VALENTINA PORCELLANA
DALL’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE ALL’ETNOGRAFIA COLLABORATIVA. UN’ESPERIENZA IN AREA ALPINA
FARE ANTROPOLOGIA NELLE ALPI
Per molti anni il mio terreno di ricerca sono state le valli alpine italiane, un campo scoperto dall’antropologia soltanto nella seconda metà del Novecento e rimasto a lungo sospeso tra esotismo e domesticità (Kilani, 1994a). Nonostante la loro posizione geografica, cerniera tra il Mediterraneo e l’Europa continentale, le prime descrizioni antropologiche presentavano le Alpi come «marginali rispetto al resto della società europea e caratterizzate da tratti ritenuti “primitivi”», ambiguamente vicine e remote (ivi, p.168). Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, furono dapprima alcuni antropologi statunitensi a trovare i villaggi alpini sufficientemente lontani per trascorrervi i lunghi mesi previsti dal modello ormai classico di fieldwork “alla Malinowski”; negli anni Settanta, anche alcuni ricercatori italiani “salirono sul campo” provenendo dalla pianura sottostante e inaugurando un’antropologia domestica guardata con un certo sospetto dalla comunità scientifica nazionale.
Gli studi di quegli anni, apparsi in poderose monografie, erano per lo più incentrati sul concetto di comunità, «indispensabile ancoraggio anche teorico» per descrivere le popolazioni alpine nella loro complessa organizzazione (Sibilla, 2013, p. 32). Nonostante le analisi si basassero su impianti metodologici raffinati, che coniugavano l’etnografia con apporti disciplinari diversi ‒ dalla storia alla demografia, dall’economia alla statistica ‒, la descrizione del lavoro sul campo restava sullo sfondo, non problematizzato se non nei suoi aspetti più tecnici, così come il rapporto con i cosiddetti informatori. L’incontro etnografico appariva «il mezzo per acquisire informazioni che, una volta utilizzate all’interno dell’etnografia, sarebbero divenute indipendenti dall’esperienza di chi le aveva prodotte e dalle specifiche circostanze della loro produzione per divenire i “dati”, la solida base per la teoria e la comparazione» (Satta, 2007, p. 20). Gli antropologi trascorrevanno lunghi periodi nei villaggi alpini prescelti per le loro ricerche, in alcuni casi facendovi ritorno periodicamente anche per decenni, intessendo relazioni profonde che spesso prendevano i contorni di vere e proprie amicizie e intense collaborazioni, ma non lasciando trapelare nulla nei loro scritti di tale coivolgimento, se non nelle note di ringraziamento. L’oggetto delle monografie, come prevedevano i resoconti scientifici, restava legato ai dati, alla comunità nelle sue articolazioni, organizzazioni e istituzioni, con i suoi valori, modelli economici ed ecologici, senza la presenza dell’antropologo né quella dei suoi interlocutori diretti. Eppure, dopo la pubblicazione postuma dei diari di Malinowski nel 1967, l’esperienza di campo era apparsa in tutta la sua complessità e con tutte le sue contraddizioni. Negli anni successivi, erano iniziati ad arrivare da oltre oceano i segnali del fatto che il processo effettivo della ricerca sul campo dipendesse strettamente «dal “posizionamento” dell’antropologo all’interno di una rete di relazioni sociali, politiche, personali, che si estende anche al di là del luogo dove la ricerca si svolge» e iniziava a farsi spazio la consapevolezza che la comprensione antropologica passasse «attraverso una serie di inevitabili filtri legati alle conoscenze, al genere, all’età, alle convinzioni politiche, alla provenienza culturale e sociale del ricercatore, così come alle specifiche esperienze che ha avuto occasione di vivere nel corso della sua ricerca sul campo» (Satta, 2007, p. 23).
Dapprima le riflessioni di Clifford Geertz e la corrente interpretativa statunitense di metà anni Settanta, poi la prospettiva esperienziale e partecipativa proposta da Victor Turner e Edward Bruner a metà degli anni Ottanta e “quel dannato libro” (Writing Culture) pubblicato nel 1986 a cura di James Clifford e George Marcus avevano contribuito in modo decisivo a modellare un nuovo modo di pensare alla disciplina, al ruolo del ricercatore e alla scrittura etnografica. Seppure con qualche anno di ritardo, le nuove idee erano via via penetrate anche ai “confini del mondo antropologico”, Italia inclusa1. Anche se molte questioni erano tematizzate alla luce dei nuovi paradigmi, gli “informatori” e la loro agentività, compresa la resistenza che andavano opponendo sempre più spesso all’essere oggetto di ricerca, restavano ancora sullo sfondo. Pur riconosciuti come parte della relazione dialogica, i “nativi” non rientravano a pieno titolo come protagonisti della scena e interlocutori politici dell’antropologo. I tempi dovevano ancora maturare.
1 Geertz C., The Interpretation of Culture: Selected Essays, New York, Basic Books, 1973 [trad. it. 1987]; Turner V., Bruner E., (a cura di), The Anthropology of Experience, Urbana, University of Illinois Press, 1986; Clifford J., Marcus G.E. (a cura di), Writing
Tra gli anni Ottanta e Novanta, negli studi alpini, ormai appannaggio pressoché assoluto di studiosi europei, per lo più italiani, francesi e svizzeri, un cambiamento di prospettiva e di interessi aveva portato ad una crescente attenzione per le tematiche che ruotavano intorno alla rappresentazione identitaria, alla memoria, al museo, al patrimonio. Insieme ad un certo «oggettivismo del mezzo [di registrazione]», a inizio anni Ottanta le campagne etnografiche erano caratterizzate da un’attenta «filologia delle fonti, schede, trascrizioni, archivi» (Clemente, 2007, p. 29) che comprendeva anche la raccolta e la catalogazione delle biografie degli informatori. Sempre più spesso, infatti, gli eventi festivi e gli allestimenti museali di cui gli antropologi si interessavano erano animati da un certo numero di intellettuali locali, pendolari tra la pianura e la montagna, tra la città e i contesti rurali di origine, impegnati in innovative strategie di riappropriazione della storia tra modernità e tradizione (Bravo, 1984; Grimaldi, 1987). In questo contesto, gli informatori andavano assumendo un ruolo nuovo, non solo agli occhi dei ricercatori, ma nell’azione stessa di patrimonializzazione; i ricercatori professionali riconoscevano loro un ruolo attivo di “portatori di cultura” (Bonato, 2009), raccoglitori di memorie e di oggetti, animatori di comunità. Il rinnovato interesse reciproco passava anche attraverso un inedito atteggiamento nella relazione sul campo: «Il registratore messo da parte. L’informazione cede il campo alla comunicazione interpersonale. L’altro si impone come soggetto e si sottrae alla funzione “archivistica”» scriveva Clemente nel 1981 nel suo diario di campo durante uno stage didattico e di ricerca in Val Germanasca (Clemente, 2007, p. 30)2.
Gli ultimi due decenni hanno portato gli antropologi impegnati nelle Alpi – in linea con quanto sta accadendo altrove – a porsi nuove questioni, legate soprattutto ai mutamenti socio-demografici in atto nell’arco alpino e alla presenza sempre più evidente dei cosiddetti “nuovi montanari”, con inedite implicazioni sulla trasmissione dei saperi immateriali, oltre che dei beni materiali. Ciò ha comportato anche nuove riflessioni sul ruolo dell’antropologo e dell’antropologia, dato che «oggi le popolazioni locali, le “comunità alpine”, appaiono ben più coscienti del proprio diritto e della propria capacità di rappresentarsi – ad esempio sul web – e dunque non hanno bisogno di altri che ne assumano la rappresentanza» (Viazzo, Bonato, 2013, p. 16). Se ogni fase della breve storia dell’antropologia alpina è stata caratterizzata da un mutamento di interessi e da un relativo diverso coinvolgimento delle popolazioni locali, oggi, pur nelle differenze che caratterizzano gli studi antropologici nelle Alpi, si può intravvedere un’allineamento con quanto succede a livello disciplinare rispetto alle capacità riflessive dei ricercatori e alla loro attenzione verso coloro che incontrano e con cui vivono l’esperienza di campo. Questi non sono più intesi come semplici informatori, ma come interlocutori che sanno fare le domande (oltre a cercare le risposte ai propri bisogni), che diventano «veri e propri consulenti, intellettuali che, al pari degli antropologi, articolano pubblicamente le proprie rappresentazioni e stabiliscono parte degi obiettivi del lavoro etnografico» (d’Orsi, 2008, pp. 109-110). Senza rinunciare a un ruolo osservativo e di analisi anche critica, l’approdo, almeno parziale, dell’antropologia contemporanea sembra essere rappresentato da esperienze di collaborazione e di co-costruzione dei saperi e dei significati tra antropologi e interlocutori sul campo (Favole, 2013).
UN’ETNOGRAFIA COLLABORATIVA A GIAGLIONE
Fin dal principio del mio percorso universitario, dedicato inizialmente alla dialettologia percettiva e alla sociolinguistica urbana, l’approccio che ho scelto per il mio lavoro è stato quello di una ricerca impegnata a contribuire al dibattito pubblico, coinvolgendo e attivando quanto più possibile gli attori incontrati nei diversi contesti. Dapprima attraverso l’uso di mappe percettive (Porcellana, 2002; 2009) e di autobiografie sociolinguistiche (Porcellana, 2011), il mio interesse non è stato soltanto quello di ricavare dati sul contesto socioculturale da parte di informatori più o meno casuali, ma di coinvolgere le persone in una riflessione sui propri contesti di vita, ritenendo la fase di raccolta dei dati un primo, utile, momento di apprendimento sia per il ricercatore sia per i suoi interlocutori. Questo interesse nel collaborare alla co-costruzione dei saperi ha continuato a caratterizzare il mio impegno scientifico, anche una volta incontrata l’antropologia. Anzi, la convinzione della necessità di un’antropologia «coinvolta» più che applicata, come suggerisce Michael Herzfeld, ha contribuito a modellare i progetti di ricerca avviati in area urbana e alpina3.
In differenti occasioni in cui sono stata chiamata a lavorare in comunità alpine, ho scelto di utilizzare alcuni “dispositivi” che mi hanno consentito di presentare l’intervento antropologico come uno strumento utile e utilizzabile dalle persone per far luce sui propri sistemi culturali: la co-scrittura di un volume, la
2 I risultati di quell’esperienza furono pubblicati molti anni dopo in Bromberger, Della Bernardina e Dossetto, 1994. Si veda inoltre Porcellana, Viazzo, 2014.
3 La via mediana militante dell’antropologia, intervista a M. Herzfeld a cura di A. Romano del 29 giugno 2005, pubblicata su “Antropologie” il 21 luglio 2006, https://antropologie.files.wordpress.com/2008/02/intervista_herzfeld_21_7_06.pdf.
realizzazione partecipata dell’allestimento di un museo, la realizzazione di un film “corale” sono stati alcuni degli strumenti collaborativi impiegati negli anni in diverse località dell’arco alpino italiano (Porcellana, 2013).
Spesso gli antropologi sono stati (e sono ancora in alcuni contesti) giudicati “ladri di cultura” perché, a fronte della collaborazione che trovano sul campo, non condividono con le comunità i risultati delle loro ricerche: «frequentemente – come scrive Annalisa d’Orsi – gli interlocutori si sentono traditi. Non capiscono né si riconoscono nei ritratti che gli antropologi hanno dato di loro, oppure vedono divulgate situazioni e conoscenze che avrebbero voluto piuttosto mantenere riservate. Talvolta le loro parole vengono incluse negli scritti dei ricercatori ma non ne viene menzionata la fonte. Molti lamentano questo tipo di appropriazione e ritengono che il loro apporto dovrebbe invece essere esplicitamente riconosciuto» (d’Orsi, 2008, pp. 101-102). In questo senso, i dispositivi scelti di volta in volta in base ai progetti da realizzare sono stati sempre concordati con gli abitanti locali (o con i loro rappresentanti, amministratori pubblici o animatori culturali) e hanno inteso coinvolgere le persone, fin dalle prime fasi della ricerca, in modo che non si sentissero derubati, ma, al contrario, protagonisti di processi di ricerca-azione collaborativa. Dal punto di vista dell’antropologia alpina, queste esperienze di ricerca hanno avuto un ulteriore significato. Fino a non molti decenni fa, infatti, agli abitanti della montagna veniva applicata quella strategia di rimozione che li definiva, come altri “primitivi” abitanti di terre remote, «senza morale, senza religione, senza legge, senza scrittura, senza Stato, senza coscienza, senza ragione, senza arte, senza passato, senza avvenire» (Kilani, 1994a, p. 198). La costruzione dell’altro “esotico” avveniva dunque secondo le regole di chi aveva il potere di scriverne la storia, che si proponeva «come l’umanità di riferimento, quella che detiene il potere di nominare le altre umanità o le altre società, e di assegnare loro un posto nella diversità delle culture» (Kilani, 1994b, p. 83). Il tentativo della nuova etnografia alpina, maturata nel solco di un’antropologia riflessiva, pienamente post-moderna, è quello di restituire il potere della scrittura e quello di voice a chi ne detiene il diritto (de Leonardis, Negrelli e Salais, 2012). Dunque, l’impegno del ricercatore engagé non sta solo nel «sapere dire ciò che l’altro tace», ma soprattutto nell’accompagnarlo a poter dire, cioè nella maturazione di una consapevolezza politica di sé che gli consente di svelare le proprie convinzioni e i propri bisogni. Ciò si può realizzare sia attraverso percorsi di ricerca-azione che attivano il processo di cambiamento, sia nella scrittura, riconosciuta come uno spazio di libertà in cui poter determinare la rappresentazione di sé. In questo senso, a partire dagli anni Novanta, l’etnografia ha iniziato ad essere concepita come un’esperienza condivisa con chi si incontra sul campo e luogo di negoziazione (Fabietti, 1999).
L’esperienza che intendo analizzare qui riguarda un lungo processo di etnografia collaborativa condotto a Giaglione, un comune di minoranza linguistica francoprovenzale della media Valle di Susa, nelle Alpi occidentali piemontesi.
Introdotta in paese già durante il mio percorso universitario dal mio professore di dialettologia italiana, originario del luogo e studioso di minoranze linguistiche, a partire dal 2000 sono stata invitata da alcuni abitanti a ragionare su quegli elementi culturali che essi stessi definivano “giaglionesità”. Da allora, ho continuato a frequentare quasi settimanalmente il paese prima come dialettologa, poi come antropologa fino al 2014. Attraverso una sorta di adozione simbolica, ero stata accolta in un gruppo composto da cultori di storia locale, uomini tra i sessanta e gli ottant’anni, alcuni con ruoli nell’amministrazione comunale. Dal 2003 il luogo di ritrovo del gruppo è stato il Ce.S.Do.Me.O., il Centro Studi e Documentazione sulla Memoria Orale nato dall’accordo tra la Provincia di Torino, il Comune di Giaglione, l’allora Dipartimento di Scienze del Linguaggio dell’Università di Torino e le Comunità Montane Alta Valle di Susa e Bassa Valle di Susa e Val Cenischia. Scopo del centro studi era stato, fin dalla sua apertura, quello di salvaguardare la memoria collettiva delle comunità alloglotte galloromanze della provincia di Torino (francoprovenzali, provenzali alpine, francesi) raccogliendo, ordinando, archiviando e rendendo disponibile, anche attraverso supporti multimediali, ogni aspetto della cultura veicolata dalle lingue di minoranza (Porcellana, 2006; 2007). Dapprima come borsista all’interno del Ce.S.Do.Me.O., poi come dottoranda in antropologia e successivamente come ricercatrice universitaria, negli anni ho accompagnato il gruppo di lavoro in una serie di progetti, tra i quali la realizzazione di un dizionario bilingue e di due volumi dedicati ad aspetti della storia culturale del paese.
La redazione del dizionario italiano-giaglionese/giaglionese-italiano ha richiesto alcuni anni di lavoro a partire dalla trascrizione degli appunti manoscritti, frutto di decenni di impegno, opera di Ugo Ponsero, anziano del luogo; fino alla sua morte, nonostante la fatica delle lunghe e laboriose giornate di redazione, ha lavorato tenacemente all’opera insieme al gruppo. Oltre a un poderoso volume pubblicato nel 2011 e distribuito a tutte le famglie giaglionesi, la mole di informazioni ha dato vita a un database consultabile e
aggiornabile online, comprendente anche etnotesti e materiale audiovisivo4. I due volumi, frutto della stessa tenace e “densa” collaborazione, sono stati pubblicati rispettivamente nel 2009 e nel 2012. Oltre ad essere il risultato concreto del processo di collaborative ethnography (Lassiter, 2005a; 2005b), sono stati il dispositivo di attivazione delle energie locali, che ha consentito la raccolta di documenti, immagini fotografiche, ricordi, testimonianze in lingua locale coinvolgendo decine di abitanti del paese. Al primo volume, dedicato al complesso ciclo festivo giaglionese (Cassarin, Giors, Ponsero, Porcellana, Ponte, Vayr e Zola, 2009) ne è seguito un secondo sulla mobilità in entrata e in uscita da Giaglione tra Ottocento e Novecento (Belletto, Campo Bagattin, Cassarin, Giors, Porcellana, Ponte e Vayr, 2012). Durante il processo di raccolta e sistematizzazione del materiale per i due volumi mi è stato assegnato dal gruppo un ruolo “registico”, utile per ricomporre i frammenti di storie che andavamo raccogliendo e per conferire al lavoro stesso un valore scientifico, data la mia appartenenza al mondo accademico5. Io ho accettato il ruolo, consapevole che avrei perso gran parte dell’“autorialità” e della possibilità di analisi antropologica. Tuttavia il mio interesse prevalente, rispetto a quell’esperienza, riguardava la partecipazione al processo e la verifica degli aspetti metodologici di un esperimento di etnografia collaborativa. All’interno del gruppo ho rivestito inoltre un ruolo di mediazione: per quanto possa sembrare bizzarro per un paese di poco più di 650 abitanti, le numerose frazioni di cui si compone determinano variazioni linguistiche che hanno spesso reso animate le riunioni di redazione del dizionario, così come quelle per la trascrizione di toponimi, nomi di famiglia e soprannomi, rendendo necessaria una continua negoziazione tra le parti. Come scrive Antonio De Lauri a proposito del posizionamento sul campo, «l’etnografo si confronta quotidianamente con una dinamica di continua strumentalizzazione derivante dall’incontro etnografico e il ruolo e la posizione che egli/ella assume, nel contesto specifico, derivano tanto dalle proprie intenzioni quanto da quelle degli altri» (De Lauri, 2008, p. 12). In questo senso ho accettato le richieste dei miei interlocutori, in modo da godere di una posizione privilegiata grazie alla quale osservare i processi, anche se per lungo tempo non ho riflettuto in modo sistematico sull’esperienza, vivendola più che analizzarla nelle sue implicazioni metodologiche e scientifiche.
Se il lavoro sulla memoria, così come la sistematizzazione del repertorio linguistico, ha avuto inizialmente il carattere di “etnografia d’urgenza” (Augé, 2007)6, esso non è stato inteso soltanto come atto nostalgico di recupero e conservazione, ma anche come occasione per fare il punto sul presente, sulle scelte e sulle opportunità di chi vive oggi a Giaglione. Il gruppo, nonostante fosse costituito per lo più da adulti e anziani, ha sempre rivolto uno sguardo al futuro, alle nuove generazioni, alle attuali dinamiche di spopolamento e ripopolamento delle valli alpine e all’utilità di trasmettere un ricco patrimonio di informazioni a un pubblico quanto più possibile vasto, non soltanto locale. Da qui l’esigenza di costruire una piattaforma multimediale online per la pubblicazione del dizionario, che consentisse l’inserimento di materiale audiovisivo, anche a fini turistici e didattici. Inoltre, sullo sfondo di questo grande sforzo di ricomposizione della memoria e dell’identità collettiva, c’era un altro elemento di forte interesse antropologico che stava plasmando, ormai da decenni, la storia dell’intera valle di Susa. Le tensioni crescenti legate alla realizzazione del progetto di una tratta ferroviaria ad alta velocità, a forte impatto ambientale, aveva determinato una spaccatura politica che divideva il paese. Guardare al passato è stato uno dei modi individuati dal gruppo, di cui, come detto, facevano parte anche alcuni amministratori locali, per ritrovare punti di saldatura comunitaria in un tempo di crisi.
Se la classica ricerca etnografica prevede che un ricercatore esterno alla comunità risieda per un periodo prolungato sul campo e interroghi gli informatori locali sui temi scelti per l’indagine, in questo caso è stato il gruppo stesso dei ricercatori “nativi” a coinvolgere me e gli altri abitanti, sollecitandoli a recuperare memorie e documenti. Munito di telecamera, il gruppo ha intervistato, in giaglionese7, numerosi testimoni e ha recuperato dagli archivi pubblici e privati lettere, fotografie e documenti del tutto inediti. Per le sue caratteristiche anagrafiche, per il radicamento nella realtà locale, per storia personale e famigliare, il gruppo di ricerca è riuscito a far emergere ricchissimi elementi di onomastica (specialmente soprannomi e nomi di famiglia) e di toponomastica, ha saputo ricostruire i rapporti di parentela, raccontare gli aneddoti e i pettegolezzi tramandati nel segreto delle famiglie. Questo grazie a quella che Michael Herzfeld (2003)
4 Il dizionario è consultabile all’indirizzo: http://www.dizionariogiaglionese.it/.
5 Come ha recentemente sottolineato Pietro Clemente commentando il famoso volume Scrivere le culture di James Clifford e George Marcus (1997), nell’etnografia contemporanea gli autori sono tanti, per cui l’antropologo è soltanto uno di questi, anche se spesso con un ruolo registico.
6 La morte di Ugo Ponsero, a cui è dedicato il volume del 2012, è di per sé segnale di quanto fosse importante non disperdere il patrimonio di conoscenze di alcuni anziani detentori della memoria collettiva.
chiama «intimità culturale»: una conoscenza profondamente interna della realtà locale, “incorporata”, legata a un sistema di relazioni vissuto e tramadato attraverso le generazioni. La memoria, dunque, si è mostrata come occasione dialogica; la sua dimesione pubblica si è resa evidente durante la ricomposizione dei frammenti privati in una storia collettiva. Ciascuno ha potuto raccontare la sua storia e tutti, in qualche modo, hanno ritrovato e riconosciuto se stessi, i propri padri, le proprie madri, i vicini di casa, gli amici della stessa borgata. Accompagnando i giaglionesi-ricercatori di casa in casa, mi sono resa conto di quanto essi non condividessero soltanto un contesto sociale e spaziale con i loro compaesani, ma avessero vissuto le stesse esperienze, spesso le stesse emozioni. La raccolta e la successiva analisi del materiale orale, delle lettere e delle fotografie sono state, per tutti, un modo per sistematizzare i ricordi, di rielaborare elementi di vita vissuta, di comprendere dinamiche storiche ed economiche che travalicano, comprendendole, le singole storie.
Ma non tutte le memorie sono uguali. Se il volume sulle feste aveva trovato un ampio e immediato consenso nei lettori locali, dimostrato anche dalle vendite – per la soddisfazione dell’editore che aveva creduto e sostenuto il progetto fin dall’inizio –, quello successivo sulla mobilità in entrata e in uscita da Giaglione tra Ottocento e Novecento aveva dovuto fare i conti come «un’identità specifica che rifiuta di sciogliersi in appartenenze più ampie» (Dei, 2007, p. 59). Il volume sui cicli festivi giaglionesi, infatti, si era caratterizzato come un racconto corale, nel quale prevalevano immagini di gruppo e descrizioni di cerimonie in cui la forza del rito era data dalla partecipazione collettiva; la storia delle migrazioni, invece, era stata tratteggiata attraverso singoli ritratti, ricostruendo le traiettorie biografiche di uomini e donne in partenza o in arrivo, da soli o con la propria famiglia. Ponendo l’attenzione sui percorsi individuali, avevamo voluto valorizzare le storie di vita e i documenti personali; avevamo scelto accuratamente alcune memorie in modo che diventassero in qualche modo esemplari, sintesi di innumerevoli storie simili di cui, spesso, si erano perse le tracce. Nonostante un accresciuto impegno e una maggiore maturità scientifica del gruppo di lavoro, la reazione più tiepida che aveva accolto la pubblicazione del secondo volume ci aveva segnalato che la forza di quelle memorie non aveva più una grande presa sui contemporanei. I racconti dei migranti, le parole scritte nelle loro lettere, l’immagine che davano di sé attraverso le fotografie spedite dai luoghi di emigrazione, che avevano avuto allora un forte “potere trasformativo” rispetto a chi era rimasto e che avevano alimentato per decenni un circolo di notizie, di immaginari, di desideri che rimbalzavano da una parte all’altra del mondo costruendo nuove realtà, nuove partenze, nuovi arrivi, nuovi ritorni, oggi aveva perso buona parte del suo vigore.
A differenza del ciclo festivo, ancora così vivo e partecipato dall’intera comunità, compresi i nuovi abitanti e alcuni villeggianti, le memorie delle migrazioni sembravano riguardare molti, ma non tutti, disperdendo e frantumando l’immagine della comunità anziché rafforzarla. Inoltre, le feste sono memoria incorporata, di cui le persone fanno ciclicamente esperienza durante l’anno, riproducendo il rito e coinvolgendo le generazioni più giovani in un passaggio di consegne di saperi e pratiche. Il ciclo festivo è costituito da ruoli, oggetti, luoghi, gesti che lo identificano e lo rendono visibile a tutti. La memoria delle migrazioni non ha avuto alcun luogo in cui esercitare la propria forza, tanto da finire per essere relegata soltanto al ricordo personale e familiare. Anzi, chi fa parte dei “nuovi arrivati” in paese (nonostante in alcuni casi siano passati decenni), fa di tutto per fare dimenticare l’origine esterna e chi è partito cerca di mantenere il più possibile vivo il legame con il paese e la comunità, ritornando in occasione delle feste e delle ricorrenze per sentirsene nuovamente parte attiva. Fabio Dei parla della difficoltà di compiere un’etnografia della memoria pubblica «che porta dall’epistemologia della testimonianza ai problemi di un’etnografia delle pratiche del ricordo» (Dei, 2007, p. 42). La storia migratoria giaglionese, in questo senso, più che memoria pubblica sembra avere i contorni di una memoria privata, familiare, per lo più custodita nei bauli e nei cassetti. Nondimeno, anzi, proprio a causa di questa sorta di svalutazione della memoria migratoria, il lavoro di ricerca e la raccolta dei documenti da parte del gruppo dei “nativi” è stato fondamentale per penetrare nell’intimità delle case, delle storie, delle genealogie. Grazie alla fiducia degli abitanti nei confronti dei membri del gruppo di lavoro, il prezioso materiale familiare ci veniva affidato per essere vagliato, digitalizzato e conservato in formato elettronico, affinché gli originali potessero tornare in tempi brevi ai legittimi proprietari. Grazie alle capacità tecniche e informatiche interne al gruppo – sorprendentemente, soprattutto di alcuni dei più anziani – è stato creato, anche in questo caso, un archivio digitale, seppure non aperto alla consultazione pubblica. Durante le riunioni settimanali veniva esaminato il materiale raccolto; si leggevano ad alta voce le lettere dei migranti – spesso non senza difficoltà nel decifrare le grafie a volte incerte dei mittenti –, i documenti venivano commentati e trascritti il più fedelmente possibile. In più di un’occasione la lettura ad alta voce aveva creato un clima di grande commozione, soprattutto quando a scrivere era qualcuno che aveva lasciato il paese e ricordava i familiari, gli amici, la borgata, le feste,
esprimeva le preoccupazioni per la salute, per gli affari lasciati in paese, descrivendo le difficoltà incontrate nel contesto di arrivo. Soltanto in alcuni casi è stato possibile ricostruire in modo preciso, cronologico e documentato i percorsi degli emigranti giaglionesi e ripercorrere le biografie attraverso le immagini.
In entrambi i volumi, oltre al testo principale, condiviso in un lunghe sessioni di lettura e correzione, sono state le didascalie delle immagini il luogo in cui il gruppo dei “nativi” ha espresso le sue competenze maggiori. Sono stata colpita dalla competenza che dimostravano nel ricostruire in maniera dettagliata le genealogie, anche a distanza di molti decenni, e nell’attribuire nomi e soprannomi a tutti i volti immortalati in bianco e nero. Il rapporto con le generazioni passate mi è apparso sorprendentemente vivo, parte della vita quotidiana di ciascuno di loro, ben diversamente dalla mia esperienza, che non mi consente di risalire oltre a una o due generazioni nella storia dei miei ascendenti. La stessa conoscenza profonda, radicata, incorporata è emersa anche in ogni occasione in cui erano i luoghi a dover essere riconosciuti, nominati, descritti.
Non tutte le memorie, però, sono state ritenute condivisibili. Più ci si avvicinava alla storia recente ‒ quella della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza, per esempio ‒ più i ricordi, vivi e dolorosi, erano difesi dal silenzio. Il gruppo stesso ha voluto proteggere la comunità non rivelando alcuni ricordi ritenuti “patrimonio privato” dei giaglionesi, ancora troppo recenti per essere condivisi all’esterno, soprattutto attraverso la scrittura.
Anche l’accesso alle fonti d’archivio è stato facilitato dal lavoro di gruppo, dato che tra i membri figuravano anche degli amministratori comunali. La passione di ciascun componente per un aspetto della ricerca – archivistica, digitalizzazione informatica, toponomastica – ha ulteriormente arricchito il lavoro comune e spronato il gruppo, affaticato da un impegno che sembrava non giungere mai alla fine, a proseguire fino alla pubblicazione del materiale. In entrambe le esperienze di scrittura collaborativa, soprattutto nei momenti di stanchezza, la fiducia dimostrata dall’editore nei nostri confronti è stata di ulteriore stimolo a proseguire. I volumi, così come era stato il dizionario, si sono configurati come “oggetti stratificati” (Minelli, 2011, p. 203), nati da un percorso condiviso, non privo di contraddizioni, rallentamenti, crisi individuali e di gruppo, ma che si è concretizzato in un oggetto di cui tutti si sono sentiti legittimamente autori.
RIFLESSIONI A MARGINE DI UN’ESPERIENZA DI VITA E DI LAVORO
Se la ricerca antropologica può essere definita intrinsecamente collaborativa (Lassiter, 2005b; d’Orsi, 2008), l’etnografia collaborativa, che prevede la condivisione della scrittura tra il ricercatore e i suoi informatori privilegiati, è un passaggio meno usuale e non privo di difficoltà. Nel corso della sua storia disciplinare, l’antropologia ha sperimentato diverse forme di scrittura collaborativa, presenti fin dalle prime esperienze professionali sul campo: l’antesignano è Lewis Henry Morgan, uno dei padri fondatori dell’antropologia moderna, con il suo impegno scientifico e politico tra gli irochesi Seneca. Ulteriori apporti sono stati dati, a partire dagli anni Settanta, dall’antropologia femminista che ha aperto nuovi scenari ai temi della collaborazione, del posizionamento e delle relazioni tra i diversi interlocutori. Alcune delle istanze avanzate dalle antropologhe femministe hanno poi trovato una più ampia diffusione all’interno della corrente post-moderna che, negli anni Ottanta, ha iniziato a riflettere sulle complesse implicazioni legate ai contesti postcoloniali e postindustriali e a fare i conti con gli interrogativi posti dai nuovi interlocutori nativi.
Dalla fine degli anni Novanta, il dibattito internazionale sui principi di un’antropologia pubblica, non solo applicata, ma impegnata a fianco di gruppi marginali e a contrasto di fenomeni di violenza strutturale e ingiustizia sociale si è andato via via ampliando (Farmer; 1999; Scheper-Hughes, 2000; Nader, 2001). A partire da queste riflessioni, che hanno dato vita a vere e proprie correnti di pensiero e a interventi di ricerca-azione partecipativi, sono state sperimentate molteplici modalità di collaborricerca-azione sia in fase di raccolta dei materiali etnografici sia in fase di scrittura. In particolare, Luke Eric Lassiter ha dedicato un’ampia riflessione su come rendere sistematica la collaborative ethnography all’interno delle prassi dell’antropologia accademica (Lassiter, 2005a). Nonostante oggi la collaborazione assuma le forme più diverse e non sia possibile farne una sintesi esaustiva, dato che ogni esperienza richiede strategie e modalità particolari in base al contesto e ai partecipanti, un elemento comune è l’aspirazione verso un reale public
engagement, in cui le discipline accademiche si aprano all’esterno e possano fare la differenza nella società.
Per la sua estensione nel tempo e per i legami costruiti, la mia permanenza a Giaglione, seppure come “antropologa pendolare”, ha avuto i caratteri di una significativa esperienza umana e professionale improntata alla condivisione, in cui il passaggio dall’osservazione alla partecipazione è stato decisivo per maturare convinzioni etiche oltre che metodologiche. Barbara Tedlock (1991, p. 69) lo definisce uno «slittamento dall’osservazione partecipante all’osservazione della partecipazione». La condivisione di questo percorso di ricerca, che ha reso ancora più saldo il legame tra i partecipanti, alcuni dei quali amici da lunga
data, ha determinato anche per me, “nipote adottiva” del gruppo, un riposizionamento tale da rendere più che mai inappropriato riferirsi alla nostra relazione come a quella tra informatori/ricercatrice. Per quanto fossi sempre consapevole che la mia presenza sul campo era legata ad un impegno scientifico, il processo che ho tentato di descrivere ha avuto, per durata e intensità, i caratteri dell’esperienza che plasma, che contribuisce alla formazione personale, oltre che professionale, in cui la dicotomia “osservatore/osservato” è del tutto inadeguata a sintetizzare le molteplici relazioni e gli scambi creatisi durante il lavoro comune (De Lauri, 2008). La forza e la tenuta del gruppo è stata determinata anche dal fatto che l’impegno riguardava un progetto maturato all’interno alla comunità e non imposto (e neanche proposto) da un agente esterno. I tempi lunghi dell’intero processo hanno consentito di creare una fiducia reciproca che è riuscita a superarenon solo le diffidenze, ma anche i “pudori” iniziali, legati all’esigenza di introdurre un estraneo in uno spazio di intimità culturale e di trovargli collocazione. Per la mia giovane età rispetto agli altri componenti del gruppo e per il fatto di non avere piena competenza linguistica nella lingua locale, il mio ruolo ha avuto inizialmente i caratteri dell’apprendistato; nello stesso tempo, però, rivestendo un ruolo ritenuto “istituzionale” perché legato al mondo accademico, mi è stata riservata una posizione privilegiata, non subalterna. Il rispetto e la stima reciproci, così come il riconoscimento dei reciproci limiti e capacità, hanno consentito, man mano che l’impegno procedeva, di suddividersi i compiti per poi valutarne insieme gli esiti.
Accompagnare i membri del gruppo nel percorso di selezione della memoria e di scrittura, osservando il processo di riscoperta del sé collettivo, partecipando all’interpretazione dei dati e alla restituzione scritta dei materiali all’intera comunità ha ripagato in pieno la mancanza di riconoscimento scientifico di questo tipo di impresa. Da una parte, io stessa ho avuto bisogno di molto tempo per comprendere appieno il valore di un’impegno di questo genere; dall’altra, una parte della comunità scientifica non è ancora disposta a riconoscere piena legittimità al ricercatore che confonde il proprio nome sulla copertina di un volume insieme ad una lunga serie di altri nomi sconosciuti. La questione del potere e dell’autorità etnografica, che ancora alimenta l’asimmetria che si genera nelle relazioni sul campo, ha a che fare con la struttura accademica, con i suoi meccanismi di riproduzione interna, con le carriere basate sulle pubblicazioni e sui ruoli di prestigio. Le aspirazioni di orizzontalità e di condivisione proposte dalla collaborative ethnography e gli sforzi di riflessività dell’antropologia, che le hanno consentito di reagire agli egemonismi interni alla disciplina (Saillant, Kilani, Graezer Bideau, 2012) devono fare i conti con un sistema basato sulla competizione, sull’eccellenza come parametro di valutazione, sull’internazionalizzazione delle pubblicazioni. Rispetto a questi criteri, gli esperimenti di etnografia collaborativa, che coinvolgono àmbiti locali sia in fase di ricerca sia in fase di restituzione dei risultati, sembrano non rispondere adeguatamente agli obiettivi.
In questo senso, proprio la capacità riflessiva e autocritica che ha portato l’antropologia a ragionare in termini relazionali, dialogici, multilocali per decostruire le egemonie politiche, sociali e intellettuali del mondo contemporaneo, potrebbe essere efficacemente applicata anche al contesto accademico per consentire una reale ed efficace azione di public engagement.
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