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Le relazioni degli esploratori portoghesi e il Mapa Cor-de-Rosa: proposta per una cartografia dell'immaginario africano fin-de siècle

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari

Dottorato di ricerca in

Studi Linguistici e Letterari

X Ciclo – Nuova Serie

Tesi di dottorato in

Le relazioni degli esploratori portoghesi e il mapa-cor-de-rosa:

proposta per una cartografia dell’immaginario africano

fin-de-siècle

Tutor:

Coordinatore:

Ch.mo Prof.

Ch.ma Prof.ssa

Giorgio de Marchis

Rosa Maria Grillo

Dottorando:

Marco Peretti

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Indice

INTRODUZIONE

IN MEMORIA DI DUE ESCRAVOS POMBEIROS

PARTE PRIMA

LE “CARTE” MENTALI DEGLI ESPLORATORI: SPAZIO, TEMPO E VELOCITÀ OCCIDENTALI

Capitolo Primo

PROJECTAR IL SÉ, DISEGNANDO E COLORANDO L’AFRICA

(Cartografia e esportazione dello spazio ‘politico’ europeo)

§ - 1. Lo spazio della polis come misura di tutte le cose o della techné di rappresentare il sé rappresentando l’altro

§ - 2. Esportare lo Stato(polis)-Nazione per mettere in “ordine” e dar “progresso” al territorio africano

§ - 3. Della longue durée dell’imago Africae: l’idea fissa degli europei che l’Africa sia come loro la vedono

§ - 4. Il se représenter del segno originario nel disegno coloniale europeo § - 5. La “mappa mentale” portoghese. Projectar lo spazio “statuale”

sulla carta: il disegno di una linea che trasforma il mondo

Capitolo Secondo

UNA STORIA PER SÉ O DELL’AFRICA CHE NON VORREMMO ESSERE

(Cronografia e imposizione del “tempo di lavoro” occidentale)

§ - 1. Il “tempo perso” dei greci o dell’otium che non si concilia con il

negotium

§ - 2. L’Ordine (del tempo) benedettino e la polis-monastero

§ - 3. L’orologio, il numero e il Portogallo non è più un pequeno país § - 4. Le “provvidenziali” allucinazioni positiviste degli esploratori

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§ - 5. La precisione “cronometrica” ideale o del negotium della gloria nazionale

Intermezzo

LA VELOCITÀ … DELLA “PENETRAZIONE” OCCIDENTALE (Il “resoconto” degli esploratori tra pathos e praxis)

PARTE SECONDA

L’ESPLORATORE … “SULLA CARTA”

Capitolo Primo

STEREOTIPI E CLICHÉ: VIAGGIO (LO RACCONTO) ERGO SUM

§ - 1. L’opinione pubblica o dell’affidarsi a stereotipi e cliché per conoscere il mondo

§ - 2. Una littérature d’anticipation scientifique (Jules Verne, Cinq

semaine en ballon ovvero la più veloce travessia dell’Africa)?

§ - 3. Un epigono di Verne ovvero i “drammi” socialdarwinisti nell’esotico mondo di Emilio Salgari

§ - 4. King Solomon’s Mines by Haggard o della funzionalità del fantastico imperiale

§ - 5. L’eu occidentale attraversa l’Africa: la costruzione del mito dell’eroe-esploratore

§ - 6. Camões o della “rappresentazione” epica del futuro di una Nazione § - 7. Il buon senso degli scrittori-scienziati ovvero la cultura necessaria

per scrivere una novel reality scientificamente corretta

Capitolo Secondo

I RESOCONTI DEGLI ESPLORATORI:

LA COSTRUZIONE SCIENTIFICA DI “ROMANZI” POPOLARI (come dar “colore” a un discorso “mono-tono”)

§ - 1. Il “diario”: un espediente letterario per il proprio Sé, per gli Altri e per l’“economia” della narrazione

§ - 2. Un “intercalare” tematico ovvero la travessia della “foresta” impenetrabile

§ - 3. Paratesti: dalla finzione letteraria al pamphlet politico § - 4. La fotografia (le difficoltà di far stare in posa gli africani)

§ - 5. Le illustrazioni ovvero una “narrazione” parallela … Una “narrazione a parte: il corpo, femminile e nudo

§ - 6. Il “monologo” ovvero il discorso “mono-tono” (il lavoro “forzato” rende liberi!)

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individualismo-eroico e valori “collettivi” § - 8. Tra realismo etnografico e utilitarismo coloniale

§ - 9. Il “gioco” estetico della creazione dell’Altro ovvero il “linguaggio” politico-nazionale degli esploratori

§ -10. Miniature del Continente Africa ovvero le carte, “commerciali” § -11. Il mapa cor-de-rosa: l’illusione politico-cartografica

CONCLUSIONI

APPENDICI

1. Resoconto del viaggio dall’Angola al Mozambico compiuto da due schiavi pombeiros – 1806.

2. Tabella della “Relação dos individuos perdidos durante a expedição ao interior de Africa – 1884-85” di Capelo e Ivens

3. Tabella del “Resumo das observações magneticas” di Capelo e Ivens – Spedizione 1877-1880

4. Tabella “Registo dos chronometros” (con stati febbrili del cronometrista) di Capelo e Ivens – Spedizione 1877-80

5. Lo stereotipo dell’esploratore

6. Copertine di Cinq semaines en ballon e De Angola à Contracosta 7. Incisione a stampa di Rafael Bordalo Pinheiro dedicata al Maggiore

Serpa Pinto – 1890.

8. L’illustrazione dei resoconti 9. L’africano vestito all’occidentale 10. Le mappe

11. Il mapa cor-de-rosa

BIBLIOGRAFIA

Fonti Primarie Testi critici

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Era la sovrumana immensità di quella terra a lasciarlo sbalordito, a togliergli il respiro. Sapeva che i cieli erano disabitati, e che le stelle erano solo briciole in uno spazio così vasto da non poterci credere; sapeva che l’oceano era enorme e indomabile, ma in Inghilterra egli era giunto a considerare la terra proprietà dell’uomo. E in Inghilterra lo è davvero, e gli animali selvatici sono inquilini appena tollerati, ovunque regnino le strade, i recinti e la sicurezza assoluta. Anche sugli atlanti la terra è tutta dell’uomo, ed è colorata per mostrare come egli la rivendichi per sé – in vivido contrasto con l’azzurro universale e senza padrone del mare.

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Introduzione

In memoria di due escravos pombeiros

Carta da Africa Meridional Portugueza – Il mapa cor-de-rosa - 1886 Biblioteca Nacional de Lisboa

- 1806 - Em Nome de Deus Amen.

Derrota que eu Pedro João Batista faço na minha viagem do Muropue para o Rei Cazembe Caquinhata, por ordem do Illustríssimo e Excellentíssimo Senhor Capitão General do Reino de Angola, da abertura do caminho para a costa Oriental de África, dos Rios de Senna, e a encarregado ao Senhor Tenente Coronel Francisco Honorato da Costa Director da Feira de Casangue com dois contos de fazendas para despender com Reganos do caminho para a bem de poder conceder-nos licença da dita abertura do caminho até em Tette.

(João Pedro Batista, Relato da viagem de Angola para Rios de Senna)

O comboio começa no quílómetro zero e os bilhetes de cartão rosa são folhas secas de outra época. Têm os destinos com os nomes coloniais: Nova Lisboa, Silva Porto, Teixeira de Sousa, centenas de quilómetros à frente, dezenas de anos rumo ao passado …

Terminus. Informaram-me que do outro lado de África, do outro lado de fora, há ou havia outro hotel com o mesmo nome. Assim é a viagem: a direcção não importa e qualquer sentido acaba inevitavelmente no mesmo sitio. Fatal – a primeira, última, unica estação. O fim já aconteceu antes da partida. Do mar ao mar, de um Terminus ao outro, os engenheiros lançaram um vagão de magia e engano.

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È grazie al romanzo Baía dos Tigres dello scrittore portoghese Pedro Rosa Mendes, se questo lavoro di ricerca letteraria si è sviluppato prendendo anche una particolare piega “filosofica”. Prima di questa lettura, infatti, non prevedevamo certo di dover affrontare una ricostruzione storica di due “categorie”, come lo “spazio” e il “tempo”, di così difficile e ambizioso dominio.

Nel piano di lavoro iniziale potevamo ipotizzare di dover approfondire il concetto bachtiniano di cronotopo, lo spazio e il tempo come categorie narrative, tenendo conto che l’oggetto di questo studio è innanzitutto l’analisi di un corpus di testi pubblicati alla fine dell’Ottocento, e nello specifico dei “resoconti” di quelle spedizioni “scientifiche”, che secondo l’idea dei politici portoghesi avrebbero dovuto confermare e dar corpo a un progetto denominato mapa cor-de-rosa. Una simulazione, “sulla carta”, di quanto per “diritto storico” veniva rivendicato, vale a dire il possesso e la “gestione”, soprattutto commerciale, dell’intero entroterra che separava, ma idealmente avrebbe potuto congiungere, Angola e Mozambico, colonie portoghesi riconosciute a livello internazionale.

Il romanzo di Pedro Rosa Mendes, seppur cronologicamente e letterariamente “postmoderno”, era dunque una lettura obbligata, visto che si tratta di un resoconto di un viaggio intrapreso dall’autore nel 1997 – ad appena un anno dal centenario della pubblicazione di De Angola à

Contra-Costa di Capelo e Ivens –, seguendo lo stesso itinerario percorso dai due

esploratori alla fine dell’Ottocento, coast to coast, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, dall’Angola al Mozambico.1

1 Quella che si può definire un’originale “riscrittura” di De Angola à Contra-Costa mostra soprattutto le “rovine” lasciate dalle guerre “civili” del XX secolo sia in Angola sia in Mozambico. Guerre che hanno visto la partecipazione di diversi eserciti stranieri (in primo luogo quello sudafricano e quello cubano) e la vendita di mine antiuomo da parte di quasi tutti gli ex-civilizzatori in scramble for Africa alla fine Ottocento. La “denuncia” dell’autore,

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Un paragrafo del romanzo, in particolare, è responsabile della divisione di questo scritto in due parti (Le carte “mentali” degli esploratori: spazio,

tempo e velocità occidentali e L’esploratore … “sulla carta”) o, a dir meglio,

è ragion sufficiente dell’origine della prima. Quelle pagine, infatti, ci hanno dato la conferma, con pochi margini di dubbio, del perché nella legenda del

mapa cor-de-rosa (cfr. II, II, § 11 e Appendice n. 11, figura 4), in un elenco che indica gli esploratori che hanno tentato o compiuto la travessia da costa a costa, sia stato inserito il generico sostantivo pombeiros2, seguito, come per

gli altri nomi propri della lista, dalle date che indicano la durata della “missione”. Accanto al sostantivo, “cumulativo”, si segnala altrettanto genericamente soltanto 1806, una data, comunque, anteriore di quasi un secolo rispetto a quella che certifica l’impresa compiuta da Capelo e Ivens che, per questo, si sono guadagnati l’onore di figurare in cima a quell’elenco.3

Ora, come spiegava Pedro Rosa Mendes i pombeiros erano di norma meticci o neri e due di questi, «Pedro João Baptista e Anastácio Francisco […] eram pombeiros de confiança do tenente-coronel Francisco Honorato da Costa», i quali realizzarono «a proeza de chegar a Tete, tocando a fronteira ocidental da penetração portuguesa a partir do Índico». (cfr. MENDES 1999, p. 168) Questi due uomini impiegarono dodici anni per compiere tale impresa

ovviamente, va ben oltre le responsabilità occidentali e mira a far emergere anche gli errori postcoloniali degli africani, temi, dunque, di notevole e corrente interesse, ma che esulavano dalla nostra ricerca e che non hanno quindi potuto trovare accoglienza in questo testo. 2 Per sottolineare chi fossero allora i pombeiros può esser sufficiente trascrivere la nota aggiuntiva che il traduttore italiano di Baía dos Tigres ha posto in calce a una delle pagine del paragrafo: «Pombeiro era il nome che in Brasile e in Africa si dava all’emissario – donde il nome, quasi si trattasse d’un colombo (pombo) che reca i messaggi – che percorreva le regioni interne (sertão) spesso per l’acquisto di schiavi. Poi venne a significare, genericamente, l’emissario che va nell’interno come rappresentante commerciale e procacciatore d’affari, come venditore ambulante e anche come capo dei portatori nelle spedizioni.» (MENDES 2001, p. 18120)

3 E come ricorda Mendes, anticipando di mezzo secolo anche David Livingstone che realizzò per “primo” la traversata da Luanda a Quelimane tra il 1854 e il 1856. (MENDES 1999, p. 168)

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(dal 1802 al 1814) ma riuscirono – come abbiamo poi avuto modo di accertare anche negli Annaes Maritimos e Coloniaes (cfr. in part. 1843, 3a serie, n. 10, pp. 493 ss.)4 – a consegnare il messaggio che era stato loro affidato e a

“scoprire” la rotta, la derrota appunto, per raggiungere via terra la costa orientale. Sfogliando poi con attenzione gli Annaes Maritimos e Coloniaes siamo riusciti a dare anche una spiegazione a quella data, 1806, che non corrisponde alla data d’inizio della loro missione – 1802 -, ma al primo “resoconto”, datato, e narrato in prima persona da Pedro João Baptista (cfr.

Id., 1843, 3a serie, n. 5, pp. 165-190).

Che l’identità dei due pombeiros non meritasse di comparire a fianco di quelle dei più titolati Capelo e Ivens aveva una sua facile spiegazione, “di norma si trattava di meticci o neri”, e i due come abbiamo appurato erano anche escravos. A nulla valse, evidentemente, neanche il fatto che Pedro João Baptista fu immediatamente “nominato” Capitão da Companhia de Pedestres, all’uopo organizzata nella Feira de Mucari, ricevendo «desde logo o soldo de

4 La documentazione presente in questi Annaes meriterebbe ovviamente uno studio monografico, considerando che oltre al vero e proprio resoconto della derrota seguita dai due

escravos pombeiros – l’indicazione che si trattasse di schiavi è fornita in una lettera da Joze

de Oliveira Barboza, incaricato dal tenente colonnello Francisco Honorato da Costa di richiedere un giusto riconoscimento anche in denaro per l’opera svolta (cfr. ANNAES MARITIMOS e COLONIAES 1843, 3a serie, n. 6 p. 278) – offre la possibilità di leggere anche l’intenso scambio epistolare intercorso tra i governatori e altre figure istituzionali portoghesi in Africa e la Corte dei Braganza a quel tempo rifugiata in Brasile. Inoltre, andrebbe accertato perché Pedro Rosa Mendes parli di un Anastácio Francisco quando in calce al documento del 1811 accanto alla firma di Pedro João Baptista risulta quella di Antonio Nogueira da Rocha. Altri studiosi indicano quest’ultimo come compagno di Pedro João Baptista (cfr. BLACK 2002, p. 19),mentre il nome di Anastácio Francisco risulta citato nella Collecção de Tratados e concertos de pazes del 1885 (cfr. BIKER p. 194 e 262) nella quale il resoconto è stato riunificato. Negli Annaes del 1843 viene riprodotto per parti, pubblicato quindi in più numeri, a seconda delle date in cui è stato scritto (1806, 1810, 1811). Un enigma che andrebbe risolto, non vorremmo che anche Pedro Rosa Mendes involontariamente abbia occultato l’identità di uno dei due pombeiros. Per renderlo più complicato, in De Angola à Contra-Costa, Capelo e Ivens - chiamati in causa anche dallo scrittore portoghese, vedi nota 6 più avanti - parlano di Pedro Baptista e gli affiancano un José Amaro (cfr. CAPELLO, IVENS 1886, I, p. 14)

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10000 reis por mez, e usando do respectivo uniforme». (cfr. Id. 1843, 3a serie, n. 10. pp. 503-6)5Il problema, infatti, alla fine dell’Ottocento era di ben altra

natura, come involontariamente, ma puntualmente, ci suggeriva Pedro Rosa Mendes, rinviando per altre ragioni – che per noi invece hanno rappresentato un diretto riscontro della motivazione “ufficiale” di quell’omissione – proprio alle “ironiche” considerazioni che Capelo e Ivens, in De Angola à

Contra-Costa, avevano espresso sia nei confronti del tenente-colonello Honorato da

Costa, sia, e con un certo disprezzo, nei confronti dei suoi “messaggeri”.6

Ma furono soprattutto le “liriche” conclusioni di Pedro Rosa Mendes che all’epoca attirarono maggiormente la nostra attenzione, tenendo comunque in debito conto che il suo intento principale era di evidenziare e onorare il “primato” dei pombeiros:

Da sua experiência extraordinária não é, porém, o troféu que importa; é o registo. Pedro João Baptista escreveu um diário que, para o conhecimento europeu da África Central, em cada dia mesmo em que ele acrescentava dados à «derrota» funcionou como a invenção de uma geografia pela palavra. De nada importa que, para a gramática e para a ciência (nos seus cânones oitocentistas), essa palavra fosse tosca e inexacta. Ela teve a mesma força das «canções» intimas dos aborígenes australianos, cujo território é inventado no acto mesmo de o cantar. As pistas, as pedras, os rios, o deserto, os lagartos e os espíritos antepassados sempre lá estiveram, mas apenas (re)nasceram como lugar quando foram falados. (MENDES 1999, p. 169)

5È pleonastico aggiungere che il “risarcimento” al tenente-colonnello è di ben altra entità, sia per grado ottenuto che per i 65.000 reais mensili di pensione vitalizia (cfr. ANNAES MARITIMOS E COLONIAES 1843, 3a serie, n. 10, p. 504)

[Per questa citazione, come già per l’esergo introduttivo, e per tutti gli altri testi dell’Ottocento citati in questo scritto - compresi i nomi propri e i titoli delle opere -, si è scelto di mantenere l’ortografia originale.]

6 Come spiegava lo scrittore portoghese in una nota : “Capelo e Ivens, na sua immorredoura «De Angola à Contracosta», referem-se a Honorato da Costa como «o iniciador atrevido desta empresa simpática» - a travessia - e dos pombeiros escrevem que «os homens em semelhante serviço empregados não eram de molde a poder garantir-lhe o mais singelo valor científico». A dupla de exploradores conjectura sobre as «peripécias» que, no seu conhecimento, «ficaram no escuro pela falta de instrução dos protagonistas (…) e em que não menor número deviam ser as noções de interesse, que a ciência afinal não pode aproveitar»”. (MENDES 1999, p. 34714)

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Ancora oggi condividiamo con l’autore quest’inno al “canto” e alla parola, ma il debito che con questo inusuale “proemio” (una sorta d’introduzione dell’introduzione) intendiamo rimettere nei confronti di Pedro Rosa Mendes non è dovuto all’appropriazione indebita di queste conclusioni, bensì, al contrario, perché implicitamente ci conferma che solo la scripta manent – stiamo parlando di questo schiavo perché ci ha lasciato il suo onesto resoconto! -; e neanche questa, in sé, permette di evitare l’anonimato, infatti, soltanto la scripta riconosciuta dal potere e riproposta come “discorso”, garantisce il permanere nella Storia. È per questo che la parola, il discorso, la scrittura devono essere ben organizzati, “finalisticamente” organizzati: solo in questo caso saranno scelti per essere, “storicamente”, tramandati.

Un escravo può anche raccontare la sua “storia”, soprattutto se questa offre notizie e riporta informazioni che favoriscono il commercio e gli affari del suo “padrone”, ma non gli è permesso di fare un “discorso” e tanto meno di offuscare con la sua identità e la sua impresa la costruzione di “miti” che, seppur concepiti e destinati a valere per l’eternità, hanno anche e soprattutto un valore contingente, immediatamente “politico” – e sempre per nuove contingenze verranno infatti rivitalizzati e rivisitati a seconda del tempo e delle necessità “storiche”. Associare il mapa cor-de-rosa all’impresa di Pedro João Baptista e del suo compagno a quell’epoca non aveva senso “politico”, il Congresso di Berlino era ancora lontano a venire e, inoltre, la parola di uno schiavo vale sicuramente meno di quella di uno “scienziato”.

Sono queste le ragioni che rendono così diverse la “parola” scritta di Pedro João Baptista, che verrà fatta cadere nell’oblio insieme al suo nome, e il “discorso” degli esploratori che tende all’“immortalità”, e tale sarà perché proposto e riproposto da più di un secolo in forma di libro con il titolo di De

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“scientifico”, e non come “discorso”, non può che aggiungere altra gloria a Capelo e Ivens che in realtà l’hanno meritata soprattutto perché bianchi, portoghesi ed esploratori, a differenza dei pombeiros che di norma erano meticci o neri, e in qualità di letterati non erano certo scrittori o romanzieri così persuasivi.

Da qui la scelta di proporre in Appendice (n. 1) le poche pagine, quelle datate 1806, di Pedro João Baptista, così come vengono presentate negli

Annaes Maritimos e Coloniaes del 1843, le quali non verranno poi riprese e

analizzate in questa tesi, perché esulano dai margini cronologici che abbiamo dato al corpus dei testi da prendere in considerazione.

Alla luce di quanto detto, comunque, ed essendo lo scopo principale di questo lavoro quello di svelare alcuni tratti nascosti del “mestiere” dell’esploratore, oltre ad analizzare il “discorso” che alla fine dell’Ottocento (con la collaborazione degli editori o dei politici) intendevano trasmettere con le loro “storie” che, con superbia, definivano “resoconti scientifici”, abbiamo pensato che una prima parte di questa ricerca non poteva non riguardare la ricostruzione di quella mappa “mentale”, occidentale, “scientifica”, senza la quale lo stesso mapa cor-de-rosa non avrebbe mai avuto né senso né valore.

Da ciò la scelta di dividere in due parti questo testo, dando alla prima, in senso lato, una connotazione “epistemologica”, con la quale non s’intende tanto mostrare quali metodi e fondamenti siano alla base del loro agire e del loro scrivere – anche se in tutto lo scritto si deve sottolineare continuamente la loro adesione al positivismo e il primato assegnato all’osservazione e all’esperienza -, bensì quanto il loro immaginario “politico” in relazione allo “spazio” occidentale e a un uso “economico” del tempo abbiano sempre condizionato il “giudizio” che esprimono sugli Altri e sull’Altrove, sugli africani e sull’Africa.

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Il trait d’union che lega queste “certezze” scientifiche di longue durée risiede a nostro parere nel valore dato alla “tecnica”, che rendendosi nel corso dei secoli apparentemente sempre più autonoma ha giustificato azioni e teorie anche divergenti, ma quasi sempre concomitanti nel risultato finale, vale a dire la perenne esigenza di essere, sentirsi superiori rispetto agli Altri, in un senso quindi di potenza e autoreferenzialità o, in altri termini, di sentire con la tecnica di aver tutto in proprio “potere”.

In questo senso, dunque, l’uso del termine “tecnica” potrà esser percepito alle volte come qualcosa di eccessivamente generico, di onnicomprensivo, sovrapponibile o interscambiabile, come pure è accaduto, con quello di “scienza”, perché in qualche modo impiegato il più delle volte come sinonimo di potere – della scrittura nei confronti dell’oralità, della dialettica platonica rispetto ai miti africani, dell’astronomia moderna contrapposta alle medievali concezioni degli inferiori di turno.

Il potere, dunque, può anche assumere connotati di “civiltà”, di democrazia, così come quando si presenta nella forma di polis, di Stato, di Stato-Nazione o come misura più razionale ed “economica” per quanto concerne l’uso del tempo, inventando orologi che aumentano la produttività del lavoro e determinano la puntualità negli affari, ma la sua intima finalità prevede sempre una conventio ad escludendum, per lasciar fuori dalla polis i barbari, o dallo Stato-Nazione gli stranieri o, ancora, e a riguardo del tempo, coloro che consciamente o inconsciamente non si adeguano ai ritmi di produzione imposti dai datori di “civiltà”.

Per questo l’“intermezzo” che abbiamo scelto di anteporre prima di passare alla Seconda Parte, non poteva non riguardare la “velocità, la cui formula com’è noto è data proprio dalla conoscenza dello Spazio e del Tempo. La continua e progressiva “velocizzazione” (dei rapporti di scambio,

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dei rapporti di produzione, dei rapporti tout court), infatti, è stata per l’Occidente il perenne parametro per misurare anche i propri diversi gradi di civiltà, secondo una consolidata prassi tassonomica che implica livelli di

superiorità e inferiorità anche tra pari.

La prima parte, soprattutto attraverso i rinvii agli scritti degli esploratori, ha quindi l’obiettivo di dimostrare come senza una giusta comprensione di quanto sia intriso l’immaginario occidentale di queste certezze - che in qualche modo si possono far risalire alla Grecia classica -, facilmente si può rischiare di rimanere affascinati dalle “avventure” compiute dagli esploratori, dimenticando che a guidarli non era solo il coraggio e la Scienza, e magari giustificare con quest’ultima anche il “razzismo” che nei loro scritti viene elargito a piene, e civili, mani.

Un occultamento cui partecipano in molti, la letteratura in primo grado, i

media del tempo, i politici, ovviamente, e poi gli editori o i committenti delle

varie “associazioni” geografiche. La costruzione dello stereotipo “positivo” dell’esploratore risulta a tutt’oggi un work in progress, attivo e funzionale, imperante perché utilizza un paravento che permette di lasciare in vista soltanto il loro valore di portatori “sani” di conoscenza, rivelatori dell’ignoto o semplicemente scienziati.

È per questo motivo che nel primo capitolo della Seconda Parte ci siamo

riproposti di decostruire questo stereotipo, che funziona, paradossalmente, proprio perché poggia su un’idea, un tema, che definire negativo è impossibile. Il viaggio e il raccontare il viaggio sono infatti sinonimi di curiosità, nuove acquisizioni di conoscenza, sapere, scoperta dell’Altro e dell’Altrove, avventura, crescita e formazione personale, coraggio, sfida e l’elenco di motivi positivi potrebbe continuare all’infinito. Il viaggio rinvia a Ulisse ma anche al significato stesso di “filosofia”, è la metafora più usata per

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descrivere i “progressi” della scienza, è in sé romanzo, è simbolicamente progressivo, insomma pensarlo come “negativo” è oggi interdetto e censurabile. Questa sua sacralità rende qualsiasi testo che abbia a propria misura il viaggiare qualcosa di avvincente, sia che si tratti di inabissarsi negli Inferi o decollare verso la luna, sondare i profondi abissi dell’inconscio o innalzarsi nei cieli paradisiaci della ragione.

È stato quindi necessario cercare d’individuare quanta di questa “letteratura” abbia partecipato e partecipi alla costruzione “mitologica” di questa “professione”. Una letteratura che, tra l’altro, arriva probabilmente sempre dopo, non anticipa - come si dice pensando all’opera di Jules Verne - i presunti “progressi”, non preannuncia il futuro. È agli scritti antecedenti degli esploratori che i Verne, i Salgari, gli Haggard hanno attinto e non il contrario; i Serpa Pinto e i Carvalho, d’altro canto, hanno cercato d’imitare lo stile dei “letterati”, hanno usato i loro espedienti narrativi saccheggiando ovunque ritenessero opportuno, perché convinti giustamente che una divulgazione (non quella scientifica che semmai facevano nel chiuso delle Accademie) per essere persuasiva doveva andare incontro al gusto del pubblico – “sentimento” instabile e comunque dominio privilegiato della bassa come dell’alta letteratura. Per questo se nella Prima parte, per quanto concerne la “tecnica” i punti di riferimento obbligati non potevano che essere le riflessioni di Heidegger o di Galimberti, in questo capitolo abbiamo piegato ai nostri fini le analisi di Umberto Eco o di Fredrich Jameson, a proposito del romanzo “popolare” o dell’influenza nel “romanzo” tout court di un certo inconscio politico e sociale, accennando laddove è stato possibile anche a una serie di “miti” letterari o cinematografici che vanno ben oltre la fine dell’Ottocento. Uno degli insegnamenti che abbiamo infatti tratto da questo lavoro è che la differenza tra letteratura alta e letteratura bassa, se ci è concesso usare queste

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misure, perde di senso se consideriamo che qualsiasi arte almeno a partire dall’epoca che abbiamo trattato non appare più come pretendeva ancora Kant «una finalità senza scopo».

Nella “scrittura” dei Verne e dei Salgari, come in quella degli esploratori, il senso è dato dalla gerarchia organizzativa con la quale si stabiliscono, con un uso pressoché identico delle dicotomie bianco/nero o progresso/inciviltà, i rapporti di forza, la superiorità e l’inferiorità. Una sorta di perenne imagologia che non risparmia ovviamente anche i “vicini di casa”, gli altri europei che oltre a concorrere nella scramble for Africa, partecipano anche alla disputa per il primato del sapere e dunque del potere.

In questo senso, alla fine dell’Ottocento, la costruzione del mito dell’eroe-esploratore - nazionale, europeo o occidentale a seconda delle necessità -, messa in atto soprattutto con il supporto della stampa, sembra aderire all’idea e ai dettami formulati in materia da Hegel:

[…] noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve porsi al servizio delle idee, diventare una mitologia della ragione. Prima che le idee vengano da noi trasformate in materia estetica, cioè mitologica, nessun interesse esse suscitano nel popolo e viceversa prima che la mitologia sia razionale il filosofo deve vergognarsene. Alla fine dunque gli illuminati e quelli che non lo sono devono darsi la mano, la mitologia deve farsi filosofica e il popolo razionale, la filosofia deve farsi mitologica per rendere comprensibili i filosofi” (MASSOLO 1976, p. 252 e cfr. COMETA 2004, pp. 290 ss.)

Per rendere comprensibile infatti l’epica dei “racconti” degli esploratori, i portoghesi non potevano che resuscitare Os Lusiadas di Camões o mitologizzare come il resto d’Europa, la “scienza”, il “positivismo”, rendendoli accessibili al popolo in forma di novel reality, romanzo d’avventure, romanzi, appunto, popolari.

Possiamo affermare che nel secondo capitolo della Seconda Parte ci siamo occupati proprio di questo, o per dirla ancora in termini hegeliani, ci siamo

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occupati della trasformazione in forme popolari dell’idea del diritto storico “coloniale” rivendicato dai portoghesi, mitologizzato sia disegnando il mapa

cor-de-rosa sia traducendo in forma di “romanzo” il “discorso”

politico-scientifico degli esploratori.

È questa l’idea centrale che ha ispirato l’intero lavoro e quindi in modo particolare questo capitolo, per necessità più analitico, ma pur sempre improntato anche ad un approccio di tipo storico come è stato fatto per gli altri e come del resto richiedeva l’argomento.

I resoconti, infatti, che sono stati presi in considerazione - in particolare due testi di Capelo e Ivens (De Benguela às Terras de Jaca e De Angola à

Contra-Costa) e uno di Serpa Pinto (Como eu atravessei África), vale a dire i best sellers del “genere” per quanto concerne i portoghesi – riguardano le due

maggiori spedizioni “scientifiche” organizzate dal governo portoghese a ridosso del Congresso di Berlino, entrambe con l’obiettivo ufficiale o ufficioso di traversare l’Africa, preannunciando, quindi, o cercando di confermare la validità del mapa cor-de-rosa.

La natura di questi testi, tra i pochi ripetiamo editi per un pubblico non necessariamente interessato soltanto ai progressi della Scienza, non può non essere, innanzitutto, “politica”. Non ci è parso logico quindi seguire la scia dei pochi critici letterari che si sono occupati e si occupano di questi resoconti – uno studio che in realtà sembra interessare più gli etnografi e gli antropologi che non gli studiosi di letteratura –, perché ci sembra che si ostinino soprattutto a cercare di rilevare il tasso di “scientificità” presente in questi testi, tentando poi di coniugarlo con gli scarsi valori etici degli esploratori – giustificando, quindi, o denunciando, i loro istinti coloniali e razzisti. Questo approccio sarebbe metodologicamente accettabile se si trattasse di testi declamati in conferenze o di dissertazioni accademiche scritte per gli addetti

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ai lavori, mentre queste opere si rivolgono – tenendo sempre presente che i numeri potrebbero essere irrisori considerando l’analfabetismo che regnava all’epoca in Portogallo -, ad altri “destinatari”: ai futuri coloni o agli stranieri interessati al “diritto coloniale internazionale”, ai connazionali in procinto di emigrare o, più genericamente, anche agli appassionati di romanzi d’avventure.

Provando quindi a rovesciare l’approccio solitamente adottato abbiamo cercato di rilevare il tasso di “letterarietà” presente in questi testi, scoprendo, crediamo, che è presente in dosi più massicce di quanto a una prima lettura potrebbe apparire. La “scienza” che vi abbiamo rilevato, oltre a quella “canonica” che sarebbe banale negare, è anche e soprattutto quella applicata nella costruzione narrativa, vale a dire nell’organizzazione di questi testi come veri e propri romanzi popolari.

Non ci sentiamo di affermare che è tale tutta la “letteratura d’esplorazione” - semmai questa definizione possa avere un senso – quel che però è certo è che alcuni di questi resoconti, e tra questi quelli che hanno riscosso tra l’altro un alto gradimento di pubblico, sono stati concepiti per uno scopo politico e la forma del romanzo risulta assai più persuasiva d’un trattato scientifico o di un comunque mai “neutrale” diario di viaggio.

Abbiamo quindi provato a disarticolare l’impianto complessivo, tralasciando sicuramente alcune parti, cercando però di evidenziare oltre all’intertestualità - presente non solo in forma di “citazione” o di “plagio” ma soprattutto come “imitazione” degli espedienti tratti dall’alta come dalla bassa letteratura – anche la stessa cura editoriale che si ripete più o meno identica a se stessa. In questo senso, ci siamo soffermati volontariamente soprattutto sugli apparati, sui paratesti che accompagnano questi scritti, dando un rilievo particolare alle illustrazioni, vettore privilegiato per la costruzione di

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stereotipi razzisti. La raccolta d’immagini che infatti proponiamo nelle appendici crediamo che mostri forse più delle stesse parole come il “discorso” degli esploratori non intenda svilupparsi mantenendo una propria coerenza – i momenti contraddittori che si trovano a iosa nei testi scritti lo mostrano ulteriormente -, bensì cerchi, utilizzando qualsiasi strumento, di persuadere i lettori che quanto dichiarano corrisponde alla realtà.

L’immaginazione, al pari dell’immaginario culturale, è infatti uno dei temi sul quale abbiamo più insistito, grazie anche al supporto avuto dai testi di Johannes Fabian. I principali critici della presupposta scientificità dei resoconti sono infatti gli stessi esploratori che confessano più volte come in quelle condizioni il confine tra la realtà esperita e l’illusione, tra la realtà osservata e l’allucinazione siano veramente labili. D’altronde, lo stesso mapa

cor-de-rosa, invenzione cartografica e in un certo senso guida

politico-scientifica per questi uomini, non è altro che il frutto dell’“immaginazione” politica e delle illusioni di grandezza dei portoghesi.

Lo spazio quindi riservato all’analisi del mapa così come l’attenzione destinata alla cartografia, non scaturiscono soltanto dal fatto che i resoconti sono in qualche modo parte di quel projecto cor-de-rosa, ma anche da quell’approccio storico che ci ha permesso d’individuare come la stessa identità del Portogallo sia stata nel corso dei secoli forgiata a “suon di carte”. L’uso delle “mappe”, in modo speculare all’esploratore rappresentato …

sulla carta stampata, in determinati periodi della storia del Portogallo ha

contribuito alla ridefinizione di nuovi modelli di sovranità (dallo Stato moderno allo Stato-Nazione fino all’Estado Novo di Salazar) che reclamavano l’urgenza di riprogettare lo spazio e l’identità della Nazione. Fasi di transizione quindi che aprivano a nuovi conflitti, arbitrati il più delle volte da paradigmi “scientifici” contingenti, concessionari dell’“autorità” necessaria

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per riconfigurare il mondo, un mondo misurato appunto attraverso il parametro dell’identità, o meglio, dell’entità territoriale.

A partire dal XV secolo, infatti, il territorio portoghese si è dilatato oltremisura, raggiungendo le proporzioni macroscopiche di un Impero per analogie e longevità comparabile a quello romano. Queste rappresentazioni simulate che quasi sempre dissimulano le reali intenzioni dei loro creatori, sono allora anche un riscontro di un’“autoimagologia” incapace di trovare la sua giusta misura, a causa probabilmente di un’eccessiva predisposizione a considerare solo il macroscopico o il suo opposto. La natura ipertrofica del passato infatti ha inciso e forse continua a incidere anche oggi sull’autognosi critica portoghese, affetta da quella che il filosofo José Gil ha definito, sotto questo rispetto, la sindrome di Lilliput. (GIL, 200812, p.48).

Anche per questo la cartografia ha assunto nella modernità portoghese la funzione di paradigma epistemologico che testimoniava scientificamente lo spazio conquistato e, quando questo ha cominciato a disintegrarsi, ha continuato ad essere uno degli strumenti privilegiati per projetar7 la misura di

volta in volta desiderata, inventando simbolicamente spazi “mitici”, per situarsi nello spazio reale o, in altri termini, nella geografia politica mondiale. Una difesa estrema per preservare l’Impero, cercando di recuperarne sulla “carta” l’integrità o colonizzando idealmente il non-ancora-conquistato.

“Invenzioni” non dissimili da quelle dei primitivi o dei premoderni che sprovvisti della “scienza” cartografica si affidavano ai miti o ai disegni delle Sacre Scritture. Ma lo spazio “primitivo” come quello medievale, in quanto

7 Il verbo portoghese projetar che nella sua ambivalenza semantica esprime la duplice azione del progettare e del proiettare, si adatta alle nostre considerazioni in maniera singolare. Le mappe, infatti, analizzate non come doppi mimetici e indiscernibili dai loro referenti, bensì in qualità di simboli grafici e strumenti di comunicazione sociale, diventano il riscontro di uno schema mentale: progettare lo spazio desiderato per proiettare il proprio futuro, la cui materializzazione sulla “carta” lo rende immediatamente “realtà” presente.

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dominio esclusivo ed imparziale di un trascendente, per “ignoranza” o per “fede” doveva essere condiviso, mentre in tempi moderni e ancora nell’Ottocento, dominato dallo sguardo parziale dei politici e dei presunti “scienziati” diventa uno spazio conteso che può essere soltanto suddiviso.

A questa competizione, alla scramble for Africa, i portoghesi hanno pensato di partecipare anche con il projecto mapa cor-de-rosa, un altro esempio di quell’illusione cartografica che perdurerà almeno fino a Salazar, perché le carte sono pur sempre un buon surrogato di “grandezza” e un modo per evitare di misurarsi con la realtà.

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Parte Prima

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Capitolo Primo

Projectar il sé, disegnando e colorando l’Africa

(Cartografia e esportazione dello spazio “politico” europeo)

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.

(Jorge Luis Borges)

§ 1 - Lo spazio della polis come misura di tutte le cose o della techné di rappresentare il sé rappresentando l’altro

L’ideale, poi con aggiustamenti “storici” divenuto reale, e da quel momento indispensabile e “vitale” spazio politico occidentale, prende forma con il sorgere delle póleis. L’“inurbamento” politico-“statuale” avvenuto ai tempi della Grecia classica, dà origine infatti a una comunità accentrata e “sedentaria”, governata dall’Idea di una sovranità che garantisce la sicurezza dei cittadini entro un “territorio” ben definito.

La gestione e la proprietà della chóra, della campagna che circonda la città, al cui centro si erge l’acropoli come centro simbolico (e non più reale come nella società monarchica palaziale), inaugura l’interrelazione, non più accidentale e che permarrà nel corso dei secoli, tra potere politico e territorio. Una forma “statuale” inedita, che pur non sorgendo per partenogenesi dalla dissoluzione della civiltà minoico-micenea, di questa e delle società e culture di tipo tribale, eredita gli antecedenti culturali e sociali relativi all’organizzazione e alla forma del territorio1.

1 Sulle póleis come realtà sociali e istituzionali inedite cfr. MUSTI 1989, pp. 74-75. Per la comprensione dell’uso generico di “sovranità” e non ancora di Stato, così come per il

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I grecisti, infatti, concordando almeno in questo con la gran parte delle storie delle filosofie occidentali, indicano nel tempo della Grecia classica l’evolversi di un’idea della polis che (“superando” le concezioni delle civiltà “senza confini” antecedenti) assume la funzione di modello2 e, in qualche

modo, di spazio-tempo irreversibile, a ritroso del (o in opposizione al) quale, vi sarà da quel momento in poi soltanto un “sapere” preistorico. La soluzione di continuità tra le due “epoche” troverebbe la sua ragion d’essere nello sconvolgimento “tecnico” (la lavorazione del ferro, la coniazione della moneta, la nascita della scrittura alfabetica e la sua conseguente diffusione) che avrebbe modificato in profondità le strutture economiche, sociali e politiche del tempo. Si tratta dunque del sorgere di una nuova misura paradigmatica che alza il “grado” di civiltà, subordinando a se stessa, onniscientemente, le non-civiltà del passato e indicando fin dall’inizio i parametri per i “giudizi” futuri. Il postulato non negoziabile, quindi, di questa “superiorità” è dettato dalle conseguenze di quello sviluppo tecnico che fissa nel “primitivismo” e nella trasmissione orale dei miti la Storia della non-civiltà e del non-conoscere, di contro al farsi della Storia di una non-civiltà che, da un lato, sorge come comunità “spazialmente” sedentaria e, dall’altro, al chiuso delle mura, elabora un pensiero in continua “navigazione” verso la conoscenza, in quanto si dichiara fin dal principio amante (philo) esclusivo

del sapere (sophia).3

riferimento all’eredità di un sistema dell’organizzazione tribale che non va confuso con l’idea di tribù (che «precede qualunque forma di organizzazione cittadina»), rinviamo alle pagine dello stesso autore (Id. 1989, pp. 92-121).

2 Per limitarci a una decina di secoli e affidandoci alla prima pagina di un manuale considerato da sempre un “classico” della storia del pensiero politico: «La vita politica dei greci e, potremmo aggiungere, dell’antichità classica, è interamente condizionata dalla città, la πόλις, che nell’universo politico dell’Ellade ha un ruolo identico a quello dello Stato moderno, pur da questo differendo profondamente. […] I greci la porteranno dovunque sarà loro possibile e gli stessi romani vi si rifaranno largamente, anche se finiranno per cancellare tutto quanto essa aveva di esclusivo. (TOUCHARD 1986 p. 1)[sottolineato nostro]

3 Già nel V secolo a.C., registrando il rapido sviluppo tecnico-scientifico che aveva prodotto stabilità economica e politica nelle città, la cultura greca (in nuce nei versi di Eschilo o di

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È in questa fase di transizione, infatti, che per convenzione e disponibilità delle fonti non più limitate a “frammenti” di papiro, che viene riconosciuta la

nascita di un vero e proprio pensiero filosofico e scientifico. Per la ricostruzione di questo difficile parto ci si affiderà per lo più alla “storiografia” implicita nel corpus delle opere di Platone, padre tra l’altro di una nuova concezione del logos, che dota questa nuova conoscenza anche della “differenza” da sé, distinguendo dialetticamente il falso dal vero, o se vogliamo il male dal Bene, la non-Idea dall’Idea. Curiosamente, però, l’opera

di Platone è in buona parte proprio la traslazione e l’irreggimentazione nella “scrittura” del filosofare di un uomo che pensava l’“oralità”, il dialogo, come unica modalità per conoscere se stesso (e l’Altro?). Un dialogo, però, finalizzato alla costruzione della “propria” coscienza e che viene esperito solo all’interno della polis (Io amo imparare, ma la campagna e gli alberi nulla mi insegnano; imparo invece dagli uomini della città” – PLATONE, Fedro, 230d) ricavando maieuticamente dall’Altro (“oggetto” inconsapevole di possedere in sé il sapere) e non dalla “meraviglia” della natura quanto necessario per la propria autocoscienza4.

Sofocle ma poi in modo paradigmatico in filosofi come Protagora o Democratico) è foriera di una vera e propria ideologia del “progresso”. La “democratica” Atene assurgerà in questi pensatori a modello per l’intera umanità, rappresentando un sapere ormai in grado di dominare il destino. (Cfr. VEGETTI 1981 pp. 21ss.)

4 Queste considerazioni (che proseguiranno nel corso di questo primo capitolo) non hanno per scopo la ricostruzione della nascita del pensiero occidentale, bensì di scoprire fin dall’inizio le “carte” che abbiamo sottratto dal “mazzo” delle Storie delle Idee e che useremo (probabilmente deformandole) sul “tavolo da gioco” di questa ricerca. La scelta di cominciare dalla “terra di mezzo” che separa la “preistoria” dalla nascita e dal costituirsi della Storia del pensiero occidentale diventerà forse più comprensibile nel corso del capitolo o dei capitoli successivi, quando tenteremo di mostrare come i termini delle dicotomie che relegano l’Africa e l’africano dal lato della “non civiltà” (primitivismo, pigrizia, “acefalia” statale o “oralità”) siano applicabili anche alla Storia della “civiltà” occidentale.

Si tratta quindi di un tentativo operato da “nani” quali ci sentiamo di essere, che si poggerà presuntuosamente sulle spalle di “giganti” che per ben altre ragioni hanno ripercorso la Storia del pensiero occidentale, individuando nella “tecnica” una (se non la) causa della malattia “congenita” che porterà o ha già portato l’Occidente al suo “tramonto”. Parliamo quindi soprattutto di pensatori come Heidegger o Adorno o per altri versi Foucault o, più onestamente di interpretazioni del loro pensiero, già proposte da Umberto Galimberti,

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Si tratta del passaggio dalla contemplazione alla trasformazione del mondo, della natura delle cose e dell’uomo stesso. Non provando più meraviglia di fronte alla natura, il nuovo “soggetto”, da spettatore e servo del Signore che l’ha creata, oppone ora la sua idea, la sua ragione, pensando di dominarli entrambi. Un’idea, in qualche modo, presente anche in Marx e nel positivismo, ma che trova le sue premesse fin dentro le origini del pensiero occidentale (cfr. GALIMBERTI 2005, pp. 387-8).

Il sapere dell’uomo e la “tecnica” con la quale lo ha acquisito e continuerà ad acquisirlo diventano i “soggetti” di questa trasformazione. Socrate, quindi, da buon ostetrico, estrae il sapere l’ha dove c’è (non fuori dell’uomo, né fuori della città occidentale) e, potremmo dire, opera con il forcipe del dialogo per

rappresentare a se stesso (per riconoscersi nell’Altro) il suo sapere. Lo fa rappresentando il non-sapere dell’Altro, per poi condurlo nella sfida dialettica verso il (suo) sapere. Si potrebbe obiettare che il sapere è anche nell’Altro ma allo stato incosciente e che il “metodo” una volta usato dall’Altro porterebbe allo stesso risultato raggiunto da Socrate, ma anche concedendolo, il problema dell’epoca (che mutando si riproporrà sempre in relazione alla “conoscenza” scientifica) è che quella “tecnica” ostetrico-dialettica non appartiene all’Altro, è invenzione del Medesimo e può appartenere solo (potenzialmente e poi effettivamente quando la pratica) a un membro della polis. L’arricchimento che Socrate ricava nel dialogo è la conferma del suo sapere, l’Altro ne è solo

Costanzo Preve, Valentin Y, Mudimbe o Dipesh Chakrabarty, per citare solo alcuni nomi. Civettando con i loro scritti rischieremo quindi di spostare cronologicamente, ma non crediamo arbitrariamente, le loro analisi, allo scopo però di “seminare” indicazioni che serviranno poi per raccogliere i frutti necessari nel corso dell’analisi dei resoconti di viaggio degli esploratori portoghesi di fine Ottocento. Riteniamo dunque che questo lungo periplo sia necessario, per costruire la “mappa” che ci guiderà per la critica “letteraria” di quei testi. Tenendo conto, inoltre, che la letteratura d’esplorazione portoghese di fine Ottocento è legata intimamente al progetto politico del mapa cor-de-rosa non dovrebbe risultare strano l’interesse che fin da questo capitolo mostriamo nei confronti dello “spazio” statuale che da sempre l’Occidente ha immaginato e/o realizzato come “territorio” privilegiato della sovranità. Al “crocevia”, quindi, di questi molteplici sentieri – è superfluo dirlo – si muovono questi primi passi che stiamo compiendo.

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un mezzo, perché il fine è segnato a priori e risiede nel bene e nella giustizia della polis. (Cfr. anche BIRAL 1998, p IX) Una giustizia che al momento

ancora non persegue il Sommo Bene socratico, infatti lo condannerà con l’accusa di essersi rifiutato di riconoscere gli dei cari allo “Stato” e di aver introdotto nuove divinità (le Leggi “politiche” umane), oltre ad aver corrotto con queste idee qualche giovane. Si potrebbe pensare che i “giudici” di allora anticiparono gli Hegel e gli Heidegger che nacquero almeno dopo Cristo, comprendendo che quel “perdigiorno” che per professione “dialogava”, voleva sostituire l’uomo agli dei della città, o nei termini che abbiamo usato sopra, addirittura dominarli.

Non è possibile ora ricostruire la complessa vicenda del 399 a. C., e non

perché manchino le fonti, ma proprio perché in realtà ve ne sono troppe o, almeno due di una certa importanza (quella di Platone che è diventata Storia e quella di Senofonte, anche lui discepolo di Socrate e autore di scritti “socratici”). Luciano Canfora l’ha fatto con dovizia di materiale titolando un capitolo della sua Storia della letteratura greca con l’eloquente titolo di “Platone e la sua cerchia” e dedicando un intero paragrafo (“La testimonianza autobiografica: i Trenta, il processo di Socrate”) alla vicenda. Il paragrafo precedente (“La comunicazione platonica: dialoghi e lettere”) è altamente propedeutico per comprendere come l’analisi dell’opera di Platone vada considerata a partire da una “duplicità di piani della comunicazione”, ossia, mentre nei dialoghi, per consuetudine, non “utilizzava” interlocutori viventi, nelle epistole questa finzione veniva abbandonata, e allora l’autore entrava nel merito dei problemi che la società viveva in quel momento esprimendo con nettezza il suo pensiero. Il confronto che lo storico presenta tra la “Settima lettera” (in qualche modo il testamento di Platone) e i dialoghi “socratici” mette in evidenza, sia il cambiamento “politico” che si produce nel filosofo

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subito dopo la condanna di Socrate, sia le discrepanze tra il suo racconto e quello di Senofonte. La narrazione storica di quest’ultimo riguardo al

contrasto (drammatizzato da Platone) tra Socrate e i Trenta (e Platone confessa nella lettera il rapporto di vicinanza che aveva con questi) è più ricca di dettagli e, mentre ci si aspetterebbe, come rileva Canfora, che per la

condanna subita dal suo amico Socrate, Platone inveisca contro i nuovi oligarchi, ci troviamo invece di fronte a un giudizio assai equilibrato. Piuttosto che ricavarne alimento per mettere in discussione la “democrazia”, Platone avvia una riflessione sul ceto politico che si sta formando in quel periodo, politici “di mestiere” che studiano per dirigere lo Stato. In questo senso, converge quindi con il pensiero di Socrate, sulla necessità ben espressa

nella sua Repubblica che a governare debbano essere i filosofi, o che i governanti, per quanto sia improbabile, divengano filosofi. Una variante antidemocratica più elaborata e “aristocratica” rispetto a quella “monarchica” di Senofonte, ma entrambi a favore di uomini di Stato “perfetti”. (cfr. CANFORA 1989, pp. 405 ss. e TOUCHARD 1986, pp. 16 ss.)

Questa lunga ricostruzione dei precisi rilievi di Canfora non crediamo sia superflua, né marginale rispetto alla complessità filosofica dell’opera del padre della filosofia occidentale, soprattutto considerando che, in qualche modo, egli ha rappresentato la sua Idea rappresentando i dialoghi di Socrate. È, infatti, il parricida dell’«essere» e di Parmenide che rappresenta Socrate come un pensatore asistematico, maestro solo di se stesso, finalizzando pro

domo sua quell’«interpretazione» per decostruire la retorica sofistica che

poggia le fondamenta sugli affetti e non su una dialettica scientifica. Non si tratta quindi di accusare Platone anche di omicidi che non ha commesso, ma che si sia servito dell’amico per avvalorare la sua “scienza” dell’etica e della politica, questo è molto probabile.

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Infatti, nell’aspirazione a divenir “soggetti” (per non limitarsi solo a

contemplare il mondo) è necessario acquisire un sapere filosofico che

consenta di trasformare la comunità reale in una comunità ideale ove finalmente regnerà il Bene. I filosofi di Platone, avendo in dotazione una dialettica scientifica dispongono di quella potenza di far essere e non essere tutte le cose o, in termini heideggeriani, di disvelare la “verità”. (cfr. GALIMBERTI 2004, pp. 347 ss.)

La verità è quindi quella della “scienza” dialettica, della polis e dello Stato, di contro alla non-verità e all’ “impotenza” del pensiero “primitivo”, “inurbano” e “astatuale”. Gli echi di questa verità risuoneranno ancora per secoli e saranno uditi persino dagli esploratori di fine Ottocento, anzi nel secolo del “positivismo” aumenteranno d’intensità. Se all’origine, infatti, servivano i filosofi perché conoscevano la “scienza” del governare, più di duemila anni dopo, senza dover decostruire l’«ordine della res publica» di Comte, è facile vedere che a governare dovrebbe essere la “scienza” stessa e gli scienziati che meglio di altri possono acquisire il sapere “positivo”. Sorretti da questo, al pari degli etnografi e di altri pensatori, anche gli

esploratori rappresenteranno l’africano come un bambino o un umano in embrione, fermo a una “barbarie” prelogica che ne spiegherebbe l’incapacità organizzativa, la pigrizia mentale, la disaffezione al lavoro (Cfr. MUDIMBE

2007, pp. 102 ss.)

Il termine “primitivo” muta in “non-positivo” ma non cessa di produrre nella coscienza occidentale il sortilegio che la fa sentire “superiore”. Ancora non è tempo di “decolonizzare” la rappresentazione dell’Altro, anzi lo sviluppo industriale e quello della biologia, aiutano a pensarsi ancora come la “specie” più evoluta5. Inoltre, sugli esploratori dell’Ottocento, oltre

5 E pensare che l’etimologia del termine rinviando al latino primitivus, sta a indicare «primo» e che il primo uomo non provenga dall’Europa è un fatto acclarato. Si potrebbe dire che il

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all’ideologia positivista pesa il fatto di esser nati e praticare la loro scienza in un contesto di rapporti economici e sociali da tempo all’insegna del modo di produzione capitalistico e tutte le caratteristiche dell’africano vengono quindi rappresentate (con segno antitetico) in rapporto a quello stadio “ultimo”, espressione dell’illimitato progresso che con certezza si sarebbe espanso in uno spazio “globale” e in un tempo “illimitato”.

§ 2 - Esportare lo Stato(polis)-Nazione per mettere in “ordine” e dar “progresso” al territorio africano

Un modo di produzione che a fine Ottocento può avvalersi anche di una nuova forma di “spazio” politico (lo Stato-Nazione), rivisitazione della

vecchia idea di sovranità che si rende necessaria per ridefinire e riconoscere le divisioni tra i diversi Stati, che in questa fase di sviluppo – dell’idea del Sé (del “progresso” di sé) - si riprogettano come Imperi (non molto diversi dai greci e dai romani antichi).

Gli esploratori, e quelli portoghesi con il proprio disegno di colorare di rosa una parte dell’Africa australe (il progetto mapa cor-de-rosa), partecipano con le loro spedizioni alla colonizzazione dei territori oltremare, a quel

“primo” era l’“essere” poi, con Platone che per essere intese la “scienza”, il “primitivo» è diventato “non essere”. E in qualche modo in quello status permane, se guardiamo come il termine nella sua estensione venga ancora riportato in importanti dizionari: «Arretrato, primordiale: popolo p., per influsso delle teorie evoluzionistiche del secolo scorso (con una connotazione più o meno limitativa), ogni popolo o gruppo etnico extraeuropeo tuttora esistente che non si è ancora, o si è solo parzialmente, adeguato alle forme di civiltà e di vita delle più progredite nazioni moderne; il termine è oggi avvertito come discriminatorio, in considerazione della complessa organizzazione sociale e culturale di questi popoli (in quanto sentito come sinon. di selvaggio e sim.), e la sua definizione attuale fa riferimento a popoli che non hanno sviluppato ancora le tecnologie proprie del mondo moderno: le tribù p.

dell’Oceania; i costumi p. di alcune popolazioni africane.) (Dal dizionario Il Vocabolario Treccani, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Edizione 2005) [sottolineato nostro]

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processo che siamo abituati a chiamare espansione imperialistica (la conquista di nuovi spazi). In realtà (ed è quello che qui intendiamo evidenziare) si tratta anche e forse soprattutto, dell’esportazione dello spazio, dell’esportazione dell’Idea dello “spazio” statuale occidentale, con le conseguenti concezioni della “sovranità”, della “proprietà” e del lavoratore libero, libero però come merce forza-lavoro del Capitale6

.

Avremo modo di approfondire come la “libertà” del lavoro sotto il Capitale si coniughi più con l’“illuminismo” e i diritti d’“eguaglianza” della Rivoluzione Francese che non con la “pigrizia” e la “libertà” dal lavoro con cui si rappresentano gli africani. Di questo, tra l’altro, sembrano esserne ben consapevoli Capelo e Ivens che, nella prefazione a De Angola à

Contra-Costa, non potevano essere più sinceri:

Hoje já nínguem vê na África senão um dos vastos quarteirões do mundo, tão proprio à vida como qualquer dos outros conhecidos, amplo campo de afan commercial, cuja primeira base de segura civilisação cumpre ou antes é dever do Europeu explorar [...] de esquecido e occulto que foi, tornar-se-ha dentro em pouco opulento [...] trasformando-se n’um grande centro de consumo para todo o excesso da nossa producção.

Longe vae a epocha dos terrores que esse Sahara originou, como barreira intrasponível á curiosidade, em que a Abyssínia era por assim dizer um sonho, Timbuctu um mystério, as nascentes do Nilo um pesadelo.

Devagar se proseguiu, é verdade; não foi porém nossa a culpa, ou porque o homem, no irresistível ímpeto de tudo subordinar no planeta terrestre ao

6 Un utile riscontro immediato lo si può trovare in un pamphlet datato 1906 e redatto da Almada de Negreiros. Si tratta di una fonte documentaria ricca d’informazioni in relazione all’argomento. Il cahier de doleances prende spunto dall’Exposition coloniale de Paris, tra i tanti paragrafi infatti non manca uno studio comparativo tra le colonie francesi e quelle portoghesi. Gran parte della ricerca mira poi esplicitamente a porre in rilievo l’“umanitarismo” dei portoghesi che secondo l’autore avrebbero per primi abolito la schiavitù. A conferma di questo indica una serie di leggi portoghesi e dichiara che furono talmente apprezzate dalle altre potenze europee che non fecero che imitarle. Per dimostrare la veridicità delle sue asserzioni e premettendo che vi furono pressioni di governi amici in tal senso, elenca gli atti compiuti dal governo portoghese: «a souscrit a l’engagement ou contrat de travailleurs libres, provenant du Mozambique, pour les travaux du canal de Panama (Arrêté royal du 29 Décembre 1887); à l’émigration de travailleurs nègres de Quelimane, (Mozambique), à destination de Mayotte, Nossi-Bé et la Réunion, (1889); et au recrutement de 500 indigènes de l’Angola et de 1000 du Mozambique, pour l’Etat Indépendent du Congo (1891). Il titolo del paragrafo ove riporta queste informazioni è “Le travail salarié” (Cfr. ALMADA DE NEGREIROS 1906, in particolare pp. 70-1) [sottolineato nostro]

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domínio do seu querer, esquecesse esse immenso continente que proximo lhe ficava; mas sim proveiu do subito apparecimento do outro campo de exploração – a America, cheio de riquezas e em superiores termos de utilisar-se, mais consentanea a ser tratada pelos meios de que dispúnhamos, a navegação, ligando-se á Europa finalmente pela melhor das estradas – o mar!

A America deve contar-se como um dos factores que muito influíram para a demora na civilisação do continente negro, por absorver ahí durante seculos todos os esforços da Europa, e, estendendo-se de um ao outro polo, cingir nos dois hemispherios zonas varíaveis, entre os quaes se contavam algumas de tropical caracter, onde só o preto podia trabalhar com o preciso animo.

E o branco, procurando introduzil-o ahí, teve de o buscar e perseguir em Africa, implantando com egoísmo n’aquella terra infeliz o maior dos flagellos, e pondo-lhe o mais serio obstaculo ao humano progresso – a escravatura.

Agora, que da America já não trata, arrependido penitenceia-se contricto, posto que interessado, e d’esse interesse despontou a aurora da libertade em Africa e vae breve raiar com todo o esplondor o sol da sua felicidade.

Continue pois a boa vontade no trabalho, saiba o capital aproveitar-se do muito já feito, eis os nossos votos, convencidos de que mais duas duzias de annos bastarão para transformar radicalmente as cousas no extenso continente. Concluídas estas considerações, benevolo leitor, resta-nos a tarefa pouco facil, embora menos escabrosa que uma travessia, de pegar-vos pela mão, e conduzir-vos passo a passo n’essa tortuosa vereda por nós trilhada, desde Angola até Moçambique .... (CAPELLO, IVENS 1886, I, pp. XXII-XXIV) [sottolineato nostro]

Si tratta di circa un quarto dell’intera prefazione, in qualche modo il biglietto da visita che gli esploratori presentano al lettore e, in ossequio alla “tradizione” e a conferma dell’immortalità del nostrano motto “gattopardesco”, sembrano ricalcare - per quanto concerne i veri “destinatari” del testo - le formule espresse da Pero Vaz de Caminha nella sua Carta do

Achamento. In effetti in entrambi i casi si rivolgono a chi dispone della

“sovranità” e del Capitale, fattori indispensabili ai “fini” della loro attività “scientifico-esplorativa”.

Ma avremo modo di commentare più in dettaglio, nel corso di questo scritto, l’autonomia dal “potere” di questi due esploratori, al momento queste pagine servono solo per confermare che la “narrazione” dell’Altro si

ripresenta ancora uguale a se stessa, non muta, paradossalmente, neanche a distanza di cento anni dall’ormai noto principio d’“eguaglianza” decretato dalla Rivoluzione francese. O meglio, da questa viene mutuato solo il

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concetto di “libertà”, per opportune convenienze e perché più consonante con i tempi.

Il contendere effettivo, e quindi da disvelare, è infatti la questione della “schiavitù”. I portoghesi erano accusati dagli inglesi di continuarla a praticare e quindi bisognava respingere al mittente la calunnia, ma la loro difesa può trarre in inganno perché chiama in causa l’umano, universale, progresso.

La prima reazione, infatti, è di pensare, proprio sulla scorta degli insegnamenti e della partecipazione alle idee di “eguaglianza”, che gli esploratori vogliano giustamente negare questa “medievale” pratica, mentre in realtà, facendo uso anche del glossario “rivoluzionario” (l’aurora da libertade … il sol da felicidade), sono interessati a un lavoratore “libero”, ma libero di essere “merce” come indicano le necessità dettate dalla Rivoluzione industriale. È sufficiente continuare a leggere il testo per lasciarlo dire a loro stessi senza ulteriori commenti:

[...] - … um preto industrioso [...] será mais capaz de exercer uma maior e melhor influencia sobre estes povos [il riferimento è ai “feroci” popoli del fiume Congo], do que nunca será capaz homem branco” [qui chi parla è il console americano Tisdel e gli autori retoricamente pensano, ironizzando, a cosa direbbero alcuni cavalieri interessati alla questione]

- É precisamente pela rasão de serem selvagens e bravos que urge primeiro que tudo pensar em submettel-os [e gli esploratori rispondono agli immaginari interlocutori]

Muito verdade, sem duvida; nós porém que escrevemos n’este momento, não só no interesse do indigena, mas muito particularmente no interesse dos capitaes europeus, perguntaremos áquelles que o desembolsam:

- Tendo forçosamente de ver-se na obra da Internacional duas phases differentes de trabalho, e que devem fatalmente preceder-se uma á outra: o de submetter os habitadores do Congo e civilisal-os – a que andam ligados vastos problemas sobre a viação – e o de explorar depois o commercio; estaes dispostos a arriscar os vossos capitaes na primeira para, depois de exhaustos, procederdes pacificamente á segunda?” (CAPELLO-IVENS 1886, I, pp. 31-2) [sottolineato nostro]

In sostanza di fronte all’importanza della realtà del “commercio” sono loro stessi a decostruire la “narrazione” – che nel testo è comunque presente – a

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