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Il postumano: un nuovo paradigma? Riflessioni a partire dall'antropologia di Hans Blumenberg

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Academic year: 2021

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FABBRICARE L’UOMO

Tecniche e politiche della vita

a cura di

Beatrice Bonato e Claudio Tondo

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)

www.mimesisedizioni.it Isbn: 9788857512495

Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

E-mail: mimesis@mimesisedizioni.it

Redazione:

Beatrice Bonato, Claudia Furlanetto, Claudio Tondo, Eliana Villalta Società Filosofi ca Italiana Sezione Friuli-Venezia Giulia

Sede sociale: via Borgo Peressotti 38/a - 33010 Pagnacco (Udine) www.sfi fvg.info

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INDICE

INTRODUZIONE 7

Giovanni Leghissa

ILPOSTUMANO: UNNUOVOPARADIGMA?

Rifl essioni a partire dall’antropologia di Hans Blumenberg 13

Marina Maestrutti

TRANSUMANISTIE “BIOLUDDISTI”

Quale democrazia e quale etica per il postumano? 29

Roberto Marchesini

TECNOPOETICHEPOSTUMANISTICHE 61

Claudio Tondo

LAMANUTENZIONEDELL’UMANO

Estendere la vita e vincere la morte nella prospettiva

delle tecnoscienze 77

Antonio Lucci

ILCONCETTODITECNICANELPENSIERODI PETER SLOTERDIJK 111 Eliana Villalta

ANCORA LETTERESULL’UMANISMO? 131

Beatrice Bonato

ILPRESENTEDELL’UMANO 157

Tiziano Sguazzero

DIGNITÀELIBERTÀDELL’UOMO

Le premesse fi losofi che del dibattito sulla dignità umana 185

Francesca Scaramuzza

ANIMALISINGOLARI 209

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7

INTRODUZIONE

La scelta dell’immagine di copertina, ripresa dal mitico 2001: Odissea

nello spazio di Kubrick, non avrebbe bisogno di commenti in rapporto al

titolo e al tema di questo volume, la fabbricazione dell’uomo; se non fosse per un divertente equivoco sul senso di un particolare, capitato mentre si cercava, con gli amici della redazione, di trovarne una adatta. Riferendosi al feto nella bolla, Claudio Tondo ha fatto un giorno una battuta sul bambi-no nello spazio con la “cintura di sicurezza”. E quell’ombra scura, che con tutta evidenza è semplicemente un braccino, è stata da me codifi cata, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, come cintura di sicurezza.

Mi piacerebbe far aleggiare ancora la metafora ironica evocata dall’im-magine fantasma, prima di lasciarla tornare nel limbo delle associazioni bizzarre che si affacciano involontariamente al pensiero.

Essa dà corpo, mi sembra, a un motivo ricorrente nelle prossime pagi-ne, che riguarda il ruolo della protezione che ci assicuriamo nel momento stesso in cui ci proiettiamo nel futuro cercando di anticipare nuove forme dell’umano, o nuove condizioni decisamente “postumane”. In altre parole è come se, al di là dei diversi accenti, delle diverse impostazioni e posizio-ni, tutti ci fossimo in qualche misura confrontati con una serie di resistenze, di difese preventive risultanti dal timore, ma anche dal desiderio e dalla tentazione, di sfondare confi ni a lungo considerati naturali. Due tipi di con-fi ne in particolare, quelli tra gli organismi biologici soprattutto umani e le macchine da un lato, e quelli tra gli esseri umani e le altre specie animali dall’altro. L’umanismo, che compare spesso come bersaglio polemico o come orizzonte da oltrepassare, se non già superato, in vista di paradigmi meglio rispondenti ai dati scientifi ci a disposizione nonché ad approcci etici più adeguati, appare dunque come una costruzione tesa a preservare un’essenza propria a un ente che non può venir ridotto a una macchina ma neppure può esser pensato in continuità con l’animale.

Mi pare insomma che il tema comune di Fabbricare l’uomo sia dato dal carattere problematico di questa “cintura di sicurezza” dell’antropo-logia umanistica ancor più che dalla rifl essione sul postumano. Come

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os-8 Fabbricare l’uomo

serva Eliana Villalta nel suo articolo, tale problematizzazione, che investe il senso del complesso rapporto tra natura e tecnica nell’autoproduzione dell’umano, non ha atteso l’esplosione tecnologica degli ultimi decenni per venire alla luce. È già implicita nel confronto, seppure mancato o forse pro-prio perché mancato, tra il pensiero fi losofi co e le scienze biologiche del primo Novecento. Ecco perché, nella panoramica delle questioni riaperte intorno alla domanda “Che cos’è l’uomo?”, o meglio “Che cos’è l’uma-no?”, un posto cruciale spetta all’opera di Peter Sloterdijk, interlocutore privilegiato, oltre che nel saggio di Villalta, anche in quello di Antonio Lucci, che ricostruisce la genesi del concetto di antropotecnica, e nel mio, per venire convocato, questa volta invece in chiave piuttosto polemica, da Roberto Marchesini. A Sloterdijk sembra ancora far cenno l’immagine dell’utero-bolla, sospesa in un’ambigua condizione tra naturale e artifi cia-le, del fotogramma di Kubrick.

Nel saggio di Giovanni Leghissa, con il quale il “Quaderno” si apre, l’insuffi cienza dell’approccio umanistico tradizionale in fi losofi a è messa in luce per contrasto dall’analisi delle ipotesi antropologiche di Hans Blu-menberg. Leggendo tanto l’attività cognitiva umana, quanto le disposizioni sociali e le condotte emotive, in stretta relazione con le acquisizioni delle scienze biologiche, si può dimostrare come tutta una serie di nozioni che la fi losofi a tradizionale ascrive all’assoluta differenza umana, siano ricon-ducibili all’autopoiesi evolutiva. La specie Homo, proprio in quanto specie animale e non in quanto essenza irriducibile all’animalità, appare segnata dal desiderio, dall’“appetito di tempo” come tendenza a oltrepassare l’oriz-zonte presente, ad anticipare il futuro. In questo senso, sostiene Leghissa, essa è già da sempre “postumana”.

In altri contributi del volume sono invece proprio gli scenari del postu-mano inteso nel senso più corrente, cioè come vasto e ramifi cato movimento di pensiero scientifi co, fi losofi co e artistico, a sollecitare sia una ricognizio-ne attenta delle tecnologie più rivoluzionarie del nostro tempo – dall’inge-gneria genetica alla bioingedall’inge-gneria, all’informatica, alle applicazioni delle scienze cognitive, alle nanotecnologie – sia una considerazione anche spre-giudicata delle loro implicazioni per il futuro umano. Implicazioni che non andrebbero respinte in nome del nostro attaccamento a un’idea di umanità e di vita umana forse legate a un mondo in via di superamento.

Marina Maestrutti, nel cui campo di ricerca rientra l’impatto delle na-notecnologie sull’immaginario, esamina nel suo saggio le ragioni dei tran-sumanisti, dando loro ampio spazio ed evitando di appiattirle moralisti-camente, come accade spesso nella disputa che le oppone a quelle, più popolari, dei conservatori, defi niti ironicamente “bioluddisti”. Dopotutto

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Introduzione 9

il transumanesimo esalta la libertà e la dignità umane, al di là di una di-fesa non troppo argomentata della barriera tra interventi sull’uomo am-missibili, per esempio per scopi terapeutici, e interventi da vietarsi perché puramente migliorativi. Su questa linea si muove Claudio Tondo, dando conto dell’incidenza sempre più consistente dei progetti di sconfi namento dei limiti umani orientati al prolungamento indefi nito della vita, anzi talora volti senza remore al raggiungimento dell’immortalità, grazie a una sim-biosi corpo/macchina talmente pervasiva da rendere pressoché impossibile pensare i dispositivi tecnici solo in termini di protesi o strumenti.

Con il che si fa strada l’esigenza di distinguere tra diverse declinazioni del postumano: il postumano come transito, passaggio trans-umano in cui già ci troveremmo, verso una nuova condizione non più umana; come esa-sperazione iper-umana del progetto moderno di dominio sulla natura nel senso di animalità, vulnerabilità, mortalità – da cui tutti, almeno a parole, vorrebbero tenersi lontani –; infi ne come abbandono dell’antropocentrismo umanistico, riconoscibile in tutte le posizioni fi losofi che, da Pico della Mi-randola a Gehlen, fondate sulla tesi dell’eccezione-uomo, separato dalle altre specie in virtù non delle sue caratteristiche di specie, quanto proprio dal suo defi cit specifi co, dall’assenza di una forma, in modo da esaltar-ne le capacità prometeiche e proteiche di fabbricare se stesso liberamente dandosi tutte le forme possibili. Questa è la tesi di Roberto Marchesini, che oppone al dominio del paradigma antropocentrico una visione unitaria zooantropologica, implicante un deciso decentramento dell’uomo rispetto alle altre specie, e insieme una proposta etica non “secessionista”, come a suo giudizio resta quella di Sloterdijk, ma ispirata al valore dell’ibridazione culturale uomo-animale.

Che la questione del postumano debba sfociare in una rifl essione etica è del resto inevitabile, e per quanto un tale esito rischiasse di riportarci a riva, vanifi cando le incursioni avventurose nelle acque del postumano, non ci siamo sottratti a questo compito. Il lavoro di Marina Maestrutti, oltre a presentare una vasta rassegna delle posizioni etiche a favore e contro il transumanesmo, porta infi ne alla luce almeno due dense zone d’ombra pre-senti in questa prospettiva. Da un lato la tendenza a estendere oltre l’umano la richiesta di diritti e il riconoscimento di dignità – ad animali come i pri-mati, oppure a intelligenze artifi ciali, insomma ai cyborg – ma di negarli, o a limitarli, per esseri umani per qualche motivo decaduti a una condizione sub-umana. Condizione nella quale molti esseri umani potrebbero in futuro regredire, mentre altri più fortunati passeranno oltre, diventando appunto postumani, o meglio più-che-umani, super-umani. Dall’altro lato, i transu-manisti rischiano di dimenticare, esaltando le capacità performative,

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l’in-10 Fabbricare l’uomo

telligenza, la tensione all’automiglioramento cognitivo, quel radicamento nel corpo che è proprio il fondamento dell’ibridazione. Per parte mia, ho dato nel mio articolo un certo spazio ai dilemmi etici sollevati dall’even-tualità di intervenire sulle origini della vita, sul patrimonio genetico, de-terminando ad esempio i caratteri dei fi gli, non per paventare un sinistro futuro, quanto per interrogarmi sul presente del nostro desiderio. Un taglio squisitamente bioetico ha il contributo di Tiziano Sguazzero, che ha anche il pregio di articolare una problematica poco frequentata perché solo agli albori, ovvero quella del biodiritto, con la guida di una classica nozione fi losofi ca di matrice kantiana, quella di “dignità umana”, a cui rinviano numerosi documenti programmatici tesi a superare le impasses delle for-mulazioni individualistiche di stampo liberale. Intorno a un’idea allargata di dignità, da riconoscersi non solo agli esseri umani ma a tutti gli animali, Francesca Scaramuzza costruisce infi ne un percorso suggestivo intessendo testimonianze di fi losofi , etologi, ricercatori sul campo, i quali ci raccon-tano storie divertenti, struggenti, angoscianti di animali perlopiù sfruttati e torturati in nome della scienza, animali sensibili con i quali si potrebbe invece cercare di stabilire un altro tipo di contatto, provare a spostarsi sul loro terreno, assumere il loro punto di vista, lasciarli parlare con il loro linguaggio anziché costringerli a rispondere nel nostro, pronti a declassarli a macchine se non riescono a farlo.

Storie, aneddoti, narrazioni si fanno spesso largo, del resto, nelle pagine di questo quaderno; la fantascienza la fa naturalmente da padrona, ma non mancano altre fi nzioni, fantasie fi losofi che come scrive Eliana Villalta, for-se più effi caci delle teorie nel far da ponte tra le inquietudini del prefor-sente e un futuro che sembra avvicinarsi troppo rapidamente perché possiamo prepararci ad accoglierlo.

Beatrice Bonato Giova spendere ancora qualche parola per spiegare la genesi del presen-te volume. Fabbricare l’uomo. Tecniche e politiche della vita è il nome di un ampio e impegnativo progetto che la Società Filosofi ca Italiana – Se-zione Friuli Venezia Giulia ha realizzato a Udine, tra l’autunno 2011 e la primavera 2012, in collaborazione con il Liceo Scientifi co Statale “Niccolò Copernico”, il Conservatorio Statale di Musica “Jacopo Tomadini”, l’As-sociazione culturale vicino/lontano e il Comune di Udine. Momento culmi-nante dell’intero percorso è stata la serata fi losofi ca del 4 maggio, nell’am-bito della manifestazione organizzata da vicino/lontano, con il dibattito cui

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Introduzione 11

hanno preso parte Giovanni Leghissa, Marina Maestrutti e Roberto Mar-chesini. Incorniciava l’incontro un reading-concerto su testi di Nietzsche, Sloterdijk, Foucault e Derrida, a cura di Beatrice Bonato, con letture di Stefano Rizzardi e degli studenti Beatrice De Bellis e Marco Briatti, e con musiche di Renato Miani eseguite da Carlo e Davide Teodoro.

Sulle medesime tematiche si erano tenuti nei mesi precedenti tre semi-nari, con Claudio Tondo, Antonio Lucci e Francesca Scaramuzza. Tutte le relazioni vengono qui riproposte, seppure in veste più ampia e rielaborata. Il saggio di Tiziano Sguazzero corrisponde fedelmente al suo intervento nel convegno “La dignità umana nel dibattito bioetico e biogiuridico” tenu-tosi a Udine il 3 novembre 2012, mentre i saggi di Eliana Villalta e Beatrice Bonato sviluppano come di consueto rifl essioni e analisi attinenti, ricol-legandosi in parte ai temi del precedente numero di “Edizione”, Animali,

uomini e oltre. A partire da La Bestia e il Sovrano di Jacques Derrida, a

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13

G

IOVANNI

L

EGHISSA

IL POSTUMANO: UN NUOVO PARADIGMA?

Rifl essioni a partire dall’antropologia

di Hans Blumenberg

Avremmo vita facile se fosse possibile articolare la questione del postu-mano quale ampliamento ostensivo della tesi secondo cui la dimensione umana costituisce semplicemente uno stadio peculiare della storia evoluti-va − quello, cioè, in cui nell’ecosistema prende posizione il vivente che ap-partiene appunto alla specie Homo sapiens. Si tratta di un animale che svi-luppa se stesso da un lato manipolando oggetti, trovati pronti oppure da lui stesso creati, dall’altro ponendosi in relazione osmotica con i conspecifi ci, con i quali ha l’abitudine di parlare − evolutivamente, è una caratteristica, questa, assai peculiare, ma non così assurda; assurdo, semmai, sarebbe vo-ler escludere che dalla casualità governante l’evoluzione potesse scaturire un animale parlante. Va subito sottolineata una conseguenza fatale di tale caratteristica − fatale perché tale da rendere quasi irriconoscibile l’appar-tenenza dello stesso linguaggio alla serie dei fenomeni evolutivi. Siccome parla, l’animale uomo non può giacere a bell’agio, ozioso, appagandosi, come la greggia, ed è invece costretto a provare tedio, come il pastore er-rante dell’Asia che la greggia accompagna. Il desiderio − così tradurrei il tedio leopardiano − impedisce infatti che, in virtù di questo o quell’appaga-mento, sia possibile identifi care in un unico punto della catena signifi cante la genesi del senso. L’assenza di tale identifi cazione genera, per contro, identifi cazioni fantasmatiche con sostituti di un senso supposto primigenio, inguaribilmente protese verso orizzonti sovrumani. Tutt’altro che proteso verso la sovraumanità, con maggior modestia un pensiero atto a inquadrare la postumanità avrebbe allora il compito di inserire entro l’orizzonte dell’a-nimalità anche il tedio che sembra rendere la vita del pastore errante così diversa da quella del suo gregge.

Non abbiamo vita facile, invece, in quanto la teoria che potrebbe dar forma sistematica alla nozione di postumanità si trova ancora in uno stadio piuttosto frammentario. Del resto, ciò non deve stupire: la rifl essione fi lo-sofi ca non si è mai stancata di coltivare l’illusione che, a furia di costruire concetti, si sarebbe poi fi nito col trovare il momento generatore del senso.

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14 Fabbricare l’uomo

In tale furiosa ricerca, la potenza combinatoria del segno che i concetti supporta è stata innalzata al di sopra del piano a cui essa appartiene, che è quello dell’autopoiesi evolutiva; errore grave, perché se da un lato i fi lo-sofi hanno potuto chiarire che i concetti, per valere, hanno bisogno solo di porsi, come avviene esemplarmente e prototipicamente negli Elementi di Euclide, dall’altro hanno dimenticato che nessuna regolarità evocabile sul piano dell’oggettuale potrà mai prescindere dalle regolarità che si manife-stano già a livello fenomenico, là dove nulla ha ancora la forma dell’ogget-to, ma tutto possiede comunque forma.1 E le forme fenomeniche, mentre

sono solo traducibili nelle forme oggettuali che le corrispondono, intrat-tengono una parentela − seppur anche questa mediata − con le forme che assume di volta in volta l’autopoiesi cerebrale. Carne del mondo, diceva Merleau-Ponty: con tale espressione si rende bene l’idea di una continuità ontologica tra il mare dei fenomeni e quel grumo, appena un po’ più denso, che è il cervello di Homo sapiens.

Nelle rifl essioni che seguono vorrei tentare di esporre alcuni elementi di una possibile fi losofi a del postumano, prendendoli a prestito da un autore che non ha avuto paura di rendere impuro il trascendentale, affermando che esso si pone, paradossalmente, entro quel piano d’immanenza in cui si generano forme. L’autore in questione è Hans Blumenberg, nella cui opera si trova gran parte di ciò che servirebbe per impostare un discorso suffi cientemente persuasivo sulla postumanità. Innanzi tutto, troviamo la chiara consapevolezza che la fi losofi a, in tale contesto, deve venire dopo le scienze.2 Il che signifi ca dopo quei saperi che ci permettono di ripensare

la questione della fondazione a partire dalla svolta impressa alle scienze naturali dal paradigma darwiniano. È frutto di un pregiudizio l’idea che la concezione dell’uomo emersa e affermatasi nell’ambito della tradizione dell’umanesimo europeo sia l’unica a poter fornire il paradigma in virtù del quale articolare la fondazione del conoscere. In base a tale paradigma, la capacità umana di formare concetti e di istituire un sapere puro − quel sapere, cioè, che fornisce la materia grezza alla fondazione trascendentale, comunque la si voglia intendere − non dipenderebbe né dal radicarsi della coscienza nella corporeità, né dal quotidiano commercio con oggetti. La persistenza di tale paradigma è evidenziata dall’analisi che Blumenberg

1 Cfr. J. Petitot-Cocorda, Morfogenesi del senso (1985), Bompiani, Milano 1990. 2 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a cura di M. Sommer, Suhrkamp,

Frankfurt am Main 2006, p. 482 (sottolineatura dell’Autore; qui, come in seguito, la traduzione è mia).

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 15

compie della fenomenologia husserliana, la quale costituisce il sistema che maggiormente si è sforzato di pensare il rapporto di mutua implicazione tra genesi empirica e purezza del trascendentale. Qui Blumenberg mostra i motivi che impedirono anche a Husserl di immettere il trascendentale entro il fl usso di un’antropologia fi losofi ca.3 Quest’ultima, dal canto suo, prende

invece le mosse senza indugio da un pensiero della corporeità il quale pone nella necessità umana di orientarsi nel mondo, anche con l’ausilio di arte-fatti, il punto di partenza di ogni atto di rifl essione. Il suo compito primario consiste nel mostrare come il passaggio dal tool using al tool making sia la base da cui non può prescindere nessuna spiegazione della genesi della concettualità.4 La manipolazione attiva di ciò che è esterno al soggetto è

infatti la fonte primaria della gestione dell’assenza, la quale trova nel con-cetto la propria contropartita in termini cognitivi. L’oggetto assente − una preda, per esempio − innesca l’azione in modo tale da produrre strategie che permettono di pensarlo come se fosse presente − si costruisce così una trappola per catturare la preda. La capacità di agire in vista della cattura della preda e la formazione del concetto di preda appartengono dunque al medesimo orizzonte antropologico.

Quando si costruisce la trappola, bisogna immaginarsi la presenza futura della preda che eventualmente verrà catturata. Si deve gestire un’assenza. Ma ancora prima di giungere a una prestazione in fondo così raffi nata, si cerca di impossessarsi di prede scagliando contro di esse pietre o giavellot-ti.5 Tali prede correvano infatti più veloci dei nostri antenati, ancora poco

av-vezzi a quel bipedismo che ancora oggi ci causa non pochi problemi (come il mal di schiena); ma non solo: sicuramente si trattava anche di animali più grossi dell’uomo, con i quali era poco consigliabile ingaggiare perico-lose lotte corpo a corpo. Ben predisposto alla fuga, il nostro progenitore combatte l’impulso di darsela a gambe grazie al lancio, gestendo lo spazio circostante in modo tale da rendere produttiva la distanza stessa. Compro-messo rivelatosi fondamentale: là dove si sarebbe potuto fallire a causa di uno scarso equipaggiamento corporeo, sono state impiegate tecniche di pre-venzione adeguate. E tali strategie di prepre-venzione si sono poi estese sino al punto da diventare una costante specie-specifi ca: progettare, pianifi care, organizzare su larga scala comportamenti preventivi, sono infatti elementi che stanno alla base di ogni formazione sociale propria del genere Homo.

3 Cfr. ivi, pp. 9-469. 4 Cfr. ivi, pp. 534 e sg.

5 Su ciò, cfr. anche R. Arp, The environments of our Homin ancestors, tool-usage,

and scenario visualization, in “Biology and Philosophy”, n. 21, 2006, pp.

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16 Fabbricare l’uomo

Ed è qui che va colto il rilievo che assume la costruzione di concetti: dal lancio, passando per la trappola, si giunge fi no alla condivisione di un mon-do oggettivo, che dipende dall’aver sperimentato con successo i vantaggi di una socializzazione spinta. La trappola, scrive Blumenberg, “necessita la condivisione delle rappresentazioni di ciò che deve essere cacciato”.6 La

retorica dell’antropologia, dunque, spoglia il nesso tra il gettare (werfen) e il progettare (entwerfen) di quel pathos antropocentrico e umanistico che esso aveva assunto in seno alla retorica heideggeriana del Dasein.7

Poco sopra si è nominato il bipedismo: anche a tale aspetto peculiare di Homo Blumenberg non manca di attribuire grande importanza in vista di una teoria genetica del concetto. È grazie al bipedismo che si acquista un orizzonte, la coscienza cioè che davanti a noi, lungi dal luogo in cui ci troviamo, in un altrove imprecisato, ci possa essere qualcosa che, poten-zialmente, costituisce una minaccia. Orizzonti allargati come quelli che si presentano all’animale bipede che solca le savane, una volta sceso dagli alberi della foresta, inducono ad assumere comportamenti preventivi, cioè a prendere distanza da ciò che si offre alla percezione entro il raggio di ciò che circonda le immediate vicinanze. Ancora una volta, Blumenberg sug-gerisce che vi sia un nesso ben preciso tra uno specifi co contesto evolutivo e la nascita del concetto in quanto “organo della perceptio per distans”,8

ovvero in quanto organo che permette l’incontro con ciò che si sottrae alla percezione immediata. Senza tale allontanamento dall’immediata vicinan-za, sarebbe impossibile isolare il mondo della possibilità, ovvero sarebbe impossibile introdurre tanto la distinzione tra possibilità e realtà, quanto quella tra presenza e assenza.9

Va notato, inoltre, che questa tendenza verso l’oltre e l’altrove non si sviluppa solo nella dimensione orizzontale: muovendosi nella savana, sor-ge spontaneo l’impulso a guardare verso il cielo, il quale invita alla con-templazione e all’ammirazione per la sua inarrivabile immensità. Non è diffi cile immaginare come il cielo si sia ben presto trasformato in un ricet-tacolo contenente oggetti assai diversi da quelli che si incontrano nella vita di ogni giorno. In cielo abitano infatti oggetti non manipolabili, sottratti per principio a qualsiasi uso tecnico, quindi oggetti che non possono essere

6 H. Blumenberg, Teoria dell’inconcettualità (2007), duepunti, Palermo 2010, p. 15.

7 Determinanti, in questo contesto, sono le rifl essioni svolte già negli anni Venti da Alsberg (cfr. P. Alsberg, Der Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen

Lösung, Sybillen-Verlag, Dresda 1922), alle quali Blumenberg, nei testi raccolti

in Beschreibung des Menschen, si riferisce assai spesso. 8 H. Blumenberg, Teoria dell’inconcettualità, cit., p. 97.

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 17

inseriti in alcun programma di prevenzione (da qui il carattere indecifrabile dei cosiddetti segni celesti). Questa caratteristica degli oggetti posti oltre l’orizzonte, su nei cieli, ha fatto sì che lo sguardo rivolto al cielo potesse ben presto esercitarsi a trovare in esso non la sede di questo o quell’ogget-to, bensì la sede della totalità degli oggetti in generale (il mondo delle idee insomma). Passaggio importante, non privo di conseguenze in vista della formazione dei concetti, ma anche potenzialmente dannoso: nel rivolgersi a oggetti che non si lasciano manipolare, infatti, non si attua solo un’ascesa verso l’idealità e la totalità, ciò che così si compie è anche un oblio della terrestrità, della vita, di ciò che procura godimento.10

Se dalla contemplazione dei cieli torniamo a guardarci attorno, in dire-zione dell’orizzonte terrestre, ci scontriamo, come già notato poco sopra, con l’angoscia che l’indeterminatezza dell’orizzonte causa. In altre parole, il tema dello sguardo rivolto all’orizzonte viene sviluppato da Blumenberg anche con lo scopo di collocare entro una cornice antropologica un altro tema caro alla fi losofi a, il tema cioè dell’angoscia, intesa quale Stimmung fondamentale dell’umano. E in tal modo Blumenberg ha potuto espungere questo tema dall’ambito di quella tradizione umanistica che fa dell’ango-scia una delle caratteristiche di un ente distinto per principio da tutti gli altri animali. Non meno della tendenza a cercare in cielo l’insieme di tutti gli oggetti possibili, anche l’angoscia nasce dal bipedismo e dalla visione binoculare: queste due caratteristiche antropologiche, unite all’uscita dal-la foresta tropicale e all’ingresso negli spazi aperti deldal-la savana, mettono l’uomo in condizione di vedere le cose un lato per volta, mentre l’uomo stesso “può esser visto da tutti i lati”.11 Da predatore l’uomo si fa preda

potenziale, e così l’angoscia si fa compagna perenne di quell’essere che si muove nell’aperto. Avere un orizzonte, insomma, signifi ca dover essere sempre pronti ad affrontare percoli potenziali, predisporsi per l’indetermi-natezza, fare i conti con l’inatteso e con la paura della morte.

In stretta correlazione a ciò va colta la relazione tra un’emozione come l’angoscia e la razionalità, la quale troverà sempre nell’angoscia non il polo avverso, o, peggio, la sorgente nascosta, bensì l’indice delle proprie prestazioni mancate. Dovendo affrontare le situazioni più diverse e non potendo quindi sviluppare in tempi evolutivamente brevi la capacità di in-teragire con ambienti specifi ci, per di più in rapido mutamento, l’animale della specie Homo affi na una capacità di prevenzione generica. In relazione

10 Cfr. H. Blumenberg, Teoria dell’inconcettualità, cit., pp. 16 e sgg. 11 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 564.

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18 Fabbricare l’uomo

a tale capacità, l’angoscia sorge quale indice del fatto che le strategie pre-ventive possono fallire − o sono sul punto di fallire.

Se accogliamo la tesi secondo cui vi è uno stretto legame tra la forma-zione del concetto e la capacità di prevenforma-zione al fi ne di tenere a bada l’an-goscia causata dall’indeterminato, possiamo affermare che, nel complesso, la ragione stessa si confi gura come “actio per distans allo stato puro”,12

cioè come insieme di strategie, selezionate nel corso della storia evolutiva, che servono a rendere presenti oggetti assenti, o non intuitivi, e a immagi-nare oggetti possibili, o addirittura impossibili. Articolare a partire da tale idea della ragione un pensiero postumanistico non signifi ca semplicemente ridurre la ragione a ciò che, entro la sfera del bios, ne condiziona l’emer-genza, signifi ca invece suggerire che è la facoltà di un organo a produrre la distanza dal mondo, ovvero la nascita di quel livello di realtà in cui si lascia percepire l’immaterialità del simbolico.

Blumenberg moltiplica gli esempi che ci possono guidare verso questa costellazione di pensieri. E si tratta di una serie di rifl essioni che ha sempre come fi lo conduttore la nozione di actio per distans. Senza di essa, non si avrebbe la possibilità di ridefi nire la funzione della ragione quale organo della prevenzione, ovvero quale funzione di un adattamento: “la ragione è in modo essenziale un organo di attese e della formazione di orizzonti di attesa, un insieme di disposizioni preventive e di atteggiamenti provvisori-anticipatori”13 − dove per “prevenzione” si deve intendere l’atteggiamento

“rivolto a tutto ciò che è possibile entro un orizzonte dato”.14

Poco sopra si è già menzionato il ruolo che Blumenberg attribuisce all’angoscia. Più in generale, le tecniche preventive di cui può dotarsi l’uo-mo sono inserite lungo un continuum che ha come punto di partenza la ne-cessità di reagire a un’emozione, ovvero a uno stato interno che provoca la motilità, che letteralmente mette in moto l’organismo e lo induce a intera-gire con l’ambiente esterno. “L’emozione rende possibile il raggiungimen-to di obiettivi lontani, è uno dei presupposti dell’actio per distans, per ogni innesto di una distanza tra la mera rappresentazione e il riempimento”.15

Ma tale stato interno, va subito aggiunto, non è per principio separabi-le dalla dimensione dell’intersoggettività, da quella dimensione cioè in cui emerge il mio conspecifi co che mi viene incontro, che si affaccia entro il mio orizzonte esperienziale. Cosa vuole da me? È qui per minacciarmi?

12 Ivi, p. 601. 13 Ivi, p. 561. 14 Ivi, p. 565.

15 Ivi, p. 566. Su ciò, cfr. ora D. Denton, Le emozioni primordiali. Gli albori della

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 19

Addirittura aggredirmi? Queste le domande che sorgono subito, non appe-na lo si scorge in lontaappe-nanza. Stando ad alcune ipotesi recenti formulate al riguardo, pare che i primi rappresentanti della specie Homo sapiens si siano mostrati alquanto accorti nel ridurre la possibilità che distribuzioni ineguali delle risorse, o l’ineguaglianza determinata dal fatto che un individuo è più forte di un altro, favorissero comportamenti eccessivamente aggressivi − si siano mostrati cioè abili nel ridurre la possibilità che insorgessero gerarchie violente.16 Del resto, un simile controllo delle aspirazioni a esercitare un

potere arbitrario sugli altri non deve essere stato troppo diffi cile in seno a comunità formate da pochi individui, cento o centocinquanta al massimo.17

A Blumenberg interessa mostrare che anche l’intersoggettività, intesa come condivisione di spazi comuni e come costruzione di relazioni sociali duratu-re, vada connessa alla stabilizzazione progressiva di atteggiamenti preventi-vi. Guardando l’altro mi sforzo di decifrare le sue intenzioni nascoste e così mi accorgo se posso fi darmi o meno. L’altro può avvicinarsi a me in modo pericoloso, e quindi anche in tal caso si rivelano essenziali le prestazioni le-gate all’actio per distans, ovvero alla capacità di adottare misure preventive. In fondo, è sfruttando le medesime risorse, la medesima capacità di colpire a distanza, che l’altro può eventualmente aggredirmi. Più che come animali predisposti all’aggressività, gli umani allora andrebbero visti come quegli animali che si incontrano entro uno scenario dominato dall’anticipazione − uno scenario, va notato, immutato ancora oggi: cambiano col tempo le risor-se tecniche, ma dall’epoca preistorica fi no all’età contemporanea gli spazi dischiusi dalla prevenzione e dall’anticipazione sono illimitati, nel senso che virtualmente non ha confi ni quella sfera di azione in cui ciascuno di noi incontra gli amici, oppure deve guardarsi dai nemici.18

Entro quell’insieme di esperienze che si dipanano a partire dalla gestio-ne della distanza si colloca anche la possibilità della morte. Quella dell’al-tro, innanzi tutto. Poter uccidere l’altro signifi ca essere sicuri che l’altro non supererà mai il confi ne che ci divide, signifi ca assicurarsi in anticipo circa la sua non nocività nei nostri confronti. È dunque portando alle estre-me conseguenze l’atteggiaestre-mento preventivo che si giunge all’omicidio tra conspecifi ci: “la prevenzione totale è la morte dell’altro”.19 D’altra parte,

anche la propria morte si confi gura come qualcosa che acquista un senso

16 Cfr. C. Boehm, Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1999.

17 Cfr. R. Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue (1996), Lon-ganesi, Milano 1998.

18 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 592 e sg. 19 Ivi, p. 612.

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20 Fabbricare l’uomo

solo a partire dalla possibilità di gestire la distanza. Il concetto, che, come si è mostrato sopra, da tale possibilità dipende, invita a pensare l’impos-sibile, aiuta a dare forma all’irrappresentabile; e tra le prestazioni della concettualità vi è anche la presa di coscienza della propria possibile fi ne, della possibilità, cioè, che il corso normale dell’esperienza subisca una cessazione. Pensare la morte, la propria morte, si inserisce dunque entro le complesse strategie messe in atto dall’animale uomo che tenta di gua-dagnare tempo e che, parimenti, è in grado di immaginare che il tempo a propria disposizione possa a un certo punto fi nire.20

Sarebbe tuttavia quanto meno riduttivo affermare che la maggior preoc-cupazione degli umani consista nel pensare alla morte (un assunto, questo, che invece caratterizza buona parte della tradizione umanistica). La morte resta piuttosto una eventualità tra altre, la cui concepibilità si inserisce nel quadro più vasto delle esperienze possibili. Blumenberg, per contro, sotto-linea con forza l’onnipervasività dell’ossessione per il tempo che manca. In un contesto comportamentale dominato dall’anticipazione, dalla necessità di adottare di continuo sempre nuove strategie di prevenzione, non stupisce che l’animale umano si ritrovi a dover fare i conti con la scarsità del tempo a disposizione, ovvero con la sensazione che non vi sia tempo suffi ciente per realizzare tutti i progetti. L’actio per distans qui giunge quasi al paros-sismo, e si confi gura quale aspirazione al superamento del tempo presente, quale inesauribile appetito di tempo. È un appetito che potrà venir saziato in vario modo, per esempio costruendo miti e universi simbolici in cui la stessa esperienza della temporalità deve trovare una immaginaria sospen-sione, oppure mettendo in moto corsi di azione come la ricerca scientifi ca i quali per principio trovano il proprio compimento in un indefi nito futuro e i cui risultati si lasciano toccare con mano ben oltre la durata della vita dei singoli individui che contribuiscono alla loro messa in opera.

Non meno importante è il saldarsi del tempo alla nozione di valore, in-teso in senso economico: che il tempo sia scarso, fa di esso la principa-le risorsa economica. Abitualmente consideriamo il nesso tra economia e scarsità − e la conseguente scoperta del fatto che la risorsa più preziosa perché più scarsa sia il tempo − come uno degli effetti più marcanti del capitalismo e della mentalità borghese. Blumenberg invece suggerisce che tale scoperta sia il frutto di una costante antropologica, nel senso che l’ani-male umano da sempre deve fare i conti con la necessità di economizzare il tempo, attribuendogli così un valore inestimabile. Conseguentemente, tanto l’esaltazione antica dell’ozio quale presupposto della vita teoretica,

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 21

quanto la sacralizzazione del tempo liturgico, con le sue lunghe pause festi-ve, dispendiose perché rivolte a introdurre l’eterno nel circuito del tempo, non sarebbero altro che sospensioni temporanee di un’attitudine orientata in senso economico dotata di radici antropologiche assai solide21 − ben più

solide di quell’atteggiamento che pensa di poter avere a disposizione un tempo infi nito per realizzare ciò di cui l’uomo sarebbe (forse) capace.

Ma poniamoci ora una domanda fondamentale: tutta questa enfasi sulle costanti antropologiche, le quali sembrano acquistare un peso fi losofi co solo in virtù di una precedenza delle teorie evoluzionistiche rispetto alla fi losofi a stessa, non rischia di far sparire dal nostro orizzonte teoretico la specifi cità dell’uomo quale animale parlante, capace cioè di creare valo-ri, sistemi simbolici, direttrici di azione che con l’immediatezza del dato naturale ben poco hanno a che fare? Il rischio di una deriva di tipo “bio-logistico” senza dubbio esiste e sarebbe semplicistico negarlo. Tale deriva pone enormi problemi sia sul piano epistemologico, sia su quello etico. In relazione a quest’ultimo aspetto, un autore come Sloterdijk (che per molti versi può essere considerato un continuatore dell’antropologia blumenber-ghiana) ha mostrato come l’aspirazione alla postumanità, evocando l’idea che l’umanità così come l’abbiamo conosciuta sino a questo momento non ci soddisfa, contiene in sé anche la poco allettante prospettiva del parco umano, della Menschenzüchtung, insomma contiene − implicita o esplicita − la volontà di produrre con la forza e la violenza umani migliori o sempli-cemente diversi.22 Credo che affi darsi a Blumenberg per edifi care le basi di

una possibile teoria del postumano ci aiuti però proprio a cautelarci da tale rischio. Il nesso tra actio per distans e genesi naturale della ragione viene infatti posto da Blumenberg alla base del discorso antropologico con l’o-biettivo di scongiurare qualunque naturalizzazione ingenua di tutti quegli elementi tipicamente umani che solitamente ci vengono in mente quando evochiamo nozioni come cultura o società.

Ricordiamo innanzi tutto che l’atteggiamento che sfocerà nell’esplicita naturalizzazione di ciò che pertiene alla sfera del sociale (e del politico) ha radici assai solide in seno alla modernità postilluminista, precedenti l’affermazione delle stesse teorie darwiniane. Nel 1764, anno di pubbli-cazione della sua Geschichte der Kunst des Alterthums, a Winckelmann

21 Cfr. ivi, p. 618.

22 Cfr. P. Sloterdijk, Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo

Heidegger (2001), a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004,

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22 Fabbricare l’uomo

non passava per la testa di dedurre dalla bellezza degli antichi le istruzioni per l’uso atte a codifi care un’estetica delle razze. Anzi, in quell’opera si ammette volentieri che, fuori dai musei e dalle collezioni di arte antica, nel mondo si possono trovare corpi belli in gran numero, persino in Africa.23

Pochi decenni dopo, alla natura si chiede di attestare invece la presenza di differenze gerarchicamente ordinate tra umani. Da allora, gli studiosi dei rapporti tra il fi sico e il morale nell’uomo poche volte hanno saputo resi-stere alla tentazione di misurare i crani per istituire gerarchie razzializzanti tra i possessori dei cervelli che quei crani ospitano. Solo che denunciare quanto sia assurdo ridurre lo spirito a un osso, come fa giustamente Hegel (in questo erede di quell’Aufklärung che innervava anche l’ammirazione per gli antichi di Winckelmann), oggi non è più suffi ciente se si vuole im-postare seriamente il discorso sul fi lo che lega la storia naturale alla storia

tout court.24 La lotta per l’affrancamento dal riduzionismo biologistico in

campo sociale, il cui unico scopo è quello di trovare forme discorsive di tipo “scientifi co” per legittimare vuoi la razzializzazione dell’altro, vuoi l’immutabilità di istituzioni, usi, costumi, gerarchie, ineguaglianze, deve saldarsi al modo in cui concretamente si sviluppa la ricerca scientifi ca nel campo della biologia evoluzionistica. Quest’ultima è riduzionista nel solo modo in cui è plausibile essere riduzionisti dalla modernità in poi, ovvero nel senso che essa esclude che si possano far entrare nel novero delle cause elementi operanti al di fuori della stessa catena causale naturale. Ma in seno a tale impostazione, senza la quale peraltro si farebbe fatica a restare dentro i confi ni della scienza moderna, si è affermato un modo di studiare la storia naturale che rende assai poco plausibile il ritorno a vecchie forme di determinismo. E se viene meno un paradigma deterministico, sostituito da uno sistemico, attento alla plurifattorialità di ciò che causa l’evoluzio-ne, se si ammette che gli ambienti modifi cano gli organismi che li abitano venendo a loro volta modifi cati dai loro ospiti,25 è abbastanza facile vedere

che necessariamente perde di signifi cato l’obiettivo di trovare nella natu-ra le cause dell’ordine sociale, mentre l’egoismo dei geni cessa di servire quale comoda scappatoia per giustifi care il comportamento egoista degli umani. Più in generale, su questo stesso terreno epistemico, si può anche impostare un discorso sulle connessioni tra gli atti mentali e il loro suppor-to neurologico che non sia la riedizione dell’equazione tra spirisuppor-to e osso,

23 Cfr. J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, a cura di F. Cicero, Rusconi,

Milano 2003, p. 381.

24 Cfr. D.L. Smail, On Deep History and the Brain, University of California Press, Berkeley 2008.

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 23

che sfugga cioè alla smania di localizzare le funzioni mentali in questa o quell’area cerebrale.26

Certo, la strada da fare per “ripulire” la ricezione delle scienze naturali da parte del senso comune da ogni deriva socialdarwinista è ancora imper-via, anche perché l’affermazione del darwinismo ebbe luogo in un contesto che rendeva assai ardua la vigilanza critica nei confronti di nozioni come “sopravvivenza del più adatto” o “lotta per l’esistenza”, le quali si sedimen-tarono nel tessuto argomentativo del naturalista e del biologo già cariche di densi rimandi a una visione non egualitaria dei rapporti sociali.27 Ma se si

radicalizza l’impostazione di un’antropologia fi losofi ca orientata in senso postumanistico, non dovrebbe essere diffi cile immaginare uno scenario in cui tanto le teorie evoluzionistiche, quanto la rifl essione critica su di esse, sul loro statuto epistemico, quindi sulla loro portata in quanto campi di-scorsivi, costituiscano semplicemente una tappa evolutiva, una modalità emergente di quella capacità che i sistemi viventi hanno di rifl ettere su se stessi. Ciò non signifi ca postulare che vi sia un passaggio necessario, quali-fi cabile come progressivo, da una concezione dell’evoluzione intaccata dal socialdarwinismo a un’altra ormai matura e aperta, priva di connotazioni politiche illiberali. Semplicemente, si tratta di ampliare la cornice che deve accogliere tanto il riferimento al bios quanto quello alla sfera del simboli-co, sforzandosi di vedere nell’irriducibilità del secondo al primo una forza che scaturisce dall’evoluzione stessa.

E Blumenberg può senz’altro venir arruolato tra i pensatori che possono contribuire alla defi nizione di una simile cornice. Per Blumenberg infatti l’uo-mo va considerato quale animale domestico che si crea da sé le condizioni per giungere a una vita lontana dallo stato selvaggio, che cioè addomestica se stesso in conformità a un imperativo di autoconservazione il quale sospende l’immediatezza naturale pur senza staccarsi completamente da essa. In altre parole, si tratta dell’idea che l’uomo abbia sospeso da sé le condizioni che lo hanno portato a essere ciò che è in termini evolutivi. Sarebbe infatti erroneo trasporre i principi del darwinismo all’uomo se si dimentica che “le condi-zioni di esistenza dell’uomo sono defi nite biologicamente proprio dal fatto che è stato in grado di mettere fuori gioco i fattori del proprio sviluppo”.28

26 Cfr. per es. G.M. Edelman – G. Tononi, Un universo di coscienza (2000), Einaudi, Torino 2000.

27 Cfr. per es. E.F. Keller, Language and Ideology in Evolutionary Theory: Reading

Cultural Norms into Natural Law, in J.J. Sheehan – M. Sosna (a cura di), The Boundaries of Humanity: Humans, Animals, Machines, University of California

Press, Berkeley 1991, pp. 85-102.

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24 Fabbricare l’uomo

L’idea viene sviluppata a partire da un esplicito riferimento a Nietzsche, il quale, in seguito agli stimoli provenienti dal lavoro del biologo Rolph,29

aveva riconosciuto nel lusso, nell’eccedenza, nella liberazione dal bisogno immediato, il motore che spinge l’evoluzione umana verso una condizione in cui a predominare è l’impulso a modellare la propria esistenza in termini di volontà di potenza. Non è qui il caso di ripercorrere le tappe del com-plesso confronto tra Nietzsche e Darwin.30 Ma dei rapidi cenni in proposito

meritano di essere fatti, al fi ne di poter meglio inquadrare il senso delle posizioni espresse da Blumenberg.

Darwin viene riconosciuto da Nietzsche come un autore chiave, in gra-do di imprimere una svolta dirompente nei confronti del mogra-do abituale di concepire l’uomo − e quindi viene visto anche come un potenziale con-corrente.31 Tuttavia Nietzsche, in vari luoghi della sua opera, non manca

di rivolgere la sua attenzione anche agli usi distorti del darwinismo. In un paragrafo della Götzen-Dämmerung, signifi cativamente intitolato “Anti-Darwin”, viene stigmatizzata l’assurdità di qualsiasi tentativo di mescolare Malthus e Darwin, di qualsiasi tentativo, cioè, di utilizzare nozioni come la lotta per l’esistenza allo scopo di spiegare il comportamento degli uma-ni nelle società moderne. Tanto più che tale lotta − se proprio volessimo attribuirle un qualche valore esplicativo in termini di teoria della cultura e della storia − porta alla sopravvivenza dei più deboli, e non dei più forti, come vorrebbero i positivisti. Più raffi nati, perché più dotati di spirito, gli individui deboli hanno imparato assai presto a imbrigliare l’arbitrio del più forte, sottomettendolo a leggi che vanno esclusivamente a loro vantaggio.32

29 Cfr. W.H. Rolph, Biologische Probleme, zugleich als Versuch zur Entwicklung einer rationellen Ethik, Engelmann, Lipsia 1882.

30 Ovviamente, anche il rapporto tra Nietzsche e Blumenberg meriterebbe un’analisi approfondita, che qui non è possibile svolgere. Accanto a Freud, è Nietzsche infatti l’autore di cui Blumenberg si serve per costruire all’interno del proprio discorso, in virtù di una complessa rete in cui si mescolano rimandi ellittici e identifi cazioni esplicite, quella posizione partendo dalla quale vengono poi rilette e ampliate sia la tradizione dell’antropologia fi losofi ca, sia quella della fenomenologia. 31 Cfr. A. Urs Sommer, Nietzsche mit und gegen Darwin in den Schriften von 1888,

in V. Gerhardt - R. Reschke (a cura di), Nietzsche, Darwin, und die Kritik der

poli-tischen Theologie, (Nietzscheforschung – Jahrbuch der Nietzsche-Gesellschaft,

Bd. 17), Akademie, Berlino 2010, pp. 31-44.

32 Cfr. F. Nietzsche, Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli. L’Anticristo. Ecce homo.

Nietzsche contra Wagner, vol. VI, tomo III delle “Opere di Friedrich Nietzsche”,

edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1970, p. 117.

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 25

Non meno deciso è il rifi uto, da parte di Nietzsche, di una possibile dedu-zione dell’idea di progresso da quella di evoludedu-zione delle specie. Affermare che dalla scimmia all’uomo si sia compiuto un progresso notevole non ci fa in realtà avanzare di un passo né verso la comprensione della nostra animalità, né verso la comprensione delle (eventuali) conquiste compiute dall’uomo ormai liberatosi dal giogo di un rapporto immediato con ciò che in noi permane di animale e di naturale.33 Ciò che i positivisti cercano, nella

loro lettura di Darwin, è una legge dello sviluppo, qualcosa cioè che possa giustifi care la bontà dello stato presente raggiunto dall’umanità. A costoro sfugge però che dall’evoluzionismo possiamo trarre un grande vantaggio solo se, al contrario, mettiamo in evidenza e valorizziamo uno degli esi-ti cruciali del naturalismo darwiniano, ovvero l’idea che l’evoluzione sia cieca, o, meglio, insensata (sinnlos).34 Ed è proprio questa Sinnlosigkeit

a porsi come punto focale dell’intervento nietzschiano in merito al tema dell’evoluzione − un intervento che avrà come fi lo conduttore la nozione di Wille zur Macht. Assieme alla dottrina cosmogonica dell’eterno ritorno, la nozione di volontà di potenza ausculta e spia l’emergenza della vita dalla materia inorganica, destinata poi a ritornare all’inorganico.

Certo era materia stabile, organizzata, pervasa da forme, quella da cui è scaturita la vita.35 Ed è con questa organizzazione, con questa capacità di

perseverare nell’essere (nel proprio essere), che si misura Homo sapiens quando si unisce al coro degli altri viventi per crearsi le nicchie ecologiche che lo ospiteranno. In ciò, si badi, non vi è alcunché di antidarwiniano − come se Nietzsche volesse ricorrere a una nozione di forma intesa come ciò che presiede all’organizzazione interna della materia. No, la spinta alla con-servazione, che innerva il cammino evolutivo dei sistemi viventi capaci di generare individui della stessa specie, anche in Nietzsche non viene

gover-33 Cfr. F. Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), vol. V, tomo I delle “Opere di Friedrich Nietzsche”, edizione italiana condotta sul testo critico stabili-to da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, p. 40.

34 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza. Idilli di Messina e Frammenti postumi

(1881-1882), vol. V, tomo II delle “Opere di Friedrich Nietzsche”, edizione italiana

con-dotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1967, p. 252 e sg.

35 Più precisamente, oggi si vede in tali forme capaci di auto-organizzazione tramite trasmissione di informazione il nucleo di quella capacità della materia di produrre vita. Su ciò, mi limito a rimandare a J. Maynard Smith – E. Szathmáry, Le origini

della vita. Dalle molecole organiche alla nascita del linguaggio (1999), Einaudi,

Torino 2001 − ma si vedano anche gli studi sulla morfogenesi di Petitot citati sopra, nella nota 1.

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26 Fabbricare l’uomo

nata da una qualche teleologia nascosta.36 Si tratta qui di quello stesso

anti-teleologismo che Nietzsche farà valere anche in sede di teoria della cultura, ovvero in quel campo epistemico in cui intendeva fornire il contributo più originale e duraturo.37 La volontà di potenza, infatti, non ha altro scopo che

garantire l’autoconservazione. Che quest’ultima governi ogni ente immesso nel ciclo del divenire non rende la volontà di potenza un principio esplicati-vo “naturale”, il quale poi, trasposto nel contesto delle scienze dello spirito, si trasforma in base – o fondamento – di una concezione “naturalistica” del-la storia e deldel-la cultura. Più in profondità, e con maggior correttezza, si tratta di cogliere come per Nietzsche la volontà di potenza venga evocata per ga-rantire la variabilità, la multiforme trasformabilità, il gusto per la differenza, che animano il vivente impegnato a conquistare il proprio spazio vitale non opponendosi alla Sinnlosigkeit, ma rendendola parte integrante del proprio mondo. Incrociando la dottrina dell’eterno ritorno, la volontà di potenza ha insomma due aspetti, uno cosmologico e uno storico-esistenziale, i quali non sono in alcun modo separabili l’uno dall’altro.

Ed è nell’ottica appena esposta che − avviandomi alla conclusione del presente lavoro − proporrei di leggere una frase tratta da un frammento dell’autunno del 1880, in cui Nietzsche afferma che bisogna “considerare i nostri pensieri come gesti, corrispondenti ai nostri istinti, come tutti i gesti. Utilizzare anche la teoria di Darwin”.38 La posta in gioco di un pensiero

postumanistico, che sa e vuole utilizzare fi losofi camente Darwin, mi sem-bra allora risiedere tutta in questo programma di lavoro lasciatoci in eredità da Nietzsche: rendere il pensiero un gesto (Gebärde), inserito pienamente nella dinamica dei Triebe (i quali, se riletti con un occhio attento alle ri-fl essioni freudiane sul Trieb inteso quale mito fondatore della psicoanalisi, magari andrebbero resi in italiano con una parola diversa da “istinti”).

Da ciò mi pare risultare in maniera chiara quale possa essere il gua-dagno che si ottiene ponendo la nozione di Selbsterhaltung al centro di un’antropologia volta a saldare il piano della storia naturale tanto

36 Cfr. M. Skowron, Evolution und Wiederkunft. Nietzsche und Darwin zwischen

Natur und Kultur, in V. Gerhardt - R. Reschke (a cura di), Nietzsche, Darwin, und die Kritik der politischen Theologie, cit., pp. 45-64.

37 Potremmo dire che Nietzsche, in questo senso, è stato un teorico della cultura e della storia con forti interessi epistemologici, i quali lo hanno portato a cercare sempre un dialogo con le scienze naturali del suo tempo. Su ciò, cfr. T. Andina,

Il problema della percezione nella fi losofi a di Nietzsche, Albo Versorio, Milano

2005.

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G. Leghissa - Il postumano: un nuovo paradigma? 27

con la sfera esistenziale, quanto con i più ampi processi storico-culturali entro cui l’esistenza degli individui si dipana. Seguendo in ciò abbastan-za fedelmente Nietzsche, Blumenberg, in sintesi, ci invita a compiere la seguente mossa teorica: considerare la tendenza dell’animale umano all’autoconservazione non semplicemente come adattamento all’am-biente, ma come spinta a plasmare da sé le forme della propria esisten-za, in un continuo gioco di ascese e rilanci verso esiti imprevedibili e potenzialmente innovativi, tanto sul piano etico, quanto in quella sfera in cui la tecnica si innesta nell’ambiente abitato dall’uomo al fi ne di mi-gliorare le sue prestazioni. Ciò non porta a staccare la natura dalla cultu-ra (intesa, quest’ultima, come ambito specifi co della creatività umana), ma a enfatizzare il ruolo che hanno le prestazioni culturali e simboliche nell’accelerare − per usare le parole di Sloterdijk − “l’arrampicata sul Mount Improbable”.39

Qualche perplessità forse potrebbe sorgere di fronte al tentativo di vo-ler a tutti i costi inserire il tema dell’autoconservazione entro la cornice di un pensiero della postumanità. Tale perplessità può essere dissipata se si considera l’ascesa al Mount Improbable come possibile declinazione della vergogna di essere umani, vergogna che trae forza e motivazione dalla constatazione di quanto possa essere crudele l’animale umano sia nei confronti dei conspecifi ci, sia nei confronti di animali di altre spe-cie. In altre parole, la movenza postumanistica può rivelarsi una buona strategia fi losofi ca se viene inserita in quel fi lone antiumanistico che ha sempre denunciato la complicità della retorica dell’umanismo tradiziona-le con tradiziona-le peggiori forme di viotradiziona-lenza e sopraffazione. Quanto il paradigma postumanista risulti a sua volta capace di una solida tenuta, tuttavia, non è dato sapere in anticipo. Il moto pulsionale che spinge l’animale uma-no verso l’autoconservazione, uma-non essendo scindibile da quel comples-so più vasto di moti pulsionali legati a ciò che Freud chiama inconscio, potrebbe anche avere esiti distruttivi. A volte, le strategie adottate per perseverare nell’essere potrebbero essere coalescenti o con il desiderio di sparire, oppure con il desiderio di voler cancellare il sistema degli oggetti al quale si ascrive la facoltà di conferire legittimità al desiderio stesso. Ma evoco qui un rischio che si deve essere disposti a correre: se riven-dicare la bontà di un percorso rivolto alla postumanità signifi ca invitare

39 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), a cura di

P. Perticari, Cortina, Milano 2010, p. 147 (ma è opportuno rimandare alle pp. 141-147 di questo lavoro per una lettura del rapporto tra Nietzsche e le teorie dell’evoluzione che è in consonanza con la lettura della nozione di

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28 Fabbricare l’uomo

gli umani a pensarsi come parte di un’autopoiesi naturale, allora si tratta anche di accogliere la costitutiva ambivalenza del desiderio che è motore di quell’autopoiesi.

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