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1.4 Legislazione italiana sul copyright e nuova normativa europea

2.1.2 Industria dei film

L’industria dei film, insieme alla musica, rappresenta il “vero prodotto universale” perché è in grado di attrarre audience globali, però ha anche una grande aleatorietà e un alto livello di rischio: non esiste a priori la domanda per un certo film, essendo ciascuna produzione unica e non standardizzata e quindi non si può sapere se un film avrà successo o meno finché non esce nelle sale.

L’industria dei film è un’industria di prototipi caratterizzata da alti costi fissi ed elevate competenze, oltre alla difficoltà di ottenere economie di scala. Il mercato cinematografico statunitense ad esempio è caratterizzato da un alto livello di concentrazione (otto majors realizzano il 90% dei ricavi) che rappresenta il modello di business di riferimento per l’industria, il processo produttivo si articola in varie attività che vanno dall’ideazione, al soggetto, alla sceneggiatura fino alla realizzazione del prodotto. Inoltre una quota elevata di costi è rappresentata dai compensi di registi, produttori e attori che continua a crescere nel tempo che pesano circa per il 60-70% dei costi totali di produzione, a cui vanno aggiunti i costi di promozione, marketing e amministrativi.

Quest’industria richiede forti investimenti di capitale, il mercato è finanziato quasi esclusivamente dall’utente finale e, a differenza del mercato televisivo, la produzione è fatta su “prototipi”, è una produzione esclusiva mentre nel caso della televisione ci si avvicina sempre di più ad una produzione in serie.

Negli anni Settanta era prevalente la convinzione che quest’industria si basasse esclusivamente sulle sale cinematografiche riconosciute come unico luogo di consumo dei film e unico mezzo di trasmissione dei film. Con il tempo tali concezioni sono mutate e ad oggi infatti è possibile fruire del contenuto di un film anche “da casa” e da qualsiasi pubblico attraverso una pluralità di mezzi e di supporti (tv, pc..) e quindi lo sfruttamento

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del prodotto e la sua utilità vengono dilatati nel tempo, incrementando significativamente i ricavi.

Per quanto riguarda la struttura del mercato, abbiamo assistito al passaggio da industria mono-mediale a industria multi-mediale e al dominio da parte dei principali otto studios americani sull’intero settore: Warner Brothers, Fox, Sony, Disney/Miramax, Universal, Paramount che generalmente vendono in anticipo l’intera produzione di un anno attraverso accordi esclusivi con le emittenti televisive (modello di Output Deal), in alternativa al modello di Package Deal che prevede la vendita di un certo numero di film (è più usato dai produttori indipendenti o nazionali).

I ricavi delle majors provengono rispettivamente da: box office (50%), home video (20- 25%), video on demand (55-60%), pay per view (45-55%), premium pay TV e Free to Air.

Con la nascita dell’industria cinematografica i ricavi provenivano unicamente dal cinema ma con il passare del tempo la proporzione è cambiata con l’inserimento delle altre componenti. In particolare negli ultimi anni hanno subìto una grande crescita Pay per View e video on demand, oltre alla nuova frontiera dello streaming che permette agli utenti di guardare film o serie tv online attraverso dispositivi elettronici, non necessariamente seduti sul divano di casa davanti ad uno schermo.

Cambiano così le abitudini di consumo degli utenti che guardano film o serie tv sui mezzi pubblici, in pausa pranzo direttamente dal proprio portatile o dallo smartphone.

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CAPITOLO 3

L’ATTEGGIAMENTO DEI CONSUMATORI RISPETTO

AL COPYRIGHT

3.1 Analisi del fenomeno dello streaming

Il fenomeno dello streaming è ormai diffuso e radicato nella cultura odierna: per streaming si intende un sistema per la trasmissione di informazioni, di solito audio e video, che consente di usufruire del video/audio senza doverlo scaricare.

Esistono però due tipologie principali di streaming: “lo streaming live”, ovvero quello che ci permette di vedere un film o un programma televisivo in diretta e lo “streaming on demand” che ci fornisce lo stesso servizio ma si tratta di programmi registrati, già andati in onda e che possono essere rivisti successivamente. Entrambe le tipologie vengono spesso impiegate per trasmettere eventi sportivi o film illegalmente.

Negli ultimi decenni il nostro modo di vedere film e serie tv è cambiato radicalmente: prima per vedere l’ultimo episodio della nostra serie preferita dovevamo aspettare che fosse trasmesso in tv e se quella sera avessimo avuto un impegno, probabilmente l’avremmo persa per sempre, mentre oggi non è più così. Si è verificato un rapido cambiamento grazie alla diffusione della banda larga, dei devices e all’arrivo di nuovi servizi e piattaforme online.

All’inizio i video non esistevano nel web, non esistevano i software e le infrastrutture necessarie a trasmettere i video così come li vediamo noi oggi. La rivoluzione ha avuto inizio con l’introduzione dei sistemi peer-to-peer, abbreviati P2P, che permettevano di trasmettere in modo sicuro e efficiente grandi quantità di dati da un computer all’altro senza rischiare che le informazioni andassero perse. Si trattava di meccanismi difficili da

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bloccare perché non avevano un vero centro, erano gli utenti a creare il sistema e i contenuti. Il limite principale dei sistemi P2P era la necessità di scaricare i contenuti, non era possibile guardare direttamente i video online ma occorreva aspettare ore per scaricarli e poi guardarli offline.

Negli stessi anni si è diffuso anche BitTorrent, un software leggero e completamente opensource che diventa lo strumento di condivisione dei contenuti per eccellenza. Si tratta di un software completamente legale, l’illegalità nasce dagli individui che condividono contenuti coperti da copyright.

Con l’aumento della velocità di connessione hanno fatto la loro comparsa altri portali che abbandonano la logica peer-to-peer per accogliere quella client-server offrendo agli utenti uno streaming lineare, è possibile vedere centinaia di film e serie tv direttamente online con una velocità e qualità accettabili. In tale contesto sono nati siti come Youtube e Vimeo in cui è possibile fruire dei contenuti audio-video direttamente nel browser in modo quasi istantaneo, l’attesa di ore dei download si riduce a pochi secondi di buffering (tempo di caricamento del video) e aumenta la velocità di connessione grazie alle nuove tecnologie software.

Dal 2005 nasce il sito di streaming pirata per eccellenza, Megaupload. Fino al 2012 siti come questo hanno prosperato nel web fino ad arrivare ad un intervento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che li ha fatti chiudere. Oggi la situazione è in parte cambiata: i siti continuano a funzionare, vengono oscurati dalle Autorità ma poi rinascono con domini diversi. Ciò che ha mutato lo scenario rispetto al passato è l’introduzione di servizi di streaming legali che, attraverso il pagamento di un canone mensile piuttosto basso, mettono a disposizione dell’utente migliaia di serie tv e di film fruibili online o attraverso download con un’ottima qualità audio e video e in tempi rapidi. (Sandvine,2016). Tra

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questi il più famoso e in continua espansione è sicuramente Netflix, di cui parleremo nel prossimo capitolo.

Inoltre, un fattore importante che ha contribuito al boom dello streaming, in una fase successiva rispetto a quella appena descritta, è la diffusione dei dispositivi mobili che hanno permesso la diffusione dello streaming ovunque, anche fuori casa, Le abitudini di fruizione sono cambiate e si possono riassumere in tre parole anything, anytime,

anywhere (vedere tutto ciò che si vuole, in qualsiasi momento e dovunque). Oggi infatti

ci bastano pochi click sul nostro smartphone per vedere tutti i programmi che vogliamo. Vi sono due conseguenze fondamentali di questa fruizione dei contenuti multimediali sempre più in mobilità: cambiano in maniera considerevole le modalità di selezione dei contenuti perché gli spettatori hanno bisogno di impiegare sempre meno tempo nella ricerca dei programmi da vedere e, soprattutto se sono a lavoro o per strada, vogliono una guida immediata e chiara su cosa li intratterrà. Così, secondo una ricerca del 2016 della Rovi Corporation, il 51% di chi ricorre allo streaming televisivo vorrebbe che i provider migliorassero e rendessero più efficaci le modalità di ricerca dei contenuti; il 30% vorrebbe invece che si concentrassero sulle sezioni e i prodotti raccomandati e oltre il 58% sarebbe disposto a condividere in forma anonima informazioni su ciò che preferisce guardare. Contro ogni previsione, nella maggior parte dei casi (oltre il 70%) gli utenti si fiderebbero più dei programmi consigliati dalle piattaforme a partire dalle abitudini di consumo proprie e di utenti simili, piuttosto che dei consigli di amici e familiari.

(Dara,2018)

In particolare queste nuove modalità di accesso ai contenuti si sono diffuse soprattutto tra i giovani: secondo l’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, in una settimana in media il 43% dei Millenials (coloro che sono nati tra il 1980 e il 2000), il

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36% della Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) e il 27% dei Baby Boomers (“i figli” del baby boom economico degli anni “50, nati tra il 1945 e il 1965) guarda programmi, serie tv su internet in streaming in modo gratuito e le percentuali scendono rispettivamente al 21%,14% e 10% per lo streaming a pagamento.

Si sta delineando una fruizione sempre più complementare tra la Tv tradizionale e la nuova Tv potenziata dal web. Secondo il “TV and Media Report” di Ericsson del 2016, il 55% degli italiani dichiara di preferire i servizi on demand rispetto alla tv lineare, quattro anni prima erano il 45%. Il 71% del campione accede alla tv tradizionale su base giornaliera contro il 57% dei servizi on demand, nel 2012 la differenza era di 40 punti percentuali (82 e 42%), lo scarto si è ridotto di 14 punti. In media un italiano trascorre 35 ore alla settimana a consumare contenuti audiovisivi, il 40% di questo tempo è dedicato a video on demand. I contenuti più popolari in rete sono: serie tv, user generated content, film e programmi tv. Ciò che sorprende sono i dati sulle maratone televisive (binge

watching) perché il 41% degli intervistati dichiara di fare binge watching almeno una

volta alla settimana, il 18%, ovvero un italiano su cinque, almeno una volta al giorno. Con il termine binge watching si indica la visione consecutiva di molti episodi di una serie tv (5,10, 15 a seconda della durata). Nel vocabolario inglese la parola binge

watching è sempre esistita, ma solo con l’arrivo di servizi come Netflix ha cominciato a

circolare anche in Italia. Ciò che il binge watching ha veramente cambiato, non è tanto il modo di usufruire di una serie tv, ma il come vengono costruite le puntate e come vengono distribuite. Per far sì che il telespettatore non stacchi gli occhi da dosso dallo schermo del televisore, la serie tv è costruita come se fosse un film che dura 10-15 ore, suddiviso in puntate e grazie al colpo di scena finale, all’utente non resta che vedere la puntata successiva. Inoltre, tutte le puntate di una stagione vengono rilasciate nello stesso

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momento, senza rispettare la cadenza settimanale tipica dei palinsesti televisivi.

(Libero.it/tecnologia, 2018)

Per quanto riguarda i dispositivi, dal 2012 al 2016 è diminuito il tempo trascorso davanti alla tv tradizionale e aumentano le ore sugli smartphone, siamo passati da 2.8 a 6.6 ore, i tablet passano da 1.1 a 2.7 ore e i laptop da 3.9 a 5.9 ore. Le caratteristiche più apprezzate dei video on demand sono: l’assenza di pubblicità (56%), la qualità HD (55%), e

l’anytime-anywhere (48%). Con questi dati è importante però fare una riflessione:

l’indagine in esame è stata fatta online quindi non vale per tutta la popolazione italiana. A tal proposito è importante tenere conto del fatto che l’età media della popolazione italiana è di 45 anni, il 20% della popolazione è costituito da persone over 65 e infatti il 40% degli italiani non ha mai usato internet. (Ericsson,2016)

Secondo le stime di ITMedia, l'anno scorso il mercato del video on demand in Europa ha raggiunto un valore di 4,2 miliardi di euro in ricavi e questa crescita continuerà con un tasso medio annuo del 16%, raggiungendo 6,7 miliardi di euro nel 2020. A livello mondiale il valore è anche più consistente, “MarketsandMarkets” stima addirittura 70 miliardi di dollari entro il 2021. Molti la definiscono la seconda età d'oro della televisione.

(Mark Perna,2018)

La differenza principale tra l’utente che guarda la tv tradizionale rispetto a quello che guarda la tv online risiede nel livello di coinvolgimento: il consumatore che decide di crearsi un account Netflix, Sky on demand, Infinity o ad altri servizi di streaming, si crea il suo personalissimo palinsesto fatto di prodotti che ne rispecchino quanto più possibile gusti, abitudini di consumo, appartenenze socio-ideologiche. Quindi l’utente che guarda un film o una serie in streaming, sceglie quel titolo perché rispecchia i suoi gusti e i suoi

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interessi ed è quindi coinvolto maggiormente nella visione dello spettacolo rispetto al telespettatore che facendo zapping trova un film/un programma di suo gradimento. Ciò ha portato all’ effettivo passaggio da consumer a prosumer: il consumatore è colui che fa zapping e trova il contenuto che più lo aggrada tra quelli in onda, mentre il prosumer è il soggetto attivo che sceglie di crearsi una lista di contenuti da vedere che rispecchiano le sue attitudini e i suoi gusti. Il telespettatore passivo diventa così attivo.

Vi è un fattore fondamentale alla base del successo dei servizi di streaming: il potere dei dati. Il vantaggio competitivo delle aziende che offrono servizi di streaming è quello di avere in mano una mole significativa di dati sugli utenti che permette loro di profilare gli utenti, segmentarli in base alle loro preferenze, ai loro interessi e utilizzare i dati per rendere l’offerta il più possibile customizzata, soddisfare gli abbonati e favorire la loro permanenza nel sito. Si tratta di un circolo vizioso: l’utente fornisce i dati personali senza alcun problema perché sa che più dati fornisce, più l’offerta di prodotti sarà costruita ad hoc sui suoi gusti e sulle sue preferenze e al tempo stesso i fornitori di servizi di streaming ricevono molte informazioni personali che potranno riutilizzare in chiave strategica.

(Dara, 2018).

Inoltre il mondo dello streaming rappresenta un’opportunità di business per molti: è la nuova frontiera della musica, ha sostituito i cd e gli I-pod nella fruizione di contenuti audio, ha sostituito la televisione tradizionale e in parte il cinema nella fruizio ne di contenuti audio-visivi. Le imprese operanti in tali settori, dopo una fase iniziale in cui consideravano lo streaming un fenomeno marginale, hanno compreso le potenzialità di tale settore e hanno deciso di investire le proprie risorse. In Italia, Vodafone e Tim per non restare indietro rispetto ai Big del settore (Amazon, Netflix) hanno deciso di investire

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in questo settore attraverso la creazione delle piattaforme di streaming Tim Vision, NowTv, Infinity.

Ci sono però degli ostacoli alla diffusione dello streaming su ampia scala e sulla sua sostituzione alla tv tradizionale:

1. Il modello di business adottato dagli operatori di streaming non funziona. Nonostante una crescita vigorosa e le decine di milioni di utenti già raggiunti dai servizi più popolari, lo streaming oggi è in perdita. Come già accaduto abbastanza spesso su Internet, tutte le principali piattaforme presentano conti in rosso e sopravvivono grazie alle quote di denaro messe a disposizione dagli investitori. Gli unici che ottengono ricavi sono i Big del settore mentre tutti gli attori di minor rilievo sono in perdita. La teoria è che i profitti arriveranno in futuro con l'aumento del numero di utenti, ma nessuno sa quale sia la soglia necessaria per invertire la tendenza. Questo è il caso della web radio Pandora che negli Stati Uniti ha appena chiuso l'ennesimo trimestre in perdita o di Spotify che ha 60 milioni di utenti di cui 15 milioni a pagamento, e spende molti più soldi di quanti ne ricava. Lo scenario che si profila per il prossimo futuro, con l'ingresso nel settore di attori di rilievo come Apple e YouTube sembra complicare ulteriormente le cose: man mano che aumenterà la concorrenza, diventerà ancora più difficile il raggiungimento della soglia di utenti necessaria a garantire il pareggio/profitto.

2. Le percentuali dei ricavi che le aziende riconoscono agli autori o agli artisti sono piuttosto basse.

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3. Il pubblico non è disposto a pagare un prezzo elevato per fruire di un contenuto audio-visivo, anzi molto spesso gli utenti usufruiscono di tali servizi solo se questi sono gratuiti o prevedono canoni periodici molto ridotti.

4. Le esclusive rischiano di penalizzare i cataloghi di contenuti offerti. Questo è il caso di Tidal (nuovo servizio che permette di ascoltare musica in streaming senza perdere la qualità dell’audio, esistono solo versioni a pagamento, hi-fi o premium) che per guadagnare rapidamente terreno rispetto a Spotify, sta puntando sull'offerta di materiale esclusivo, in gran parte concesso dai cantanti/musicisti proprietari e investitori del servizio. Questa strategia però non si è rivelata vincente infatti, poche ore dopo la pubblicazione su Tidal della canzone di Rihanna, tutti i contenuti esclusivi erano disponibili gratis su YouTube. Il rischio legato all’offerta di un catalogo ridotto di film o di musica rischia di alienare i vecchi abbonati, senza attirarne di nuovi perché comunque potranno recuperare altrove le esclusive.

5. Il problema più grande dello streaming è che ogni attore coinvolto sostiene tesi diverse e cerca di orientare il settore verso direzioni differenti. Il risultato è variegato: l'aumento della concorrenza sembra che stia penalizzando i consumatori perché le piattaforme di streaming per non perdere profitti e utenti, cercano di risparmiare offrendo cataloghi con contenuti limitati e richiedono prezzi più alti per usufruire di determinati servizi, soprattutto per quanto riguarda lo streaming musicale (Spotify offre una versione gratuita che permette funzioni limitate ed una versione premium che offre all’utente più servizi e funzionalità).

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A dimostrazione di quanto appena affermato, se raccogliamo tutti gli articoli dedicati all'industria musicale negli ultimi sei mesi e suddividiamo lo spazio riservato a streaming, download, cd e vinili otteniamo il seguente risultato: 80% allo streaming, 19% al vinile, il restante 1% a download e cd. Se invece analizziamo la distribuzione dei profitti diffusa dalla IFPI (la Confindustria mondiale della musica) la realtà ci parla del 44% di fatturato ancora proveniente dai cd, il 24% dai download, il 14,8% dallo streaming, il 2% dal vinile. Questo scenario è caratterizzato da alcuni paesi forti in cui cd e vinili tengono ancora oltre il 70% del fatturato (come Giappone e Germania, rispettivamente secondo e terzo mercato mondiale). Questi dati ci permettono di confermare la tesi secondo cui il settore dello streaming, nonostante un’ampia diffusione ed un maggior successo rispetto ai canali tradizionali, generi minor fatturato per le imprese. (Castelli,2015)

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Switch dei consumatori dalla pirateria al pagamento di una quota

per accedere ai contenuti

Il fenomeno della pirateria digitale, come accennato nel paragrafo precedente, nasce nei primi anni 2000 con l’emergere di siti di streaming non autorizzati, che rendevano disponibili online film e serie tv in lingua originale o tradotti in altre lingue e gli utenti potevano scaricare direttamente il file o vederlo online. Con l’avanzamento delle tecnologie digitali e l’incremento della velocità di trasmissione, abbiamo assistito ad un vero boom dei siti di streaming illegale presenti nel web e un calo successivo negli ultimi anni dovuto all’introduzione di nuove piattaforme online di streaming legale che permettono all’utente di vedere migliaia di programmi, serie tv, film senza limiti ad un prezzo irrisorio. Si è realizzata un’inversione di tendenza da parte dell’utente medio che oggi è disposto a pagare un canone mensile per accedere ai contenuti audiovisivi.

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La BSA, l’Alleanza dei Produttori di software, di cui uno dei compiti principali è la lotta alla pirateria informatica, ha realizzato nel 2015 un sondaggio condotto da Lorien Consulting nell’ambito dell’Osservatorio Politico Nazionale sull’atteggiamento degli italiani in materia di rispetto della proprietà intellettuale/propensione alla copia illegale e al download di contenuti digitali dal web. Le risposte raccolte (da un campione di 1.000 individui, rappresentativo della popolazione nazionale maggiorenne e stratificato per sesso, età ed area geografica) confermano il quadro di una società fortemente propensa ai comportamenti illegali. Da tale indagine emerge che il 61% degli intervistati ritiene la pirateria digitale un comportamento lecito, tollerabile e da non perseguire legalmente. Nel dettaglio, il 31% ammette di aver fatto download, il 9% non fornisce una risposta ma non nega di averlo fatto e il 10-12% ammette che nel proprio luogo di lavoro alcuni soggetti scaricano contenuti illegali. Fra le motivazioni dei comportamenti illegali troviamo prevedibilmente:

 “perché è più comodo/facile” (58%).

 “Perché i prodotti legali costano troppo” (23%).

 Perché “non rischio nulla/è difficile che mi scoprano” (4%).

(Lorien Consulting,2015)

Nel 2017 Ipsos ha realizzato un rapporto, commissionato dalla Fapav, la Federazione per

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