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DIABETE, RIDOTTA TOLLERANZA AL GLUCOSIO E MORBIDITÀ E MORTALITÀ CARDIOVASCOLARE: FATTORI PREDITTIVI ALLA DIAGNOSI

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e

Chirurgia

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

Tesi di laurea

DIABETE, RIDOTTA TOLLERANZA AL GLUCOSIO E

MORBIDITÀ E MORTALITÀ CARDIOVASCOLARE:

FATTORI PREDITTIVI ALLA DIAGNOSI

Relatori

Chiar.mo Prof. Stefano Taddei

Chiar.ma Prof.ssa Anna Solini

Candidato

Maria Lidia Bologna

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RIASSUNTO

La diffusione del diabete a livello globale con il suo carico di complicanze croniche (cardiovascolari, renali, oculari e neurologiche) rappresenta una sfida per la salute pubblica a causa del suo impatto sulla precoce morbidità e mortalità.

Il diabete mellito di tipo 2 si sta diffondendo ovunque nel mondo con una crescita inarrestabile sia nei paesi sviluppati che in quelli ancora in via di sviluppo e per questo considerato la più grande “epidemia” dei tempi moderni. A giustificare questa definizione sono soprattutto i numeri: 415 milioni di persone a livello mondiale che potrebbero diventare 642 milioni nel 2040. Questi dati allarmano ancor più quando si considerano le persone, definite prediabetiche, che presentano una iperglicemia non ancora indicativa di una stato patologico, ma neppure normale.

Il prediabete è una condizione eterogenea per patogenesi e rischio di complicanze, caratterizzato da una molteplicità di alterazioni metaboliche variamente associate tra loro che delineano diversi fenotipi.

Gli stati di disglicemia (IFG, IGT o HbA1c 5.7-6.4%), seppur asintomatici, inducono effetti deleteri sui tessuti bersaglio ed espongono gli individui ad un rischio maggiore di sviluppare diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari. Da qui la necessità di definire un fenotipo per identificare le misure di prevenzione più appropriate ed arginare la sua diffusione prevenendone l’insorgenza sin dalle fasi più precoci.

Numerosi studi hanno dimostrato l’importante ruolo dei diversi metodi di valutazione del glucosio (glicemia a digiuno, glicemia post-carico, emoglobina glicata) nel predire la futura insorgenza del diabete e delle malattie cardiovascolari. Grande importanza hanno i criteri diagnostici perché il parametro che decidiamo di analizzare nella pratica clinica determina il numero e le caratteristiche dei pazienti a cui viene diagnosticato il prediabete. In letteratura non vi è un accordo unanime su quale test, da solo o in combinazione, debba essere usato per lo screening.

Ad oggi, non esiste una determinazione che possa essere considerata “gold standard”. Questo può essere in parte dovuto alla variabilità di laboratorio, ma anche al fatto che i tre parametri riflettono condizioni diverse dal punto di vista dell’omeostasi glicemica.

Se da almeno un ventennio la determinazione dell’emoglobina glicata rappresenta, la variabile principale sulla quale si basa la valutazione e il monitoraggio del controllo

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glicemico a medio e lungo termine, negli ultimi anni un numero sempre più importate di studi si è soffermato sul ruolo di nuovi marker glicemici (iperglicemia alla prima ora durante OGTT, fruttosamina e albumina glicata) che potrebbero aggiungere informazioni prognostiche complementari a quelli definiti “tradizionali”.

Lo scopo del presente lavoro di tesi è stato valutare le caratteristiche basali antropometriche e bioumorali nei pazienti con neodiagnosi o con breve durata di malattia. Lo studio, condotto su una coorte di 150 pazienti, ha analizzato anche l’impatto e il ruolo predittivo dei vari parametri alla diagnosi sulla morbidità e mortalità totale nel corso di un follow-up di 76 mesi. Tutti hanno eseguito accertamenti per la valutazione del profilo glucidico e lipidico e test della funzionalità epatica, tiroidea e renale. All’esame obiettivo sono stati registrati BMI, pressione arteriosa e frequenza cardiaca. Durante la valutazione i pazienti hanno subito un’intervista strutturata per raccogliere informazioni su familiarità (per diabete, dislipidemie, ipertensione), abitudini, eventuali comorbidità e relative terapie. Al termine del follow-up sono stati registrati 22 decessi con un tasso di mortalità che si attesta intorno all’11.4%, significativo se si considera l’età media alla diagnosi (pari a 63.7 ± 11.4 anni).

Analizzando insieme i pazienti diabetici ed ipertesi sono emerse alterazioni del profilo lipidico e l’ipertensione, prevalentemente sistolica, si è dimostrata, di fatto, il fattore predittivo più forte della mortalità a 76 mesi.

Dall’analisi emerge chiaramente, in linea con studi recenti, come un filtrato renale basale più basso, seppure non inferiore a 60 ml/min/1.73 m2 si accompagni ad un outcome peggiore per la mortalità totale. Al contrario al momento della diagnosi gli indici del controllo glucidico non sono risultati particolarmente scompensati.

Oltre all’obesità, nel 12% dei casi è stata riconosciuta una pregressa cardiopatia ischemica. Un nesso, quello tra DM e MVC, che si è dimostrato forte anche nella nostra coorte di pazienti con neodiagnosi.

Riassumendo i risultati di questo studio osservazionale suggeriscono che l’eccesso di mortalità nei diabetici tipo 2 sia accompagnato da alterazioni di vari parametri biologici, in funzione dell’età, del controllo pressorio e della funzione renale.

Risulta pertanto fondamentale individuare non soltanto i soggetti con IFG e IGT, ma anche casi di diabete misconosciuto per attuare strategie di prevenzione intervenendo sullo stile di vita e avviando un trattamento precoce dei fattori di rischio cardiovascolare.

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INDICE

RIASSUNTO………..……….…pag. 3 INDICE ABBREVIAZIONI………...… pag. 6 PARTE PRIMA: SEZIONE INTRODUTTIVA

• Introduzione……….………....pag. 9 • Epidemiologia……….……….……pag. 11 • Mortalità e qualità della vita……….……...pag. 14 • Fisiopatologia del prediabete……….……..pag. 16 • Il diabete è una delle malattie più prevedibili……..………...pag. 19 • Quale test “legge” meglio la beta-cellula?...pag. 20 • Qual è il migliore predittore di patologia cardiovascolare?...pag. 24 • Iperglicemia alla prima ora durante OGTT ………...……….pag. 28 • Fruttosamina e albumina glicata:

indicatori del controllo glicemico ………...….………pag.30

PARTE SECONDA: LAVORO SPERIMENTALE

• Introduzione……….……….pag. 35 • Obiettivi dello studio………..…...…..….pag. 36 • Soggetti studiati……….………..……...……..pag. 36 • Materiali e metodi………..……..……pag. 37 • Determinazioni………....….pag. 38 • Analisi statistica……….…..…pag. 39 • Follow-up ………....pag. 40 • Risultati………pag. 40 • Conclusioni………...pag. 47 BIBLIOGRAFIA………..………pag. 48 INDICE DELLE FIGURE……….……. pag. 61 INDICE DELLE TABELLE……….…….. pag. 62 RINGRAZIAMENTI……….…..pag. 63

(6)

INDICE ABBREVIAZIONI

ACR Albumin/Creatinine Ratio ADA American Diabetes Association

AG albumina glicata

AGE Advanced Glycation End-products

CGI Combined Glucose Intolerance

CV cardiovascolare

DM diabete mellito

DMT1 diabete mellito di tipo 1

DMT2 diabete mellito di tipo 2

EASD European Association for the Study of Diabetes

eGFR estimated Glomerular Filtration Rate

FPG Fasting Plasma Glucose

HbA1c emoglobina glicata

IDF International Diabetes Association

IFCC International Federation of Clinical Chemistry and Laboratoty Medicine

IFG Impaired Fasting Glucose

IGT Impaired Glucose Tolerance

(7)

IR insulino resistenza

MCV malattia cardiovascolare

NAFLD Non-Alcoholic Fatty Liver Disease

NGT Normal Glucose Tolerance

OGTT Oral Glucose Tolerance Test

OMS Organizzazione Mondiale della Sanità

PA pressione arteriosa

PAD Pressione Arteriosa Diastolica

PAS Pressione Arteriosa Sistolica

PCR proteina C-reattiva

RAGE Receptor for Advanced Glycation Endproducts

TNF-alfa Tumor Necrosis Factor alfa

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PARTE PRIMA:

sezione introduttiva

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Introduzione

Il diabete mellito, comunemente definito diabete, è un gruppo di malattie metaboliche in cui la persona ha come difetto principale un aumento delle concentrazioni ematiche di glucosio (iperglicemia). Il diabete può essere causato da un deficit assoluto di secrezione insulinica, o da una ridotta risposta all’azione dell’insulina a livello degli organi bersaglio (insulino-resistenza), o dalla combinazione dei due difetti. L’iperglicemia cronica del diabete si associa a un danno d’organo a lungo termine (complicanze croniche), che porta alla disfunzione e all’insufficienza di differenti organi come gli occhi, il rene, il sistema nervoso centrale, autonomo e periferico, il cuore e i vasi sanguigni.1 I processi che portano allo sviluppo del diabete variano dalla distruzione autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas e conseguente deficienza a difetti causati da un’aumentata insulino-resistenza nei tessuti periferici. Le basi delle alterazioni del metabolismo dei carboidrati, degli acidi grassi e delle proteine sono provocate da un difetto della secrezione dell’insulina in risposta al glucosio associato o meno a un difetto dell’azione insulinica nei tessuti bersaglio, principalmente a livello epatico, nella fibra muscolare scheletrica, nel tessuto adiposo e nelle cellule vascolari. L’insufficiente azione insulinica può essere provocata da una non adeguata secrezione insulinica e/o da una diminuita risposta periferica all’azione dell’insulina in uno o più punti della complessa via di trasmissione a livello cellulare. Le forme più comuni di diabete, che comprendono la quasi totalità dei casi, ricadono in tre principali categorie: il diabete di tipo 1 (DMT1), il diabete di tipo 2 (DMT2) e il diabete gestazionale.

Il prediabete è una condizione caratterizzata da iperglicemia non diagnostica per diabete e da un elevato rischio di sviluppare diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari. Dati recenti documentano anche un aumentato rischio di altre patologie cronico degenerative come alcuni tipi di cancro, demenza ed insufficienza cardiaca. Il prediabete è una condizione eterogenea per patogenesi e per rischio di complicanze; infatti, sebbene il tratto comune sia l’iperglicemia, le persone con prediabete presentano una molteplicità di alterazioni metaboliche variamente associate tra loro: insulino-resistenza, disfunzione beta-cellulare, steatosi epatica/steatoepatite non alcolica, infiammazione subclinica, adiposità viscerale.

(10)

Possono essere pertanto identificati fenotipi differenti caratterizzati da prevalente deficit di funzione beta-cellulare, prevalente insulino-resistenza, e diverse combinazioni dei due. Anche il profilo dei fattori di rischio cardiovascolare (CV) e la prevalenza delle altre condizioni associate (i.e. obesità, steatosi epatica/steatoepatite, infiammazione subclinica) possono variare nei diversi fenotipi. È ragionevole ipotizzare che il rischio di progressione verso il diabete conclamato ed il rischio cardiovascolare possano essere diversi nei diversi fenotipi dipendendo dal difetto metabolico prevalente e dalla distribuzione dei fattori di rischio cardiovascolare. Poiché la condizione di prediabete rappresenta un obiettivo per la prevenzione del diabete e delle sue complicanze, queste osservazioni suggeriscono l’importanza della definizione del fenotipo al fine di identificare le misure di prevenzione più appropriate.

(11)

Epidemiologia

Il diabete mellito, ritenuto per lungo tempo una malattia di minore importanza, è diventato nel XXI secolo una delle principali minacce per la salute dell’uomo.2 Attualmente è considerato un’epidemia con una prevalenza a livello mondiale del 6%.3

Nel 2015 la IDF (International Diabetes Federation) ha stimato la presenza di 415 milioni di diabetici in tutto il mondo (ovvero l’8,8% degli adulti tra 29 e 79 anni); cifra questa che sembra destinata a salire a 642 milioni nel 2040 (Figura 1).

Se tale tendenza non si arresta, nel 2040 un adulto su dieci avrà il diabete con incrementi maggiori nelle regioni in cui l’economia sta passando da un reddito basso ad uno medio.

Figura 1.

Numero stimato dalla IDF di persone con diabete in tutto il mondo nel 2015 e

(12)

Inoltre, si stima che altri 300 milioni di individui abbiano un fenotipo metabolico a rischio per il DMT2, con IGT (impaired glucose tolerance), DMG e IR con euglicemia.4

In Italia, i dati rilevati dall’osservatorio ARNO relativi al 2014 riportano una prevalenza del 6.2% e indicano che nel nostro Paese dovrebbero esserci circa 3.750.000 persone affette da diabete. Considerando che i soggetti trattati con sola dieta non sono stati identificati e non rientrano nell’analisi, è verosimile concludere che i diabetici in Italia siano circa 4 milioni.

La diffusione del diabete cresce con l’età̀, e tra gli over 65 raggiunge circa il 20% (Figura 2).

Nel nostro Paese, su 100 persone affette da diabete mellito 70 hanno più di 65 anni e 40 più di 75 anni. È più frequente tra gli uomini che fra le donne (con differenze che si riducono dopo i 74 anni), nelle fasce di popolazione socio-economicamente più svantaggiate, fra i cittadini italiani rispetto agli stranieri e nelle regioni meridionali rispetto al Centro e al Nord.

Nel tempo si osserva un incremento in tutte le aree geografiche. Tuttavia i valori più elevati della media italiana si evidenziano nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del Centro come Umbria e Lazio. 5

Figura 2. Persone affette da diabete per paese europeo e classe di età. Anno 2016, tassi

standardizzati (per 100 persone con le stesse caratteristiche), graduatoria delle regioni ordinate per la classe di età 65 anni e oltre. (Fonte: Istat5)

(13)

I cambiamenti significativi nel comportamento e nello stile di vita dovuti alla globalizzazione hanno portato ad un tasso crescente di obesità e diabete.

Sebbene sia in aumento l’incidenza di entrambi, l’epidemia di diabete si riferisce in particolare al diabete di tipo 2 e si sta osservando sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo per via della sempre più importante diffusione di uno stile di vita “occidentale” associato ad abitudini alimentari basate su diete scarsamente nutritive e vita sedentaria.6

Attualmente nei paesi a basso e medio reddito ci sono più persone con diabete nelle aree urbane (269,7 milioni) rispetto a quelle rurali (145,1 milioni). Entro il 2040, a livello mondiale, la differenza dovrebbe aumentare, con 477 milioni di persone nelle aree urbane e 163 milioni in quelle rurali.4

La maggiore diffusione del diabete, al netto dell’effetto dell’invecchiamento, appare il risultato di diversi fenomeni: aumento della sopravvivenza delle persone con diabete, miglioramenti delle terapie e della qualità dell’assistenza nel tempo, anticipazione della capacità diagnostica che evidenzia casi prima sconosciuti.5

Anche se il diabete di tipo 2 è numericamente prevalente nella popolazione generale, il diabete di tipo 1 è la malattia cronica più comune dei bambini. Ma con l'aumento della prevalenza del diabete di tipo 2 nei bambini e negli adolescenti, l'ordine potrà essere invertito entro uno o due decenni7, 8

Paradossalmente, una parte del problema è da riferire ai risultati ottenuti dalla sanità pubblica nel corso del ventesimo secolo, con persone che vivono più a lungo a causa dell'eliminazione di molte delle malattie trasmissibili.9

Le malattie non trasmissibili come il diabete e la malattia cardiovascolare sono ormai diventate la principale sfida per la salute pubblica, a causa del loro impatto sulla salute personale e nazionale e sulla precoce morbilità e mortalità ad esse associate.10

La prevalenza del diabete, le morti e le spese sanitarie ad esso dovute continuano ad aumentare in tutto il mondo con importanti implicazioni sociali, finanziarie e sanitarie, con una necessità sempre più urgente per i governi di attuare politiche volte a ridurre i fattori di rischio e a garantire un accesso adeguato alle cure. 11

(14)

Mortalità e qualità della vita

Il diabete, insieme alle sue complicanze, è una condizione che interferisce sulla qualità della vita del paziente e comporta un aumento del rischio di mortalità. Rappresenta una delle principali cause di morte precoce nella maggior parte dei paesi e ha una forte rilevanza non solo come causa iniziale di morte ma anche come concausa in associazione ad altre malattie.

Nonostante l’incremento dei casi nell’ultimo decennio, la mortalità per diabete si è ridotta di oltre il 20% in tutte le classi di età. Inoltre, confrontando le generazioni, nelle coorti di nascita più recenti la quota di diabetici aumenta più precocemente che nelle generazioni precedenti, a conferma anche di una progressiva anticipazione dell’età in cui si diagnostica la malattia.5

Nel 2015 circa 5 milioni di persone di età compresa tra i 20 e i 79 anni sono morte a causa del diabete (l’equivalente di una morte ogni sei secondi).11 Questo dato supera anche le cause infettive (1.5 milioni di morti a causa dell’AIDS, 1.5 milioni a causa della tubercolosi).12

Riassumendo, si può concludere che il diabete è tra le prime 10 cause di morte nei paesi industrializzati. Quando insorge precocemente espone a maggior pericolo di morte, con una spettanza di vita ridotta, calcolata intorno a 6-7 anni, soprattutto per eventi cardiovascolari.13

La malattia cardiovascolare (MCV) è la prima causa di morte nei pazienti con DM nei quali si riscontra un’aterosclerosi diffusa, precoce e a rapida evoluzione le cui cause sono plurime. Un paziente diabetico adulto ha la probabilità doppia di sviluppare una cardiopatia ischemica rispetto a un non diabetico. La prevalenza di MCV nei pazienti con DM2 è tale che il DM può considerarsi un equivalente di MCV. 14

Il DM con le sue complicanze non peggiora solo il benessere fisico ma anche quello mentale. Oltre a malattie cardiovascolari (infarto, angina pectoris, ictus), problemi renali, ipertensione e cirrosi epatica i soggetti diabetici sono più spesso affetti da ansia e depressione.

Uno studio condotto su una popolazione rappresentativa con età superiore ai 15 anni ha messo in luce una prevalenza della depressione nella popolazione diabetica del 24%

(15)

rispetto al 17% della popolazione non diabetica, dimostrando così un notevole impatto sulla qualità della vita.15

Oltre al diabete esistono degli stati di disglicemia che sono degni di attenzione. Essi meritano l’appellativo di prediabete perché predispongono, se non adeguatamente corretti, all’insorgenza del diabete e delle complicanze aterosclerotiche cardiovascolari.

Per prediabete si intende una condizione clinica, spesso sottovalutata, caratterizzata da livelli di glucosio plasmatici superiori alla norma, ma non così elevati da permettere la diagnosi di diabete di tipo 2.

Sono definiti prediabetici i soggetti che rispondono ai seguenti criteri diagnostici (Tabella 1):

• alterata glicemia a digiuno (impaired fasting glucose, IFG) quando la glicemia a digiuno è tra 110-125 mg/dL;

• ridotta tolleranza al glucosio (impaired glucose tollerance, IGT) quando a 2 ore dal carico orale (OGTT) i valori di glucosio sono compresi tra 140-199 mg/dL;

• emoglobina glicata (HbA1c) compresa tra 5.7 e 6.4% (39-46 mmol/mol).16

Tabella 1. Criteri diagnostici per categoria di pazienti a incrementato rischio di diabete

Categoria Marker Range

IFG1 Glicemia a digiuno 110 – 125 mg/dl

IGT2 Glicemia 2 h dopoOGTT3 140 – 199 mg/dl HbA1c – prediabete HbA1c 5.7 – 6.4%

1. IFG: Impaired Fasting Glucose 2. IGT: Impaired Glucose Tolerance 3.OGTT: Oral

Glucose Tolerance Test

Storicamente la diagnosi di diabete mellito si è sempre basata sui valori della glicemia, sia essa dosata a digiuno che dopo 2 ore dal carico con 75 g di glucosio.

(16)

Solo di recente, precisamente nel 2011, l’American Diabetes Association (ADA), alla luce delle evidenze specifiche emerse, ha introdotto il parametro HbA1c come indicatore utilizzabile per la diagnosi di prediabete e diabete mellito di tipo 2, in aggiunta agli altri due criteri “classici” sopracitati basati sulla glicemia a digiuno e sull’OGTT.

Fisiopatologia del prediabete

Tutti e tre i parametri considerati vanno intesi come categorie arbitrarie che si collocano lungo un continuum che dalla normalità porta al diabete e, in quanto tali, in grado di predire la futura insorgenza del malattia (Figura 3). Essi, pertanto, costituiscono un fattore di rischio che lascia presagire la futura comparsa del DM e delle complicanze microvascolari e cardiovascolari che ne caratterizzano il decorso.

Figura 3. Storia naturale del diabete di tipo 2

L’alterata glicemia a digiuno (IFG) e la ridotta tolleranza al glucosio (IGT) sono stati intermedi nel metabolismo del glucosio e riflettono condizioni diverse dal punto di vista dell’omeostasi glicemica. Il più delle volte non sono contemporaneamente presenti nello stesso individuo (Figura 4).

Un’intolleranza combinata al glucosio (CGI), comprensiva cioè di IFG e di IGT, è infatti NG T IFG/IGT GT Diabete tipo 2 Complicanze Disabilità Morte

(17)

presente solo nel 15-20% dei casi; il 30-45% dei soggetti con IFG ha anche IGT mentre il 20-25% dei soggetti con IGT ha anche IFG.17

Ciò è dovuto al diverso substrato fisiopatologico che sottende i due parametri di misura e che giustifica una eventuale discordanza dei risultati nello stesso soggetto.

A tal proposito, l’ADA suggerisce che, in caso di discordanza fra due parametri di misura, per esempio tra il valore della glicemia a digiuno e quello della glicata, si debba ripetere il dosaggio del valore risultato patologico e, se confermato, formulare, su questa base, la diagnosi definitiva.

Figura 4. Criteri dell’American Diabetes Association: IFG/IGT stati intermedi tra la

normoglicemia e il diabete.

La resistenza all'insulina e la funzione beta-cellulare compromessa, difetti primari osservati nel diabete di tipo 2, possono essere rilevati anche nei soggetti con IGT e IFG.

Tuttavia, la sede della resistenza insulinica, le modalità e l’intensità del deficit secretivo sono diverse nella IFG rispetto alla IGT.

Sia l’IFG che l’IGT sono due condizioni di insulino-resistenza ma, mentre nella IFG vi è una resistenza insulinica epatica ma una normale sensibilità a livello muscolare, nella IGT avviene il fenomeno contrario.18

D i a b e t e

NGT IGT

IFG IFG + IGT

(140 mg/dL) (200 mg/dL) Glicemia 2 h dopo OGTT

(126 mg/dL) (110 mg/dL) Glice mi a a di giuno

(18)

Nei soggetti con intolleranza al glucosio combinata (CGI) la resistenza insulinica è presente sia a livello epatico che muscolare, configurando così una condizione di maggiore gravità.

I due stati divergono anche per quel che concerne il deficit di secrezione insulinica. Nei soggetti con IFG vi è un deficit della risposta insulinica nella fase precoce dell’OGTT con un recupero nella fase tardiva, mentre i soggetti con IGT hanno una maggiore compromissione della secrezione insulinica che interessa sia la fase precoce che quella tardiva.19

Queste caratteristiche metaboliche aiutano a comprendere il diverso profilo glicemico osservato nelle due condizioni durante il carico di glucosio.

Nei soggetti con IFG la curva da carico mostra un picco alla prima ora con un buon recupero alla seconda, a testimoniare che si conserva una discreta capacità di produrre insulina.

Il deficit precoce della secrezione insulinica (Figura 5), insieme alla predominante resistenza epatica, determina un incremento della glicemia superiore a quello osservato durante i primi 60 minuti dell’OGTT nei normotolleranti, con ritorno alla normalità dopo 120 minuti, in virtù della conservazione di una normale sensibilità insulinica muscolare e della risposta insulinica tardiva.

Figura 5. Secrezione insulinica nel soggetto normale (verde) e nel paziente con

(19)

Nel caso dell’IGT, invece, a causa della resistenza insulinica muscolare e della deficitaria risposta insulinica tardiva, la curva da carico mostra valori più elevati sia alla prima che alla seconda ora.

I soggetti con intolleranza al glucosio combinata mostrano, come è logico attendersi, valori di glicemia più elevati ad ogni tempo dell’OGTT18. Le distinte caratteristiche metaboliche presenti nei soggetti con IFG e IGT possono richiedere diversi interventi terapeutici per impedire la loro progressione al diabete di tipo 2.

Il diabete è una delle malattie più prevedibili

Le stime attuali indicano che la maggior parte degli individui, circa il 70% dei prediabetici, svilupperà la malattia franca in un tempo più o meno variabile. La restante quota rimarrà immodificata o vedrà il ritorno ad una condizione di normotolleranza glucidica.

Il passaggio dalle anomalie metaboliche al diabete può richiedere diversi anni. Molto spesso l’esordio è rapido piuttosto che graduale e ciò è in parte spiegato da una diminuzione della risposta insulinica stimolata dal glucosio.20

In media infatti, la patologia vera e propria compare in un lasso di tempo che può andare dai tre ai dieci anni, in relazione sia a fattori congeniti che all'effettivo atteggiamento del paziente ovvero al suo stile di vita.

L’incidenza del diabete è più alta nei soggetti con intolleranza combinata al glucosio (CGI) rispetto a quelli con IFG o IGT isolata.

Per i pazienti con alterazione dell’omeostasi glicemica (IFG, IGT o HbA1c 5.7 - 6.4%) il rischio di sviluppare il diabete è del 6% ogni anno contro lo 0.5% dei soggetti normoglicemici all’inizio dell’osservazione.21

(20)

Quale test “legge” meglio la beta-cellula?

Diversi studi hanno dimostrato l’importante ruolo di questi tre criteri diagnostici nel predire la futura insorgenza di diabete di tipo 2 in soggetti prediabetici.22, 23

Fino al 2011 la HbA

1c era considerata gold standard esclusivamente per il monitoraggio e il

trattamento del diabete e, tra i due test diagnostici impiegati, glicemia a digiuno e OGTT, il primo era sicuramente il test più frequentemente utilizzato per motivi pratici legati alla semplicità e alla modalità di esecuzione.

Tuttavia, entrambi richiedono che il paziente sia a digiuno e i loro risultati sembrano essere influenzati da eventi clinici intercorrenti. L’OGTT, inoltre, necessita di un importante impiego di tempo e sembra avere una riproducibilità più bassa rispetto alla glicemia a digiuno.24

Ad oggi le linee guida non indicano quale dei tre test, da solo o in combinazione con uno degli altri due, deve essere usato per lo screening del prediabete.

Sono stati pubblicati diversi studi clinici che hanno valutato la concordanza tra le diagnosi ottenuta con i diversi test (glicemia a digiuno, dopo carico di glucosio e emoglobina glicata).

I risultati dimostrano una mancata corrispondenza nella maggior parte dei casi. Questo può essere in parte dovuto alla variabilità di laboratorio, ma anche al fatto che i tre parametri riflettono processi biologici molto differenti tra loro.

Appare, dunque, opportuno poter disporre di una o più glicemie a digiuno e del valore dell’ HbA1c per individuare correttamente gli stati di prediabete.

Va premesso che la classificazione delle condizione ad lato rischio di sviluppo di DM è alquanto problematica. Essa infatti, suggerisce che tutti i soggetti in classificati svilupperanno un franco diabete e che i soggetti che non rientrano in suddetti valori non lo avranno. La realtà clinica insegna che entrambe le affermazioni non sono certe e che lo sviluppo di diabete mellito e di malattie cardiovascolari è comune anche tra i soggetti con normale glicemia a digiuno (NFG) e dopo carico di glucosio (NGT).25

Infatti, circa il 30-40 % dei soggetti che nel follow-up ha sviluppato diabete era NFG e NGT al baseline.1726

(21)

L’attuale uso dell’HbA1c è il risultato delle indicazioni emerse dall’analisi di un ampio numero di studi clinici randomizzati. I più significativi dei quali sono il Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) e lo UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) che hanno dimostrato come l’HbA1c sia un indicatore indipendente per il rischio di comparsa e progressione delle peculiari complicanze del diabete.

Il comitato di esperti internazionali dell’ADA, dell’European Association for the Study of Diabetes (EASD), dell’IDF e dell’IFCC (International Federation of Clinical Chemistry and Laboratory Medicine) ha prodotto un documento di consenso sulla standardizzazione dell’HbA1c27 il cui valore potrà essere espresso in unità %, secondo il sistema di riferimento americano del National Glycohemoglobin Standardization Program (NGSP), allineato al sistema DCCT, oppure in unità IFCC (mmol/mol).28

Una HbA

1c ≥ 6.5% è indicativa di una condizione di diabete in accordo con l’osservazione

secondo cui la prevalenza della retinopatia aumenta in concomitanza di valori di HbA

1c

compresi tra 6 e 7%, ed in particolare con i valori di glicemia definiti per la IFG e la IGT. Anche seguendo questo criterio diagnostico la HbA

1c si configura come marker alternativo

di prediabete e identifica una condizione intermedia fra diabete e normalità quando i suoi valori sono compresi fra 5.7 e 6.4%. 29

Dati pubblicati in letteratura suggeriscono che la HbA

1c dei soggetti con IFG, spesso e

nelle fasi iniziali, non è compresa tra i valori sopracitati ma inferiore. Per questo motivo il solo dato della glicata non è sufficiente per etichettare come prediabetici quei soggetti che hanno una glicemia alterata a digiuno. È noto, infatti, che il paziente con IFG subisce più tardivamente lesioni tipiche della malattia rispetto a chi soffre di IGT, in cui il deficit insulinico è più marcato e precoce.30

La HbA1c tra i criteri diagnostici di prediabete presenta diversi vantaggi quali l’indipendenza dalla condizione di digiuno, una maggiore stabilità pre-analitica e una maggiore riproducibilità, non risentendo di variazioni glicemiche acute o individuali per la sua determinazione. 31

A fronte dei vantaggi citati, occorre ricordare che il suo utilizzo ha alcune limitazioni e che esistono delle condizioni che richiedono metodiche specifiche di dosaggio o che, addirittura, ne precludono l’uso. Tra queste rientrano le emoglobinopatie, le anemie emolitiche, la cirrosi epatica, l’insufficienza renale, la carenza di ferro, la perdita acuta o

(22)

cronica di sangue o la predisposizione genetica ad una maggiore glicazione proteica. Tutte condizioni queste che, alterando il turnover degli eritrociti, possono falsare il dosaggio della HbA1c.32

Secondo i dati forniti dal National Health Nutrition Examination (NHA-NSE) il dosaggio della HbA

1c ha un’elevata specificità (81-91%) e una bassa sensibilità (39-45%)

nell’identificazione dei soggetti con prediabete e non è in grado di discriminare i casi di ridotta tolleranza al glucosio (IGT), individuabili, al contrario, misurando la glicemia alla seconda ora dal carico orale di glucosio.

In effetti, con l’adozione di questo criterio è stata rilevata una minore prevalenza di diabete e di prediabete rispetto a quella derivata dal semplice dosaggio della glicemia.3334

La netta discordanza tra la capacità diagnostica dell’OGTT rispetto a HbA

1c è stata

confermata dallo studio italiano GENFIEV pubblicato nel 2012 che ha reclutato soggetti a rischio di diabete di tipo 2 nel tentativo di definire le caratteristiche genotipiche e fenotipiche dei pazienti con più alto rischio. Il primo dato riguarda la diagnosi di prediabete con OGTT vs diagnosi di prediabete con HbA

1c: 42% con OGTT vs 38% con

HbA1c con una concordanza del 54%.

I dati raccolti hanno, quindi, evidenziano e confermato come la HbA

1c sia in grado di

identificare percentuali minori di soggetti con prediabete rispetto all’OGTT, ma hanno anche dimostrato come l’utilizzo nello screening di HbA1c associato a esecuzione di OGTT possa identificare pazienti a più alto rischio di sviluppo di diabete e con peggiore profilo di rischio cardiovascolare. In particolare i soggetti a rischio non solo presentano una ridotta funzione delle cellule che sono implicate nella produzione di insulina e una maggiore resistenza al buon funzionamento dell’insulina stessa, ma anche valori più elevati di trigliceridi, colesterolo LDL e di pressione arteriosa e valori minori di colesterolo HDL. Grande importanza hanno, dunque, i criteri diagnostici. Il parametro che decidiamo di analizzare nella pratica clinica determina il numero e le caratteristiche dei pazienti a cui viene diagnosticato il prediabete e di conseguenza ha un enorme impatto sulla popolazione che verrà presa in considerazione per possibili interventi preventivi e/o terapeutici.

Come rimarcato nelle raccomandazioni proposte dall’International Expert Committee è bene sottolineare che non c’è una determinazione che possa essere considerata “gold standard”35 anche perché studi epidemiologici recenti hanno evidenziato una variazione della prevalenza di prediabete in base all’età, al sesso e all’etnia.36

(23)

Uno studio condotto su un’ampia coorte di canadesi riporta dati discordanti con quelli appena espressi, evidenziando una più elevata prevalenza di prediabete quando si usa l’HbA1c al posto della glicemia plasmatica basale. Gli autori hanno ipotizzato che questo dato possa essere dovuto a diversi fattori tra cui l’etnia anche se le ragioni di tali differenze rimangono sconosciute. 37

Recentemente, sono stati descritti incrementi dei valori dell’HbA1c in rapporto all’età del soggetto (0,03% per anno) in modo indipendente dalla tolleranza glucidica. Tuttavia ad oggi, non si ritiene, che tale aumento giustifichi un cambiamento dei target per differenti gruppi d’età.38

Fino a quando le ragioni di queste differenze non saranno più chiaramente definite, l'affidamento a HbA1c come unico criterio potrebbe creare errori sistematici e di classificazione errata.

Su questo specifico hot point è necessario fare alcune precisazioni. Il valore della HbA1c dipende non solo dalla concentrazione del glucosio ematico ma anche da altri fattori che influenzano il tasso di glicazione, come lo stato pro-infiammatorio e lo stress ossidativo. Diversi studi hanno dimostrato che l’obesità è associata all’aumento dello stress ossidativo e dell’infiammazione sistemica. Ecco perché la sindrome metabolica si può ricondurre alla condizione del prediabete. Essa infatti, se non trattata, ha un tasso di conversione in diabete di tipo 2 tra il 5 e il 10% l’anno. Queste tre condizioni (diabete, prediabete e sindrome metabolica) insieme all’obesità riconoscono come elementi causali, insieme ai fattori genetici, un eccesso calorico e un difetto di attività fisica. Infatti, dall’accumulo di tessuto adiposo viscerale derivano una serie di segnali metabolici responsabili della comparsa di una condizione di insulino-resistenza, a livello sia epatico sia periferico, e di una riduzione della secrezione insulinica.

(24)

Qual è il migliore predittore di patologia cardiovascolare?

Molto importante è il rapporto tra malattia diabetica, anche in questa fase preliminare, e le patologie cardiovascolari: se un paziente diabetico ha un rischio di soffrire di patologie cardiovascolari da doppio a quadruplo rispetto alle persone sane, nel caso di prediabete il rischio risulta comunque una volta e mezza maggiore rispetto a chi ha una glicemia normale. I danni a lungo termine, soprattutto a carico delle arterie coronarie, delle arterie periferiche e del sistema cerebrovascolare, si avviano, infatti, già in questa fase in modo subdolo e silenzioso.

L’elevata percentuale dei pazienti con diabete che sviluppa MCV e l’influenza negativa del diabete sulla prognosi cardiovascolare pongono l’accento sulla necessità di avere informazioni chiare riguardo alla prevenzione e alla diagnosi precoce di questa malattia. Numerose evidenze indicano che anche le alterazioni della regolazione glicemica che precedono il diabete si possono associare ad un aumentato rischio CV.3917

Di conseguenza anche IFG e IGT dovrebbero essere considerati non solo fattori di rischio per lo sviluppo di diabete, ma anche fattori associati allo sviluppo di complicanze CV.40 Riguardo ai metodi da utilizzare le linee guida sottolineano che non è ancora disponibile un marcatore biologico univoco e non vi sono opinioni concordanti su quale sia il migliore predittore di MCV.

Il dosaggio della HbA1c viene proposto come test diagnostico oltre alla glicemia plasmatica (a digiuno o dopo carico orale di glucosio) nonostante la concordanza tra i tre criteri sia scarsa.16

Uno studio ha confrontato il valore prognostico della HbA

1c>6% e della glicemia a

digiuno in una popolazione di 10.000 soggetti adulti e non diabetici, in follow-up per 14 anni, e ha dimostrato la superiorità della HbA

1crispetto alla glicemia a digiuno.

41

Tra gli studi più recenti rientra quello pubblicato da Millar et al. condotto al fine di verificare quale metodo diagnostico tra HbA

1c (nel range 5.7-6.4%) e glicemia a digiuno

(5.6-6.9 mmol/l) sia in grado di individuare con maggiore precisione i soggetti esposti a rischio. I dati dimostrano che l’uso combinato di HbA

1c e FPG può essere di ulteriore

(25)

Inoltre, i soggetti diagnosticati come prediabetici da entrambi i metodi hanno livelli significativamente maggiori di marker infiammatori quali PCR, IL-6, TNF-α; espressione di un più alto rischio CV.42

Ad oggi non è chiaro il legame esistente tra le MCV e i disturbi dell’omeostasi glicemica. Secondo un’ipotesi molto accreditata i prodotti finali di glicazione avanzati (AGE) si legano al loro recettore (RAGE) e portano all'attivazione di una gamma di vie infiammatorie e fibrotiche che causano lesioni tissutali endoteliali.43

Tali osservazioni concordano con i dati di una recente metanalisi secondo cui i livelli aumentati di HbA

1c, anche nelle persone che non hanno il diabete, possono segnalare la

necessità di prevenzione al fine di ridurre il rischio di MCV.44

D’altra parte, una riduzione dell’1% dei livelli di HbA

1c riduce del 21% il rischio di

complicanze complessive e del 21% la mortalità dovuta alle complicanze del DM.45

Uno studio condotto su un gruppo di pazienti caucasici, oltre a ribadire l’esistenza di una notevole discordanza tra i criteri diagnostici, ha evidenziato che il profilo di rischio cardiometabolico di questi soggetti varia in base al parametro considerato.46

Nonostante gran parte della letteratura sia concorde sul fatto che il livello di glucosio nel sangue è un marker di rischio per MCV tra gli individui apparentemente sani senza diabete, 47, 48

ad oggi nessuno singolo test di laboratorio può adeguatamente identificare un individuo esposto a tale rischio.

E, se in alcuni studi la HbA

1csi è dimostrata il migliore predittore di MCV e mortalità per

cardiopatia ischemica, in altri invece è la 2h-PG (glicemia a 2 ore) a risultare miglior predittore di mortalità e di outcome CV.495051

Addirittura, secondo lo studio AusDiab la HbA

1c non è in grado di predire la mortalità CV

indipendentemente da FPG o 2h-PG.31

Recenti metanalisi riportano una relazione graduale per la glicemia postcarico (2h-PG), mentre per la glicemia a digiuno (fasting plasma glucose, FPG) è stata descritta una relazione continua, di tipo J o con valore soglia. 5253

La glicemia post-carico, inoltre, comporta un rischio di eventi CV più elevato rispetto alla glicemia a digiuno (FPG)23, 54

, indipendentemente dal livello di HbA

1c o FPG 54, 55

In realtà, la glicemia rappresenta un fattore di rischio continuo sia all’interno dell’area considerata di normale glicemia a digiuno56

sia di emoglobina glicata. 41

(26)

Livelli di FPG compresi fra 90 e 94 mg/dL (5.0-5.2 mol/L) comportano un rischio di evolvere verso il diabete circa il 50% maggiore rispetto a valori inferiori a 85 mg/dL (4.7 mmol/L).

Sia l’IFG che l’IGT, quest’ultima in modo più evidente, presentano un eccesso di mortalità del 50-60% rispetto ai soggetti normoglicemici; 52, 57

di conseguenza è stato stimato che il 65% della mortalità CV si verifica in soggetti con diabete noto o alterata regolazione glicemica.

Aggarwal et al. hanno valutato l’associazione tra HbA1c e mortalità, ospedaliera e a lungo

termine, usando i dati provenienti da un campione di soggetti prediabetici e diabetici con STEMI. Gli autori hanno sottolineato come, in tale contesto, l’OGTT risulti un test di difficile gestione sostituibile con la più immediata misurazione della glicemia al fine di identificare i pazienti con alterato stato glicemico e porre un’adeguata attenzione in termini di terapia. Infatti, come sottolineato nello studio, questi pazienti hanno una mortalità simile a quella dei pazienti con diabete noto.58

Analisi cliniche hanno evidenziato come tale rischio sia indipendente dagli altri fattori;59

tuttavia non bisogna dimenticare che la HbA

1c, così come la glicemia a digiuno e post

carico, è espressione di svariati processi metabolici e potrebbe assumere significati differenti.

Nonostante sia stata dimostrata un’associazione importante tra i tre criteri diagnostici, danno cardiovascolare subclinico25

e mortalità, la capacità della glicemia di individuare i soggetti a rischio appare modesta quando vengono considerati altri fattori, quali un precedente evento CV, fumo, pressione arteriosa, dislipidemia, obesità.50, 60

Diverse ricerche hanno dimostrato la possibilità di prevenire la progressione dal prediabete al diabete e di ridurre il rischio di complicanze micro e macrovascolari intervenendo sulla dieta e sull’esercizio fisico o con la somministrazione di farmaci in soggetti con IGT.

Sia lo studio finlandese Diabetes Prevention Study (DPS)61

che lo quello Americano Diabetes Prevention Program (DPP)62

hanno seguito un approccio caratterizzato da interventi strutturati individuali di natura nutrizionale, motoria e comportamentale. In entrambi, si è ottenuta una riduzione dell’incidenza di diabete del 58%, dopo un follow-up rispettivamente di 3 (DPS) e di 2.8 anni (DPP), ma è anche da rimarcare come nessuno dei soggetti che aveva realizzato integralmente le modificazioni dello stile di vita abbia sviluppato il diabete.61

(27)

Rilevante è la riduzione del rischio ottenuta con la metformina, utilizzata in un gruppo specifico del DPP, a testimonianza della interferenza esercitata sui risultati dall’effetto ipoglicemizzante dei farmaci. Nel DPP i risultati ottenuti sull’ipertensione, sulla dislipidemia aterogena e sui livelli di proteina C reattiva sono stati attribuiti per intero alla riduzione del peso corporeo.

Tuttavia, questioni importanti circa la relazione glicemia-MCV rimangono senza risposta. Innanzitutto, anche se il DM è un fattore di rischio più forte nelle donne rispetto agli uomini, non è chiaro se la differenza sessuale si estenda a iperglicemia non diabetica. In secondo luogo, anche se il controllo glicemico spesso diminuisce con l'età, non è noto se i livelli elevati di glucosio nel sangue negli anziani siano associati allo stesso rischio degli individui di mezza età. 49 In terzo luogo, l'iperglicemia è associata a cofattori di rischio per MCV, tra cui l'ipertensione, la dislipidemia, l'obesità e uno stile di vita sedentario. 63 Infine, i diversi i metodi di valutazione del glucosio (glicemia a digiuno, glicemia postcarico/postprandiale, emoglobina glicata) potrebbero aver contribuito a dare risultati eterogenei insieme alla breve durata dei trial condotti finora e al basso numero di eventi CV che si sono verificati in ognuno di essi.

La precoce identificazione di soggetti a rischio rappresenta una importante sfida poiché cambiamenti nello stile di vita e/o approcci farmacologici (studio IRIS) si sono dimostrati in grado di prevenire lo sviluppo del diabete e l’insorgenza di malattie cardiovascolari a esso associate.

Il DM, infatti, è considerato un equivalente della patologia coronarica e una sua diagnosi precoce permette una correzione di eventuali ulteriori fattori di rischio cardiovascolari associati, oltre a un follow-up anticipato.

In conclusione, combinando i risultati di numerosi studi si può affermare che l’iperglicemia, anche nel range di valori non diagnostici per diabete, rappresenta un fattore di rischio progressivo e continuo per patologie cardiovascolari in particolare nella popolazione femminile.64

Nonostante la stretta associazione, la valutazione del rischio cardiovascolare dovrebbe basarsi sui fattori tradizionali, quali fumo, pressione arteriosa e profilo lipidico.

La determinazione dell’emoglobina glicata (HbA1c) rappresenta, da almeno un ventennio ormai la variabile principale sulla quale si basa la valutazione e il monitoraggio del controllo glicemico a medio e lungo-termine (2-3 mesi) del soggetto con prediabete o diabete mellito.

(28)

Negli ultimi anni un numero sempre più importate di studi si è soffermato sul ruolo di nuovi marker glicemici da utilizzare in alternativa ai quelli definiti “tradizionali” e come precedentemente descritto non privi di limiti.

Iperglicemia alla prima ora durante OGTT

Le due categorie di prediabete comunemente conosciute, IFG e IGT, sono caratterizzate da elevati livelli di glicemia a digiuno e/o glicemia 2 ore dopo carico orale di glucosio. Tuttavia, lo sviluppo di diabete mellito e di malattie cardiovascolari è comune anche tra i soggetti con NGT.

Per la prima volta in uno studio epidemiologico prospettico, il San Antonio Heart Study, Abdul-Ghani et al. hanno dimostrato che il 30-40% dei pazienti che sviluppa diabete presenta una normale tolleranza glucidica e che ogni soggetto CGI ha una concentrazione di glucosio plasmatico ad 1 ora ≥ 155 mg/dL. I soggetti con CGI hanno un rischio maggior (rischio annuale > 10%), mentre i soggetti con IFG o IGT isolati hanno un rischio intermedio tra CGI e NGT.

L’aspetto più importante osservato è che il 17% dei soggetti con alterata tolleranza al glucosio, identificati con il glucosio plasmatico di 1 ora, sarebbero stati persi utilizzando solo i criteri dell'ADA .

Queste evidenze suggeriscono che i criteri diagnostici basati sulla glicemia a digiuno e a 2 ore dopo OGTT, ad oggi in uso, non sono sufficienti per identificare tutti i soggetti a rischio, mentre un valore di glicemia dopo 1 ora durante OGTT superiore a 155 mg/dL ha un’elevata sensibilità (75%) e specificità (79%) nel predire l’insorgenza del diabete di tipo 2. 65

Nei soggetti non diabetici, la diminuzione della concentrazione di glucosio plasmatico a 30-60 minuti durante l'OGTT dipende dalla sensibilità all'insulina dei muscoli scheletrici e dalla funzionalità della beta-cellula.18, 66Pertanto, la resistenza all'insulina del muscolo scheletrico e del fegato, nonché la diminuzione della funzionalità delle beta-cellule, giustificano l’aumento della concentrazione di glucosio plasmatico ad un’ora. Ciò rende

(29)

tale parametro un buon indicatore per le principali anomalie metaboliche che portano allo sviluppo del diabete di tipo 2.

Coerentemente con questo, sembrerebbe che la concentrazione di glucosio plasmatico a 1 h durante l'OGTT abbia una correlazione più forte con misure surrogate di resistenza all'insulina epatica e muscolare e alla disfunzione delle cellule beta rispetto al valore del glucosio plasmatico a 2 ore.67 A dare ulteriore peso a queste osservazioni ci sono studi che hanno confermato risultati simili in diverse etnie.65, 68

Un significativo rischio di malattia cardiovascolare, inoltre, è stato osservato tra i soggetti con NGT, e in ampi studi longitudinali è stata riscontrata una positiva associazione tra eventi cardiovascolari e livelli di glicemia alla prima ora durante OGTT in soggetti non diabetici. 69

Recentemente un notevole numero di studi condotti70 ha dimostrato che individui NGT, ma con glicemia alla prima ora ≥ 155 mg/dL presentano un insieme di alterazioni cardio-metaboliche, come un peggior profilo lipidico, ridotta sensibilità insulinica, elevati markers infiammatori, ridotti livelli di IGF-1 e vitamina D e segni di danno d’organo predittivi di eventi cardiovascolari simili a quelli riscontrati nei soggetti con IGT.71, 72

L’importanza di questi valori intermedi viene meno nella pratica clinica in quanto per ottenere i valori glicemici ad un’ora è comunque necessario eseguite un OGTT. Inoltre, la maggior parte dei pazienti con glicemia ad un’ora ≥ 155 mg/dL è già inclusa nel gruppo con emoglobina glicata nel range 5.7-6.4%. 25

In conclusione gli studi finora pubblicati supportano l’importanza della determinazione della glicemia alla prima ora durante OGTT, in aggiunta alla glicemia a digiuno e a 2 ore dopo carico orale, al fine di riconoscere precoci alterazioni del metabolismo.

(30)

Fruttosamina e albumina glicata: indicatori del controllo glicemico

Fruttosamina, che sta per 1-amino-1-deossifruttosio, è un termine generico che si riferisce alle proteine glicate (da non confondere con le glicoproteine) presenti nel plasma, in particolare all’albumina che ne rappresenta la quota maggiore.

Si tratta di una chetoamina che deriva dalla reazione non enzimatica tra un esoso (di solito glucosio) e una proteina (in genere albumina) che subisce quindi una modificazione post-translazionale.

Per le sue proprietà l’albumina è una proteina di notevole importanza nella fisiologia dell’organismo. Alterazioni della sua struttura e funzione possono avere rilevanti ripercussioni fisiopatologiche, tanto è vero che i suoi livelli sono determinati nella pratica clinica per valutare lo stato nutrizionale generale di un paziente. In caso di iperglicemia cronica o di picchi iperglicemici rilevanti si ha la formazione dell’albumina glicata (AG) mediante processi di glicosilazione non enzimatica.

È interessante sottolineare come gli effetti biologici della glicazione non enzimatica, oltre a rappresentare un supporto laboratoristico a fini diagnostici, hanno ripercussioni sulla clinica del paziente diabetico.

In generale l’AG mostra la perdita di affinità nei confronti di diversi ligandi, farmaci inclusi, in maniera non sempre univoca o prevedibile nei diversi stadi della malattia diabetica.73

Allo stesso modo perde la sua capacità antiradicalica e diviene essa stessa fonte di stress ossidativo inducendo modificazioni di altre proteine.

L’attenuazione dell’attività radical scavenger dell’AG, contribuisce a livello cellulare e tissutale, allo sviluppo delle complicanze del diabete mellito: retinopatia, nefropatia, neuropatia, malattia cardiovascolare.74, 75 Più in generale interferisce, in senso pro-infiammatorio, con il sistema immunitario.76, 77

Ultimamente la fruttosamina e l’albumina glicata sono diventati marcatori a breve termine del controllo glicemico tanto che potrebbero aggiungere informazioni prognostiche complementari alla HbA

1c.

In virtù della breve vita media (2-4 settimane) rispetto a quella dell’emoglobina, l’AG è un indicatore retrospettivo a più breve termine del controllo glicemico e, per lo stesso motivo, possiede una maggiore prontezza a registrarne le variazioni. 78

(31)

Nei soggetti con storia di iperglicemia, dopo una settimana di migliorato controllo glicemico, si osserva una riduzione del 37% dei valori di fruttosamina laddove negli stessi pazienti i valori di HbA

1c si riducono solo dell’8%.

79

In ratti diabetici, in condizioni di sospensione insulinica, le variazioni della fruttosamina si registrano dopo soli 3 giorni mentre quelle della HbA

1c dopo 8 (Figura 6). Al contrario, la

reintroduzione della terapia insulinica riporta ai valori basali la fruttosamina nel giro di circa 3 giorni e la HbA

1c in circa 15.

80

Questi dati indicano che le misurazioni della proteina glicata nel siero sono indicatori sensibili e a breve termine dell’omeostasi glicemica.

Figura 6. Velocità di glicazione dell’albumina e della HbA1c da parte del glucosio.

Un’appropriata indicazione al suo dosaggio potrebbe essere usata, in aggiunta ad altri parametri, per il monitoraggio glicemico in gravidanza. Tale condizione per sua natura richiede controlli più attenti e nel breve periodo per prevenire le complicanze materno-fetali dovute all’iperglicemia.

Inoltre, la HbA

1c va incontro a variazioni bifasiche durante la gravidanza: tende a

diminuire dal primo al secondo trimestre, per poi risalire,81 e ad avere valori più bassi rispetto a quelli delle donne non in gravidanza.82 Questo probabilmente a causa

(32)

dell’abbassamento dei livelli glicemici che si verifica nella prima fase e all’instaurarsi di uno stato relativo di deficit di ferro nella seconda fase.

L’AG, invece, non ne risente,83 rappresentando così un indice appropriato per la valutazione dello stato glico-metabolico.

Il dosaggio della fruttosamina non è indicato nelle condizioni associate ad un accelerato turnover dell’albumina (es. sindrome nefrosica, anemia, malnutrizione e cirrosi epatica) perché, in questi casi, si accorcerebbero i suoi tempi di esposizione al glucosio circolante rendendo difficile l’interpretazione dei valori dell’albumina glicata e limitandone l’applicazione clinica. 84

Nel controllo glicemico si colloca in una posizione intermedia tra glicemia e HbA1c, in quanto particolarmente sensibile a variazioni recenti della glicemia media ma anche ad oscillazioni repentine, che possono sfuggire alla misurazione puntiforme della glicemia o scomparire nella determinazione della HbA

1c.

Dati recenti suggeriscono una sua possibile utilità anche in fase diagnostica, in particolare nel diabete di tipo 1,85 nelle forme scompensate e in tutti quei casi in cui si punti a valutare la variabilità glicemica: iperglicemia post-prandiale, diabete “fluttuante”,86 pazienti gastrectomizzati.87

Elevati livelli sia di fruttosamina sia di albumina glicata sono stati associati alla futura insorgenza di diabete, indipendentemente dai valori della glicemia a digiuno e della HbA

1c.

88

I ricercatori, attraverso l’analisi dello studio ARIC (Atherosclerosis Risk in Communities) hanno cercato di chiarire la capacità delle misurazioni di fruttosamina e di albumina glicata di identificare le persone a rischio di diabete mellito. Sono state valutate concentrazioni basali elevate di fruttosamina e albumina glicata con il rischio di diabete incidente, retinopatia e rischio di malattia renale cronica (CKD) nel corso di due decenni di follow-up. Tali associazioni sono risultate significative con tendenza ad essere a forma di J e valore prognostico paragonabile a quello dell’emoglobina glicata. Tuttavia numerosi studi hanno posto in luce delle criticità nel suo impiego in specifici quadri patologici ma hanno anche sottolineato variazioni legate all’età89, al BMI90, allo

stato nutrizionale, al fumo di sigaretta 91 e all’iperuricemia.92

In un recente studio è stata esaminata la capacità della fruttosamina e dell’albumina glicata di rilevare i soggetti prediabetici all’interno della popolazione afro-americana. Ed

(33)

inoltre è stato indagato il valore diagnostico aggiunto nella combinazione dei dosaggi di HbA

1c con le proteine glicate.

Come test individuali, HbA

1c, fruttosamina e AG hanno rilevato ≤ 50% degli africani con

prediabete. Tuttavia, la combinazione di HbA

1c con AG (ma non con la fruttosamina) ha

reso possibile l’identificazione di quasi l'80% degli africani con prediabete.

Un dato interessante deriva dall’osservazione che i pazienti prediabetici individuati con l’albumina glicata sono più giovani e con un BMI inferiore rispetto a quelli identificati dall’emoglobina.93 Dunque, il suo utilizzo potrebbe risultare vantaggioso nello screening in una popolazione specifica, come appunto quella dei pazienti non obesi.

La determinazione dell’albumina glicata non ha goduto in passato dello stesso successo dell’emoglobina glicata a causa di una confusione tra fruttosamina e albumina glicata. Oggi, superati i limiti di specificità delle tecniche legati alla misurazione generica delle fruttosamine, il ricorso al suo dosaggio può risultare più vantaggioso in alcune importanti condizioni.

I metodi di quantificazione dell’AG sono semplici, eseguibili in automazione e a bassi costi.

Come per l’emoglobina glicata il prelievo per il dosaggio della fruttosamina può essere eseguito in qualsiasi momento della giornata, senza riguardo alla recente assunzione di cibo.94

La crescente attenzione e le conoscenze acquisite fanno ipotizzare, in un prossimo futuro, un maggior ricorso a tale parametro come indice di controllo e previsione della malattia diabetica.

(34)

PARTE SECONDA:

lavoro sperimentale

(35)

Introduzione

I dati epidemiologici internazionali indicano che il DMT2 sta assumendo a livello mondiale un andamento tipicamente epidemico. In Italia vi sono a tutt’oggi oltre tre milioni di persone con diabete noto e almeno un altro milione con diabete non diagnosticato (fonte ARNO).

La diagnosi clinica di diabete è mediamente preceduta da una fase asintomatica dalla durata variabile in base a fattori congeniti e allo stile di vita del paziente. Durante questa fase l’iperglicemia esercita effetti deleteri a livello dei tessuti bersaglio, così che alla diagnosi sono spesso già presenti le complicanze della malattia.

È verosimile, quindi, che la diagnosi precoce, favorendo l’adozione di tempestivi interventi terapeutici, permetta di raggiungere un compenso glicemico ottimale fin dalle prime fasi della malattia, riducendo il rischio di complicanze.

Ciò indica chiaramente la necessità di individuare il diabete misconosciuto che deve essere ricercato attraverso adeguati programmi di screening.

Il reale problema è costituito dal fatto che il prediabete è una condizione che si colloca convenzionalmente in una posizione intermedia nella storia naturale della malattia. Esso implica la progressione inevitabile, tuttavia una recente metanalisi dei tassi di progressione, definiti da diverse misure glicemiche, ha evidenziato come più della metà delle persone identificate sono libere dalla malattia a 10 anni dall’identificazione dello stato prediabetico.95

Da qui la necessità di individuare parametri biologici che possano prevedere l’insorgenza della malattia franca.96

Effettuando lo screening del diabete è, infatti, possibile individuare non soltanto i soggetti con IFG e IGT, ma anche casi di diabete misconosciuto. Tutti questi soggetti presentano inoltre un elevato rischio di malattie cardiovascolari, che ne impone una precoce identificazione. Ciò consente non solo di attuare strategie di prevenzione con interventi sullo stile di vita, ma anche di avviare un trattamento precoce dei fattori di rischio cardiovascolare associati e, in caso di diabete neodiagnosticato, del diabete stesso.

(36)

Obiettivi dello studio

Lo scopo del presente lavoro di tesi è valutare le caratteristiche basali antropometriche e bioumorali di pazienti afferenti all’ambulatorio dedicato alla cura del diabete che abbiano avuto rilascio di esenzione per patologia (e, pertanto, pazienti con neodiagnosi o verosimilmente breve durata di malattia).

Come obiettivo secondario questo studio osservazionale ha esaminato l’impatto e il ruolo predittivo dei vari parametri metabolici e bioumorali alla diagnosi sulla morbidità e mortalità dei pazienti nel corso di un follow-up di 76 mesi (durata 76±9 mesi).

Soggetti studiati

Il campione oggetto di studio consta di 150 pazienti reclutati consecutivamente negli anni 2003- 2011 tra i soggetti afferenti agli ambulatori di Diabete e Malattie del Metabolismo della Unità Operativa di Medicina 1 ed ex Medicina 3 Universitaria della Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP).

In questa analisi sono stati utilizzati i dati raccolti da un gruppo di pazienti in primo accesso, inviati dal medico di Medicina Generale per nuova diagnosi di diabete tipo 2 o afferenti per iniziativa individuale in seguito a rilievo occasionale di iperglicemia. I pazienti potevano non ricevere alcun trattamento farmacologico o essere già trattati con qualunque farmaco.

La diagnosi di diabete mellito di tipo 2 è stata posta secondo i criteri internazionali forniti dall’ ADA-EASD. Più in dettaglio, in presenza di sintomi tipici della malattia (poliuria, polidipsia e calo ponderale) la diagnosi di diabete è stata posta con il riscontro anche in una sola occasioni di:

• glicemia ≥ 200 mg/dl in qualsiasi momento della giornata (indipendentemente dall’assunzione di cibo).

(37)

riscontro, confermato in almeno due diverse occasioni di:

• glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (per digiuno si intende almeno 8 ore di astensione dal cibo) oppure

• glicemia ≥ 200 mg/dl 2 ore dopo carico orale di glucosio (eseguito con 75 g) oppure

• HbA1c ≥ 48 mmol/mol (6,5%)

Tutti i pazienti hanno subito un'intervista strutturata al fine di raccogliere le seguenti informazioni: età, familiarità (per diabete, displipidemie e ipertensione), attività fisica svolta, consumo di alcool, abitudine al fumo, durata del diabete se già noto, eventuale presenza di comorbidità (ipertensione arteriosa, dislipidemia, obesità) e relative terapie. All’interno di detta popolazione sono stati, quindi, identificati dei caratteri salienti associati all’iperglicemia e all’intolleranza glucidica, tra i quali la presenza di dislipidemie e la coesistenza di sindrome metabolica. A tutti i pazienti partecipanti è stata riconosciuta l’esenzione per patologia D.M. 329 del 28/05/1999 e successive integrazioni e modificazioni (in vigore) – Codice 013.

Materiali e metodi

I soggetti individuati hanno eseguito i seguenti accertamenti: • Glicemia a digiuno su plasma ed HbA1c

• Profilo lipidico a digiuno comprendente colesterolo totale, colesterolo HDL, colesterolo LDL e trigliceridi

• Test di funzionalità epatica e tiroidea • Creatinina

• Stima del filtrato glomerulare mediante formula CKD-EPI

Durante la valutazione ogni paziente è stato sottoposto ad un esame obiettivo con registrazione di peso, altezza e calcolo dell’indice di massa corporea (BMI: rapporto tra peso espresso in kilogrammi e altezza espressa in metri al quadrato [kg/m2]); mentre i

(38)

valori della pressione arteriosa sistolica e diastolica sono stati registrati usando uno sfingomanometro a mercurio a paziente seduto da almeno 5 min e con il braccio correttamente posizionato.

La diagnosi di ipertensione arteriosa è stata posta per valori di pressione sistolica > 140 mmHg e/o pressione diastolica >90 mmHg in almeno tre diverse occasioni nei tre mesi precedenti o in presenza di terapia con anti-ipertensivi.97, 98 È stata inoltre registrata la frequenza cardiaca.

La diagnosi di cardiopatia ischemica è stata posta in base al riscontro di storia personale di angina, infarto del miocardio o procedure di rivascolarizzazione coronarica e/o in base ad alterazioni elettrocardiografiche suggestive di cardiopatia ischemica (Codice Minnesota). Sono stati, inoltre, raccolti dati su eventuali comorbidità (neoplasie, distiroidismi).

La presenza di malattia cardiovascolare (MCV) è stata anche confermata sulla base di lettere di dimissione ospedaliera o da documentazione di visite specialistiche presenti nella cartella clinica. Sono stati registrati precedenti eventi cardiovascolari tra cui infarto miocardico, ictus, ulcera/gangrena/amputazione.

Con l’intento di valutare alterazioni metaboliche a carico del fegato sono stati raccolti i valori delle transaminasi (AST e ALT) e della γ-GT.

Se è vero infatti che per i pazienti con DMT2 la prima causa di morte è rappresentata da un evento cardiovascolare, occorre ricordare che la NAFLD (Non-Alcoholic Fatty Liver Disease) in questa categoria ha una prevalenza che si attesta sul 60‑70%; pertanto può essere annoverata tra le complicanze “non classiche”.

Determinazioni

La concentrazione di glucosio nel plasma è stata misurata con una sostanza chimica usando il metodo enzimatico dell’esochinasi su campioni raccolti al mattino dopo una notte di digiuno, mentre la valutazione della HbA1c è stata effettuata mediante HPLC (Biorad, Italia).

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Il colesterolo totale, HDL e i trigliceridi sono stati analizzati attraverso uno spettrofotometro automatizzato (COBAS INTEGRA) mediante un metodo enzimatico- colorimetrico che si serve di kit commerciali; mentre il colesterolo LDL è stato calcolato con la formula di Friedewald.

La presenza di nefropatia diabetica è stata valutata sulla base dei livelli della creatinina plasmatica e dell’escrezione urinaria di albumina (AER). L’AER è stata misurata su almeno tre raccolte di urine delle 24 ore o calcolate come rapporto albumin/cretinina (ACR) su urine spot del mattino.

La creatinina sierica è stata misurata con un IDMS secondo un metodo Jaffe modificato, e la velocità di filtrazione glomerulare (eGFR) è stata stimata con formula CKD-EPI (Chronic Kindney Disease Epidemiology Collaboration) che presenta, rispetto alla MDRD una maggiore accuratezza nei soggetti con valori di GFR >60 ml/min/1,73 m2, mentre l'escrezione urinaria di albumina con metodica immunoturbidimetrica (Tina-quant Albumin, Boehringer Mannheim) su aliquote conservate a -20°C.

L’alanina aminotrasferasi (ALT), aspartato aminotransferasi (AST) e Gamma GT sono stati dosati nel plasma utilizzando metodi colorimetrici indicati dalla Federazione Internazionale di Chimica Clinica e di Medicina di Laboratorio.

Analisi statistica

L’analisi statistica è stata effettuata utilizzando il software JMP ® Versione 9.01.I dati sono espressi come media ± deviazione standard o mediana [range interquantile] per i parametri che non seguono una distribuzione normale. Per testare le differenze medie fra i gruppi è stata utilizzata l’analisi della varianza mediante test del Chi Square, mentre per confrontare le variabili categoriche sono stati impiegati test non-parametrici (ANOVA). Tutti i livelli di significatività sono stati considerati al 5% (P-value ≤ 0.05).

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Follow-up

Tutti i partecipanti hanno effettuato controlli periodici ad intervalli di 6-12 mesi. Tutte le variabili biochimiche sono state rivalutate durante il follow-up fino a 76 mesi utilizzando gli stessi metodi dello studio di base. La durata del follow up èstata di 76±9 mesi.

Risultati e Discussione

Le principali caratteristiche basali, cliniche e biochimiche, dei 150 soggetti partecipanti sono riportate nella Tabella 2.

Età (anni) 63.7±11.4

Sesso (F/M) 62/88

BMI (kg/m2) 31.3±6.3

Fumo (S/N) 46/102

Cardiopatia ischemica (ev. pregressi,%) 12

PAS (mmHg) 142.3±18.3 PAD (mmHg) 83.5±12.8 Glicemia a digiuno (mg/dl) 150.4±51.3 HbA1c (%) 7.5±1.6 Colesterolo totale (mg/dl) 202.5±41.7 Colesterolo HDL (mg/dl) 48.0±17.0 Colesterolo LDL (mg/dl) 108.1±55.2 Trigliceridi (mg/dl) 126.5±94.3 AST (U/l) 24.3±12.8 ALT (U/l) 30.9±21.7 g-GT (U/l) 42.8±35.1

eGFR, CKDEPI (ml/min/1.73m2) 78.6±17.2

ACR (mg/g) 6.0 [45.0]

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