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Relazione tra sonno e cefalea in età pediatrica: studio retrospettivo sull'efficacia della melatonina nella prevenzione della cefalea primaria

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Indice

Riassunto ... 3

Elenco delle abbreviazioni ... 7

1. La cefalea ... 9

1.1 Definizione ed epidemiologia ... 9 1.2 Classificazione ... 11

2. Cefalea primaria ... 15

2.1 Emicrania ... 15 2.1.1 Fattori scatenanti ... 17 2.1.2 Patofisiologia dell’emicrania ... 18

2.1.2.1 Cortical Spreading Depression ... 19

2.1.3 Sindromi episodiche che possono essere associate all’emicrania ... 23

2.2 Cefalea tensiva ... 27

3. Terapia della cefalea ... 30

3.1 Terapia in acuto... 30

3.2 Terapia acuta in emergenza ... 32

3.3 Terapia preventiva ... 33

3.3.1 Magnesio ed altri trattamenti nutraceutici ... 34

3.3.2 Terapia farmacologica ... 36

3.3.3 Terapia comportamentale ... 38

4. Sonno e cefalea ... 40

4.1 Il sonno ... 42

4.2 Patofisiologia del sonno e della cefalea: elementi in comune ... 44

4.3 Caratteristiche del sonno nei pazienti con cefalea ... 47

4.4 Disturbi del sonno ... 49

5. La melatonina ... 52

5.1 Effetti della melatonina... 52

5.2 La melatonina, il ritmo circadiano e le implicazioni neurologiche ... 54

5.3 Interazioni della melatonina nella fisiopatologia della cefalea ... 56

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2

5.4.1 Efficacia della melatonina nella profilassi della cefalea primaria ... 60

5.4.2 Agonisti recettoriali melatonergici ... 61

6. Studio clinico ... 63

6.1 Scopo della tesi ... 63

6.2 Materiali e metodi ... 63

6.3 Risultati ... 64

6.4 Conclusioni ... 68

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3

Riassunto

La cefalea rappresenta uno dei più comuni tipi di dolore pediatrico e può provocare un significativo impatto sulla qualità di vita. Nel contesto della patologia cefalalgica possiamo distinguere tra cefalea primaria e forma secondaria. In età pediatrica la cefalea primaria rappresenta la forma preponderante.

I criteri diagnostici per identificare i vari tipi di cefalea sono stati definiti dalla International

Classification of Headache Disorders. In seguito alla diagnosi, effettuata sulla scorta di detti

parametri, viene impostata la terapia, che si divide in terapia sintomatologica e preventiva. Il paracetamolo rappresenta il farmaco di prima scelta in acuto, la terapia preventiva ha lo scopo di ridurre la frequenza e l’intensità degli episodi cefalalgici. Generalmente il primo trattamento utilizzato è il magnesio; nel caso in cui la terapia con magnesio risulti poco efficace vengono utilizzati farmaci come antiserotoninergici, antidopaminergici, calcio antagonisti, beta bloccanti, antiepilettici ed antidepressivi. Il razionale di impiego del magnesio è legato al ruolo di questo ione nell’eccitabilità cerebrale. Bassi livelli di magnesio sono stati infatti correlati allo sviluppo di emicrania, la quale corrisponde ad uno stato di ipereccitabilità neuronale centrale; inoltre l’ipomagnesemia è stata associata alla generazione della Cortical Spreading Depression, al rilascio di neurotrasmettitori ed alla vasocostrizione: l’integrazione di magnesio potrebbe, pertanto, ridurre l’infiammazione neurogenica alla base dello sviluppo dell’emicrania secondo la teoria trigemino-vascolare. È possibile inoltre, in aggiunta alla terapia farmacologica, associare la terapia comportamentale, ottenendo risultati superiori rispetto al singolo trattamento. La terapia comportamentale consta di tre componenti: aderenza al trattamento, cambiamento dello stile di vita e supporto psicologico (utile soprattutto nei bambini e negli adolescenti affetti da comorbidità psichiatriche). Il cambiamento dello stile di vita include una buona igiene del sonno e una dieta priva di additivi, in quanto sia i disturbi del sonno e del ciclo circadiano sia l’alimentazione sono stati riconosciuti come trigger importanti della cefalea.

Esiste una stretta relazione tra sonno e cefalea: è infatti risaputo da secoli che il sonno può essere utilizzato dai soggetti affetti da cefalea per risolvere l’attacco cefalalgico. Nelle ultime decadi, l’associazione tra cefalea e sonno è stata approfondita: è stato riconosciuto un meccanismo fisiopatologico comune e sono stati individuati diversi tipi di relazione tra i due. Spesso, infatti, cefalea e disturbi del sonno si ritrovano in comorbidità ed esiste una relazione bidirezionale tra di essi, in quanto la cefalea può rappresentare il risultato di un disturbo del sonno (per esempio la cefalea al mattino in paziente con OSAS), oppure i disturbi del sonno

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4 sono causati dalla cefalea, come nel caso dell’insonnia determinata dal dolore cefalalgico. Secondo alcuni autori cefalea e disturbi del sonno rappresentano la presentazione clinica età-correlata della medesima condizione patologica, quale l’alterato equilibrio dei neurotrasmettitori. Il sonno può inoltre influire sulla soglia del dolore e sull’efficacia analgesica dei farmaci antidolorifici: la deprivazione di sonno riduce la soglia del dolore interferendo con il meccanismo dell’analgesia mediato dagli oppioidi endogeni. Inoltre è stato proposto un ruolo predisponente dei disturbi del sonno agli attacchi emicranici, in quanto potrebbe provocare un’alterazione del sistema trigemino-vascolare e, di conseguenza, la progressione ad emicrania cronica. La stretta relazione tra disturbi del sonno e cefalea può essere imputata all’interessamento comune di strutture quali ipotalamo, talamo e corteccia. Dati recenti ipotizzano un ruolo preponderante della disfunzione delle proiezioni orexinergiche ai nuclei del rafe mediano, in grado di provocare un’importante interferenza sulla regolazione serotoninergica, determinando disturbi del sonno e cefalea. Ciò è legato all’aumento della serotonina, che provoca vasodilatazione con l’attivazione delle fibre e il rilascio di peptidi proinfiammatori. Il feed-back negativo della serotonina sui neuroni orexinergici determinerebbe a sua volta l’interruzione dei cicli sonno veglia e, quindi, l’insorgenza di disturbi del sonno. I disturbi del sonno riscontrati più frequentemente nei pazienti pediatrici affetti da cefalea sono: difficoltà ad addormentarsi, sonnambulismo,

restless sleep, incubi e sonnolenza diurna. Durante l’adolescenza diventa rilevante anche il

ritardo di fase, poiché questi soggetti sono sottoposti, prima di andare a letto, ad un’inappropriata esposizione alla luce (per via dell’uso di cellulari, videogiochi, computer) che sopprime la produzione di melatonina, provocando l’alterazione del ciclo circadiano. La melatonina esercita un ruolo regolatorio nel ritmo circadiano in tutte le specie in cui è prodotta, grazie alla sincronizzazione tra eventi biologici interni e l’ambiente. Nell’essere umano è prodotta dall’ipofisi e la sua secrezione è regolata dal nucleo soprachiasmatico ipotalamico, detto anche pacemaker del ciclo circadiano. La melatonina rappresenta una molecola fondamentale per il trattamento dei disturbi del sonno e del ritmo circadiano e, recentemente, ne sono state messe in evidenza anche le proprietà antiossidanti ed anti-infiammatorie. Essa agisce infatti mediante l’inibizione della sintesi di prostaglandine e di ossido nitrico, del rilascio di GCRP e di interleuchine. La melatonina può pertanto sfruttare diversi meccanismi nei confronti della cefalea, tra i quali annoveriamo: l’induzione del sonno, che può portare al miglioramento della sintomatologia cefalalgica, l’inibizione dell’infiammazione neurogenica sterile, la modulazione dei neuromediatori coinvolti nella genesi della cefalea e il potenziamento dell’effetto analgesico dei peptidi oppioidi endogeni.

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5 La fiducia riposta nelle proprietà dimostrate dalla melatonina è confermata dalla recente introduzione sul mercato di due farmaci agonisti recettoriali melatonergici (ramelteon e agomelatina).

Poiché molti dati in letteratura supportano l’efficacia della melatonina nella terapia preventiva della cefalea, si è voluto valutare l’eventuale efficacia apportata dall'associazione di detto ormone al magnesio, rispetto alla sola somministrazione di quest’ultimo. Ciò è stato studiato su una popolazione di pazienti affetti da cefalea e disturbi del sonno. Sono state valutate, in ordine a questi ultimi, la prevalenza e la tipologia. Abbiamo quindi determinato, in termini di efficacia clinica (riduzione degli episodi di cefalea di almeno il 50%) in due gruppi omogenei, il risultato tra l’associazione melatonina-magnesio e la terapia singola con magnesio. Le implicazioni cliniche potrebbero essere rilevanti nei soggetti che attualmente devono ricorrere alle terapie farmacologiche, in quanto resistenti al trattamento con solo magnesio. Quest’ultimo, e la melatonina, presentano infatti un profilo di sicurezza maggiore rispetto ai farmaci attualmente a disposizione per il trattamento della cefalea. Il nostro studio è stato il primo ad aver preso in considerazione l’associazione melatonina-magnesio, rilevando una risposta clinica del 78% nel gruppo che ha assunto la combinazione melatonina-magnesio, a fronte di un’efficacia terapeutica del 70,5% nel gruppo di controllo. La somministrazione di melatonina ha quindi comportato una risposta percentuale maggiore, ma non tale da essere ritenuta statisticamente significativa. Questo dato può essere ricondotto all’utilizzo di un dosaggio inferiore rispetto a quello usato nella maggior parte degli studi riportati in letteratura dove si valutata l'efficacia della melatonina sulla prevenzione della cefalea. Il nostro rappresenta uno studio preliminare che ha preso in considerazione la somministrazione per 3 mesi di dosaggi pari a 1mg e 2mg. Essi non hanno mostrato sostanziali differenze dal punto di vista della risposta clinica, mentre alcuni studi riportati in letteratura, che hanno preso in considerazione dosaggi superiori o uguali a 3mg, hanno ottenuto esiti positivi. Le applicazioni della melatonina in ambito medico rappresentano un campo relativamente nuovo e molto vasto: per questo motivo, non esiste un’opinione unanime sui dosaggi, sul tipo di formulazione e sul periodo di trattamento in grado di apportare un beneficio significativo. È auspicabile pertanto lo svolgimento di nuovi studi prospettici in grado di chiarire i dubbi circa l’efficacia e le modalità di utilizzo della melatonina in detto ambito.

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7

Elenco delle abbreviazioni

5-HT: 5-idrossitriptamina

ABR: Auditory Brainstem Response ACTH: Adreno Cortico Tropic Hormone CAP: Cyclic Alternating Pattern

CGRP: Calcitonin Gene-Related Peptide CSD: Cortical Spreading Depression CTTH: Chronic Tension Type Headache DRD2: Dopamine Receptor D2

EEG: Elettroencefalografia EMG: Elettromiografia EOG: Elettrooculografia

FANS: Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei FHM: Familial Hemiplegic Migraine

GABA: Acido γ amminobutirrico GH: Growth Hormone

ICHD: International Classification of Headache Disorders IL-1β: Interleuchina-1β

iNOS: inducible Nitric Oxide Synthase K+: Potassio

LC: Locus Coerules Mg2+: Magnesio

Na+: Sodio

NF-kB: Nuclear Factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells NMDA: N-Metil-D-Aspartato

NREM: No Rapid Eye Movement NRM: Nucleo del Rafe Magno

OSAS: Obstructive Sleep Apnea Syndrome PGE2: Prostaglandina E2

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8

REM: Rapid Eye Movement ROS: Reactive Oxygen Species

RVM: Midollo Rostrale Ventromediale SEMs: Slow Eye Movements

SWS: Slow Wave Sleep

SVC: Sindrome del Vomito Ciclico TNF-α: Tumor Necrosis Factor TPB: Torcicollo Parossistico Benigno TST: Total Sleep Time

TTH: Tension Type Headache VPB: Vertigine Parossistica Benigna

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Capitolo1

La cefalea

1.1 Definizione ed epidemiologia

Il termine cefalea descrive una sensazione dolorosa localizzata al di sopra della linea che unisce le orbite al meato acustico esterno[1]. Sono comuni le localizzazioni a livello frontale

e temporale, mentre la localizzazione occipitale è meno frequente e deve essere attentamente indagata. La sintomatologia algica riferita bilateralmente è tipica dei pazienti più giovani. La cefalea è un disturbo frequente anche in età evolutiva e rappresenta uno dei tipi più comuni di dolore pediatrico, tra le prime tre cause di dolore cronico insieme a dolore addominale e dolore muscolo-scheletrico[2]. Spesso la cefalea viene sottovalutata, ma può rappresentare un disturbo disabilitante tale da determinare un’interferenza importante nella vita dei bambini affetti. L’impatto della cefalea può infatti causare la perdita di giorni di scuola e interferire con le attività ludo-ricreative dei piccoli pazienti[3]. In particolare la cefalea risulta essere la prima causa di assenza da scuola e rappresenta una causa comune di accesso in pronto soccorso in età pediatrica.

Uno studio condotto su 622 bambini e adolescenti affetti da patologie dolorose (nel 60% il dolore era correlato alla cefalea) ha messo in luce le restrizioni che il dolore comporta nei confronti delle attività quotidiane: disturbi del sonno nel 53,6%, mancata capacità di dedicarsi ai propri interessi nel 53,3%, disturbi della condotta alimentare nel 51,1% e assenze scolastiche nel 48,8%[4]. I risultati degli score che misurano la qualità di vita dei pazienti

emicranici pediatrici sono paragonabili ai risultati ottenuti dai bambini con patologia neoplastica e ai piccoli pazienti affetti da artrite[5].

La prevalenza della cefalea in età pediatrica può risultare sottostimata proprio per la difficoltà del bambino, in età preverbale, a descrivere appropriatamente i sintomi o per la presentazione di sintomi atipici e di equivalenti emicranici (vedi infra), ne deriva che il 36% dei genitori non sa che il proprio figlio ne soffre. La difficoltà di interpretare i sintomi da parte dei genitori è dovuta anche alla erronea convinzione che la cefalea non si manifesti in età pediatrica o che essa non sia disabilitante. L’aumentata prevalenza della cefalea in età evolutiva negli ultimi anni è da imputare al cambiamento di stile di vita caratterizzato dall’uso eccessivo di cellulare, tablet e videogiochi.

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10 È da sottolineare che la frequenza della cefalea nella popolazione pediatrica aumenta con l’età: alcuni studi hanno attestato una frequenza pari al 20% nei soggetti di età inferiore ai 5 anni [6], mentre nei soggetti di 15 anni la frequenza sale al 75%[7,8].

La prima grande distinzione nel campo delle cefalee deve essere eseguita tra due tipi di cefalea: cefalea primaria e secondaria.

La cefalea primaria o essenziale è un disturbo complesso multifattoriale parossistico caratterizzato dal ricorrere dei sintomi dopo intervalli di tempo di pieno benessere fisico e mentale. La diagnosi di cefalea primaria è essenzialmente clinica basandosi su specifici criteri diagnostici; nel caso di mancata aderenza ai criteri clinici, andrà indagata la presenza di possibili cause sottostanti che possono manifestarsi con la medesima sintomatologia; in tal caso parleremo di cefalea secondaria.

Per cefalea secondaria si intende un gruppo eterogeneo di disordini e condizioni in cui la cefalea risulta il sintomo predominante ed è dimostrato il nesso causa-effetto o temporale tra la cefalea e la condizione sottostante. In età pediatrica la cefalea essenziale ha una prevalenza notevolmente superiore rispetto alle forme secondarie con un rapporto di 10:1. In alcuni casi una cefalea secondaria, se si presenta in modo ricorrente, può sottendere anche una cefalea primaria. Esiste infatti una correlazione tra cefalea primaria e secondaria in quanto le forme secondarie si manifestano con una frequenza maggiore e in modo relativamente prominente nei pazienti affetti da una preesistente cefalea primaria[9]. Inoltre la cefalea secondaria può manifestarsi clinicamente in modo analogo alla cefalea primaria preesistente, per cui dovrebbe sempre essere considerata come plausibile la presenza di una cefalea secondaria in caso di significativo aumento del numero, della severità e della durata di questi attacchi[9]. La cefalea secondaria, poiché rappresenta la conseguenza di un’affezione, dovrebbe andare incontro a risoluzione con la rimozione o il trattamento della causa sottostante. Se ciò non avviene e la cefalea persiste dobbiamo mettere in discussione la diagnosi o la terapia, in quanto potrebbe trattarsi di una cefalea primaria e/o la terapia scelta potrebbe non essere quella giusta[10]. Il disturbo dalla quale origina la cefalea secondaria può essere di natura neurologica o sistemica, in particolare: fino al 90% dei casi è correlata a infezioni del tratto respiratorio superiore di natura virale o streptococcica. Tra le cause più frequenti una delle più temibili per via delle implicazioni neurologiche è la meningite[11]. In passato era di frequente riscontro la manifestazione cefalalgica secondaria alla formazione di un ascesso cerebrale, conseguenza di un processo flogistico a carico dell’orecchio medio. Oltre alla eziologia infettiva va presa in considerazione, come causa di cefalea secondaria, anche la malattia neoplastica cerebrale (rappresenta il tumore solido con la maggior incidenza in età

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11 pediatrica con circa 2200 nuovi casi per anno)[12], in questo caso la cefalea viene riferita come il più comune sintomo d’esordio[2]. L’aumento della pressione endocranica può essere causato dalla presenza di una massa, come nel caso delle neoplasie, oppure essere intrinseca come nel caso dell’ipertensione intracranica benigna. Altre cause intracraniche sono rappresentate dalle malformazioni arterovenose, dall’emorragia intracranica, dalla trombosi dei seni venosi e dei seni della dura madre e dall’idrocefalo. Come anticipato la cefalea può risultare anche secondaria a cause sistemiche come: ipertensione arteriosa, leucemia, grave anemia, malattie infettive febbrili ed encefalopatie metaboliche oppure a cause locali quali: sinusite acuta, cause odontogene, cause oculari e la sindrome di Costen.

Le lesioni di interesse neurochirurgico risultano, fortunatamente, rare e le cause di cefalea secondaria sintomatica riconducibili a problematiche di particolare rilievo clinico si attestano al 3-5%. La cefalea secondaria può anche essere di natura traumatica, da correlare a un trauma cranico e/o del collo; poiché il trauma cranico può essere associato alla lesione di diverse strutture sensibili al dolore l’approccio migliore a questo tipo di cefalea dipende dal fenotipo con la quale si manifesta[9]. Non tutte le strutture intracraniche sono sensibili al dolore, il parenchima cerebrale infatti non presenta nocicettori ed è insensibile al dolore, a differenza di strutture quali i seni vascolari, le vene di calibro maggiore, le arterie del circolo di Willis, le arterie meningee e della dura e anche la dura che circonda i vasi di calibro maggiore. La sensazione dolorifica percepita in corso di cefalea è quindi legata a processi infiammatori o irritativi, fenomeni di spostamento, di trazione o di invasione a carico delle suddette strutture sensibili al dolore.

1.2 Classificazione

La classificazione ICHD-3beta (International Classification of Headache Disorders) prende in oggetto la diagnosi di cefalea primaria e di cefalea secondaria e classifica i vari tipi di cefalea come segue:

A. Cefalee primarie:

1.Emicrania:

1.1 Emicrania senza aura; 1.2 Emicrania con aura:

 Emicrania con aura tipica: × Aura tipica con cefalea; × Aura tipica senza cefalea.

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12  Emicrania con aura troncoencefalica;

 Emicrania emiplegica:

× Emicrania emiplegica familiare (FHM):

• Emicrania emiplegica familiare tipo 1 (FHM1);

• Emicrania emiplegica familiare tipo 2 (FHM2);

• Emicrania emiplegica familiare tipo 3 (FHM3);

• Emicrania emiplegica familiare, altri loci. × Emicrania emiplegica sporadica.

 Emicrania retinica. 1.3 Emicrania cronica;

1.4 Complicanze dell’emicrania:  Stato emicranico;

 Aura persistente senza infarto;  Infarto emicranico;

 Epilessia indotta dall’emicrania. 1.5 Probabile emicrania:

 Probabile emicrania senza aura;  Probabile emicrania con aura.

1.6 Sindromi episodiche che possono essere associate all’emicrania:  Disturbo gastrointestinale ricorrente:

× Sindrome del vomito ciclico; × Emicrania addominale.  Vertigine parossistica benigna;  Torcicollo parossistico benigno.

2. Cefalea di tipo tensivo:

2.1 Cefalea di tipo tensivo episodica sporadica:

 Cefalea di tipo tensivo episodica sporadica associata a dolorabilità dei muscoli pericranici;

 Cefalea di tipo tensivo episodica sporadica non associata a dolorabilità dei muscoli pericranici.

2.2 Cefalea di tipo tensivo episodica frequente:

 Cefalea di tipo tensivo episodica frequente associata a dolorabilità dei muscoli pericranici;

 Cefalea di tipo tensivo episodica frequente non associata a dolorabilità dei muscoli pericranici.

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13 2.3 Cefalea di tipo tensivo cronica:

 Cefalea di tipo tensivo cronica associata a dolorabilità dei muscoli pericranici;  Cefalea di tipo tensivo cronica non associata a dolorabilità dei muscoli

pericranici.

2.4 Probabile cefalea di tipo tensivo.

3. Cefalea a grappolo e altre cefalee autonomico-trigeminali: 3.1 Cefalea a grappolo;

3.2 Emicrania parossistica;

3.3 Short-lasting unilateral neuralgiform headache attacks; 3.4 Emicrania continua;

3.5 Probabile cefalea autonomico-trigeminale.

4. Altre cefalee primarie:

4.1 Cefalea primaria da tosse;

4.2 Cefalea primaria da attività fisica;

4.3 Cefalea primaria associata ad attività sessuale; 4.4 Cefalea primaria “a rombo di tuono”;

4.5 Cefalea da stimolo freddo; 4.6 Cefalea da pressione esterna:

 Cefalea da trazione esterna;

 Probabile cefalea da pressione esterna. 4.7 Cefalea primaria trafittiva;

4.8 Cefalea nummulare; 4.9 Cefalea ipnica;

4.10 New Daily Persistent Headache (NDPH).

B. Cefalee secondarie

1. Cefalea attribuita a traumatismo cranico e/o cervicale; 2. Cefalea attribuita a disturbi vascolari cranici o cervicali; 3. Cefalea attribuita a patologie intracraniche non vascolari;

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14 4. Cefalea attribuita all’uso di una sostanza o alla sua sospensione;

5. Cefalea attribuita ad infezione;

6. Cefalea attribuita a disturbo dell’omeostasi; 7. Cefalea attribuita a disturbo psichiatrico;

8. Neuropatie dolorose craniche e altri dolori faciali; 9. Altri disturbi cefalalgici.

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15

Capitolo 2

Cefalea primaria

L’emicrania e la cefalea tensiva rappresentano le forme più comuni di cefalea in età pediatrica, al contrario la cefalea a grappolo e le altre cefalee autonomico-trigeminali, per la rarità in età pediatrica, saranno escluse dalla presente trattazione.

2.1 Emicrania

Le due principali varianti di questo tipo di cefalea primaria sono: emicrania con aura ed emicrania senza aura. La prevalenza dell’emicrania in età prepuberale è più alta nel sesso maschile, ma dopo la pubertà questo trend si inverte. Il picco di incidenza dell’emicrania con aura si verifica a 5 anni e 12-13 anni, rispettivamente nel sesso maschile e femminile. La massima incidenza di emicrania senza aura invece si presenta all’età di 10-11 anni nei maschi e di 14-17 anni d’età nelle femmine[3,13]. Secondo gli studi di Oakley et al., tra i 3 e i 7 anni l’1-3% riferisce emicrania e questa percentuale aumenta nelle fasce d’età superiori: 4-11% tra i 7-11 anni e 8-28% tra i 13-18 anni[14]. Risultati analoghi sono stati ottenuti da Kacperski et al. che evidenziano come fino al 10% dei bambini nella fascia d’età compresa tra i 5 e i 15 anni e fino al 28% negli adolescenti, di età compresa tra i 15 ed i 19 anni, riferiscano attacchi emicranici[15]. In quest’ultima fascia d’età la prevalenza dell’emicrania è maggiore nei pazienti di sesso femminile, che si attesta al 28% nelle femmine contro il 15% nei maschi[16].

L’emicrania senza aura è la forma più frequente di emicrania e per poter essere definita come tale deve rispondere ai criteri diagnostici stabiliti dalla classificazione ICHD-3 beta. Secondo il Comitato di classificazione dell’International Headache Society, i criteri diagnostici per poter definire una emicrania senza aura sono i seguenti:

A) almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B-D;

B) la cefalea dura 4-72 ore (non trattata o trattata senza successo) [nei minori di 18 anni durata 2-72 ore];

C) la cefalea presenta almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. localizzazione unilaterale;

2. dolore di tipo pulsante;

3. dolore con intensità media o forte;

4. aggravata da o che limiti le attività fisiche di routine (per esempio, camminare o salire le scale).

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16 D) alla cefalea si associa almeno una delle seguenti condizioni:

1. presenza di nausea e/o vomito; 2. presenza di fotofobia e fonofobia.

E) non meglio inquadrata da altra diagnosi ICHD-3.

L’emicrania con aura, invece, è occasionalmente definita emicrania classica, nonostante la sua prevalenza sia inferiore all’emicrania senza aura. L’aura è definita come un insieme di sintomi neurologici focali, necessariamente reversibili, di varia natura (visiva, sensitiva, motoria, retinica, troncoencefalica e della parola/linguaggio) che precedono la cefalea. I pazienti affetti da questa condizione devono necessariamente riferire sintomi neurologici focali che rientrano nella definizione di aura: tra questi, presentano un’incidenza particolarmente elevata tanto i sintomi visivi positivi, come luci intermittenti e comparsa di immagini luminose a zig-zag in prossimità del punto di fissazione, quanto quelli negativi, quali la perdita di alcuni settori del campo visivo o scotomi. I pazienti possono riferire inoltre sintomatologia sensitiva positiva, come sensazione di formicolio o di aghi, negativa (per esempio assenza di sensibilità) o, ancora, sintomi del linguaggio quali la disfasia.

La classificazione ICHD-III beta indica, inoltre, come ulteriore criterio diagnostico, la presenza di almeno due delle quattro seguenti caratteristiche:

1. perlomeno un sintomo dell’aura si sviluppa gradualmente in >5 minuti e/o due o più sintomi si verificano in successione;

2. ogni singolo sintomo dura 5-60 minuti; 3. almeno un sintomo dell’aura è unilaterale;

4. l’aura è accompagnata, o seguita entro 60 minuti, da cefalea.

Nel contesto dell’emicrania con aura, merita una particolare menzione l’emicrania emiplegica. Quest’ultima presenta un’aura caratterizzata da deficit motorio e sintomi visivi, sensitivi e/o della parola/linguaggio: detta sintomatologia deve essere necessariamente contestuale e completamente reversibile.

L’emicrania emiplegica può essere sporadica o familiare. Per porre diagnosi di emicrania emiplegica familiare, è necessaria la presenza di almeno un familiare di primo o secondo grado affetto. Esistono tre forme di emicrania emiplegica familiare (FHM): FHM1, FHM2 e FHM3. Per ciascuna di esse è stata dimostrata una mutazione responsabile, rispettivamente, dei geni: CACNA1A, ATP1A2 e SCN1A.

Il gene CACN1A1 è localizzato sul cromosoma 19p13 e codifica per una subunità del canale del calcio P/Q. Questo tipo di canale è espresso nel contesto del sistema nervoso centrale e periferico, e media il rilascio di neurotrasmettitori a livello delle terminazioni sinaptiche

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17 modulando l’omeostasi del Ca2+ intracellulare. La mutazione CACN1A1 è associata anche alla presenza di alterazioni cerebellari, come l’atassia episodica o l’atassia spinocerebellare. È stato inoltre ipotizzato che possa portare alla riduzione della soglia per la Cortical

Spreading Depression (vedi infra)[2].

Il gene ATP1A2, la cui mutazione è responsabile della FHM2 è localizzato a livello del cromosoma 1q21-q23 e codifica per una subunità della pompa Na/K gliale/neuronale. La mutazione di questo gene può compromettere il reuptake del glutammato da parte della glia, causando il rallentamento del processo di recupero post eccitamento. È interessante sottolineare che nei pazienti affetti da FHM2 esiste una elevata incidenza di epilessia. Il gene SCN1A è localizzato, infine, sul cromosoma 2q24 e codifica per una subunità del canale del sodio. La mutazione di questo gene è stata correlata ad una ridotta azione inibitoria da parte degli interneuroni e quindi dà un’aumentata eccitabilità. Il gene SCN1A ricopre un ruolo di primaria importanza nelle epilessie (incluse le convulsioni febbrili) e nelle sindromi epilettiche, come la sindrome di Dravet.

Oltre all’emicrania, sia con aura che senza aura, l’autorevole Comitato Internazionale per la Classificazione delle Cefalee pone l’attenzione, nell’ICHD-3beta, anche sulle sindromi episodiche che possono essere associate a emicrania. Questo gruppo di disturbi può verificarsi in soggetti che soffrono, indifferentemente, di emicrania senza aura o emicrania con aura, oppure in soggetti che presentano un’aumentata probabilità di sviluppare uno di questi disturbi. La maggior prevalenza delle sindromi episodiche che possono essere associate a emicrania, in passato definite sindromi periodiche infantili, si verifica in età pediatrica (vedi infra).

2.1.1 Fattori scatenanti

I fattori scatenanti o trigger rappresentano degli stimoli che, da soli o in combinazione, contribuiscono a innescare l’attacco emicranico nei soggetti predisposti[17]. Il

riconoscimento e la prevenzione dei potenziali fattori trigger, attuando una serie di norme comportamentali, è un elemento chiave per un buon approccio clinico atto a ridurre la frequenza degli attacchi ed a migliorare la qualità di vita dei pazienti[18]. I disturbi del sonno

rappresentano un significativo fattore scatenante per gli attacchi emicranici (vedi infra). Un altro trigger importante è rappresentato dall’alimentazione. La relazione alimenti-emicrania è stata messa in luce già nel 1950 da Selby e Lance, i quali notarono che una rilevante proporzione di pazienti presi in studio per l’emicrania riferiva spesso attacchi precipitati da alcuni alimenti. Studi successivi rilevarono, in particolare, che il 19,2% dei pazienti riportava

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18 una sensibilità al formaggio, il 18,2% al cioccolato, l’11,1% agli agrumi[19] e il 34% all’alcool[20,21]. Attualmente non è ancora stato individuato con chiarezza il meccanismo con

il quale gli alimenti sono implicati nell’induzione degli attacchi emicranici, ma il fatto che i pazienti suscettibili agli alimenti siano solitamente sensibili a più tipi di generi alimentari ha portato ad ipotizzare un meccanismo patogenetico comune sulla base di similitudini antigeniche tra i diversi alimenti o sulla base di un costituente chimico comune[22].

Altri fattori ambientali scatenanti, o aggravanti, l’emicrania sono le luci particolarmente intense e/o intermittenti, i rumori forti, gli odori intensi, l’elevata altitudine, il caldo e/o l’umidità. Anche le mestruazioni e lo stress, anche di natura periodica, sono importanti fattori scatenanti o aggravanti l’attacco emicranico. A tal proposito uno studio condotto da Iliopoulos et al. ha messo in evidenza, su un gruppo di 116 pazienti, un’incidenza dell’83,62% per quanto riguarda gli eventi stressanti identificati come fattore trigger. Il 70,69% ha presentato come fattore scatenante le emozioni intense. Il 55,91% dei soggetti femminili ha riportato il periodo mestruale come potenziale trigger. Altri importanti fattori individuati sono: deprivazione di sonno (50,86%), affaticamento (47,41%), cambiamenti climatici (46,55%), periodo premestruale nelle donne (41,94%) e odori (38,79%)[23].

2.1.2 Patofisiologia dell’emicrania

La patogenesi del dolore avvertito durante un attacco di cefalea primaria non è stata ancora del tutto chiarita, tuttavia sono stati rilevati alcuni possibili meccanismi patofisiologici. Lo studio della patofisiologia della cefalea deve senz’altro molto allo studioso Harold Wolff, che mosso anche dall’esperienza personale (lo stesso Wolff soffriva di questo disturbo) pubblicò la prima edizione di “Headache and other head pains” nel 1948.

La teoria vascolare (o vasogenica o meccanica) di Wolff ebbe un grande impatto tanto che la frase d’apertura di numerosi articoli riguardanti l’emicrania, scritti tra il 1960 e il 1980, era: “It is widely accepted that the aura arises from intracranial vasospasm and headache

from extracranial vasodilatation” (è largamente accettato che l’aura è determinata da un

vasospasmo intracranico e la cefalea da una vasodilatazione extracranica)[24]. In particolare, Wolff identificava nella vasodilatazione delle branche terminali extracraniche dell’arteria carotide esterna l’origine del dolore cefalico e l’intensità del dolore era strettamente correlata all’ampiezza della pulsazione delle branche superficiali della carotide esterna a livello occipitale e temporale.

Recentemente è stato dimostrato come la stimolazione dei vasi intracranici può causare una emicrania ipsilaterale[25]. Le sostanze vasodilatatrici come i nitrati hanno un effetto

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19 scatenante, importante da sottolineare che anche sostanze vasocostrittrici come la caffeina possono agire come sostanze scatenanti per via dell’effetto rebound vasodilatatorio nel caso di assunzioni in dosi eccessive (pz che soffrono di cefalea dovrebbero pertanto mantenere una esposizione uniforme alla caffeina)[8].

Negli anni ’80 Olesen introdusse la teoria neurogenica individuando una oligoemia con riduzione del 20-30% nel circolo sanguigno cerebrale, dapprima nella porzione posteriore cerebrale e gradualmente diffusasi a livello dei lobi parietale e temporale con una velocità di 2-3 mm/min durante un episodio di emicrania con aura. Il territorio di distribuzione della oligoemia non corrisponde ai territori delle maggiori arterie cerebrali ma segue la superficie corticale. Ciò implica una causa neuronale piuttosto che vascolare. Spesso l’oligoemia è seguita da un aumento del flusso di sangue ma il periodo in cui avviene l’aumentato afflusso di sangue non correla temporalmente con l’episodio emicranico, questo dato suggerisce quindi che la vasodilatazione intracranica è probabilmente un epifenomeno piuttosto che la causa dell’emicrania[26].

Nel 1984 Moskowitz propose la teoria trigemino-vascolare. Moskowitz infatti partiva dall’ipotesi che uno stimolo (probabilmente la Cortical Spreading Depression) depolarizzasse le terminazioni trigeminocervicali che innervano le meningi determinando il rilascio di peptidi pro-infiammatori, come la sostanza P e CGRP (Calcitonin Gene-Related

Peptide), che inducono vasodilatazione. Quindi il processo di “infiammazione neurogenica

sterile” agisce come trigger della cefalea stimolando le afferenze trigeminali. Le fibre C, che collegano il ganglio trigeminale attivato alle altre aree cerebrali coinvolte nella cefalea, sarebbero quindi responsabili della percezione dolorosa dei pazienti[27,28]. A supporto di questa teoria Moskowitz osservò lo stravaso plasmatico durante la stimolazione elettrica del ganglio trigeminale nei ratti[29] e Goadsby dimostrò nel 1988 che in risposta alla elettrostimolazione del ganglio del trigemino negli esseri umani e nei gatti veniva messa in atto una risposta pro-infiammatoria con il rilascio di peptidi quali la sostanza P e CGRP[30].

Inoltre Goadsby dimostrò, a ulteriore conferma della teoria trigemino-vascolare, che i livelli di CGRP risultavano aumentati a livello del sangue refluo nella vena giugulare dei pazienti durante gli attacchi emicranici[31].

2.1.2.1 Cortical Spreading Depression

Il termine Cortical Spreading Depression o CSD rappresenta la lenta propagazione di un’onda di depolarizzazione neuronale e gliale, ad una velocità di 2-3 mm/min, seguita da una fase di soppressione neuronale di durata più o meno lunga[32]. La suddetta onda è

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20 accompagnata da uno shift transitorio del potenziale di membrana e da un temporaneo aumento del flusso sanguigno cerebrale. Questo fenomeno è stato individuato per la prima volta da Aristides Leao nel 1944 durante lo studio della risposta corticale agli stimoli elettrici, nel tentativo di comprendere le basi dell’elettroencefalogramma (EEG) corticale in un modello di epilessia sperimentale. Lo studio si serviva di conigli, gatti e piccioni e dopo una serie di stimoli elettrici ripetitivi della corteccia di questi animali o in seguito ad alcuni stimoli pressori con una bacchetta di vetro Leao mise in evidenza, dopo un periodo di 1-5 secondi, un “marked enduring depression” (marcata e duratura depressione) dell’attività spontanea all’EEG, segnale che si propagava lentamente in tutte le direzioni della regione stimolata con una velocità di circa 3 mm/min (fig.1).

Figura 1: CSD rilevata da Leao nel 1944 (tratto da Leao AAP. Spreading depression of activity in cerebral cortex. J Neurophysiol 1944; 7:159–390).

L’indizio iniziale che ha permesso di collegare la CSD all’emicrania, e in particolare all’aura, è stato il confronto tra le velocità di progressione dell’aura e della CSD. Anche l’aura infatti è caratterizzata da una progressione e nell’emicrania classica la posizione della luce intermittente che appare accanto al centro del campo visivo gradualmente si espande verso l’esterno (fig.2)[33].

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21 Figura 2: Mappa dell’aura visiva di Lashley. Il punto cieco dell’occhio controlaterale rispetto a quello che sperimenta l’aura è rappresentato con un cerchio tratteggiato, le aree rappresentanti gli scotomi sono mostrate alternando linea tratteggiata e linea continua (tratto da Lashley KS. Patterns of cerebral integration indicated by the scotoma of migraine. Arch Neurol Psychiatry 1941;42:259– 64).

La velocità con la quale si sviluppano i sintomi visivi suggerisce la presenza di una iperattivazione a livello della corteccia visiva, la quale si propaga con una velocità di circa 3 mm/min. Questa è la stessa velocità che Leao notò per la CSD, questa similitudine fu intravista da Milner come la base per collegare la CSD all’origine dell’aura. Ipotesi che è stata confermata anche dalle metodiche di imaging, in particolare Hadjikhani et al., usando la risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato che durante la presentazione dei sintomi visivi dell’aura nella corteccia visiva degli stessi pazienti si verificano delle modificazioni neurovascolari che si propagano lentamente. Un netto cambiamento del segnale BOLD (Blood Oxygen Level-Dependent) è stato infatti rilevato da Hadjikhani et al. lungo la corteccia calcarina (corteccia visiva primaria o V1) ed il segnale è risultato identico lungo la suddetta area corticale con un’unica differenza: il tempo di esordio, poiché il segnale è esordito posteriormente e si è propagato anteriormente (fig.3). Da questo studio strumentale è stata dedotta la relazione tra aura emicranica ed un evento cerebrale ad andamento progressivo, la quale percezione visiva è retinotopicamente correlata.34

(22)

22 Figura 3: Spreading suppression della attivazione corticale durante l’aura visiva emicranica. (tratto da Friberg L, Olesen J, Lassen NA, Olsen TS, Karle A.Cerebral oxygen extraction, oxygen consumption, and regional cerebral blood flow during the aura phase of migraine. Stroke 1994; 25:974–9).

La CSD può essere evocata oltre che da stimoli elettrici o meccanici, come uno stimolo pressorio a livello della corteccia, anche da un pH alcalino, da una bassa osmolarità e da stimoli chimici quali ioni potassio (K+) o glutammato. Infatti nella propagazione della CSD sembra essere coinvolto il rilascio e la diffusione di mediatori chimici con effetto eccitatorio nei fluidi interstiziali (molto probabilmente ioni K+ e glutammato). Inoltre è di fondamentale importanza nella modulazione dell’eccitabilità corticale la distribuzione degli astrociti che stabilizzano l’ambiente extracellulare eliminando gli ioni potassio dall’ambiente extracellulare. Difatti Cui et al. hanno dimostrato che la velocità del CSD diminuisce gradualmente dall’area dorsale a quella ventrale della corteccia insulare, aree nelle quali è nota la riduzione progressiva nella distribuzione astrocitaria. Gli stessi studiosi hanno inoltre dimostrato che il sistema serotoninergico cerebrale, che modula l’eccitabilità dei neuroni corticali attraverso l’attivazione recettoriale, contribuisce alla propagazione del CSD. Hoyer et al. riportano che 5-HT (5-idrossitriptamina) ha un’affinità di legame maggiore per il recettore 5-HT1A rispetto al recettore 5-HT2 a livello della corteccia cerebrale.

(23)

23 L’attivazione del recettore 5-HT1A provoca una iperpolarizzazione mentre l’attivazione del recettore 5-HT2 provoca una depolarizzazione dei neuroni piramidali, quindi l’attivazione di questo tipo di recettore provoca l’attivazione dei neuroni ma è stato riportato che la stimolazione in vivo[35] provoca una azione inibitoria preferenziale in quanto i recettori 5-HT2 sono largamente espressi a livello degli interneuroni GABAergici.

Cui et al. hanno dimostrato che la velocità di propagazione della CSD risulta aumentata in ratti in età neonatale trattati con 5,7-diidrossitriptamina nei quali l’innervazione serotoninergica della corteccia cerebrale è cronicamente ridotta per via della degenerazione, farmacologicamente indotta, dei neuroni serotoninergici del rafe dorsale. I risultati ottenuti indicano quindi che l’eccitabilità della corteccia cerebrale può essere incrementata dalla disfunzione cronica dell’innervazione serotoninergica della corteccia cerebrale e questo meccanismo spiegherebbe la facilitazione nell’induzione dell’emicrania in pazienti che presentano una predisposizione individuale alla presenza di livelli di serotonina ridotti rispetto ai soggetti che non soffrono di emicrania. L’eccitabilità corticale può inoltre risultare aumentata a causa di una mutazione missenso del gene CACNA1A (che codifica per una subunità del canale del calcio neuronale). Come già definito in precedenza la mutazione del gene CACNA1A è responsabile di una variante di emicrania con aura, ovvero l’emicrania emiplegica familiare di tipo 1. Questa mutazione induce una suscettibilità all’emicranica provocando un abbassamento della soglia di generazione della CSD, pertanto la Cortical

Spreading Depression è coinvolta anche nell’emicrania emiplegica familiare, come indicato

dallo studio condotto da Van den Maagdenberg et al. nel 2004[36].

2.1.3 Sindromi episodiche che possono essere associate all’emicrania

I disordini periodici dell’infanzia sono stati introdotti per la prima volta nel 1933 da Wyllie e Schlesinger e sono ritenuti essere l’espressione precoce della suscettibilità genetica all’emicrania, che evolverà in emicrania stessa con la crescita del bambino[37].

Le sindromi episodiche pediatriche, precedentemente note come equivalenti emicranici o sindromi periodiche, rappresentano quindi un gruppo di disordini parossistici o periodici che si verificano in pazienti con emicrania, con o senza aura, o in soggetti ad un rischio maggiore, rispetto alla popolazione sana, di sviluppare l’emicrania. Nonostante l’eterogeneità delle manifestazioni queste sindromi sono accomunate da diversi elementi: il carattere parossistico o periodico, l’esame neurologico normale tra un attacco e l’altro, familiarità per emicrania ed evoluzione clinica in emicrania[38].

(24)

24  disturbo gastrointestinale ricorrente:

× sindrome del vomito ciclico; × emicrania addominale.  vertigine parossistica benigna;  torcicollo parossistico benigno.

Altre condizioni, seppur non citate dalla classificazione ICHD-III, sono rappresentate da: chinetosi, dolore ricorrente agli arti, disordini del sonno periodici come il sonnambulismo, il sonniloquio, il pavor notturno e il bruxismo. Recentemente anche le coliche infantili sono state riconosciute come un equivalente emicranico in età precoce. La diagnosi è facilitata dall’individuazione di criteri diagnostici nel contesto della ICHD-III ma rimane comunque difficile fare diagnosi di variante emicranica poiché i sintomi con le quali possono manifestarsi sono simili ai sintomi che troviamo in altre sindromi comuni in età pediatrica, nelle quali la cefalea non è prominente.

L’emicrania addominale è caratterizzata da attacchi parossistici di dolore addominale, localizzato sulla linea mediana, di intensità da moderata a severa. Il dolore può essere associato a sintomi vasomotori: pallore, nausea, vomito ed anoressia. In seguito all’attacco si verifica la risoluzione dei sintomi che si presenteranno nell’attacco successivo. Rappresenta una delle più comuni varianti emicraniche in età pediatrica, con una prevalenza del 1,7-4,1% nei soggetti di età compresa tra 1 e 21 anni, prevalenza che sale al 15% se vengono prese in considerazione anche le forme probabili di emicrania addominale. Colpisce più frequentemente il sesso femminile con un picco di prevalenza tra i 4,2-7 anni, mentre Bentley et al. hanno individuato una analoga prevalenza nei due sessi e una familiarità del 90% per emicrania[39]. Gli attacchi di emicrania addominale interferiscono con le normali attività quotidiane nel 72% dei pazienti e frequentemente si manifestano al risveglio con una durata media che varia tra le 2,3 e le 13,3 ore. La frequenza annua media è di 14 attacchi

[40-42]. L’1–4% dei bambini è affetto da emicrania addominale ed è considerata una delle più

comuni forme di dolore addominale ricorrente in età evolutiva[43]. Il dolore addominale può essere associato ad altri sintomi quali: anoressia, nausea, vertigini, aura visiva, emicrania, chinetosi e sintomi vasomotori. La fisiopatologia dell’emicrania addominale non è stata ancora chiarita, potrebbe essere correlata ad un’instabilità autonomica, ad un disturbo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene o ad un’alterata motilità della parete intestinale[44]. In

merito a quest’ultima ipotesi dobbiamo ricordare la stretta correlazione esistente tra l’intestino e il sistema nervoso, in quanto entrambi derivano dallo stesso tessuto embriologico ed esiste una importante correlazione tra il sistema nervoso enterico e il

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25 sistema nervoso centrale (il primo può avere effetti diretti sul secondo e viceversa). La suscettibilità all’eccitabilità cellulare del sistema trigemino-vascolare potrebbe causare un’ipereccitabilità dei neuropeptidi che regolano la percezione del dolore sia a livello del sistema nervoso centrale che a livello addominale[45]. Lo stress potrebbe contribuire ad aumentare l’eccitabilità del sistema nervoso centrale provocando il rilascio di neuropeptidi e neurotrasmettitori, i quali porterebbero alla disregolazione del sistema gastrointestinale[46]. La diagnosi di emicrania addominale avviene escludendo le altre possibili cause di dolore addominale, di tipo gastrointestinale o urologico ed escludendo la presenza di epilessia parziale (generalmente mesiotemporale, caratterizzata da attacchi di breve durata e associata a compromissione della coscienza)[47].

La vertigine parossistica benigna (BPV) è una sindrome episodica caratterizzata da brevi attacchi ricorrenti, non epilettici, di vertigine oggettiva o soggettiva, che si verificano senza preavviso e si risolvono spontaneamente. Presenta due picchi di incidenza: tra i 2 ed i 4 anni e tra i 7-11 anni, la prevalenza è maggiore nelle femmine (60-67%). Le vertigini si presentano con una durata media di 1-5 minuti e una frequenza pari a 2-10 episodi al mese

[48-50]. La vertigine parossistica benigna condivide i fattori trigger dell’emicrania, essa può

infatti essere scatenata da: stanchezza, stress, cambiamenti climatici, stimoli luminosi e deprivazione di sonno. La BPV rappresenta la più frequente causa di vertigine episodica nei bambini di età compresa tra i 2 ed i 6 anni ed ha una prevalenza complessiva del 2-2,6%[48,51]. Ad ulteriore conferma della correlazione tra la vertigine parossistica benigna e l’emicrania notiamo che la familiarità per emicrania nei pazienti con BPV è del 39-100% e il 21-67% dei pazienti riferisce emicrania[50,52,53]. Il meccanismo con la quale si instaura la vertigine parossistica benigna non è chiaro, probabilmente è legato ad una disfunzione vestibolare periferica e centrale che coinvolge selettivamente i nuclei vestibolari e la via vestibolocerebellare[53,54].

Il torcicollo parossistico benigno (BPT) è un disordine caratterizzato da episodi ricorrenti, con risoluzione spontanea, di inclinazione laterale della testa con una rotazione minima causata da una distonia cervicale. La testa dei bambini può essere riportata in posizione neutrale durante gli attacchi. Si verifica nei bambini e nei neonati, il primo attacco si verifica infatti ad un’età media di 5,9-7 mesi ed ha una prevalenza maggiore nelle femmine (71%)[55].

Gli episodi si verificano generalmente al mattino e possono associarsi ad altri sintomi quali: vomito, vertigine, atassia e pallore[56]. L’eziologia è sconosciuta ma recentemente sono stati individuati alcuni deficit genetici che potrebbero essere coinvolti nella patogenesi del BPT

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26 quali la mutazione di CACNA1A sul cromosoma 19 e le microdelezioni del gene PRRT2

[57-59].

Studi longitudinali hanno dimostrato che i pazienti con torcicollo parossistico benigno sviluppano nel corso del tempo vertigine parossistica benigna, seguita da vomito ciclico e/o emicrania addominale ed infine emicrania[60].

La sindrome del vomito ciclico (CVS) è caratterizzata da episodi improvvisi e ricorrenti di vomito e nausea intensa che possono essere associati a pallore e letargia. Dal punto di vista clinico possiamo individuare diverse fasi: la prima fase è rappresentata dall’intervallo libero dai sintomi, la seconda fase è caratterizzata da sintomi prodromici come nausea intensa e pallore, segue poi la fase del vomito ed infine la risoluzione dell’episodio. Un episodio di vomito ciclico dura in media 2-3 giorni. Fino al 75% dei soggetti manifesta i sintomi durante la notte o nelle prime ore del mattino[61,62]. Alcuni trigger riconosciuti sono: infezioni, stress psicosociale, alimenti (per esempio formaggio, cioccolato, glutammato monosodio), stanchezza fisica o deprivazione di sonno, chinetosi, mestruazioni[63]. Il meccanismo alla base della sindrome del vomito ciclico potrebbe essere legato ad un’alterazione del rilascio di CRH (Corticotropin Releasing Hormon) e di vasopressina da parte dell’asse ipotalamo-ipofisi[64], ad una disfunzione autonomica[65] od a disordini del metabolismo mitocondriale (a supporto di quest’ultima ipotesi è stata evidenziata l’eredità in linea materna della sindrome del vomito ciclico)[66,67]. L’età media di insorgenza è tra i 4 e i 7 anni e la prevalenza dell’emicrania nei pazienti che riferiscono CVS è del 40-46%, mentre la familiarità per emicrania si attesta al 27,8-82%[68-70]. In 10 anni i sintomi della sindrome del vomito ciclico vanno incontro a risoluzione nel 40-60% dei pazienti ma sono noti anche casi di persistenza in età adulta[71]. L’esordio precoce di CVS è un predittore per lo sviluppo di emicrania in età successiva, specialmente se l’esordio si verifica prima dei 6,7 anni, generalmente il 20-35% dei pazienti sviluppa emicrania[72].

Le coliche infantili, seppur non prese in considerazione dalla ICHD-III, meritano un approfondimento in quanto presentano un’importante correlazione con il sonno, oltre che con l’emicrania. Le coliche infantili si presentano come un disordine caratterizzato da pianto eccessivo e frequente in neonati in buone condizioni di salute e ben nutriti, con prolungati attacchi di pianto che si presentano spesso la sera, con una durata di almeno 3 ore al giorno per almeno 3 giorni alla settimana[73,74]. Il 5-19% dei neonati risulta essere affetto da coliche

infantili e il picco di incidenza si verifica all’età di 6-8 settimane[75]. In buona parte di questi

neonati esiste una familiarità per emicrania (riscontrata nell’86% rispetto ai controlli da Janet al.).Il medesimo studio ha valutato 29 bambini con emicrania e poco più della metà di questi

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27 soggetti (il 52%) ha riferito di aver avuto una storia di coliche infantili, contro il 20% riscontrato nel gruppo di controllo[76]. L’associazione tra emicrania e coliche infantili appare quindi certa e risultati analoghi sono stati raggiunti anche da altri studi, questa relazione è specifica per l’emicrania in quanto non si presenta nei soggetti affetti da cefalea tensiva. Ciò è stato indagato in un recente studio: su 208 bambini emicranici di età compresa tra 6 e 18 anni il 72,6% aveva presentato durante l’infanzia anche le coliche (contro il 26,5% dei bambini del gruppo di controllo senza emicrania) mentre nei bambini con TTH solo il 35% aveva una storia di coliche infantili contro il 26,5% del gruppo di controllo[77]. Pertanto i dati presenti in letteratura supportano alcuni autori i quali sono concordi nell’affermare che le coliche infantili siano dei precursori emicranici, o meglio una forma di emicrania con espressione età specifica.

2.2 Cefalea tensiva

La cefalea di tipo tensivo rappresenta la forma più comune di cefalea primitiva, in quanto presenta una prevalenza nella popolazione generale che varia dal 30% al 78%[18]. Sebbene l’emicrania abbia una prevalenza minore rispetto alla cefalea tensiva, questa comporta un impatto personale e sociale maggiore. È anche chiamata cefalea psicomiogena o cefalea da stress. Rispetto all’emicrania, la cefalea di tipo tensivo è caratterizzata da crisi di minore intensità ma maggiore durata. Il dolore è di tipo continuo e gravativo, ed interessa a cerchio tutto il capo. In età pediatrica sono colpiti soprattutto i soggetti che presentano, in comorbidità, stati depressivi e disturbi d’ansia[1]. I criteri diagnostici ICHD-III per la cefalea tensiva sono:

A) almeno 10 episodi di cefalea che si verifichino in media <1 giorno al mese (<12 giorni all’anno) e che soddisfino i criteri B-D;

B) durata da 30 minuti a 7 giorni;

C) almeno due delle seguenti quattro caratteristiche: 1. localizzazione bilaterale;

2. qualità gravativa o costrittiva (non pulsante); 3. intensità lieve o media;

4. non aggravata dall’attività fisica di routine, come camminare o salire le scale. D) si verificano entrambe le seguenti condizioni:

1. assenza di nausea e vomito;

2. può essere presente fotofobia oppure fonofobia, ma non entrambe. E) non meglio inquadrata da altra diagnosi.

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28 L’esatta patogenesi della cefalea tensiva (Tension Type Headache o TTH) non è ancora stata chiarita. La TTH potrebbe infatti derivare da meccanismi periferici miofasciali, da meccanismi centrali o dalla presenza concomitante di entrambi i meccanismi. Dalle conoscenze attuali è stato desunto che probabilmente il meccanismo periferico è correlato alla TTH episodica mentre i meccanismi centrali, come la sensibilizzazione centrale, sembrano essere preponderanti nella cefalea tensiva cronica (Chronic Tension Type

Headache o CTTH)[78]. La CTTH si differenzia dalla TTH per la durata (da ore a giorni, continua), inoltre il paziente con cefalea tensiva cronica riferisce la sintomatologia cefalalgica per un tempo complessivo, in media, maggiore o uguale a 15 giorni al mese e maggiore a 3 mesi all’anno[79]. I meccanismi periferici coinvolti sono legati all’aumentata

tensione dei muscoli pericranici e all’ipersensibilità al dolore da pressione, la presenza di quest’ultima è stata dimostrata sia nella TTH che nella cefalea tensiva episodica[80,81]. Alla

base dell’incremento della tensione muscolare pericranica e del dolore da pressione possiamo trovare: riduzione del flusso sanguigno, reazioni infiammatorie, aumentata attività muscolare e atrofia muscolare. Tramite studi elettromiografici (EMG) Sohn et al. hanno dimostrato una maggior attività dei muscoli pericranici nei pazienti con CTTH rispetto ai controlli sani ma i livelli EMG non correlano con la gravità della cefalea, mentre l’intensità della cefalea sembra avere una relazione con la tensione muscolare[82,83]. Anche gli studi condotti su pazienti in età pediatrica mostrano un significativo aumento della sensibilità pressoria se confrontati con il gruppo di controlli sani. Buchgreitz et al. hanno dimostrato, con uno studio del 2008, che i soggetti che sviluppano cefalea tensiva cronica presentano normali livelli di tensione e di soglia al dolore pressorio prima della presentazione iniziale dei sintomi[84]. Ciò suggerisce che i due meccanismi periferici citati rappresentano in realtà conseguenze della CTTH e non le cause della cefalea tensiva, da imputare probabilmente ad una disfunzione centrale. È stato infatti ipotizzato che la sintomatologia riferita derivi da una up-regulation generalizzata della sensibilità dolorifica indotta dalla stimolazione prolungata dei nocicettori da parte degli stimoli provenienti dai muscoli pericranici, da un deficit della inibizione discendente o da entrambi i meccanismi[81].

Possono contribuire alla fisiopatologia della cefalea tensiva anche alcuni fattori genetici. Il polimorfismo degli alleli STin 2.12/12 e STin 2.12, per il trasportatore della serotonina (importante neurotrasmettitore coinvolto nella modulazione del dolore), potrebbe giocare un ruolo protettivo nei confronti della CTTH[85] mentre il polimorfismo della catecol-O-metiltrasferasi (Val158Met) potrebbe essere determinante nel provocare la suscettibilità alla cefalea tensiva cronica in età pediatrica[86]. Anche i fattori psicologici giocano un ruolo di

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29 primaria importanza nel determinismo della cefalea tensiva; come attestato da Battistutta et al. la CTTH è la forma di dolore cronico più frequentemente associata a comorbidità psichiatriche[87].Le patologie psichiatriche maggiormente coinvolte sono la depressione e l’ansia, queste ultime potrebbero aggravare una preesistente sensibilizzazione centrale e causare un aumento nell’incidenza degli attacchi cefalalgici. Un altro fattore che può compartecipare ai meccanismi fisiopatologici della cefalea tensiva è lo stress psicosociale, purtroppo il meccanismo d’azione che lo vede coinvolto non è ancora del tutto chiaro. Lo stress potrebbe agire sia a livello centrale che periferico inducendo una aumentata sensibilità del sistema nervoso centrale e di conseguenza la cefalea. In particolare potrebbe indurre perifericamente un aumento dell’attivazione/sensibilizzazione miofasciale e a livello centrale potrebbe ridurre la soglia di detezione del dolore e provocare l’incremento dell’intensità del segnale nocicettivo[88].

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30

Capitolo 3

Terapia della cefalea

Attualmente sono disponibili diverse terapie farmacologiche per il trattamento acuto e profilattico della cefalea in età pediatrica. Oltre ai farmaci i pazienti possono giovare di prodotti nutraceutici e della terapia comportamentale.

Esistono due possibili approcci terapeutici:

 l’approccio graduale prevede l’utilizzo di diverse opzioni terapeutiche alle quali si accede solo in caso di fallimento delle precedenti;

 l’approccio stratificato prevede la scelta di una determinata strategia terapeutica idonea all’intensità degli attacchi[89].

In età evolutiva l’approccio stratificato risulta più complicato da applicare poiché sono a disposizione solo un numero limitato di farmaci sintomatici. Come noto i bambini non sono degli adulti in miniatura, pertanto i farmaci possono presentare una diversa efficacia e sicurezza rispetto ai pazienti adulti per via di possibili differenze nei meccanismi farmacocinetici e farmacodinamici.

I farmaci devono essere assunti al minor dosaggio possibile in grado di raggiungere l’effetto sperato e la loro efficacia deve essere monitorata nel tempo mediante un diario. In tal modo potremo ottenere informazioni utili sulle recidive, sugli effetti che la terapia prescritta induce sul dolore e sui sintomi associati e sulle possibili reazioni avverse[90].

3.1 Terapia in acuto

I pazienti devono essere istruiti sull’uso di farmaci assunti per risolvere gli attacchi cefalalgici in acuto, essi devono infatti essere trattati il prima possibile, all’esordio dell’aura se presente. Oltre all’importanza del trattamento tempestivo è essenziale illustrare le conseguenze dell’abuso dei farmaci a disposizione poiché ciò predispone alla cronicizzazione del disturbo, il quale si verifica nel 20-30% dei bambini e degli adolescenti con cefalea[91].

In età evolutiva la terapia sintomatica di prima scelta è costituita dal paracetamolo. Altri farmaci a disposizione sono: acido acetilsalicilico, ibuprofene, triptani, derivati dell’ergot e antidopaminergici.

Il paracetamolo ha un’azione analgesica dovuta, almeno in parte, all’inibizione della ciclossigenasi 1 (COX 1) e la conseguente azione inibitoria sulla sintesi delle prostaglandine.

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31 L’azione del paracetamolo si estrinseca sia a livello del sistema nervoso centrale che del sistema nervoso periferico ed è efficace per dolore di intensità lieve e moderata.

Uno studio condotto da Hamalainen et al. ha testato l’efficacia del paracetamolo verso quella di ibuprofene e del placebo. I due farmaci hanno mostrato una pari efficacia nella riduzione del dolore ad un’ora mentre l’ibuprofene si è mostrato superiore al paracetamolo nella risoluzione completa dell’attacco a due ore[92].

Un’altra opzione possibile è rappresentata dall’acido acetil salicilico (ASA), raccomandata negli adulti ma sconsigliata nei pazienti di età inferiore ai 12 anni per il rischio di sviluppare la sindrome di Reye[93]. L’ASA può agire tramite il blocco irreversibile di COX1 e COX2 ma sono stati individuati altri possibili meccanismi mediante i quali i pazienti cefalalgici possono trarre giovamento da questo farmaco:

 inibizione dello stravaso plasmatico durale;  aumento della sintesi cerebrale della serotonina;

 inibizione dell’attività dei neuroni ipotalamici a funzione nocicettiva;  inibizione dell’attività dei neuroni del nucleo caudato del trigemino[94].

Altri FANS, come l’ibuprofene e l’indometacina (vedi infra), possono essere indicati nella terapia in acuto grazie all’azione inibitoria nei confronti delle prostaglandine, inoltre i FANS che antagonizzano l’aggregazione delle piastrine possono prevenire l’iniziale incremento di serotonina che si verifica all’inizio degli attacchi emicranici (poiché la serotonina risulta quasi totalmente trasportata dalle piastrine). Come il paracetamolo anche i FANS sono indicati negli attacchi emicranici di intensità lieve e moderata [95,96].

I triptani agiscono invece come agonisti dei recettori 5-HT1B/1D ed esplicano la loro azione

antiemicranica mediante molteplici meccanismi, infatti la stimolazione di questi recettori localizzati a livello dei vasi cerebrali e durali provoca:

 inibizione del rilascio di peptidi vasoattivi come GCRP;  vasocostrizione a livello dei vasi cefalici;

 inibizione della depolarizzazione delle fibre sensitive trigeminali;

 inibizione sull’attività neuronale del nucleo caudale del trigemino inibendo di conseguenza la trasmissione del dolore[97].

I triptani risultano efficaci sia nei confronti del dolore che dei sintomi associati quali nausea, vomito, fonofobia e fotofobia. Rappresentano i farmaci di prima linea per il trattamento dell’emicrania nell’adulto e in alcuni paesi esteri vengono utilizzati per le forme di cefalea caratterizzate da intensità severa che si verificano nei pazienti in età evolutiva. In Italia

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32 l’utilizzo dei triptani non è stato autorizzato nei soggetti di età inferiore ai 18 anni per i potenziali effetti di questa categoria di farmaci sul sistema neuroendocrino: in seguito alla somministrazione di sumatriptan sono state rilevate aumentate concentrazione di beta endorfine e di cortisolo[98], aumentato rilascio di GH (Growth Hormone), inibizione del rilascio di ACTH (Adreno Cortico Tropic Hormone) e di prolattina[99,100]. GH, cortisolo e ACTH sono ormoni che giocano un ruolo di primaria importanza nella crescita e nella maturazione dei bambini, per tali motivi non sono ritenuti del tutto sicuri in età evolutiva e nei paesi in cui c’è l’indicazione ai triptani solo alcuni sono stati approvati in età pediatrica[101].

I derivati dell’ergot, quale la diidroegotaminamesilato, sono indicati nel trattamento degli attacchi emicranici caratterizzati da intensità severa ma bassa frequenza. Sono utilizzati soprattutto nel mondo anglosassone, attualmente non sono in uso in Italia. I derivati dell’ergot agiscono prevalentemente come agonisti parziali dei recettori alfa adrenergici e dopaminergici D1/D2 e in misura minore come agonisti parziali dei recettori beta adrenergici. Il principale meccanismo d’azione con il quale gli ergot-derivati agiscono consiste nell’induzione della vasocostrizione dei vasi cefalici, inoltre la diidroegotalamina rappresenta un potente agonista serotoninergico poiché agisce sui recettori 5-HT1 e 5-HT2 coinvolti nella modulazione del dolore percepito durante gli attacchi emicranici. Non è consigliata la somministrazione a soggetti di età inferiore ai 12 anni.

In merito ai farmaci antidopaminergici indicati nella terapia dell’emicrania annoveriamo, infine, la metoclopramide, la clorpromazina e la procloperazina. Vengono sfruttate due proprietà dei farmaci antidopaminergici: l’effetto antiemetico (utile nel caso in cui nausea e vomito rappresentino sintomi predominanti) e l’effetto sedativo. Gli studi condotti utilizzando solo antiemetici hanno dimostrato un blando effetto antidolorifico. L’unico studio sull’efficacia e sulla tollerabilità degli antidopaminergici in età evolutiva ha ottenuto risultati incoraggianti ma merita di essere confermato da ulteriori studi[102]. È necessario

prescrivere questa categoria di farmaci con cautela per l’evenienza di reazioni avverse importanti anche a basso dosaggio (per esempio segni extrapiramidali, discinesie tardive e ipotensione ortostatica).

3.2 Terapia acuta in emergenza

In caso di un episodio intrattabile di cefalea la terapia deve essere somministrata per via endovenosa, possono essere utilizzati:

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33  neurolettici come aloperidolo e clorpromazina (la quale inibisce gli effetti di serotonina e istamina, entrambe coinvolte nell’incremento della permeabilità vascolare);

 antiepilettici come il valproato di sodio (utilizzato anche nella terapia preventiva);  desametasone (Innes et al. hanno dimostrato l’efficacia di quest’ultimo nel ridurre la

frequenza di recidiva)[103];

 solfati di magnesio (efficacia dimostrata in uno studio condotto su soggetti tra i 14 ed i 55 anni: pazienti con bassi livelli di magnesio sono andati incontro a risoluzione del dolore e dei sintomi associati all’emicrania entro 15 minuti dall’infusione. Soggetti

non responder hanno dimostrato livelli più alti dei valori di magnesio rispetto ai

pazienti responder. Un altro studio ha dimostrato l’efficacia della somministrazione parenterale di magnesio solfato in particolare sull’emicrania con aura)[104,105].

3.3 Terapia preventiva

La terapia preventiva è consigliata nei pazienti nei quali si verifica almeno una tra queste condizioni:

 il trattamento acuto risulta poco efficace, mal tollerato o controindicato;  episodi di cefalea caratterizzati da elevata intensità;

 crisi dalla durata superiore alle 4 ore;

 frequenza pari ad almeno 1 episodio alla settimana o 3-4 episodi al mese[106].

Il trattamento deve essere cucito su misura a seconda delle caratteristiche di ogni paziente, prendendo in considerazione le comorbidità che il soggetto può presentare. La terapia a scopo profilattico si pone l’obiettivo di:

 ridurre la frequenza degli episodi cefalalgici;

 ridurre il dolore sperimentato durante gli attacchi e la conseguente disabilità;  ridurre il rischio di progressione a cefalea cronica.

È di fondamentale importanza far comprendere al bambino e alla famiglia che la terapia a scopo preventivo consiste in un trattamento a lungo termine che deve essere assunto in modo continuo e che la risposta alla terapia non si manifesterà in tempi rapidi poiché il miglioramento avviene in modo graduale[107]. Pertanto il trattamento non deve essere sospeso prima di un periodo della durata di almeno 6-8 settimane, a meno che il paziente non manifesti effetti collaterali mal tollerati.

Riferimenti

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