libertà della ragione. In questa fase della libertà, si disvela anche il rapporto che esiste tra la verità e la libertà, proprio come richiamato dal Vangelo di Giovanni: <<Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.56>> Come risulta chiaro da questa frase, Gesù non ha mai obbligato i suoi discepoli a seguirlo, Egli ha proposto loro una strada, quella della verità. Ha suggerito uno stile di vita, un modo di agire che difficilmente può essere condiviso nella sua pienezza da tutti ma ciò non implica che non possa essere applicato nel mondo. Quanto sia arduo metterlo in pratica rispettandolo senza violentarlo, lo si può

53 Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, cit., p. 41. 54 Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 68. 55 Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, cit., p. 116. 56

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evincere dalle aberrazioni che sono state compiute verso il messaggio di libertà di Cristo, anche da parte di coloro che dovevano esserne i primi testimoni e custodi. I roghi nei confronti degli eretici, le violenze e le torture compiute a difesa della Buona Novella, sono state l’emblema più doloroso di come le insidie più pericolose a volte possano venire proprio dall’interno. La costrizione al bene è stata una delle offese più grandi che siano mai state compiute nei confronti del messaggio di libertà di Cristo. Annunciare che <<Cristo non è solo la Verità che dà la libertà, ma anche la Verità sulla libertà57>> è un dovere, certo, per chi si professa cristiano ma non bisogna mai dimenticare il modo con cui Cristo ha difeso il suo messaggio, fino ad arrivare alla morte di croce. Di questo Dostoevskij ne era pienamente convinto, ecco perché insisteva sull’importanza del modello di Cristo, perché questi aveva lasciato che gli uomini stessi decidessero che fare del suo annuncio, proprio per difendere il libero amore del Padre verso i suoi figli ed è qui che si incontrano la libertà umana e quella divina. L’uomo può agire liberamente e quindi anche ribellarsi verso Dio. Prima di Dostoevskij, forse, in pochi erano arrivati ad affrontare così profondamente il concetto di libertà, portandolo alle sue estreme conseguenze. Lo scrittore russo ha avuto il merito di provocare il messaggio di Cristo, di confrontarlo con quanto diceva di professare, giungendo addirittura a dimostrare che se coerente con i suoi enunciati, il cristianesimo poteva ammettere anche la sua distruzione. Dostoevskij rileva l’importanza della libera accettazione della verità, solo così si rende l’uomo veramente libero. Questa via però non è piana e liscia ma è una via che attraversa le tenebre, gli abissi dell’uomo e la sua tragedia. Anche questo fa parte della libertà di Cristo. È una via <<che guida a conoscere per esperienza il bene e il male58>>, dove l’introspezione dei protagonisti presenta le profondità della coscienza umana con le sue paure e le sue debolezze. Questa via che presenta Dostoevskij, è una via che porta ad una nuova concezione dell’uomo e della sua spiritualità, poiché è meno legata alla legge

57 Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 70. 58

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