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Nuovi player nel mercato dei contenuti culturali: Netflix Italia

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Marketing e Ricerche di Mercato

Anno accademico 2017/2018

Tesi di laurea

Nuovi player nel mercato dei contenuti

culturali: Netflix Italia

Relatore Candidato

Marco Enrico Guidi Serena Russo

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“Most entrepreneurial ideas will sound crazy, stupid and uneconomic, and then they’ll turn out to be right.”

Reed Hastings, Netflix’s Founder and CEO

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INDICE

Introduzione………

…..5

Capitolo 1

IL COPYRIGHT: EVOLUZIONE STORICA

1.1 Le origini del diritto d’autore………...7

1.2 Le forme di tutela del copyright………...8

1.3 Il diritto d’autore con l’avvento del World Wide Web………...12

1.4 Legislazione italiana sul copyright e nuova normativa europea………17

Capitolo 2

ECONOMIA DEI CONTENUTI CULTURALI E RIVOLUZIONE

DIGITALE

2.1 Il mercato dei media………...24

2.1.1 Industria audiovisiva……….27

2.1.2 Industria dei film………31

Capitolo 3

L’ATTEGGIAMENTO

DEI

CONSUMATORI

RISPETTO

AL

COPYRIGHT

3.1 Analisi del fenomeno dello streaming………33

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3.2 Switch dei consumatori dalla pirateria al pagamento di una quota per accedere

ai contenuti………41

Capitolo 4

IL CASO NETFLIX: ANATOMIA DEL SUCCESSO DELL’IMPRESA

AMERICANA IN ITALIA

4.1 Storia dell’impresa e modello di business………49

4.2 La strategia vincente di Netflix: come ha cambiato le abitudini di consumo dei telespettatori………..58

Conclusioni

………..66

Bibliografia e sitografia

………...68

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha l’obiettivo primario di conoscere i nuovi player che operano nel mercato dei contenuti culturali, studiando il loro ingresso nel settore, la loro diffusione e le relative strategie. Questi new comer stanno trasformando il settore della produzione e della distribuzione di contenuti e stanno rivoluzionato le abitudini di consumo dei contenuti culturali da parte dei telespettatori. Si tratta dei cosiddetti operatori over the top, ovvero coloro che forniscono servizi di distribuzione dei contenuti audiovisivi tramite connessioni a banda larga. Per poterli comprendere è necessario conoscere il contesto di riferimento sia dal punto di vista giuridico che sociale, economico e tecnologico. Per queste ragioni partiremo da un excursus storico delle legislazioni in materia di diritto d’autore passando poi allo studio dei vari tipi di contenuti culturali, dello streaming e della pirateria online per arrivare all’attuale periodo di digitalizzazione caratterizzato dalla comparsa dei nuovi operatori che stanno rivoluzionando l’intero settore dell’entertainment.

Nel Capitolo 1, analizzeremo il processo di internazionalizzazione del diritto d’autore iniziato con la Convenzione di Berna, passato da vari accordi e ratifiche nel corso dei decenni fino ad arrivare al 2018 alla direttiva proposta dalla Commissione europea che ha l’obiettivo di ridefinire la disciplina della distribuzione dei contenuti culturali con l’avvento di Internet e con la digitalizzazione. Da qui la necessità di creare delle leggi e dei regolamenti ad hoc che disciplinino le piattaforme di distribuzione di contenuti culturali presenti in Rete, differenziandole da quelle tradizionali.

Nel Capitolo 2 analizzeremo il processo di trasformazione dei contenuti culturali e delle loro modalità di fruizione da parte dei consumatori che è avvenuto nel corso del tempo:

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in passato i contenuti audiovisivi erano resi disponibili solo dalla tv tradizionale ma, con la diffusione di Internet, si sono moltiplicati i mezzi di distribuzione dei contenuti e di conseguenza le possibilità di scelta da parte dei telespettatori.

Nel Capitolo 3 procederemo con la nostra analisi soffermandoci sulla nascita e sulla diffusione dello streaming e della pirateria digitale. Nello specifico ci concentreremo sulle origini del servizio di streaming e sul processo di trasformazione avvenuto negli ultimi vent’anni. Tra la fine degli anni “90 e i primi anni 2000 abbiamo assistito al boom dei download illegali e della pirateria online, dando vita ad un universo parallelo a quello della televisione tradizionale. Le Autorità stesse hanno tentato invano di debellare questo fenomeno per anni ma ancora oggi tali piattaforme continuano ad essere presenti online.

Il Capitolo 4 analizzerà il modello di business del grande colosso americano Netflix e la sua evoluzione da semplice fornitore californiano di noleggio dvd a streaming tv mondiale. Cercheremo di identificare le ragioni alla base della sua posizione di leadership nel mercato dell’entertainment, indagando sui principali competitor presenti nel contesto italiano.

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CAPITOLO 1

L’EVOLUZIONE STORICA DEL COPYRIGHT

1.1 Le origini del diritto d’autore

Prima dell’invenzione della stampa la questione della tutela del diritto d’autore non era mai stata sollevata: in primo luogo perché il concetto di autore era meno categorico rispetto alla concezione attuale, in secondo luogo perché la diffusione dei beni artistici, a partire dalle opere letterarie, era molto costosa e quindi limitata, il che escludeva qualsiasi problema di regolamentazione della riproduzione e della distribuzione.

Fin dall'antichità il diritto d'autore è stato argomento di dibattito nell’ambito culturale: nell'antica Grecia, in assenza di specifiche norme legislative, le opere letterarie erano liberamente riproducibili, tuttavia gli autori erano tenuti in grande considerazione ed erano destinatari di lauti compensi. Col diritto romano fu introdotta una sorta di tutela dell'autore: la actio iniuriarium aestimatoria. Pur trattandosi di un atto emanato da un'autorità legislativa, ancora oggi non sappiamo quanto fosse funzionale alla protezione del diritto d'autore. Con tutta probabilità questa forma di tutela riconosceva agli autori il diritto patrimoniale, ma solo per ciò che riguardava il soggetto che possedeva materialmente l’opera. Venivano tuttavia riconosciuti il plagio, il diritto di non pubblicare l'opera e il diritto di inedito: si trattava dunque di una norma “moderna” e all’avanguardia per quell’epoca.

Le prime forme di copyright nascono ufficialmente nel XIV secolo (prima ancora dell'invenzione della stampa del 1455). L'autore non rivestiva ancora un ruolo di rilievo rispetto alla propria opera, ma la situazione è cambiata con la diffusione della stampa che ha permesso di stampare e di far circolare i testi in maniera veloce ed efficiente, rendendoli consultabili da un ampio pubblico.

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La figura dell'autore come titolare di diritti economici viene riconosciuta con l'avvento della stampa: la nascita delle prime stamperie a Venezia ha portato alla promulgazione delle prime legislazioni sul diritto d'autore, oltre al riconoscimento di particolari privilegi (dapprima unicamente concessi a editori e stampatori, successivamente anche all'autore). Fu riconosciuta, ad esempio, la facoltà di prestare il consenso per la pubblicazione della propria opera. Questi privilegi furono sanciti da una legge del 1603 che riconosceva il “diritto di stampa”, un diritto esclusivo riconosciuto all'autore per il quale egli avrebbe potuto usufruire della vendita della propria opera per un periodo pari a 20 anni. Con varie modifiche e integrazioni questo sistema di privilegi durò fino al XVIII secolo, quando si giunse alla produzione e alla diffusione di leggi più strutturate. Parallelamente si diffuse in Europa il fenomeno della pirateria: anche se lo stampatore possedeva l'esclusività sull'opera che stampava (per un certo numero di anni), i copisti o altre figure si impadronivano dell'opera e la pubblicavano per conto proprio, ad esempio migrando in altri Stati come i Paesi Bassi. Amsterdam era infatti la principale sede della pirateria editoriale, concorrente illegittima di Venezia. (Bellingeri,2001)

1.2 Forme di tutela del diritto d’autore

“Tutte le opere dell'ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o l'espressione, formano oggetto del diritto d'autore “(art. 2575 c.c.).

Il diritto d'autore si acquisisce originariamente con la creazione dell'opera (tranne i casi specifici in cui questa creazione sia avvenuta nell'ambito di un contratto di prestazione d'opera), quindi l'opera appartiene, come primo titolare, a chi ne è l'autore (art. 2576 c.c.).

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La più antica tra le moderne legislazioni sul diritto d’autore e forse la più importante è sicuramente lo Statuto della Regina Anna d'Inghilterra, il Copyright Act del 1709. Esso garantiva allo stampatore di un'opera una protezione legale della durata di 14 anni (solo lui poteva stampare e ristampare l'opera in questione), al termine dei quali il copyright tornava all'autore dell'opera, che – se ancora vivo – poteva goderne per 14 anni a sua volta. Coloro che avessero infranto le regole sancite dallo Statuto d'Anna sarebbero stati multati per la cifra di un penny per ogni pagina dell'opera; inoltre la copia contraffatta doveva essere distrutta. Trascorsi i 28 anni tutto sarebbe stato ceduto al dominio pubblico. Allo statuto di Anna seguì la legge federale degli Stati Uniti d'America del 1790 e le leggi francesi del 1791 e del 1793. Questi primi statuti hanno determinato una biforcazione ideologico-legislativa circa l'approccio al tema del diritto d'autore, che persiste ancora oggi. Da una parte la scuola anglosassone, basata sulle regole naturali del commercio (da John Locke, filosofo britannico della seconda metà del XVII secolo); dall'altra l'interpretazione del resto d'Europa basata sui diritti della persona (l'autore). In altre parole con l’Illuminismo e la rivoluzione francese venne approfondito un concetto fino a quel momento marginale, il cosiddetto “diritto morale dell’autore”. Ciò genererà la dicotomia tra i sistemi di copyright all’inglese e i sistemi di droit d’auteur alla francese, adottati anche in Italia, che al contrario del diritto di copia, sono incedibili. In Italia uno dei primi decreti in materia fu emanato nel 1799 dal governo rivoluzionario piemontese, a cui seguì una legge più completa e organica promulgata nel 1801 nel contesto della Repubblica Cisalpina. Dopo la Restaurazione furono pubblicati nei diversi stati differenti provvedimenti legislativi che non entrarono effettivamente in vigore a causa della grande frammentazione politica della penisola.

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Con l'Unità d’Italia la situazione rimase pressoché invariata fino al 1925, anno in cui il legislatore italiano ha esteso la tutela del diritto d'autore, portandola ad una protezione giuridica di 50 anni (dalla morte dell'autore) riconoscendo e valorizzando anche i diritti morali connessi all'opera ed al suo artefice.

Dal XX secolo il diritto d'autore è tendenzialmente regolato da trattati di stampo internazionale, atti a garantire i medesimi diritti in ogni singolo Paese.

Nel 1886 fu istituita l’Unione Internazionale di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche riconoscendo, per la prima volta, il diritto d’autore tra le nazioni aderenti. Prima di questa convenzione capitava spesso che non fossero riconosciuti i diritti di autori stranieri, dal 1886 invece viene stabilito che ogni contraente deve riconoscere le opere straniere di proprietà dell’autore in egual misura alle opere nazionali. La tutela è automatica, non è richiesta alcuna registrazione o avviso di copyright. Inoltre alle nazioni firmatarie è proibito richiedere agli autori stranieri di adempiere a dei requisiti formali come una registrazione che possa limitare il godimento e l’esercizio del diritto d’autore.

La convenzione stabilisce un termine minimo di tutela corrispondente a tutta la vita dell’autore più 50 anni, ma le parti contraenti sono libere di estendere questo periodo, così come ha fatto l’Unione Europea con la direttiva sull’armonizzazione del diritto d’autore nel 1993. Gli Stati Uniti hanno più volte esteso il termine di copyright, l’ultimo provvedimento in materia è il Sonny Bono Copyright Term Extension Act nel 1998. Ci furono nel tempo varie revisioni della convenzione di Berna: Berlino (1908), Roma (1928), Bruxelles (1948), Stoccolma (1967) e Parigi (1971).

Riunita nell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO ossia World Trade Organization), gran parte degli stati del mondo, negli anni Novanta, ha stipulato una serie

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di altri importanti trattati. Tra questi il più importante è il Digital Millennium Copyright

Act (DMCA) del 1998 che va ad allungare la validità dei diritti alla vita dell'autore più 70

anni dalla morte. Data la sua collocazione storica, il DMCA si occupa di regolamentare la materia in relazione alle tecnologie digitali, nello specifico rende illegali la produzione e la divulgazione di tecnologie, strumenti o servizi che possano essere usati per aggirare le misure di accesso ai lavori protetti da copyright e prevede inoltre un inasprimento delle pene per la violazione del copyright su Internet. In sostanza il suo fine è quello di estendere la portata del copyright, limitando la responsabilità dei Providers in relazione ad eventuali violazioni del copyright da parte degli utenti.

Altri passi importanti in campo internazionale sono la nascita nel 1967 a Stoccolma della

World Intellectual Property Organization (WIPO), punto di riferimento per il

coordinamento delle diverse normative nazionali, sancendo così un riconoscimento su scala mondiale del copyright e promuovendo “attraverso la cooperazione internazionale la creazione, disseminazione, uso e protezione dei prodotti della mente umana per il progresso economico, culturale e sociale di tutta l’umanità”. (D’Ammassa,2003)

Nel 1984 è stata introdotta un’ulteriore forma di tutela del diritto d’autore: il copyleft, che rappresenta una versione innovativa del copyright e assicura che i diritti d’autore non vengano sottratti in nessun modo.

L'espressione inglese copyleft è un gioco di parole con il termine “copyright” e si riferisce ad un modello di gestione dei diritti d'autore basato su un sistema di licenze attraverso le quali l'autore (in quanto detentore originario dei diritti sull'opera) indica ai fruitori dell'opera che essa può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata liberamente, pur nel rispetto di alcune condizioni essenziali. Il copyleft può essere utilizzato da chiunque produca opere tutelate dal diritto d’autore (scritti, immagini, musica, video…),

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a condizione che sia l’effettivo detentore dei diritti e abbia piena disponibilità di questi diritti.

Non è richiesto alcun pagamento e tantomeno alcuna registrazione o altra particolare formalità. Il detentore dei diritti deve semplicemente scegliere una delle licenze attualmente disponibili e applicarla all’opera. Per farlo è sufficiente segnalare con chiarezza attraverso una nota/disclaimer che l’opera è rilasciata con tale licenza e possibilmente indicare in modo chiaro e non equivoco il link al testo completo della licenza scelta. (www.copyleft-italia.it,)

1.3 Il diritto d’autore con l’avvento del World Wide Web

Dalla fine del secolo scorso, Internet è un potenziale sostituto dei media tradizionali. Per comprenderne le caratteristiche come canale di trasmissione di informazioni, intrattenimento e messaggi pubblicitari, gli elementi più importanti che lo distinguono dagli altri media sono:

 Reciprocità (chi dispone di un collegamento ad internet è in grado di trasmettere informazioni a chiunque)

 Tipo di documenti trasmessi (si azzerano i costi per la trasmissione di documenti, video, immagini)

 Motivi del consumo (inizialmente la rete era usata principalmente per scopi professionali e solo successivamente si è diffuso l’uso per intrattenimento e servizi di informazione)

 Flessibilità (su internet gli utenti ottengono nuovi servizi o funzioni aggiornando semplicemente il software)

 Struttura dei costi (la maggior parte dei costi legati all’accesso a internet è indipendente dal livello di utilizzo della rete)

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Con la digitalizzazione non solo cambiano i mezzi di comunicazione e di informazione ma cambiano anche i contenuti culturali stessi. L’opera, artistica o letteraria di cui si parlava in precedenza, si trasforma: viene scorporata dal supporto fisico tradizionale, diventa un flusso di numeri (sequenze di 0 e di 1) che sono trasmessi in qualsiasi modo e in qualsiasi luogo e permettono di ricostruire l’opera in maniera identica all’originale. Si verifica così una trasmissione di massa dell’opera a costi bassissimi, se non nulli (anche di immagazzinamento) e senza perdita di qualità. L’opera è fruibile senza che l’utente sia in qualche modo obbligato a recarsi fisicamente nei luoghi tradizionali della cultura (negozi di libri o di dischi, cinema, teatro, concerto, e così via), ricevendola direttamente sul terminale abilitato (telefono, palmare, computer, e altro). L’opera è fruita nel luogo e nel momento scelto dal consumatore e dall’opera possono essere tratte innumerevoli copie con la stessa qualità. L’opera è “dematerializzata” in quanto non più incorporata in un supporto. Sembra sparire la figura dell’intermediario, rappresentato dall’industria cosiddetta “culturale”: l’autore, l’artista, ha invece la possibilità di raggiungere direttamente il suo pubblico, non ha bisogno di riprodurre su un supporto le proprie opere, di immagazzinarle, di trasportarle e non è ostacolato dalle frontiere e dalle dogane. Internet ha avuto un forte impatto sulle industrie culturali: è sempre disponibile e fruibile dagli utenti, elimina il problema della localizzazione (i giornali online sono resi disponibili in ogni luogo), aumentano i vantaggi produttivi e distributivi fondati sul tempo e oltre a ciò, i media online competono con i media tradizionali per gli introiti pubblicitari. Dal punto di vista dei consumatori di contenuti culturali ci sono stati innumerevoli miglioramenti con l’avvento di Internet e con la digitalizzazione come l’abbassamento delle barriere all’ingresso: diminuendo i costi di distribuzione, le organizzazioni pubbliche e private possono instaurare relazioni dirette con i pubblici di riferimento.

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Inoltre attraverso i siti web nascono nuove opportunità di consumo selettivo (ad esempio è possibile acquistare solo un articolo o una parte di un giornale che ci interessa e non necessariamente l’intero giornale) e infine, in quanto strumento dialogico e interattivo, internet permette una partecipazione del pubblico alla produzione dei contenuti mediatici, prima impensabile (è questo il caso dei blog e dei podcast).

Dal punto di vista della distribuzione, con l’avvento di Internet è diventato sempre più semplice copiare un file multimediale e quindi è sempre più complesso avere una legittima distribuzione: bisogna trovare un modo per impedire ai consumatori di riprodurre con facilità qualsiasi contenuto multimediale e un mezzo di pagamento che soddisfi gli utenti. Ciò è possibile grazie a sistemi di Digital Right Management, misure di sicurezza incorporate nei computer, negli apparecchi elettronici e nei file digitali, introdotte allo scopo di impedire le copie dei file. Questi strumenti sono stati implementati e migliorati con il passare del tempo e si sono rivelati utili ma non determinanti nell’abbattere il problema del plagio.

Oltre a questi strumenti di prevenzione e sostegno del rispetto del copyright anche nel mondo online, ci sono dei regolamenti e delle normative che disciplinano la pubblicazione e l’eventuale copia di contenuti testuali o multimediali nella rete: ogni forma di testo, anche breve, è tutelata dalla normativa sul diritto d'autore e non può essere copiata, riprodotta (anche in altri formati o su supporti diversi) né tantomeno è possibile appropriarsi della sua paternità. L'unica eccezione prevista dalla legge (art. 70 l. 633/41) è quella di consentire il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie (ma non l'intera opera, o una parte compiuta di essa) a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento, purché vengano citati l'autore e la fonte, e non si agisca a scopo di lucro, sempre che tali citazioni non costituiscano concorrenza

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all'utilizzazione economica dell'opera stessa. Solo in questa particolare ipotesi si può agire senza il consenso dell'autore.

Qualsiasi testo originale, che abbia il carattere minimo di creatività è dunque protetto di diritto, senza bisogno di particolari adempimenti o avvertenze, anche se espresso in forma orale.

Nessun limite di legge sussiste invece per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant'anni.

Si deve comunque considerare che gli scritti dal carattere non specificatamente creativo ma divulgativo, comunicativo o informativo che vengono trasmessi attraverso la rete, beneficiano di tutela giuridica come nel caso delle e-mail, che, rappresentando una forma di corrispondenza, sono sottoposte al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli artt. 616 e 618 del codice penale.

Per quanto riguarda la legittimità della distribuzione gratuita di musica via Internet questa è da considerarsi chiaramente illegittima se non espressamente autorizzata dall'autore o da chi detiene i diritti economici dell'opera.

I filmati e le opere cinematografiche godono di un'analoga tutela, bisogna solamente precisare che, trattandosi spesso di opere collettive (realizzate cioè congiuntamente da più partecipanti: regista, sceneggiatore, compositore della colonna sonora, etc.), la loro tutela si estende sino al trascorrere del settantesimo anno dalla morte dell'ultimo dei coautori.

Per le fotografie è importante capire se hanno o meno un carattere artistico. Nel caso si tratti di semplici opere fotografiche, al fotografo spettano i diritti esclusivi di riproduzione, diffusione e spaccio (art. 88 l. 633/41), tranne nel caso in cui l'opera sia

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stata commissionata con un contratto di lavoro e quindi il titolare dei diritti sarà il datore di lavoro. La tutela dura venti anni dalla data di realizzazione della fotografia.

Le foto artistiche, invece, in base alla Convenzione di Berna, vengono considerate alla stregua di opere dell'ingegno e la loro tutela non è subordinata ad alcuna formalità e la durata della tutela si estende sino al settantesimo anno successivo alla morte dell'autore e non al ventennio dalla realizzazione. Per i ritratti la legge impone che chiunque voglia esporre, riprodurre o mettere in commercio la fotografia rappresentante l'immagine di una persona, deve preventivamente ottenere il consenso di questa (art. 96 l. 633/41). Il consenso non è necessario se la persona è famosa o se è fotografata in virtù di qualche ufficio pubblico che ricopre, per ragioni di giustizia o di polizia, per scopi scientifici, didattici, culturali, o ancora se la riproduzione è legata a fatti, avvenimenti, cerimonie di pubblico interesse.

Tuttavia, per la legislazione italiana vale anche un altro principio, favorevole alla diffusione delle opere fotografiche: l'art. 90 della l. 633/41 prescrive che ogni esemplare della foto deve contenere:

1. il nome di chi detiene i diritti di utilizzazione economica (fotografo, datori di lavoro o committente)

2. l'indicazione dell'anno di produzione della fotografia, e - se la foto riproduce un'opera d'arte

3. il nome dell'autore dell'opera d'arte fotografata

In caso di mancanza di tali informazioni, la riproduzione delle foto non si considera abusiva sempre che il fotografo (o il suo datore di lavoro) non provino la malafede di chi le ha riprodotte.

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Infine, per quanto riguarda programmi informatici, software e layout l’ordinamento italiano prevede, come per le altre opere dell'ingegno, la stessa tutela. Spesso, la titolarità dell'opera appartiene ad un soggetto diverso da chi ha materialmente steso i codici perché molti programmatori sono legati da un rapporto di lavoro con le società di software, alle quali spettano quindi tutti i diritti di distribuzione ed utilizzazione economica.

(Mangani,2013)

1.4 Normativa italiana attuale sul diritto d’autore

Dopo l’excursus dei paragrafi precedenti sull’evoluzione storica delle normative e dei regolamenti in materia di diritto d’autore, è doveroso analizzare l’attuale disciplina italiana in materia di copyright.

Ad oggi in Italia è in vigore la convenzione di Berna, già sopra citata, che disciplina il riconoscimento del diritto d’autore alle opere letterarie ed artistiche di autori stranieri e sancisce la tutela automatica tra i Paesi aderenti, tra cui l’Italia.

Inoltre l’ordinamento italiano disciplina il diritto d’autore per le opere letterarie ed artistiche italiane attraverso la legge 633 del 1941, costituita da 206 articoli e divisa in tre sezioni: la prima sezione è dedicata alla protezione e utilizzazione economica dell’opera, la sezione due è intitolata “protezione dei diritti sull’opera a difesa della personalità dell’autore” e infine la sezione tre disciplina la durata dei diritti di utilizzazione economica dell’opera.

L’art. 185 LA (Legge sul diritto d’autore) afferma che “questa legge si applica a tutte le opere di autori italiani, dovunque pubblicate per la prima volta” e che si applica anche “alle opere di autori stranieri, domiciliati in Italia, che siano state pubblicate per la prima

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volta in Italia”. La legge conferisce all’autore di un’opera il diritto esclusivo di utilizzare l’opera.

Il diritto di utilizzazione economica dell’opera dura per tutta la vita dell’autore e fino a settanta anni dopo la sua morte (art. 25 LA). Una volta trascorso questo periodo le opere diventano di “pubblico dominio” per cui si possono pubblicare liberamente le opere di autori che siano deceduti da più di settanta anni.

A questa norma si aggiunge però l’art. 20 LA che tutela il diritto morale di autore che è esercitabile, ai sensi dell’art. 23 LA, dagli eredi senza limiti di tempo. Pertanto la pubblicazione di un’opera per la quale siano scaduti i diritti patrimoniali di autore è possibile a patto che non si leda l’onore dell’artista o non si crei pregiudizio alla sua reputazione nel qual caso gli eredi potrebbero intervenire a difesa dell’autore defunto. La durata del diritto d’autore varia per alcuni tipi di opere ed in particolare per le opere che godono di diritti connessi o “sui generis”.

Il diritto di autore si esaurisce con la prima vendita. Ciò significa che una volta che l’autore mette in commercio un’opera non può più opporsi alla circolazione successiva dell’opera che potrà essere venduta o regalata a terzi senza che l’autore possa intervenire (art. 17 LA).

Bisogna però stare attenti in quanto se è consentito rivendere la stessa opera che si è acquistata legittimamente non significa che questa possa essere copiata, duplicata o noleggiata. Così se si acquista un CD che contiene un’opera si potrà rivendere quel CD ma non si potrà duplicare a proprio piacimento il file che contiene la musica registrata sul CD. (testo della L. 633/1941).

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Inoltre, nel mese di settembre 2018 è stata approvata una nuova direttiva che regola il copyright proposta dalla Commissione Europea con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni. Il Parlamento europeo, riunito in plenaria a Strasburgo, ha rivoluzionato il testo originario, emendandolo in profondità, ma ha conservato i due articoli più controversi, l’11 e il 13, dopo alcune modifiche nei vari passaggi procedurali. La direttiva non è ancora entrata in vigore nei Paesi Membri perché bisognerà attendere il mese di aprile 2019 per l’approvazione finale del Consiglio europeo e della Commissione e la successiva entrata in vigore del testo legislativo. (Magnani, 2018)

Al centro di tutta la questione c’è il tema del compenso di chi è titolare dei diritti di opere intellettuali. Nel 2016 la Commissione Europea e il Parlamento hanno cominciato a discutere su una riforma del copyright perché il legislatore europeo ritiene di dover correggere un vuoto legislativo che ha consentito alle piattaforme che ospitano contenuti caricati dagli utenti (come YouTube) di evitare di pagare una licenza equa per i contenuti creativi (musica, film, libri, spettacoli tv), generando danni all’industria culturale. Con la stessa riforma l’Europa vorrebbe tutelare l’altra industria messa in difficoltà da Internet ovvero quella dei media visto che su Internet l’informazione è quasi esclusivamente gratuita e ad oggi, nonostante il pubblico dei lettori sia diventato enorme, non esiste ancora un modello sostenibile. Per risolvere questi problemi sono stati elaborati due articoli: l’articolo 13 è quello che riguarda il diritto d’autore per opere artistiche caricate dagli utenti sulle piattaforme. L’obiettivo è quello di risolvere quello che viene chiamato

value gap, ovvero la discriminazione remunerativa che esiste nel mondo

dello streaming tra quanto versano piattaforme come YouTube e altri servizi come ad esempio Spotify (la prima paga circa 20 volte di meno). Finora queste piattaforme hanno goduto di un regime particolare (Safe Harbour, porto sicuro) che prevede, tra le altre cose,

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che il responsabile dei contenuti sia chi carica il contenuto e non chi lo ospita, il quale deve solo rimuoverli in caso violino le norme sul copyright. Ma l’enorme numero di contenuti caricati ogni giorno (su Youtube si caricano 400 ore di audio/video ogni minuto) rende sempre più difficile il controllo di tutto il materiale.

La direttiva richiede alle piattaforme di creare un filtro automatico, un algoritmo, in grado di verificare tutti i contenuti caricati prima della loro pubblicazione, controllare che non siano stati violati i copyright e, se lo violano, impedirne la pubblicazione.

Se la direttiva dovesse entrare ufficialmente in vigore, queste piattaforme dovrebbero inoltre ottenere una licenza per i contenuti di copyright per generare un equo ritorno economico ai creatori e pubblicare solo contenuti da parte di utenti che abbiano acquistato la licenza.

L’articolo 11 riguarda più da vicino il mondo dell’informazione e dei media: il legislatore si propone di difendere il principio per cui il lavoro giornalistico che va in rete debba essere in qualche modo remunerato dalle grandi piattaforme che aggregano contenuti. Chiunque voglia pubblicare un link e/o uno snippet (si chiama così l’estratto di due righe che segue il link pubblicato dai motori di ricerca e dagli aggregatori per anticipare all’utente il contenuto di una pagina web), avrà bisogno di un’autorizzazione da parte dell’editore del contenuto linkato e/o citato e dovrà pagare a quest’ultimo un compenso. Questo consenso viene, piuttosto erroneamente, chiamato link tax, una tassa per poter ospitare un link e mostrarne anche l’assaggio di un suo contenuto. Il termine è sbagliato, si tratta di una definizione giornalistica ma non è una tassa sui link bensì una forma di equo compenso per retribuire gli editori (quindi il lavoro giornalistico dei propri

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dipendenti) per l’utilizzo di un’opera protetta da diritto d’autore. Per poter indicizzare articoli giornalistici e permettere la visualizzazione dell’anteprima (snippet) i motori di ricerca dovrebbero pagare le testate sotto forma di abbonamenti.

(www.agi.it/economia/riforma ue copyright snippet linktax,2018)

Le reazioni a questa direttiva sono state variegate: secondo gli editori è un buon modo per aumentare il fatturato dei contenuti messi online, spesso gratuiti, e quindi per fare in modo che arrivino soldi alle casse che pagano il lavoro giornalistico, anche se questo comunque non risolverebbe il problema del modello di business dell’online, ma rappresenterebbe un passo avanti in quella direzione.

In molti si sono schierati contro questa direttiva: primi tra tutti Luigi Di Maio, Ministro del lavoro e dello sviluppo economico e Vicepremier italiano e anche Vito Crimi, Vicesegretario alla Presidenza del Consiglio, i quali sostengono che si tratti di una misura pericolosa, a cui si opporranno in tutti i modi, sostenendo che attraverso queste nuove regole gli utenti delegheranno alle multinazionali il potere di decidere cosa può essere pubblicato o meno, cosa possono o non possono sapere i cittadini. I sostenitori di quest’idea, pur condividendo la necessità di fare in modo che le opere d’ingegno abbiano più tutele e compensi, temono che il filtro automatico trasformi Internet da una piattaforma aperta alla condivisione ad uno strumento di sorveglianza automatizzata e di controllo degli utenti. Il filtro automatico è considerata una tecnologia imperfetta e questa imperfezione potrebbe fare in modo che vengano bloccati anche i contenuti che non violano norme sul copyright. Inoltre dotarsi di un filtro è dispendioso e potrebbe essere implementato in tempi brevi e in modo efficiente solo dai big del settore, penalizzando le realtà medio piccole e le aziende europee, oltre al fatto che un filtro o un algoritmo non

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sono in grado di capire la differenza tra satira e invettiva, diritto di cronaca e violazione della legge.

Una regolamentazione di questo tipo è stata introdotta in Spagna nel 2014 e questo ha portato alla scomparsa di Google News, principale accusato, insieme a Facebook, di sfruttare i contenuti dei giornali per generare traffico e trattenere le persone sulle loro piattaforme, senza pagare nulla. La stessa cosa è stata realizzata in Germania, dove però Google News è rimasto ma solo per far visualizzare titolo e foto, senza anteprima del contenuto. Per i detrattori della riforma questa direttiva in realtà, più che favorire i grandi editori, penalizza i più piccoli e potrebbe portare paradossalmente ad una minore possibilità di avere una corretta informazione online. Google, per esempio, potrebbe decidere di non scendere a patti con gli editori e di non pubblicare sui propri aggregati di notizie gli articoli provenienti dalle grandi testate, spesso sinonimo di autorevolezza oppure, di contro, Google potrebbe trovare accordi solo con i grandi gruppi penalizzando quelli più piccoli e penalizzando il pluralismo dell’informazione.

Dall’altra parte ci sono anche sostenitori della nuova direttiva tra cui il Presidente di Confindustria Cultura Italia, Marco Polillo, secondo cui la riforma rappresenta uno strumento efficace per poter garantire che i prodotti dell’ingegno condivisi sulle piattaforme conferiscano ai loro creatori una giusta remunerazione (oggi ogni visualizzazione di un video musicale YouTube viene pagato in media 0,0007 centesimi di euro). I sostenitori della riforma ritengono che quest’ultima non penalizzi il commercio elettronico e che non abbia a che fare con la censura perché non prevede il consenso per la pubblicazione di un contenuto, ma solo l’autorizzazione di chi lo carica in rete. Inoltre

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il testo della direttiva non prevede alcun obbligo di sorveglianza delle informazioni e prevede che tutto ciò che non violi la legge non abbia alcun freno alla pubblicazione.

Il disegno finale della direttiva verrà definito ad aprile 2019, quando ci saranno i negoziati con Consiglio dei Ministri e Commissione Europea e allora si avrà l’approvazione finale e la successiva ed eventuale adozione della direttiva anche da parte dall’Italia. (Magnani,

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CAPITOLO 2

ECONOMIA

DEI

CONTENUTI

CULTURALI

E

RIVOLUZIONE DIGITALE

2.1 Il mercato dei media

Il sistema dei media è protagonista di un grande processo di trasformazione economica e sociale legato allo sviluppo delle tecnologie digitali.

Il principale fattore di cambiamento è rappresentato dalla globalizzazione dei mercati che spinge la competizione a livello internazionale, porta al mutamento del rapporto tra domanda e offerta, tra emittente e ricevente e di conseguenza alla moltiplicazione dell’offerta e alla differenziazione dei prodotti. In questo modo si realizza una maggiore focalizzazione sul ruolo del consumatore ed una maggiore personalizzazione dei prodotti e dei servizi per i consumatori.

Il processo di globalizzazione ha determinato l’affrancamento del contenuto dal suo contenitore: il contenuto, liberato dalle costrizioni del supporto fisico (dematerializzazione) e dalla trasformazione del processo produttivo in ambiente digitale, acquisisce una propria autonomia e contestualmente si ha la trasformazione dell’industria dei media in industria dei contenuti.

Ciò che definisce il settore dei media è la presenza di prodotti caratterizzati da un’attività editoriale, il cui contenuto è il risultato di un’attività intellettuale. Inoltre, pur in presenza di mercati tra loro separati e con forti specificità (broadcasting, musica, editoria) il settore ha presentato finora tratti distintivi: la figura del consumatore, il produttore/fornitore che offre i suoi contenuti al broadcaster/editore che a sua volta li rende disponibili per gli utenti finali.

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L’innovazione tecnologica determinata dall’ingresso del digitale, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, trasforma radicalmente l’industria dei media. Ciò è frutto di due processi distinti: uno di tipo evolutivo, collegato alla moltiplicazione dei canali e alla riduzione dei costi rispetto all’analogico; il secondo, caratterizzato da forte discontinuità che dall’informatica si trasferisce al settore delle telecomunicazioni. Questo secondo processo porta alla rottura dei monopoli e alla liberalizzazione del settore.

Questa liberalizzazione ha portato alla moltiplicazione degli attori nel mercato e in molti casi, coloro che controllano il mercato hanno cercato di impedire alle nascenti piattaforme concorrenti di accedere ai contenuti attraverso clausole di esclusiva di lunga durata e hanno creato alte barriere all’ingresso. Le autorità anti-trust hanno cercato di limitare il più possibile queste pratiche.

La vera grande rivoluzione digitale nel settore dei media è rappresentata dalla riproducibilità tecnica: il digitale elimina le differenze tra originale e copia e garantisce a ogni prodotto la stessa qualità dell’analogico.

Inoltre la maggiore disponibilità di capacità trasmissiva riduce il problema della scarsità presenti nell’analogico. Infine la trasformazione del settore delle telecomunicazioni in

knowledge-based-industry attraverso la discontinuità tecnologica, costituita da internet e

dallo sviluppo delle reti a banda larga, determina le condizioni per lo sviluppo della convergenza multimediale e la creazione di una vera industria dei contenuti digitali. In questo nuovo scenario il consumatore diventa il vero motore della nuova industria dei contenuti digitali ed una delle principali conseguenze è la dematerializzazione del contenuto svincolato dal tempo, dalla quantità e dalla qualità della riproduzione. Ciò modifica radicalmente i modelli di business tradizionali legati alla vendita di beni materiali.

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Un’altra conseguenza è rappresentata dalla disintermediazione, ovvero la capacità del consumatore di creare e distribuire propri contenuti senza alcun bisogno di intermediari. In questo modo emergono i presupposti per lo sviluppo della creative industry con forme diverse (blog, forum, social network), la cosiddetta “industria dei media senza media”. In tale contesto sono numerose le barriere che ostacolano l’innovazione: dal lato dell’offerta vi è l’opposizione di resistenza al cambiamento da parte dei titolari dei diritti. Dal lato della domanda invece esiste un problema di alfabetizzazione, un rapporto con l’innovazione tecnologica molto complesso che determina forti stratificazioni sociali generando il cosiddetto digital divide, ovvero quel fenomeno che pone agli estremi chi ha accesso alla comunicazione e chi ne rimane ai margini. Il compito delle politiche pubbliche è proprio quello di ridurre tale gap culturale. (Preta,2007)

In definitiva l’innovazione tecnologica, facendo cadere le barriere esistenti tra settori contigui ma economicamente distinti (media e telecomunicazioni) determina opportunità e al tempo stesso situazioni di incertezza legate al futuro delle imprese coinvolte. I media sono il luogo in cui avvengono le dinamiche intersettoriali.

Secondo la Commissione europea la struttura del settore dei media è complessa: è divisa a sua volta in diversi mercati. La tecnologia digitale ha unito mercati che in passato erano separati e adesso vengono integrati in un unico prodotto e resi disponibili in un’unica rete. Nello specifico i mercati dei media si possono distinguere in:

 mercato del broadcasting televisivo  mercato del broadcasting radiofonico  mercato della musica

 mercato dell’editoria  mercato dei film

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 mercato di internet

Ai fini della nostra analisi ci soffermeremo in particolare sul settore audiovisivo.

2.1.1 Industria audiovisiva

I contenuti audiovisivi, in relazione alla modalità di offerta, possono essere classificati nel modo seguente:

 contenuti lineari, che possono essere gratuiti, attraverso il finanziamento della pubblicità o che prevedano il pagamento di un canone. Inoltre possono essere fruibili attraverso un abbonamento (pay TV) o su richiesta (on demand)

 contenuti non lineari (servizi della società dell’informazione)

 servizi interattivi (offerta collegata ai prodotti/servizi della categoria precedente e basata sull’integrazione di suoni, immagini e dati in modalità interattiva). Le reti in grado di favorire la diffusione di tali contenuti sono: la rete satellitare, la rete digitale terrestre, la rete via cavo, le reti mobili e altre reti wireless.

L’industria audiovisiva pone le sue basi su due prodotti cardine: i film e il calcio poiché incidono fortemente sulle dinamiche del mercato e l’accesso a tali contenuti diventa fondamentale per poter competere in ambito distributivo.

Non sono però gli unici contenuti in grado di attrarre traffico: i costi dei contenuti si ripartiscono tra programmi TV in house (36%), programmi TV indipendenti (27%), sport (20%) e film (17%).

I principali produttori nel settore televisivo sono i broadcaster stessi mentre i produttori indipendenti devono confrontarsi con un mercato che assume caratteri particolari: -oligopsonio→ i clienti (canali televisivi) sono pochi e questo dà loro un potere di mercato di fronte ai produttori

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- natura dell’opera audiovisiva→ a differenza di altri formati (sport, film) per cui l’offerta è scarsa e i canali sono in posizione più debole, le opere audiovisive non hanno carattere di unicità o esclusività

-l’assenza di barriere all’ingresso stimola la proliferazione di un gran numero di piccole società

-può succedere che un produttore abbia anche un solo cliente il che aumenta il grado di dipendenza dal committente.

Dunque le relazioni tra produttori indipendenti e broadcaster sono spesso squilibrate a favore dei secondi perché questi finanziano completamente i prodotti audiovisivi, mentre i produttori possono rinegoziare la propria condizione solamente nel caso di prodotti di grande successo che permettono loro di rinegoziare i termini contrattuali grazie al potere acquisito.

Solitamente i produttori preferiscono rinunciare ai diritti secondari sull’opera e ottenere profitto immediato.

Per quanto riguarda l’ambito televisivo, abbiamo assistito ad un boom negli anni “90 dovuto in parte allo stato di salute generale dell’economia, alla progressiva deregulation in vari Paesi europei, con l’aumento dei canali e dell’offerta, l’incremento del tempo medio di ascolto e, in misura maggiore rispetto agli altri Paesi europei, in Italia le emittenti televisive sono finanziate quasi interamente dalla pubblicità.

I primi anni 2000 in Europa sono stati caratterizzati dalla crisi dell’industria audiovisiva e dal successivo consolidamento della televisione digitale: ci sono stati fallimenti delle prime esperienze di digitale terrestre, il problema principale risiedeva nell’impossibilità di controllare la componente legata ai costi di acquisizione dei contenuti e ha quindi indebolito l’intero sistema.

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Nel 2003 la pay TV ha intrapreso un percorso di complessa ristrutturazione economica, dopo che i due operatori preesistenti, Stream e Tele+, avevano sfiorato il fallimento prima di integrarsi in un’unica entità. La neonata Sky ha ereditato circa 1,8 milioni di abbonati e una manciata di canali di cui molti di scarso interesse. Oggi gli abbonati sono circa 4,8 milioni, e hanno a disposizione un’offerta di oltre 185 canali. Nello stesso anno muoveva i primissimi passi il digitale terrestre, attraverso limitate sperimentazioni sul territorio. La televisione digitale è, ad esempio, uno dei pochi comparti che nel corso della recente crisi economica ha continuato a crescere, generando nuovi posti di lavoro e nuove opportunità per imprese e professionisti. Al contempo essa propone ogni giorno più scelta e più alternative per i consumatori.

Internet rappresenta il perno dell’era digitale: per molto tempo la parola d’ordine della rivoluzione digitale è stata la trasparenza, sia dell’informazione, grazie all’entrata di innumerevoli nuovi operatori ed editori nell’ oligarchico mercato dei mass media, sia della comunicazione universale, grazie all’interconnessione globale senza limiti di tempo e luogo, senza barriere d’accesso economiche e culturali. Oggi il mercato dei mezzi di comunicazione si distingue per un’elevata concentrazione di potere, mentre la comunicazione globale soffre di un eccesso di trasparenza.

Internet e la telefonia mobile hanno cambiato radicalmente la diffusione di contenuti e d’informazione e le loro modalità di accesso: mentre la telefonia mobile offre soprattutto un modo nuovo di avvalersi dei diversi mass media, internet modifica la qualità e la quantità dei contenuti cambiando il modo di comunicare.

Nessun altro mezzo di comunicazione si è diffuso nel mondo con tale rapidità: oggi quasi 1,3 miliardi di persone usano internet, in Europa oltre il 55% della popolazione è connesso

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alla rete e l’Italia è tradizionalmente più lenta nell’adottare nuove tecnologie, ma tiene il passo con una penetrazione del 38%.

I vecchi media (televisione, stampa e radio) sono tuttora più diffusi dei nuovi, ma la digitalizzazione va oltre il consueto uso verticale del mezzo; la rivoluzione digitale consiste nell’integrazione dei media nuovi e vecchi: lo sport via telefono, il quotidiano in rete, il video di You Tube al telegiornale, la radio sul computer – il tutto on demand, slegato da tempo e luogo. Una singola informazione è accessibile in tempo reale almeno in venti modalità tecnologiche diverse ed Internet è il macro-contenitore che nutre l’irrefrenabile flusso di notizie, messaggi, immagini, video presenti in tutti i media. Infatti, oggi se si vogliono ottenere informazioni su un fatto di cronaca o su qualsiasi argomento non si accende più la tv ma si va su internet. Se si vuole guardare un programma televisivo, è ormai possibile registrarlo, vederlo on demand o in streaming e la stessa cosa vale per l’ascolto della musica o per leggere un quotidiano o una rivista: non è più necessario recarsi dal giornalaio o presso il negozio di cd, con pochi click è possibile mettere play ad una canzone (usando piattaforme online come deezer, youtube, spotify), leggere il giornale di oggi (ormai tutti i quotidiani sono disponibili sia in formato cartaceo che online) o la nostra rivista preferita.

Con la digitalizzazione l’intero processo di ricerca e di consumo dei contenuti culturali si è ridotto: i tempi di ricerca e di uso di un “prodotto culturale” si sono accorciati, così come i tempi di consumo, i costi per ottenere tali contenuti ed è quindi possibile accedere ad un contenuto culturale in pochi secondi, da qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi lingua ad un costo piuttosto basso.

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2.1.2 Industria dei film

L’industria dei film, insieme alla musica, rappresenta il “vero prodotto universale” perché è in grado di attrarre audience globali, però ha anche una grande aleatorietà e un alto livello di rischio: non esiste a priori la domanda per un certo film, essendo ciascuna produzione unica e non standardizzata e quindi non si può sapere se un film avrà successo o meno finché non esce nelle sale.

L’industria dei film è un’industria di prototipi caratterizzata da alti costi fissi ed elevate competenze, oltre alla difficoltà di ottenere economie di scala. Il mercato cinematografico statunitense ad esempio è caratterizzato da un alto livello di concentrazione (otto majors realizzano il 90% dei ricavi) che rappresenta il modello di business di riferimento per l’industria, il processo produttivo si articola in varie attività che vanno dall’ideazione, al soggetto, alla sceneggiatura fino alla realizzazione del prodotto. Inoltre una quota elevata di costi è rappresentata dai compensi di registi, produttori e attori che continua a crescere nel tempo che pesano circa per il 60-70% dei costi totali di produzione, a cui vanno aggiunti i costi di promozione, marketing e amministrativi.

Quest’industria richiede forti investimenti di capitale, il mercato è finanziato quasi esclusivamente dall’utente finale e, a differenza del mercato televisivo, la produzione è fatta su “prototipi”, è una produzione esclusiva mentre nel caso della televisione ci si avvicina sempre di più ad una produzione in serie.

Negli anni Settanta era prevalente la convinzione che quest’industria si basasse esclusivamente sulle sale cinematografiche riconosciute come unico luogo di consumo dei film e unico mezzo di trasmissione dei film. Con il tempo tali concezioni sono mutate e ad oggi infatti è possibile fruire del contenuto di un film anche “da casa” e da qualsiasi pubblico attraverso una pluralità di mezzi e di supporti (tv, pc..) e quindi lo sfruttamento

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del prodotto e la sua utilità vengono dilatati nel tempo, incrementando significativamente i ricavi.

Per quanto riguarda la struttura del mercato, abbiamo assistito al passaggio da industria mono-mediale a industria multi-mediale e al dominio da parte dei principali otto studios americani sull’intero settore: Warner Brothers, Fox, Sony, Disney/Miramax, Universal, Paramount che generalmente vendono in anticipo l’intera produzione di un anno attraverso accordi esclusivi con le emittenti televisive (modello di Output Deal), in alternativa al modello di Package Deal che prevede la vendita di un certo numero di film (è più usato dai produttori indipendenti o nazionali).

I ricavi delle majors provengono rispettivamente da: box office (50%), home video (20-25%), video on demand (55-60%), pay per view (45-55%), premium pay TV e Free to Air.

Con la nascita dell’industria cinematografica i ricavi provenivano unicamente dal cinema ma con il passare del tempo la proporzione è cambiata con l’inserimento delle altre componenti. In particolare negli ultimi anni hanno subìto una grande crescita Pay per View e video on demand, oltre alla nuova frontiera dello streaming che permette agli utenti di guardare film o serie tv online attraverso dispositivi elettronici, non necessariamente seduti sul divano di casa davanti ad uno schermo.

Cambiano così le abitudini di consumo degli utenti che guardano film o serie tv sui mezzi pubblici, in pausa pranzo direttamente dal proprio portatile o dallo smartphone.

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CAPITOLO 3

L’ATTEGGIAMENTO DEI CONSUMATORI RISPETTO

AL COPYRIGHT

3.1 Analisi del fenomeno dello streaming

Il fenomeno dello streaming è ormai diffuso e radicato nella cultura odierna: per streaming si intende un sistema per la trasmissione di informazioni, di solito audio e video, che consente di usufruire del video/audio senza doverlo scaricare.

Esistono però due tipologie principali di streaming: “lo streaming live”, ovvero quello che ci permette di vedere un film o un programma televisivo in diretta e lo “streaming on demand” che ci fornisce lo stesso servizio ma si tratta di programmi registrati, già andati in onda e che possono essere rivisti successivamente. Entrambe le tipologie vengono spesso impiegate per trasmettere eventi sportivi o film illegalmente.

Negli ultimi decenni il nostro modo di vedere film e serie tv è cambiato radicalmente: prima per vedere l’ultimo episodio della nostra serie preferita dovevamo aspettare che fosse trasmesso in tv e se quella sera avessimo avuto un impegno, probabilmente l’avremmo persa per sempre, mentre oggi non è più così. Si è verificato un rapido cambiamento grazie alla diffusione della banda larga, dei devices e all’arrivo di nuovi servizi e piattaforme online.

All’inizio i video non esistevano nel web, non esistevano i software e le infrastrutture necessarie a trasmettere i video così come li vediamo noi oggi. La rivoluzione ha avuto inizio con l’introduzione dei sistemi peer-to-peer, abbreviati P2P, che permettevano di trasmettere in modo sicuro e efficiente grandi quantità di dati da un computer all’altro senza rischiare che le informazioni andassero perse. Si trattava di meccanismi difficili da

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bloccare perché non avevano un vero centro, erano gli utenti a creare il sistema e i contenuti. Il limite principale dei sistemi P2P era la necessità di scaricare i contenuti, non era possibile guardare direttamente i video online ma occorreva aspettare ore per scaricarli e poi guardarli offline.

Negli stessi anni si è diffuso anche BitTorrent, un software leggero e completamente opensource che diventa lo strumento di condivisione dei contenuti per eccellenza. Si tratta di un software completamente legale, l’illegalità nasce dagli individui che condividono contenuti coperti da copyright.

Con l’aumento della velocità di connessione hanno fatto la loro comparsa altri portali che abbandonano la logica peer-to-peer per accogliere quella client-server offrendo agli utenti uno streaming lineare, è possibile vedere centinaia di film e serie tv direttamente online con una velocità e qualità accettabili. In tale contesto sono nati siti come Youtube e Vimeo in cui è possibile fruire dei contenuti audio-video direttamente nel browser in modo quasi istantaneo, l’attesa di ore dei download si riduce a pochi secondi di buffering (tempo di caricamento del video) e aumenta la velocità di connessione grazie alle nuove tecnologie software.

Dal 2005 nasce il sito di streaming pirata per eccellenza, Megaupload. Fino al 2012 siti come questo hanno prosperato nel web fino ad arrivare ad un intervento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che li ha fatti chiudere. Oggi la situazione è in parte cambiata: i siti continuano a funzionare, vengono oscurati dalle Autorità ma poi rinascono con domini diversi. Ciò che ha mutato lo scenario rispetto al passato è l’introduzione di servizi di streaming legali che, attraverso il pagamento di un canone mensile piuttosto basso, mettono a disposizione dell’utente migliaia di serie tv e di film fruibili online o attraverso download con un’ottima qualità audio e video e in tempi rapidi. (Sandvine,2016). Tra

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questi il più famoso e in continua espansione è sicuramente Netflix, di cui parleremo nel prossimo capitolo.

Inoltre, un fattore importante che ha contribuito al boom dello streaming, in una fase successiva rispetto a quella appena descritta, è la diffusione dei dispositivi mobili che hanno permesso la diffusione dello streaming ovunque, anche fuori casa, Le abitudini di fruizione sono cambiate e si possono riassumere in tre parole anything, anytime,

anywhere (vedere tutto ciò che si vuole, in qualsiasi momento e dovunque). Oggi infatti

ci bastano pochi click sul nostro smartphone per vedere tutti i programmi che vogliamo. Vi sono due conseguenze fondamentali di questa fruizione dei contenuti multimediali sempre più in mobilità: cambiano in maniera considerevole le modalità di selezione dei contenuti perché gli spettatori hanno bisogno di impiegare sempre meno tempo nella ricerca dei programmi da vedere e, soprattutto se sono a lavoro o per strada, vogliono una guida immediata e chiara su cosa li intratterrà. Così, secondo una ricerca del 2016 della Rovi Corporation, il 51% di chi ricorre allo streaming televisivo vorrebbe che i provider migliorassero e rendessero più efficaci le modalità di ricerca dei contenuti; il 30% vorrebbe invece che si concentrassero sulle sezioni e i prodotti raccomandati e oltre il 58% sarebbe disposto a condividere in forma anonima informazioni su ciò che preferisce guardare. Contro ogni previsione, nella maggior parte dei casi (oltre il 70%) gli utenti si fiderebbero più dei programmi consigliati dalle piattaforme a partire dalle abitudini di consumo proprie e di utenti simili, piuttosto che dei consigli di amici e familiari.

(Dara,2018)

In particolare queste nuove modalità di accesso ai contenuti si sono diffuse soprattutto tra i giovani: secondo l’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, in una settimana in media il 43% dei Millenials (coloro che sono nati tra il 1980 e il 2000), il

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36% della Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) e il 27% dei Baby Boomers (“i figli” del baby boom economico degli anni “50, nati tra il 1945 e il 1965) guarda programmi, serie tv su internet in streaming in modo gratuito e le percentuali scendono rispettivamente al 21%,14% e 10% per lo streaming a pagamento.

Si sta delineando una fruizione sempre più complementare tra la Tv tradizionale e la nuova Tv potenziata dal web. Secondo il “TV and Media Report” di Ericsson del 2016, il 55% degli italiani dichiara di preferire i servizi on demand rispetto alla tv lineare, quattro anni prima erano il 45%. Il 71% del campione accede alla tv tradizionale su base giornaliera contro il 57% dei servizi on demand, nel 2012 la differenza era di 40 punti percentuali (82 e 42%), lo scarto si è ridotto di 14 punti. In media un italiano trascorre 35 ore alla settimana a consumare contenuti audiovisivi, il 40% di questo tempo è dedicato a video on demand. I contenuti più popolari in rete sono: serie tv, user generated content, film e programmi tv. Ciò che sorprende sono i dati sulle maratone televisive (binge

watching) perché il 41% degli intervistati dichiara di fare binge watching almeno una

volta alla settimana, il 18%, ovvero un italiano su cinque, almeno una volta al giorno. Con il termine binge watching si indica la visione consecutiva di molti episodi di una serie tv (5,10, 15 a seconda della durata). Nel vocabolario inglese la parola binge

watching è sempre esistita, ma solo con l’arrivo di servizi come Netflix ha cominciato a

circolare anche in Italia. Ciò che il binge watching ha veramente cambiato, non è tanto il modo di usufruire di una serie tv, ma il come vengono costruite le puntate e come vengono distribuite. Per far sì che il telespettatore non stacchi gli occhi da dosso dallo schermo del televisore, la serie tv è costruita come se fosse un film che dura 10-15 ore, suddiviso in puntate e grazie al colpo di scena finale, all’utente non resta che vedere la puntata successiva. Inoltre, tutte le puntate di una stagione vengono rilasciate nello stesso

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momento, senza rispettare la cadenza settimanale tipica dei palinsesti televisivi.

(Libero.it/tecnologia, 2018)

Per quanto riguarda i dispositivi, dal 2012 al 2016 è diminuito il tempo trascorso davanti alla tv tradizionale e aumentano le ore sugli smartphone, siamo passati da 2.8 a 6.6 ore, i tablet passano da 1.1 a 2.7 ore e i laptop da 3.9 a 5.9 ore. Le caratteristiche più apprezzate dei video on demand sono: l’assenza di pubblicità (56%), la qualità HD (55%), e

l’anytime-anywhere (48%). Con questi dati è importante però fare una riflessione:

l’indagine in esame è stata fatta online quindi non vale per tutta la popolazione italiana. A tal proposito è importante tenere conto del fatto che l’età media della popolazione italiana è di 45 anni, il 20% della popolazione è costituito da persone over 65 e infatti il 40% degli italiani non ha mai usato internet. (Ericsson,2016)

Secondo le stime di ITMedia, l'anno scorso il mercato del video on demand in Europa ha raggiunto un valore di 4,2 miliardi di euro in ricavi e questa crescita continuerà con un tasso medio annuo del 16%, raggiungendo 6,7 miliardi di euro nel 2020. A livello mondiale il valore è anche più consistente, “MarketsandMarkets” stima addirittura 70 miliardi di dollari entro il 2021. Molti la definiscono la seconda età d'oro della televisione.

(Mark Perna,2018)

La differenza principale tra l’utente che guarda la tv tradizionale rispetto a quello che guarda la tv online risiede nel livello di coinvolgimento: il consumatore che decide di crearsi un account Netflix, Sky on demand, Infinity o ad altri servizi di streaming, si crea il suo personalissimo palinsesto fatto di prodotti che ne rispecchino quanto più possibile gusti, abitudini di consumo, appartenenze socio-ideologiche. Quindi l’utente che guarda un film o una serie in streaming, sceglie quel titolo perché rispecchia i suoi gusti e i suoi

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interessi ed è quindi coinvolto maggiormente nella visione dello spettacolo rispetto al telespettatore che facendo zapping trova un film/un programma di suo gradimento. Ciò ha portato all’ effettivo passaggio da consumer a prosumer: il consumatore è colui che fa zapping e trova il contenuto che più lo aggrada tra quelli in onda, mentre il prosumer è il soggetto attivo che sceglie di crearsi una lista di contenuti da vedere che rispecchiano le sue attitudini e i suoi gusti. Il telespettatore passivo diventa così attivo.

Vi è un fattore fondamentale alla base del successo dei servizi di streaming: il potere dei dati. Il vantaggio competitivo delle aziende che offrono servizi di streaming è quello di avere in mano una mole significativa di dati sugli utenti che permette loro di profilare gli utenti, segmentarli in base alle loro preferenze, ai loro interessi e utilizzare i dati per rendere l’offerta il più possibile customizzata, soddisfare gli abbonati e favorire la loro permanenza nel sito. Si tratta di un circolo vizioso: l’utente fornisce i dati personali senza alcun problema perché sa che più dati fornisce, più l’offerta di prodotti sarà costruita ad hoc sui suoi gusti e sulle sue preferenze e al tempo stesso i fornitori di servizi di streaming ricevono molte informazioni personali che potranno riutilizzare in chiave strategica.

(Dara, 2018).

Inoltre il mondo dello streaming rappresenta un’opportunità di business per molti: è la nuova frontiera della musica, ha sostituito i cd e gli I-pod nella fruizione di contenuti audio, ha sostituito la televisione tradizionale e in parte il cinema nella fruizio ne di contenuti audio-visivi. Le imprese operanti in tali settori, dopo una fase iniziale in cui consideravano lo streaming un fenomeno marginale, hanno compreso le potenzialità di tale settore e hanno deciso di investire le proprie risorse. In Italia, Vodafone e Tim per non restare indietro rispetto ai Big del settore (Amazon, Netflix) hanno deciso di investire

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in questo settore attraverso la creazione delle piattaforme di streaming Tim Vision, NowTv, Infinity.

Ci sono però degli ostacoli alla diffusione dello streaming su ampia scala e sulla sua sostituzione alla tv tradizionale:

1. Il modello di business adottato dagli operatori di streaming non funziona. Nonostante una crescita vigorosa e le decine di milioni di utenti già raggiunti dai servizi più popolari, lo streaming oggi è in perdita. Come già accaduto abbastanza spesso su Internet, tutte le principali piattaforme presentano conti in rosso e sopravvivono grazie alle quote di denaro messe a disposizione dagli investitori. Gli unici che ottengono ricavi sono i Big del settore mentre tutti gli attori di minor rilievo sono in perdita. La teoria è che i profitti arriveranno in futuro con l'aumento del numero di utenti, ma nessuno sa quale sia la soglia necessaria per invertire la tendenza. Questo è il caso della web radio Pandora che negli Stati Uniti ha appena chiuso l'ennesimo trimestre in perdita o di Spotify che ha 60 milioni di utenti di cui 15 milioni a pagamento, e spende molti più soldi di quanti ne ricava. Lo scenario che si profila per il prossimo futuro, con l'ingresso nel settore di attori di rilievo come Apple e YouTube sembra complicare ulteriormente le cose: man mano che aumenterà la concorrenza, diventerà ancora più difficile il raggiungimento della soglia di utenti necessaria a garantire il pareggio/profitto.

2. Le percentuali dei ricavi che le aziende riconoscono agli autori o agli artisti sono piuttosto basse.

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3. Il pubblico non è disposto a pagare un prezzo elevato per fruire di un contenuto audio-visivo, anzi molto spesso gli utenti usufruiscono di tali servizi solo se questi sono gratuiti o prevedono canoni periodici molto ridotti.

4. Le esclusive rischiano di penalizzare i cataloghi di contenuti offerti. Questo è il caso di Tidal (nuovo servizio che permette di ascoltare musica in streaming senza perdere la qualità dell’audio, esistono solo versioni a pagamento, hi-fi o premium) che per guadagnare rapidamente terreno rispetto a Spotify, sta puntando sull'offerta di materiale esclusivo, in gran parte concesso dai cantanti/musicisti proprietari e investitori del servizio. Questa strategia però non si è rivelata vincente infatti, poche ore dopo la pubblicazione su Tidal della canzone di Rihanna, tutti i contenuti esclusivi erano disponibili gratis su YouTube. Il rischio legato all’offerta di un catalogo ridotto di film o di musica rischia di alienare i vecchi abbonati, senza attirarne di nuovi perché comunque potranno recuperare altrove le esclusive.

5. Il problema più grande dello streaming è che ogni attore coinvolto sostiene tesi diverse e cerca di orientare il settore verso direzioni differenti. Il risultato è variegato: l'aumento della concorrenza sembra che stia penalizzando i consumatori perché le piattaforme di streaming per non perdere profitti e utenti, cercano di risparmiare offrendo cataloghi con contenuti limitati e richiedono prezzi più alti per usufruire di determinati servizi, soprattutto per quanto riguarda lo streaming musicale (Spotify offre una versione gratuita che permette funzioni limitate ed una versione premium che offre all’utente più servizi e funzionalità).

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