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L’In Parmenidem di Marsilio Ficino nel dibattito tra platonismo e aristotelismo

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL PATRIMONIO CULTURALE DOTTORATO IN FILOSOFIA SCIENZE E CULTURA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA MEDIEVALE E UMANISTICA

XIII Ciclo

Coordinatore: Chiar.mo prof. Giulio d’Onofrio

L’In Parmenidem di Marsilio Ficino nel dibattito tra

platonismo e aristotelismo

Tesi di dottorato di:

Giovanni Alberti

Tutor:

Chiar.mo prof. Maurizio Cambi

Co-Tutor:

Chiar.mo prof. Francesco Tomatis

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2

INTRODUZIONE

Ficino e il Parmenide. Dal Plato maledictus al divinus Plato

Terzo in ordine di composizione, ma primo per dignità e preminenza, il commento ficiniano al Parmenide di Platone, “the longest and last of Ficino’s Plato’s commentaries”1, si situa all’inizio (e, allo stesso tempo, alla fine) di

quella ascensione all’Uno che per il Ficino rappresenta la ricerca filosofica. Alla fine, se consideriamo che il filosofo si affaticava da almeno trent’anni sui testi platonici (il Commento risale al 1492, mentre Ficino, secondo la cronologia stabilita dal Kristeller2, aveva ricevuto già nel 1462 il corpus platonico da parte di Cosimo); all’inizio, tuttavia, dal momento che il

Parmenide rappresenta, per la grande tradizione neoplatonica in cui il Ficino

consapevolmente si immette, un vero e proprio ‘dialogo sui massimi principi’. Composto, secondo le argomentazioni esposte in un articolo di Michael J. B. Allen3, anche in reazione al pichiano De ente et uno4, il Commento al “Parmenide” si propone di mostrare, entro la cornice teologica offerta dal dialogo platonico, le eminenti verità relative alla natura dell’Uno, che per il Ficino è, neoplatonicamente, principio sovraessenziale.

1

Michael J. B. Allen, Plato’s Third Eye. Studies in Marsilio Ficino’s Methaphysics and its

Sources, in «The Journal of Medieval e Renaissance Studies», 12, (1982), pp. 19-44, p. 22.

2 Cfr. Supplementum ficinianum. Marsilii Ficini florentini philosophi platonici Opuscula

inedita et dispersa primum collegit et ex fontibus plerumque manuscriptis edidit auspiciis regiae scholae normalis superioris pisanae Paulus Oscarius Kristeller, I, Olschki, Firenze

MCMXXXVII, pp. CXLVII-CLVII.

3 Michael J. B. Allen, The Second Ficino-Pico Controversy: Parmenidean Poetry, Eristic, and

the One, in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, a cura di G. C.

Garfagnini, Firenze, Olschki 1986, I-II, II, pp. 417-455.

4 Giovanni Pico della Mirandola, De ente et uno, trad. it. Dell’Ente e dell’Uno, a cura di

Raphael Ebgi, con la collaborazione di Franco Bacchelli, Prefazione di Marco Bertozzi, Postfazione di Massimo Cacciari, Bompiani, Milano 2010.

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1. Tra platonici e aristotelici

Ora, l’idea di una contrapposizione esistente tra il punto di vista platonico e quello aristotelico il Ficino sembra averla maturata solo in età matura5. Come di norma, difatti, il filosofo si era formato su testi peripatetici e in generale aristotelizzanti, alla scuola del maestro Niccolò Tignosi da Foligno6. Di questa fase rimane ad esempio traccia nei suoi primissimi scritti7, dove, come nel caso delle glosse ai Commentaria in Aristotelis Ethicorum libros, Marsilio amplia e sviluppa le prospettive del maestro8. Secondo il Garin, l’abbandono di una posizione aristotelica va inquadrato, sostanzialmente, come un tentativo di superare quella mera prospettiva naturale e terrestre cui Aristotele rimarrebbe inevitabilmente fermo9. Una nuova epoca della filosofia era incominciata, secondo il Ficino, con le conferenze di Giorgio Gemisto Pletone sulle

5 “Ficino had also argued several decades earlier that there was an agreement between Plato

and Aristotle. […] Later on, however, after reading the Greek philosophers in the original, Ficino estabilishes a distinction between the impious Aristotelians of his time and the pious, i.e. Neoplatonic, interpreters of Aristotle. In this way, he follows the Neoplatonic tradition, according to wich Aristotle is inferior to Plato” (M. Vanhaelen, The Pico-Ficino controversy:

new evidence in Ficino’s commentary on Plato’s Parmenides, in «Rinascimento», II s., XLIX

(2009), pp. 301-339, p. 307).

6 Cfr. A. Rotondò, Niccolò Tignosi da Foligno. Polemiche aristoteliche di un maestro del

Ficino, in «Rinascimento», II s., IX (1958), n. 2, pp. 217-253. I Commentaria risalgono al

1461; ad avviso del Garin, inoltre, il Ficino avrebbe ugualmente postillato il commento di Donato Acciaiuoli all’Etica aristotelica (in La cultura del Rinascimento italiano, Bompiani, Milano 1994, pp. 78-79). A proposito delle influenze scolastiche: E. Gilson, Marsilio Ficino et

le «Contra Gentiles», in «Archives d’historie doctrinale et littéraire du Moyen Age», XXXII

(1957), pp. 101-113; P. O. Kristeller, Il Tomismo e il pensiero italiano del Rinascimento, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXVI (1974), pp. 841-896; infine A. B. Collins, The

secular is sacred. Platonism and Thomism in Ficino’s Platonic Theology, The Hague 1974.

7 Pubblicati poi dal Kristeller in «Traditio», II, 1944, pp. 274-316 (si tratta di una Summa

philosophiae). Cfr. pure P. O. Kristeller, The scolastic background of Marsilio Ficino, sempre

in «Traditio», II (1944), pp. 257-273.

8 Cfr. A. Rotondò, Niccolò Tignosi da Foligno…, cit., p. 228.

9 “Per Ficino la prospettiva di Aristotele e quella di Epicuro si corrispondono: entrambi sono

sostanzialmente dei fisici e non oltrepassano la natura; ma la loro fedeltà al limite è condanna dell’uomo a una situazione senza significato. Aristotele – sia quello di Alessandro di Afrodisia o quello di Averroè – annienta l’uomo come individua persona. […] La dichiarazione costante di Ficino, che Aristotele è valido esclusivamente in sede fisica, mentre quello che conta è oltre la fisica, oltre il mondo, oltre i segni, al di là: tutto questo ha radice nel suo tentativo di risolvere l’ansia umana radicalmente, ossia dando un valore assolutamente positivo alla nostra invocazione disperata, intendendola come esigenza assoluta nata da un assoluto bene reale, e rivolta a un assoluto bene reale. […] In questo rifiuto del fisico Aristotele e del mondano Epicuro va collocato l’avvio a Ermete, a Platone, a Plotino, a Proclo, allo Pseudo-Dionigi: in questo passaggio dalla natura ad altro; in questo rifiuto della voluttà mondana, esile e triste – come la trovava Seneca – sempre inferiore al bisogno, per conquistare il gaudio che avanza i desideri” (E. Garin, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, in Medioevo e rinascimento. Studi

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differenze relative a Platone e Aristotele. “Magnus Cosmus Senatus consulto patriae pater, quo tempore Concilium in Graecos atque Latinos sub Eugenio pontifice Florentiae tractabatur, philosophum graecum nomine Gemistium, cognomine Pletonem, quasi Platonem alterum de mysteriis Platonicis disputantem frequenter audiunt, e cuius ore serventi sic afflatus est protinus, sic animatus, ut inde Academiam quadam alta mente conceperit, hanc oportuno primum tempore pariturus. Deinde dum conceptum tantum magnus ille Medices quodammodo parturiret, me electissimi medici sui Ficini filium, adhuc puerum ad operi destinavit: ad hoc ipsum dedicavit indies. Operam praeterea dedit, ut omnes non solum Platonis sed etiam Plotini libros graecos haberem”10. Da quell’episodio avrebbero tratto origine, a sentire il filosofo, gli

interessi platonici di Cosimo de’ Medici, col conseguente incarico, affidatogli da Cosimo in persona, di dedicarsi ad un’opera di traduzione non solum

Platonis sed etiam Plotini, come il Ficino spiega nel proemio ai suoi commenti

alle Enneadi. Definita dal Vasoli ‘personale e interessata’11, tale ricostruzione testimonia tuttavia della grande influenza esercitata dal dotto bizantino, il quale verosimilmente nel 1440 terminava il suo scritto Sulle differenze tra Platone e

Aristotele, ideale continuazione delle conversazioni avute dal Pletone cogli

amici fiorentini.

Ora, più che una vera e propria comparazione tra i due filosofi, lo scritto di Gemisto finisce col risolversi in una netta presa di posizione a favore di Platone, testimoniata sin dall’incipit dello scritto: “I nostri antenati, sia Greci che Romani, stimavano molto di più Platone che Aristotele. La maggior parte dei nostri contemporanei, invece, specialmente gli occidentali, immaginandosi di essere divenuti più dotti dei loro predecessori, ammirano Aristotele più di Platone, persuasi dall’affermazione di un arabo, Averroè, secondo il quale Aristotele solo è il punto più alto e perfetto raggiunto dalla natura rispetto alla

10 Opera Omnia, II, p. 1537. Su tale episodio si veda C. Vasoli, Il concilio di Ferrara-Firenze

e il confronto teologico tra Latini e Greci, in Storia della Teologia, III, Età della Rinascita, a

cura di G. d’Onofrio, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, pp. 201-218.

11 Id., I maestri bizantini in Italia e la disputa su Platone e Aristotele (Ivi, pp. 224-230, alla p.

(5)

5 filosofia”12

. Se la critica del Pletone assume una dimensione anzitutto storiografica (l’idea di una superiorità di Aristotele su Platone sarebbe viziata da una esegesi arabizzante), non mancano però, entro il suo scritto, riferimenti puntuali alle due dottrine. In primo luogo, dunque, la critica assume carattere teologico, allorché il Pletone rilevi come Dio, ad avviso di Aristotele, non sia affatto il creatore dell’universo: “Prima di tutto Platone considera Dio, ‘il Re dell’Universo’, come artefice della sostanza intellegibile e completamente separata e, da questa, del nostro intero universo; Aristotele, invece, non dice in alcuna parte che Dio è l’artefice di qualunque cosa sia, bensì soltanto che è motore del nostro universo”13. Proprio in questo mancato riconoscimento della assoluta signoria dell’Uno sta, ad avviso del Pletone, il principale errore di Aristotele. La sua prospettiva appare cioè come sostanzialmente finita (l’Aristotele ‘fisico’ di cui parla il Garin): “Come, infatti, Aristotele non potrebbe essere ignorante su dei punti essenziali, giacché, su numerose questioni qui discusse, figura principalmente questo punto capitale, ossia che non ammette la creazione delle sostanze eterne né il rapporto di ogni cosa all’Uno fonte del loro essere? Questo non è il caso di Platone, né dei platonici, che collocando al di sopra degli esseri Dio, come “Re dell’universo”, pensano che egli è il creatore delle creature ed il demiurgo dei demiurghi perché non v’è nulla che non rapportino a lui”14. Da dove l’essere della realtà? Quale ‘essere’

mette effettivamente a tema Aristotele? Ecco che dal piano teologico la critica si sposta su quello ontologico. “Se tutti gli esseri derivano da un unico principio, ed assolutamente uno, quantunque siano numerosi ed innumerevoli, è però impossibile che essi non possiedano tutti un elemento uno e comune tra di loro. Che altro potrebbe essere, dunque, se non l’Essere, ed un Essere non omonimo? Perché se l’essere fosse omonimo, non potrebbe più essere uno”15

.

12

Giorgio Gemisto Pletone, Delle differenze fra Platone e Aristotele, a cura di M. Neri, Raffaelli, Rimini 2001, p. 39. Cfr., sul Pletone, F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris 1956 ; E. Garin, Studi sul platonismo medioevale, Firenze 1958, pp. 155-190; infine C. M. Woodhouse, George Gemistos Plethon. The last of Hellenes, Oxford 1969.

13 Giorgio Gemisto Pletone, Delle differenze fra Platone e Aristotele, cit., p. 40. 14 Ivi, p. 90.

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6

Spiega Vasoli: “Convinto che soltanto la limpida conoscenza dell’unica verità potesse trarre gli uomini dalla confusa e oscura incertezza delle opinioni «dogmatiche», sempre contrastanti e nemiche, Gemisto si richiamava agli antichi sapienti-legislatori […], ai primi «sapienti» ed ai filosofi, loro diretti successori e degni eredi. […] Ma il frutto della sua meditazione sugli oracula

chaldaica e le dottrine dei prisci si era rivelato più tardi, quando, in età già

avanzata, aveva raccolto intorno a sé una «fratria» di dotti, uniti dal comune intento di ricostruire sulle rovine del vecchio impero un’ideale società di misura platonica”16

. Proprio su ciò si appunteranno le critiche, diciamo pure le invettive, che al Pletone pioveranno addosso da parte di Giorgio di Trebisonda. Giorgio, detto Trapezunzio17, non era affatto un aristotelico puro, tale cioè da attaccare ‘per partito preso’ le posizioni assunte dal Pletone in fatto di teologia. Tuttavia, intravisti forse i rischi di corruzione dottrinale dovuti alla contaminazione religiosa e sapienziale, preoccupato dal sorgere di nuove eresie, ecco che lanciava i suoi strali contro quel Plato maledictus la cui figura stava al centro della operazione tentata dal Pletone, nella quale Giorgio “additerà addirittura, a un certo momento, l’insidiosa avanzata teologica del mondo musulmano contro l’eredità cristiana”18

. Già traduttore delle Leggi platoniche, il Trapezunzio si era tuttavia segnalato allorché nella sua

16 C. Vasoli, I maestri bizantini in Italia e la disputa su Platone e Aristotele, cit., p. 225. 17

Su cui si veda J. Monfasani, Georg of Trebizond. A Biography and a Study of his Rethoric

and Logic, Leida 1976. James Hankins considera lo scritto di Giorgio un vero e proprio

compendio dell’anti-platonismo rinascimentale, accanto al quale si situano gli interventi del cardinal Giovanni Dominici, di papa Paolo II, e, naturalmente, quelli di Girolamo Savonarola. Lo studioso riconduce a tre ordini di motivi questa ostilità a Platone: “The first was the charge that Plato’s taching was unsystematic and therefore pedagogically useless. Critics complained that his doctrine was too obscure, being hidden under the personae of interlocutors who contradicted each other. […] As a result, it was difficult for teachers to lecture on Plato’s writings in the painstaking, line-by-line fashion favored in Renaissance schools and universities, and it was difficult for students to memorize and retain his doctrine. The second and more serious set of charges focused on the moral deficiencies of the dialogues. […] Plato’s critics declared that any philosopher who promoted such doctrines should not be read in schools. […] This leads to the third group of charges against Plato: that his theological views were incompatible with Christian truth. […] though there were similar theological problems with the reception of Aristotle, Plato’s critics pointed out that, in the case of Aristotle, it was possible to separate the unorthodox parts from the useful parts” (J. Hankins, Renaissance

Platonism, in Id., Humanism and Platonism in the Italian renaissance, II, Platonism, Edizioni

di Storia e Letteratura, Roma 2004, pp. 399-415, alle pp. 403-404).

18 E. Garin, I greci e le origini del rinascimento, in Id., La cultura del Rinascimento. Dietro il

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7

Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis intanto, ribadiva la

superiorità di Aristotele su Platone, e poi ne mostrava il sostanziale accordo con la dottrina cristiana19.

2. Ficino e il Parmenide

Ciò che tuttavia lo pone in diretto rapporto col Ficino è la sua opera di traduzione del Parmenide platonico, lavoro affidatogli dal cardinale Niccolò Cusano20.Giunto a Roma il 30 settembre del 1458, il cardinale commissionava difatti a Giorgio (nato a Creta nel 1395, giunto in Italia nel 1416) una traduzione del Parmenide platonico21. Il Trapezunzio deve aver concluso il suo lavoro tra il gennaio ed il settembre dell’anno successivo. Si tratta di una tappa molto importante entro il quadro dello sviluppo del neoplatonismo rinascimentale. Mentre studiosi come Hankins o Gentile, ad esempio, avanzano

19

Completiamo la nostra ricostruzione dando conto dello scritto di replica alla Comparatio,

l’In calumniatorem Platonis che al Trapezunzio, nel 1469, venne dal cardinale Bessarione, personaggio di ben altra statura rispetto a Giorgio. “Sia nella sua versione greca in tre libri, sia in quella latina in quattro libri, rivista dal Gaza, fu uno scritto che propose ai filosofi ed ai teologi del tempo una compiuta e profonda interpretazione della dottrina platonica di cui rivendicava la vicinanza al cristianesimo e, insieme, sottolineava l’evidente accordo con l’aristotelismo. […] Eppure la dottrina di Dio concepito come assoluta e irragiungibile unità, principio superessenziale, scaturigine di tutto l’Essere sembrava al Bessarione assai più congeniale al cristianesimo e ben fondata nel Parmenide e in altri tra i massimi testi platonici. […] Comunque, si doveva sempre riconoscere che ogni filosofo non illuminato divinamente poteva giungere soltanto a comprendere l’esistenza di una prima causa efficiente di tutte le cose. Questo avevano fatto sia Platone, sia Aristotele, sia Avicenna, sia Proclo, quando avevano speculato su un Dio-Uno e sulla susseguente processione delle «intelligenze». Ma poiché il Trapezunzio aveva aspramente condannato Platone, accusandolo di essere un adoratore delle divinità inferiori e dei demoni, il Bessarione ribadiva che anche Aristotele aveva esposto dottrine simili, senza per questo essere minimamente idolatra o blasfemo” (C. Vasoli, I maestri bizantini in Italia e la disputa su Platone e Aristotele, cit., pp. 228-229). Cfr. G. Bessarione, In calumniatorem Platonis libri IV. Textum Graecum addita vetere versione

Latina primum edidit L. Mohler, in L. Mohler, Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist und Staatsman, Paderborn 1923-1942.

20

Cfr. I. Ruocco, Il Platone latino. Il Parmenide: Giorgio di Trebisonda e il cardinale

Cusano, Firenze Olschki 2003. Sui rapporti tra Cusano ed il dialogo platonico si veda D.

Monaco, Nicolò Cusano e il Parmenide di Platone, in «Annuario Filosofico», 28 (2012) pp. 479-494.

21

Si tratta del Parmenides vel de ideis, contenuto nel codice Volaterranus 6201. Da notare che il Ficino, su invito del cardinale Pietro Riario, sale a Volterra, dove il codice veniva appunto conservato, nel 1473, per sostenere l’esame in teologia presso il vescovo Antonio Agli. Su ciò si veda F. Cardini, La cultura a Volterra dal medioevo all’età moderna, «Rassegna volterrana», LXX, in Atti del convegno “Dagli albori del comune medievale alla rivolta antifrancese del 1799”, 8-10 ottobre 1993, Volterra 1994, pp. 391-398. Sul testo di Giorgio da Trebisonda, sulla sua composizione e sulle sue vicende, si veda I. Ruocco, Introduzione, in Il

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l’ipotesi che fra la traduzione di Giorgio e quella che del Parmenide fa Marsilio Ficino intercorra un certo rapporto22, non si può fare a meno di notare la ‘disinvoltura’ con cui Giorgio di Trebisonda pare accostarsi al dialogo platonico (significativo il sottotitolo utilizzato da Giorgio, de ideis, il quale denuncia una lettura ‘logica’ del diaogo), maldestramente tentando di accostare, e di equiparare fra di loro, due interpretazioni diversissime del dialogo, come quella logica e quella teologica.

Scrive infatti nel Proemium di dedica al Cusano: “Traduxi his diebus, pater optime, de Graeco in Latinum Platonis Parmenidem vel De ideis. Hac enim duplici librum ipse inscriptione insignivit, quarum altera materiem respicit, altera virum cui disserendi summa committitur ostendit, quod facere solet fere semper Plato. Fuit autem Parmenides vir omnium temporibus suis in philosophia clarissimus, ante Platonis tempora sexaginta annis circiter. Nam adolescente Socrate senex iam erat Parmenides, Socrate autem sene virilem Plato agebat etatem.

De ideis vero inscripsit, non quod aperte totus liber de ideis esse videatur, sed quia mea quidem sententia, cum de uno maxime agatur, de idea Unius agi ambigendum non est. Est autem liber sic et altitudine rerum profundus et argomentorum crebritate refertus, ut facile hinc Platonis ingenium et nature acumen et disserendi ad utranque partem mirabilis facultas eluceat”23

. Ora, di là dalla ‘ingenuità’ con cui il Trapezunzio guarda al dialogo platonico, alla sovrapposizione ed alla confusione di due diverse interpretazioni – quella logica e quella teologica –, al lavoro di Giorgio spetta l’indubbio merito di

22 Cfr. J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, II, Brill, Leiden 1990 (dove si mostra

anche la sostanziale incomprensione del testo platonico da parte di Giorgio), pp. 475-478; poi S. Gentile, Note sui manoscritti greci di Platone utilizzati da Marsilio Ficino, in Studi in onore

di Eugenio Garin, Scuola Normale Superiore, Pisa 1987, pp. 51-84.

23 Giorgio di Trebisonda, Parmenides vel de ideis, Proemium, in I. Ruocco, Il Platone

latino…, cit., p. 35. “Per chiarire il significato del titolo – spiega Ruocco –, Parmenides vel de ideis, il Trapezunzio spiega che era abitudine di Platone usare un titolo duplice, di cui la prima

parte è costituita dal nome del protagonista e la seconda si riferisce all’argomento trattato, in questo caso le idee. Il effetti il sottotitolo περὶ ἰδεῶν, evidentemente presente nel manoscritto usato da Giorgio, così come in molti altri, riproduce la classificazione dei dialoghi operata in età ellenistica dai membri della scuola platonica, che li suddivisero in classi in base al soggetto o materia di ciascuno di essi, ponendo il Parmenide fra i dialoghi di logica. D’altra parte Giorgio doveva avere conoscenza anche dell’altra interpretazione, quella neoplatonica e propria anche di Proclo […], che vedeva in questo dialogo un trattato teologico, il cui soggetto è l’Uno, cioè il principio divino dell’universo” (Ivi, p. 21).

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rappresentare la prima versione latina completa del dialogo platonico, successiva alla parziale versione (composta tra il 1280 ed il 1286) contenuta nel Commento al Parmenide di Proclo, tradotto dal frate domenicano Guglielmo di Moerbeke24, e precedente di cinque anni la traduzione del Ficino. Sappiamo come almeno inizialmente il proposito iniziale del filosofo fosse quello di offrire al pubblico una traduzione dei dialoghi platonici la quale facesse tutt’uno con il loro commento. Anche se tale progetto, per i motivi che vedremo, non ebbe poi effettivamente luogo, rimane tuttavia la centralità e la preminenza accordata al Parmenide – motivo, questo, che il filosofo deduce dalla grande tradizione neoplatonica25. Coerentemente con la struttura del reale, che vede l’Uno sovraessenziale quale principio primo, Marsilio colloca il

Parmenide al vertice dei dialoghi platonici, quale testo riguardante il Primo,

quell’Unum ipsum dal quale il reale si origina ed a cui – secondo il Ficino – è possibile ed anzi necessario fare ritorno. La sua operazione, pertanto, consiste i) nel sistematizzare la dottrina platonica proprio ‘ordinando’ i dialoghi in un modo affatto preciso; ii) nel ricercare l’accordo fra tale dottrina e la rivelazione cristiana.

Ora, ciò che sul piano filosofico permette realmente tutto ciò, garantendo una lettura coerente e ‘veritiera’ della dottrina platonica, è proprio l’interpretazione teologica del Parmenide platonico. Se è proprio la interpretazione di questo dialogo a conferire una specificità di carattere alle

24

Proclus, Commentaire sur le “Parménide” de Platon. Traduction de Guillame de Moerbeke, édition critique par C. Steel (suivie de l’édition des extraits du Commentaire sur le « Timée », traduits par Moerbeke), Leuven University Press, Leuven-Leiden 1987.

25 Sulla ricezione che di Parmenide ebbe Platone si veda John A. Palmer, Plato’s reception of

Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999. Sul passaggio, poi, dall’antico al medio-platonismo cfr. J. Dillon, The middle platonist – 80 B. C. to A. D. 220, Duckworth, London 1996; sulla discussione relativa al tema del principio cfr. M. Isnardi Parente, Studi

sull’accademia platonica antica, Olschki, Firenze 1979 (soprattutto alle pp. 11-151). Sulla

tradizione platonica, infine, si veda John J. Cleary (a cura di), Traditions of Platonism. Essays

in Honour of John Dillon, Ashgate, Aldershot-Brookfield USA-Singapore-Sidney 1999; poi. A. C. Lloyd, The anatomy of Neoplatonism, Clarendon Press, Oxford 1991. Sulla originaria interpretazione cristiana di Platone esiste il classico lavoro di E. von Ivanka, Plato christianus.

La réception critique du platonisme chez les pères de l’eglise, PUF, Paris 1990; poi M. de

Gandillac, Neoplatonism and christian thought in the fifteenth century (Nicholas of Cusa and

Marsilio Ficino), in Neoplatonism and Christian thought, edited by Dominic J. O’Meara,

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varie forme di platonismo26, ecco che, ad avviso del Ficino, la lettura teologica sigilla letteralmente la veracità della propria interpretazione di Platone – al tempo stesso, dimostrando la verità di quell’accordo tra religione e sapienza, fra teologia e filosofia, che ad avviso del filosofo avrebbe realizzato il progetto di una vera e propria pia philosophia ovvero di una docta religio27. L’accezione dogmatica impressa ad dialogo viene quindi dichiarata – e giustificata – sin dalle primissime righe dell’In Parmenidem. “Cum igitur in aliis longo intervallo cateros philosophos antecesserit, in hoc tandem seipsum (scil. Platone) superasse videtur et ex divinae mentis adytis intimoque philosophiae sacrario caeleste hoc opus divinitus deprompsisse. Ad cuius sacram lectionem quisquis accedet, prius sobrietate animi mentisque libertate se praeparet, quam attrectare mysteria caelestis operis audeat. Hic enim divinus Plato de ipso uno subtilissime disputat, quemadmodum ispum unum rerum omnium principium est, super omnia omniaque ab illo ; quo pacto ipsum extra omnia sit et in omnibus omniaque ex illo, per illud atque illud”28

. Notiamo come la terminologia utilizzata dal Ficino sia del tipo iniziatico e misterico: come, cioè, il divinus Plato abbia tratto dai penetrali della divinità l’ispirazione per comporre questa opera. Ecco allora che si rende necessaria una vera e propria ascesi per intendere e penetrare il testo; ecco che l’animo va liberato e l’intelletto purificato dai lacci che ancora lo trattengono.

Ora, se si tiene conto del fatto che l’Argumentum in Parmenidem29, da cui è tratto il brano citato, risale ad un periodo compreso tra il 1463 ed il 146430,

26

Sulle varie letture che del Parmenide sono state offerte – da quella neoplatonica sino alla interpretazione logico-analitica – cfr. F. Fronterotta, Guida alla lettura del Parmenide di

Platone – La fortuna dell’opera, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 106-122.

27 “Following Eusebius and Lactantius, Ficino held that the writings of the ancient theologians

had prepared the Gentiles for Christianity as the Old Testament writings had prepared the Jews. In Christian times the writings of the pagan philosophers and theologians in the Platonic tradition retained value for a variety of reason. They provided a model for the kind of pia

philosophia or docta religio, combining religious belief and philosophical wisdom, that Ficino

wished to see revived in his own time” (J. Hankins, Marsilio Ficino, in Id., Humanism and

Platonism in the Italian Renaissance, cit., pp. 431-440, p. 434).

28 Marsilio Ficino, Commentaries on Plato, Volume II, Parmenides, edited and translated by

Maude Vanhaelen, The I Tatti Renaissance Library, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts-London, England 2012, p. 2.

29 Argumentum Marsilii Ficini Florentini in Parmenidem de uno rerum omnium principio, ad

Nicolaum Valorem prudentem optimumque civem, in Marsilio Ficino, Commentaries on Plato,

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mentre il vero e proprio commento al Parmenide viene composto (solamente) tra il 1492 ed il 149431, pubblicato poi nei Commentaria in Platonem nel 1496, si capisce bene, intanto, come il filosofo non abbia smesso di meditarne le pagine ininterrottamente; successivamente, perché l’In Parmenidem si collochi alla fine della ricerca filosofica di Marsilio (ciò che si affermava all’inizio). Il Ficino si smarca nettamente dalla storia recente delle interpretazioni del dialogo, quale gli proveniva dalla versione di Giorgio di Trebisonda (che si riflette, in parte, nello stesso Cusano32) e avvertibili ancora, infine, nel De Ente

et Uno di Pico della Mirandola (“Il Parmenide non è certo un’opera dogmatica,

poiché interamente è null’altro che una forma di esercizio dialettico”33

). Tale presa di distanza è significativa, ed andrà tenuta presente ai fini di una più esatta comprensione storica (e filosofica) dell’In Parmenidem ficiniano.

La ‘ipoteca’ teologica posta dal Ficino sulle pagine del Parmenide, difatti, può ben a ragione essere considerata la chiave di lettura non solamente della sua interpretazione del dialogo platonico, bensì, più in generale, di tutta la sua vastissima operazione culturale34. Riportare la teologia alla filosofia, la pietas alla sapientia: ecco ciò che il filosofo si era proposto; ecco ciò che a suo avviso si trova cristallizato nelle pagine del Parmenide platonico. La dottrina platonica, difatti, dimostra come sotto il velame ‘poetico’ (quale si trova nelle rivelazioni religiose) si celino le più alte verità teologiche e metafisiche. “Nos

«Parmenide» di Platone, in «Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin», V (2003), pp.

17-37; sempre della stessa autrice si veda L’ ‘Argumentum in «Parmenidem» di Marsilio

Ficino, (in «Accademia. Revue de la Société Marsile Ficin», VI (2004), pp. 7-34).

30

Come si apprende dal Supplementum Ficinianum, I, (cit.), alle pp. CXLVII-CIL.

31 Cfr. Supplementum Ficinianum, I, cit., p. CXX.

32 Una venatio de unum per logicam era quanto secondo il cardinale avveniva nel Parmenide:

cfr. I. Ruocco, Il Platone latino, cit., pp. 10-12. “Dalla rinascenza platonica, come esigenza e gusto di tornare al testo con la maggiore compiutezza possibile, con una più esatta precisione storica, il Cusano rimase fuori” (E. Garin, Cusano e i Platonici italiani del Quattrocento, in

Nicolò da Cusa. Relazioni tenute al convegno di Bressanone nel 1960, a cura di G. Flores

d’Arcais, Sansoni, Firenze 1962, p. 88.

33

Pico della Mirandola, Dell’Ente e dell’Uno, cit., p. 209.

34

“Ficino considered his main role to be that a theological reformer. He wanted to restore Platonism to its ancient function as the handmaid of Christian theology, replacing the failed Aristotelian syntheses of Christianity and Aristotle that had characterized the medieval period. His chief concern as a philosopher was establishing a rational basis for the doctrine of the immortality of the soul, the key issue separating «secularizing» from «Christianizing» Aristotelians in Italian universities of the Renaissance” (J. Hankins, Renaissance Platonism, cit., p. 409).

(12)

12

ergo in Theologis superioribus apud Platonem atque Plotinum traducendis et explanandis elaboravimus: ut hac Theologia in lucem prodeunte, et poetae desinant gesta mysteriaque; pietatis impie fabulis suis annumerare, et Peripatetici quamplurimi, id est, philosophi pene omnes amoveantur, non esse de religione saltem communi tanquam de anilibus fabulis sentiendum”, scrive il Ficino nel Proemium ai commenti alle Enneadi35. Ed è proprio contro la ‘filosofia dei filosofi’36 che il Ficino rivolge il proprio progetto di elaborare una

docta religio. Trasformatasi ormai la filosofia in una faccenda tecnica, dominio

esclusivo di quei Peripatetici che affollano le università, ecco che si è smarrito il nesso di sapienza e religione – e, con questo, la possibilità per l’anima dell’uomo di ritornare a Dio. La presente ricerca, proprio a partire da tale ordine di considerazioni, mediante un’analisi puntuale del testo di Marsilio Ficino, esamina se ed in quale misura il commento al Parmenide si inserisca nel dibattito tra platonici ed aristotelici, quanto vi apporti, quanto se ne distanzi aprendo a problemi ed esigenze nuove. L’In Parmenidem non è certo l’unico testo da analizzare allorché si voglia condurre una ricerca del genere: tuttavia, come lo stesso Ficino non manca di sottolineare, costituisce il testo chiave per avviare una indagine in tale direzione, ed è proprio con tale spirito che questa ricerca sull’In Parmenidem ficiniano è stata condotta.

35 Opera Omnia, cit., p. 1537.

(13)

13

Ringraziamenti

Questo lavoro ha contratto tanti debiti di riconoscenza. Esso deve molto alla guida, al sostegno ed all’affetto che a vario titolo mi sono venuti da tante persone cui ora va tutto il mio ringraziamento:

al professore Francesco Tomatis, alla cui scuola entravo dieci anni fa; al professore Maurizio Cambi, per la paziente disponibilità mostrata nel seguire questa ricerca e per la guida che ne è venuta; al professore Giulio d’Onofrio, coordinatore del collegio del dottorato di ricerca in filosofia, scienza e cultura dell’età tardo-antica, medioevale e umanistica; grazie al professore Armando Bisogno. Altrettanta gratitudine esprimo ai professori Adriano Fabris e Marco Ivaldo. Ringrazio altresì i dottori Renato de Filippis, Davide Monaco e Angelo Maria Vitale.

Grazie anche agli amici ed ai colleghi del XII e XIII ciclo, con cui ho condiviso tre ricchissimi anni.

Speciale gratitudine avverto nei confronti dei vescovi Angelo Spinillo, ora arcivescovo di Aversa, e Antonio de Luca, vescovo di Teggiano e di Policastro – dove venne infine a vivere e morire quel Teodoro Gaza che tanta parte aveva avuto nelle dispute fra platonici e aristotelici di cui si tratta in questa ricerca. Sono grato al dottor Vittorio Sozzi, direttore del Centro Universitario Cattolico.

Alla mia famiglia ed ai miei cari va il mio affettuoso ringraziamento: alla memoria sempre viva di mia nonna, a mia madre. A Eleonora, come alla più cara, dico grazie con tutto il cuore.

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C

APITOLO PRIMO

IL COMMENTO FICINIANO AL PARMENIDE NEL CONTESTO DEI COMMENTARIA IN PLATONEM. COMMITTENTI, DESTINATARI, DESTINAZIONE

“… il rumoroso tumulto dei nostri giorni”37

.

Se si bada per un momento all’anno in cui l’In Parmenidem è terminato, il 1491, si coglie subito la particolarità del momento storico in cui il lavoro ficiniano si situa. Il Ficino aveva allora raggiunta la sua maturità di studioso; il suo commento al Parmenide, pertanto, costituisce il degno epilogo di una vicenda intellettuale, dove Platone era stato frequentato accanto alla tradizione ermetica e sapienziale, incominciata qualche decennio prima. L’In Parmenidem, perciò, sembra concludere ed al tempo stesso inverare il lavoro interpretativo di tanti anni: apponendovi, come vedremo, quel sigillo teologico e sapienziale che costituisce la vera e propria cifra distintiva della lettura ficiniana di Platone. A Firenze, la situazione politica si è fatta delicata; dai pulpiti della città, inoltre, attacchi alla filosofia platonica provengono dal domenicano Girolamo Savonarola. È quindi degno di nota che l’opera veda la luce in un clima niente affatto amichevole. Fatto altrettanto interessante, il filosofo è oramai uscito dall’orbita patronale di Lorenzo de’ Medici. Indice ne è la dedica dei Commentaria a Filippo Valori: segno, questo, che ‘nuovi’ (e

37 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Prefazione alla II edizione (trad. it. di A.

Moni, rivista da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 22). Sul rapporto tra Ficino e Hegel cfr. S. Toussaint, Ficiniana I : Ficin et Hegel: quel platonisme?, in “Momus”, 2 (1994), pp. 30-49.

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vecchi) alleati ha dovuto cercare il filosofo al suo progetto di diffusione del verbo platonico. In questo capitolo iniziale, pertanto, ci si propone di ricostruire il contesto entro il quale matura il Commento ficiniano al “Parmenide”, presentando le circostanze, i committenti, i fruitori e lettori, i referenti filosofici, cui il Ficino destina, almeno nelle intenzioni, la propria esercitazione sul testo platonico.

1. Il contesto storico e politico

Volendo presentare il processo di composizione e di pubblicazione dei

Commentaria in Platonem, occorrerà prestare attenzione ai rapporti che

intercorrono tra il Ficino e la famiglia Valori: anzitutto, nelle persone di Filippo Valori (che si occupa fattivamente di procurare un editore all’impresa di traduzione di Marsilio, sostenendola finanziariamente), poi di Niccolò Valori, cittadino – secondo le parole del filosofo – saggio e massimamente virtuoso, cui i Commenti a Platone sono dedicati, infine di Francesco, che ricoprirà un ruolo di primo piano nel processo di transizione fra la signoria medicea e il ‘governo’ di Girolamo Savonarola. Soprattutto, sarà interessante osservare, per le sue implicite ricadute politiche, come non si possa distinguere il processo di diffusione della filosofia neoplatonica, promossa in primis dal Ficino ma sostenuta finanziariamente dai Valori, da quei fenomeni di vero e proprio avversamento che a questa filosofia incominciavano (ovvero tornavano) a provenire, anzitutto dai sermoni del Savonarola, pure lui sostenuto, fatto notevole questo, da diversi esponenti della famiglia Valori.

La figura di Filippo richiama inizialmente la nostra attenzione 38. Nella chiusa al suo Commento al Timeo platonico, lavoro peraltro portato a

38 Mark Jurdievic, in un suo importante lavoro, (Guardians of Republicanism. The

Valori Family in the florentine Renaissance, Oxford University Press, Oxford 2008) si

preoccupa di esaminare il ruolo giocato dai Valori in tutto il complesso di vicende che vede Firenze prima retta dai Medici, infine governata da Girolamo Savonarola. In particolare, la discussione dei rapporti fra il Ficino e Filippo Valori si trova alle pp. 48-51.

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termine nella villa dei Valori a Maiano39 (dove il filosofo si tratterrà sino alla morte di Filippo, nel 1494), Ficino ci informa che il suo debito e la sua riconoscenza ai Valori non riguardano semplicemente il loro mecenatismo: egli è Loro grato per avergli trasmesso sentimenti di stima nei riguardi di Lorenzo e, più in generale, dei Medici. In tal senso, va notato che, prima ancora di loro, i primi (e costanti, verrebbe da dire) sostenitori e mecenati del Ficino sono proprio i Valori. Melissa Meriam Bullard, in un suo intervento del 1990, rileva come dopo il 1478, in seguito alla congiura dei Pazzi, i rapporti tra Ficino e i Medici tendano a farsi più occasionali, mentre costanti rimangono le sue relazioni coi Valori40. Quando, ad esempio in seguito alla composizione del De vita (1489), Ficino si vedrà accusato di magia, è alla protezione dei Valori che farà ricorso. Filippo Valori, inoltre, svolgerà la funzione di un vero e proprio ‘ambasciatore culturale’ dell’opera ficiniana, allorché recherà copia dei commenti di Marsilio alle Enneadi di Plotino al re d’Ungheria, Mattia Corvino. Filippo inoltre si vedrà dedicare le Institutiones

platonicae, la traduzione ficiniana del commento di Prisciano al De mente di Teofrasto, il De vita longa, ed inoltre il libro VIII

dell’epistolario.

Mark Jurdjevic sottolinea l’importanza che tale alleanza politico-filosofica giocherà entro il processo di diffusione della filosofia ficiniana: “The entusiasm of the Valori for Ficino and the public prestige they must have connected to neo-Platonism, given their patronage, reminds us that Florentine neo-Platonism had a similar kind of political cachet for the Florentine elite as did the earlier humanism that had a more explicitily civic dimension. Ficino clearly symbolized a style of politics articulated by Bruni and others appealed to the elite in the first half of the fifteenth

39

Cfr. Supplementum ficinianum. Marsilii Ficini florentini philosophi platonici

Opuscula inedita et dispersa primum collegit et ex fontibus plerumque manuscriptis edidit auspiciis regiae scholae normalis superioris pisanae Paulus Oscarius Kristeller,

I, Olschki, Firenze MCMXXXVII, pp. CXX-CXXI.

40 Cfr. Melissa Meriam Bullard, Marsilio Ficino and the Medici: the Inner Dimension

of Patronage, in Christianity and the Renaissance, a cura di T. Verdon e J. Henderson,

(17)

17 century”41

. In particolare, lo studioso rileva la particolare importanza assunta, nel processo di creazione della nuova élite culturale e politica, dalla discussione della tematica amorosa in vista della formazione di una compagine civica consapevolmente unitaria: “Platonism’s emphasis on fraternal love had the potential to encourage a ruling class – properly educated – to set aside its personal interests and quarrels and pursue the common good. At his most optimistic, Ficino hoped that if the Florentine elite embraced his vision with sufficient enthusiasm, the unification of wisdom and power, long the goal of humanistic education, might actually be achived in the Florentine city-state”42.

Dal canto suo, Niccolò Valori rappresenta l’immediato destinatario dei Commenti ficiniani a Platone. Nato nel 1464, e dunque più giovane del filosofo di un trentennio, allorché nel 1494 viene a mancare Filippo Valori, assume il patrocinio (finanziario, anzitutto) della pubblicazione dei Commentaria ficiniani. A proposito della rete di relazioni anche politiche che si generano entro il circolo ficiniano, non sarà superfluo riportare il particolare evidenziato da Mark Jurdjevic, cioè che, dei suoi tredici studenti nominati dal filosofo in una epistola a Martin Prenninger, i nomi di ben sette di loro ricorrono regolarmente nel diario tenuto da Niccolò negli anni attorno al 1490. In particolare, figurano nelle pagine di questo diario i nomi di Bernardo Canigiani e Antonio Lanfredini. Inoltre, fatto degno di nota tanto per la comprensione del personaggio, tanto per intendere adeguatamente le dinamiche interne alla politica fiorentina di quegli anni, non si può non notare come la pubblicazione dei

Commentaria, avvenuta nel 1496, si collochi in quel clima di

anti-41 Cfr, M. Jurdjevic, Guardiands of Republicanism…, cit., p. 53.

42 Ivi, p. 54. Sul tema cruciale dell’educazione in età umanistica rimane tuttora da

consultare il classico E. Garin, Educazione umanistica in Italia, Laterza, Roma-Bari 1975. Si ricordi quanto scrive Garin nella sua Introduzione: “Ciò che caratterizza lo spirito di tutta l’educazione umanistica è l’esigenza della formazione dell’uomo integrale, buon cittadino e, se occorre, buon soldato, ma, insieme, uomo colto, uomo di gusto, che sa godere della bellezza e sa gustare la vita; che dal mondo sa trarre tutto quanto il mondo può dargli” (Ivi, p. 7). Il tema dell’educazione percorre tutta la più alta produzione umanistica, presentandosi, ad esempio, in testi talora insospettabili come il fondamentale De pictura albertiano.

(18)

18

platonismo generato dalla predicazione di Girolamo Savonarola. Il frate ferrarese, tenuto originariamente in gran conto dallo stesso Ficino, si trova a sua volta in stretti rapporti con la famiglia Valori: tuttavia, quando si tratterà di marcare la differenza della propria proposta politica dal regime mediceo, il frate ferrarese non esiterà ad attaccare duramente la filosofia platonica (e quindi ficiniana) proprio per i suoi legami col passato governo43. In tal senso, gli attacchi che giungono dal Savonarola alla riscoperta platonica hanno carattere eminentemente politico, e solo in subordine filosofico, come è dimostrato da un articolo di Alison Brown44. Ora, le preoccupazioni del Ficino sono ben ravvisabili nel “Proemio” ai

Commentaria in Platonem, e sono denunciate, anzitutto, dal modo in cui

la dedica viene rivolta dal filosofo al proprio mecenate, significativa soprattutto nella conclusione, che lascia trasparire tutta l’ansia del Ficino per la nuova situazione politica che si andava nel frattempo delineando. Del resto, la pubblicazione prima degli Opera omnia platonici, poi degli stessi Commentaria in Platonem, avrebbe dovuto costituire, almeno nelle aspirazioni del filosofo, il suggello, intanto, della compiuta opera di ‘pacificazione’, come vedremo, fra la sapientia e la religio; poi, in relazione a ciò, la diffusione della nuova ‘luce’ platonica con i benefici effetti di rischiaramento, in termini di miglioramento morale, che essa avrebbe dovuto esercitare sui propri concittadini. Del resto, l’accento è immediatamente posto sulla dimensione ‘civica’ e sulla destinazione

43

Per i rapporti tra Girolamo Savonarola e la famiglia Valori, segnatamente con Francesco, si veda, sempre di Jurdjevic, il saggio su Francesco and the Savonarolan Republic (in Guardians of Republicanism…, cit., pp. 18-45; lo studioso, inoltre, si è occupato dei rapporti fra il Ficino e Savonarola in Prophets and Politicians: Marsilio

Ficino, Savonarola and the Valori Family, in «Past & Present», CLXXXIII, (2004), pp.

41-77. Francesco Valori (1439-1498), collaboratore dapprima del governo mediceo e poi, dopo la loro cacciata, di quello savonaroliano, verrà assassinato dagli osteggiatori del frate poco prima che questi venisse destinato al rogo. Dal canto suo, Niccolò Valori si dimostrerà sempre un convinto sostenitore dell’opera savonaroliana, anche dopo la sua esperienza di governo: cfr. in tal senso Catherine M. Kovesi, Niccolò Valori and the

Medici Restoration of 1512. Politics, Eulogies and the preservation of a Family Myth,

in «Rinascimento», II s., XXVII (1987), pp. 301-325.

44

Cfr. A. Brown, Platonism in Fifteenth-Century Florence and Its Contribution to

Early Modern Political Thought, “Journal of Modern History”, 403. Sempre di Brown

esiste l’importante The Medici in Florence: the Exercise and Language of Power, University of Western Australia-Olschki, Perth-Firenze 1992.

(19)

19

civile della propria impresa filosofica e culturale. Indirizzato, come si è detto, al cittadino saggio e massimamente virtuoso Niccolò Valori, il proemio e la sua dedica tendono sin da subito a porre in primissimo piano l’importanza della ‘collaborazione’ tra il suo autore e la famiglia Valori, in vista della realizzazione del comune progetto di diffusione della filosofia platonica. Ficino è al lavoro su Platone ormai da quarant’anni: come egli stesso ricorda, tanti quanto il vincolo che lo lega alla loro famiglia, tanti quanti gli anni che i Valori si dedicano a loro volta all’opera platonica. Il proemio registra bene la reazione allarmata del filosofo di fronte al succedersi degli eventi. Nell’ottobre del 1494, in seguito alla capitolazione di Piero di Lorenzo de’ Medici, Carlo VIII fa il suo ingresso a Firenze. L’ascesa di Girolamo Savonarola, pertanto, col conseguente consolidarsi della sua leadership nel governo cittadino, va collocata proprio nel contesto delle lotte intestine che si aprono in seguito a tali fatti. Dal canto suo, il Ficino, come pegno della propria riconoscenza, offre a Niccolò il frutto delle proprie fatiche, mentre non tace, anzi, dichiara apertamente, la sua preoccupazione per il degenerare della situazione politica. Il filosofo augura al mecenate la ventura di una vita lunga e felice, se mai, egli dice, è possibile assaporare non la felicità, ma almeno “una certa tranquillità, specialmente da parte di cittadini che amministrano il governo della repubblica in maniera del tutto sconsiderata”45

. Del resto, la stessa pubblicazione dei Commentaria in

Platonem come opera a sé, costituisce la testimonianza più evidente che

il progetto ficiniano, che prevedeva una grandiosa edizione la quale contemplasse, accanto alla versione latina dei dialoghi platonici, il commento a ciascuno di loro da parte del filosofo, esce provato duramente dall’avvicendarsi dei governi cittadini – e dunque ne denuncia bene la destinazione ‘politica’. Pur nell’aspetto tradizionale della dedica, è evidente che il Ficino intendesse porsi come primo collaboratore

45

Marsilio Ficino, Proemio del fiorentino Marsilio Ficino ai suoi «Commenti alle opere

di Platone», dedicati a Niccolò Valori, cittadino saggio e massimamente virtuoso, in

Id., Commento al “Parmenide” di Platone, premessa, introduzione, traduzione e note di F. Lazzarin, Olschki, Firenze 2012, p. 3.

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20

dell’impresa politica della famiglia Valori, nella loro operazione di supporto e appoggio al governo mediceo, secondo l’accordo, tipicamente umanistico, di sapere e potere. Del resto, la data di pubblicazione dei

Commentaria (comparsi, per i tipi di Lorenzo d’Alopa, il 2 dicembre

1496) è massimamente indicativa. Sono gli anni, convulsi, dell’ascesa al governo da parte di Girolamo Savonarola, il quale, dopo un breve periodo di interdizione, riprende a predicare in Duomo, tra l’entusiasmo generale, il 17 febbraio di quello stesso anno, come è noto rivolgendo aspre invettive nei riguardi della filosofia platonica46. “Nell’epoca presente, a causa del disordine che interessa non solo la nostra città, ma l’Italia intera” , il filosofo riconosce che è fortunato l’uomo che ancora può dedicarsi alla filosofia: come avrebbe detto Hegel, alla serena calma

della conoscenza.

2. Lorenzo e Ficino

È nota la caratterizzazione, ad opera di Eugenio Garin, del Ficino come del primo filosofo cortigiano e letterato di corte47. Di volta in volta, il

46 Di quegli anni, esiste l’importante resoconto fornito da G. Guidi, Ciò che accadde al

tempo della Signoria di novembre-dicembre in Firenze l’anno 1494 (Arnaud, Firenze

1988). A tal proposito si veda Giorgio Cadoni, Lotte politiche e riforme istituzionali a

Firenze tra il 1494 e il 1502, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1999. Per

una ricostruzione storica complessiva, si veda l’indispensabile testo di N. Rubinstein, Il

governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), nuova edizione a cura di G. Ciappelli,

La Nuova Italia, Milano 1999; poi R. Fubini, Quattrocento fiorentino: politica,

diplomazia, cultura, Pacini, Pisa 1996.

47 “Ci troviamo innanzi, nella Firenze del ‘400, la prima grande figura di filosofo

cortigiano fin nello stile frondoso e ricercato. E questa, in fondo, era una novità. Il primo umanesimo fiorentino era stato sobrio e quasi severo; il suo fiorire era stato caratterizzato dalla grande cultura dei Cancellieri della Repubblica, degli uomini di governo, degli esponenti delle grandi famiglie, a cui si erano affiancati monaci famosi per pietà, prelati insigni, e magari celebri maestri universitari. […] Con Ficino compare il letterato di corte, neppur maestro d’università, ma al servizio di un signore che se ne vale, non solamente per dar lustro alla propria casa, ma anche, senza dubbio, per sottili scopi di propaganda politica. Può essere, anzi, interessante notare che, mentre gli ottimati fiorentini per oltre mezzo secolo avevano cercato norme di vita e di governo nell’Etica a Nicomaco e nella Politica di Aristotele, Cosimo giunto al potere si scoprì d’un tratto entusiasta di Platone. I suoi avversari, sconfitti, nei loro ritiri conventuali o campestri trovarono un conforto nella dura e ascetica saggezza stoica; alla gioventù fiorentina abituata a sentirsi esortare dalle cattedre e nei discorsi ufficiali alla dignità dell’azione mondana e della vita civile i ficiniani predicarono i rapimenti dell’ascesa

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filosofo si trova a stringere rapporti, come abbiamo visto, con la famiglia Valori, con i Pazzi, coi Medici. In apertura del commento alle Enneadi, Ficino ci informa di come sia stato Cosimo de’ Medici a raccomandargli lo studio della filosofia platonica. Ora, se quello tra ‘Ficino e i Medici’ può essere inquadrato, seppure con le dovute cautele, come un rapporto tipicamente clientelare, è interessante osservare la relazione che intercorre tra il filosofo e Lorenzo, esponente di primo piano della famiglia Medici e protagonista assoluto della politica italiana di quegli anni. Da una iniziale situazione di diffidenza e anzi di irrisione, vediamo come sia lo stesso Lorenzo a cercare il supporto culturale del Ficino. Tale momento, che potremmo definire la fase ‘alta’ del rapporto fra i due, è destinato ad esaurirsi nel giro di qualche anno – verosimilmente, questa fase si esaurisce tra il 1474 ed il 1478, al momento cioè della congiura dei Pazzi48. A tutto ciò fa seguito una fase ‘bassa’, che incomincia poco meno di dieci anni dopo. Definendo una fase ‘alta’ ed una fase ‘bassa’, vogliamo mostrare l’aspetto fluido che è caratteristico del rapporto tra le due personalità. Ficino, interessato a trovare un patrono (ed un produttore, potremmo dire in termini artistici) alla propria intrapresa, e Lorenzo, dal canto suo preoccupato di raccogliere consensi attorno a sé a grazie alla propaganda letteraria e culturale, si raccolgono attorno al progetto di diffondere la nuova luce della filosofia platonica – la quale, come è noto, prospetta la figura in cui Lorenzo de’ Medici avrebbe probabilmente voluto rispecchiarsi, quella del principe-filosofo.

Una delle prime prese di contatto fra i due (siamo verso il 1470) rappresenta poco più di una canzonatura: una parodia, cioè, del

Commentarium in convivium Platonis de amore49, cui Lorenzo risponde col suo Simposio50. Le cose tuttavia mutano presto, perché solo qualche

contemplativa” (E. Garin, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, in Id., Medioevo e

Rinascimento. Studi e ricerche, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 269-288, alle pp.

270-271).

49 Commentarium in Convivium de Amore.

50 “Simposio poi ammicca parodicamente al Simposio di Platone e al commento che ne

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anno più tardi i rapporti sembrano stringersi cordialmente: “Nel tardo autunno del 1473 prese di nuovo contatto con Marsilio Ficino, l’antico protetto del nonno Cosimo, del quale, alcuni anni prima, aveva deriso, non senza una certa insolenza, nel suo poemetto Simposio, le idee sull’amore esposte nel commentario al Symposion di Platone. Ciò che lo spinse a questo passo, non è del tutto chiaro. La rinascita della tradizione platonica perseguita da Ficino rendeva di nuovo attuale la figura del sovrano-filosofo, nella quale forse si sarebbe identificato volentieri. Sembra comunque che Lorenzo avesse voluto collegare il suo nome con quello del filosofo, la cui dottrina neoplatonica aveva allora tanta risonanza a Firenze. Perciò gli dovette sembrare opportuno recuperare il vecchio rapporto di clientela, perché Ficino, dopo la morte di Cosimo, si mosse in ambienti lontani dai Medici, anche se non proprio nemici”51

. Ecco allora che nell’autunno di quell’anno Lorenzo invita Ficino a Careggi per discutere assieme a lui di problemi filosofici. Da quelle conversazioni, e dalla parafrasi che Lorenzo fa di alcune lettere a contenuto filosofico inviategli dal filosofo, ecco che nasce il poemetto in sei parti De summo bono, composto verosimilmente tra la fine del 1473 ed il principio del 1474. Dalla seconda parte scegliamo pochi versi:

… sua dottrina e la sua lira:

Marsilio abitator del Montevecchio, nel quale il cielo ogni sua grazia infuse, perch’ei fusse ai mortal sempre uno specchio; amator sempre delle sante Muse,

Platonis de amore, quanto il volgarizzamento, il Libro dell’Amore). Parodia che si

spinge, come normalmente in Pulci, fino alla dissacrazione religiosa: si vedano i sapidi versi di II 22-30 e di IV 82 sgg., blasfema parodia del motivo evangelico della « sete » (tanto caro a Ficino, e al Lorenzo del De summo bono e delle Laudi […]” (P. Orvieto,

Nota introduttiva a Lorenzo de’ Medici, Simposio, in Id., Tutte le opere, I-II, a cura di

P. Orvieto, Salerno Editrice, Roma 1992, pp. 603-647, p. 607).

51

Ingeborg Walter, Lorenzo il magnifico e il suo tempo, trad. it. di R. Zapperi, Donzelli, Roma 2005, p. 109. Per un inquadramento complessivo di questa fase si può vedere A. Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis (1449-1478), Les Belles Lettres, Paris 1963.

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né manco della vera sapienza,

tal che l’una giammai dall’altra escluse52

.

Si tratta di un passo molto importante almeno da due punti di vista. Il primo, quello più immediato, riguarda il ritratto che di Ficino traccia Lorenzo: vediamo come dottrina e lira procedano abbracciate, come cioè sia ricercata una congiunzione tra la figura del poeta e quella del filosofo, che in Marsilio sembrano congiungersi mirabilmente. È in tale senso che il Garin, riferendosi a Marsilio, ha parlato di una ‘visione poetica del mondo’53

. Il secondo punto che invece merita sottolineare, che consegue al primo e che riguarda da vicino la nostra ricerca, consiste nel rilevare come a sua volta Ficino, discutendo della sesta ipotesi del Parmenide,

52 Lorenzo de’ Medici, Altercazione, in Id., Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino,

UTET 1955, pp. 47-88, p. 57. “Ora non si sa se nella ricerca di una ricomposizione del consenso interno attraverso la propaganda letteraria, o per partecipare di persona allo stimolo che dalla rifondazione dello Studio veniva alle lettere, o per autentico interesse e curiosità intellettuale, verso le vacanze estive del 1473 egli (Lorenzo) si accinse, non senza eco enfatica di testimonianze letterarie coeve, «denuo licteris operam dare», dopo la forzata interruzione dei precedenti tumultuosi anni. E segnatamente si rivolse al Ficino, mettendo in versi volgari nelle soste a Careggi di settembre-ottobre un compendio De summo bono, che verosimilmente si era fatto appositamente apprestare, nonché la Oratio ad Deum theologica, ispirata sintesi del proprio credo filosofico-religioso (dal Ficino stesso messa poi concorrenzialmente in versi saffici latini), che questi aveva posto come a suggello della grande trattazione apologetica della Theologia

platonica, giunta ormai a conclusione. Comunque fosse, e malgrado la consueta

accoglienza beneaugurante del Ficino, la conversione platonica del Medici non era propriamente disinteressata. Due punti in qualche modo connessi gli premevano particolarmente: che l’«opus magnum» dell’antico protégé di Cosimo, di cui alla fine dell’anno cominciavano a circolare alcuni esemplari privati, di cui uno diretto a Lorenzo stesso, non uscisse ufficialmente senza che nella dedica fosse ribadito l’orinario vincolo del patronato; e che gli fosse riconosciuta la benemerenza di conferire al Ficino, che nei retti termini canonici aveva assunto gli ordini maggiori del sacerdozio il 18 dicembre, e il beneficio della chiesa di san Cristoforo a Novoli, fine per il quale Lorenzo, con tipico atto di autorità, aveva praticamente usurpato i diritti di prestazione di chi vantava il giuspatronato, la casa dei Rinieri” (R. Fubini, Ficino e i Medici, «Rinascimento», II s..

53 “In questo rendere in ritmi di luce e d’amore l’intera realtà, in questa visione poetica

del mondo – e a poesia vuol darsi qui un significato infinitamente ricco e pregnante – sta l’originalità di Ficino. Chi per intenderne il pensiero viene mettendo in evidenza una certa sua impalcatura concettuale, che gli veniva dalla tradizione, e che non ha nulla di nuovo, perde in una tenue trama logica la forza di questo singolare scrittore. Il quale ama esprimersi sempre in termini figurati, per immagini e miti, proprio perché la sua filosofia non è astratto ragionare, o scienza fisica, ma questa vista profonda del volto di un Dio bellissimo, stampato nell’intimo delle cose, questo ritrovare nel tutto quel Dio che vive in noi, compiendo col nostro conoscere quel circolo che ci costituisce” (E. Garin, Immagini e simboli in Marsilio Ficino, in Id., Medioevo e rinascimento. Studi e

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tenderà a presentare il vecchio eleate esattamente in questi termini54. “Questo interesse del tutto inatteso per la filosofia di Ficino ebbe anche conseguenze pratiche, perché Lorenzo fece assegnare a lui, che il 18 dicembre 1473 si era fatto consacrare prete, il lucroso beneficio della chiesa di san Cristofano in Novoli”55

. Il mutamento dei rapporti fra i due si riflette ora nel Proemio al testo sulla religione cristiana, terminato dal Ficino subito dopo: “Avus tuus, magnanime Laurenti, magnus Cosmus, Petrus deinde pius genitor, me a teneris annis, quo philosophari possem, suis opibus aluerunt. Tu nuper volens philosophandi studium in me, quo ad posses, sicut in aliis nonnullis consuesti, cum pietatis officio copulare. Marsilium Ficinuum tuum sacerdotio, e quidem honorifice decorasti. Utinam numquam mihi ipse desuerim aut desim quando quidem Dei ipsius, Medicumque favor, e auxilium numquam desuit. Ut autem divinam mihi gratiam magis conciliarem, tibique gratificare, e mihi ispe non deessem, cum primum sacerdotis sacris initiatus sum, opus de Christiana religione composui, quod quidem tibi huius meae professionis authori, praecipuoque tum sapientiae alumno, tum pietatis cultori censui dedicandum”56

. Per compiacerti: Lorenzo, definito dal Ficino ‘padre della patria come già il nonno Cosimo, viene ora presentato dal filosofo, entro una cornice di patriottismo, come mecenate e, soprattutto, come re-filosofo57. Ecco allora il passaggio dal grande umanesimo civile ad una mutata situazione del rapporto tra intellettuali, potere, e ad una diversa concezione (ed utilizzo) della filosofia. Il primo, sobrio e severo secondo la caratterizzazione del Garin, si era affaticato sui testi dell’etica

54 “Parmenides non philosophum tantum, sed etiam poeta divinus, carminibus

philosophica mysteria cecinit atque in hoc dialogo agit quoque poetam. Novenarium enim quasi poeta colit numerum musis, ut dicitur, consecratum. Per novem sane suppositiones quasi per novem musas scientiae duces ad veritatem Apollinemque nos ducit. Dum enim ad ipsum provehit simpliciter unum, ad Apollinem promovere videtur. Quo nomine Pythagorici sui solent ipsum simpliciter unum mystice designare, quippe cum Apollo, ut Platonici quoque cum Platone docent, absolutorem significat simplicem a multitudine segregatum” (Marsilio Ficino, Commentaries on Plato…, II, cit., p. 302).

55 I. Walter, Lorenzo il magnifico e il suo tempo, cit., p. 110. 56

Opera Omnia, I, p. 2.

57 Si veda in tal senso Allison M. Brown, The humanist portrait of Cosimo de’ Medici,

Pater patriae, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXIV (1961), pp. 186-221.

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aristotelica nello sforzo di trasfondere l’esercizio della virtù nella pratica civile. Ora, invece, ci si trova di fronte ad un fenomeno nuovo: per cui la ricerca filosofica è alimentata e sostenuta da un mecenate. È la stessa signoria di Cosimo, come il Ficino aveva spiegato nelle pagine premesse al commento alle Enneadi58, a promuovere lo sviluppo della filosofia platonica a Firenze. Così, da un lato abbiamo lo studioso non più inquadrato in una università o studio letteralmente costretto a ‘procacciarsi’ un sostegno materiale alla propria ricerca, dall’altro, chi ha i mezzi per offrire questo sostegno e per volgere a proprio vantaggio, a fini di propaganda, il lavoro dello studioso. Da questo punto di vista, è cifra caratteristica del neoplatonismo del secolo XV l’affidarsi ad un patrono: “The development of Christian Neoplatonism in the fifteenth century in particular was tied to private patronage. Since the new interest in Platonic studies had not yet found a place in the Universities, where the Aristotelian tradition had flourished from the thirteen century on, for someone like Ficino to be able to study Plato in depth, he had to place himself under the protection of rich persons who professed a special interest in the new humanist culture”59

.

58

Cfr. Opera Omnia, II, pp. 1537 ss.

59 Melissa Meriam Bullard, Marsilio Ficino and the Medici. The inner dimension of

patronage, in Christianity and the Renaissance, a cura di T. Verdon e J. Henderson,

Siracusa University Press, Siracusa 1990, pp. 467-492, p. 472. “Ficino, ed è questo un punto che non sempre mi pare sia stato bene valutato, fu persona quanto mai gelosa di una propria sfera di indipendenza, di quella rivendicata libertà del filosofare, che per una volta possiamo intendere in senso strettamente letterale. L’Accademia, si è detto, fu anti-istituzionale, non soltanto perché concepita e idealizzata in modo simbolico e utopico, ma perché, più concretamente, il pensiero stesso di Ficino ebbe origine dal rifiuto di sottostare a un ordine tradizionale. Avrebbe potuto o dovuto essere, come il padre, medico e filosofo naturale, e per sue buone ragioni non lo fu, almeno nel senso professionale del termine” (R. Fubini, Ficino e i Medici, in «Rinascimento», II s., (), pp., p. 10). Nel suo per altro informatissimo articolo, Fubini avanza l’idea che sia falsa l’immagine di un Ficino ‘cortigiano’ e alla costante ricerca di protettori. A supporto della sua tesi, Fubini riferisce delle giovanili lettere indirizzate a Michele Mercati e Pietro Pazzi (sic!), dove si spiega come l’unica ‘servitù’ tollerabile sia quella della filosofia. Ciò che dell’argomentazione del Fubini convince meno, però, è che si tratti di un documento risalente ben al 1457: troppo in là, dunque, rispetto al filosofo maturo; ecco perché la stessa impressione del Ficino ‘filosofo indipendente’ appare in generale poco persuasiva.

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