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La non proprietà. Evoluzione del paradigma e prospettive di tutela

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Indice

Introduzione

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Capitolo I

L’origine della non proprietà : dalla “paupertas” francescana alle dispute clericali • Premessa 8

• Sulla non proprietà:cenni storici 11

• La Regula francescana: - la “paupertas” come divieto di accesso al denaro 16

- la “paupertas” come rinuncia alla proprietà 18

- l’incertezza sul dominium 22

• Bonaventura e la qualificazione dell’usus 24

• L’influenza della dottrina francescana 30

Capitolo II

L’uso della non proprietà come criterio selettivo : l’identificazione del civis nelle società fondate sulla proprietà • Premessa 33

• La definizione di civis : - cittadinanza e nazionalità 38

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•Elementi a fondamento della proprietà come criterio di

attribuzione di diritti 45

• Civis e capacità contributiva: - la proprietà come criterio di attribuzione della cittadinanza 53 - il criterio di discrezionalità nella legge n.91 del 1992 57

• Il diritto di albinaggio: - definizione e diffusione 59

- dalla riforma del 1790 al codice civile francese 61

- il codice albertino nel 1838 in Italia 65

• Proprietà e principio di uguaglianza 67

Capitolo III

L’evoluzione della non proprietà : i criteri di determinazione dell’indennizzo e le leggi speciali • Premessa 71

• La determinazione dell’indennizzo: - il legame tra denaro e non proprietà 72

- dal “giusto prezzo “ al valore venale 75

- le norme costituzionali e le difficoltà interpretative 77

- la legge Bucalossi e il valore agricolo 80

- il criterio della “semisomma” e il Testo Unico del 2001 82

- le influenze sovranazionali e la relatività diacronica e sincronica 84

• Le leggi speciali: - premessa 86

- le rivolte contadine e la prima legge agraria 90

- le svolte del primo e secondo dopoguerra 93

- la fase repubblicana e la riforma agraria 97

- gli anni settanta e il recupero del soggetto proprietario 99

(3)

Conclusioni

109

Bibliografia

118

Ringraziamenti

123

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Introduzione

Quando si fa riferimento alla “non proprietà” è importante inquadrare subito ciò che la terminologia va ad indicare,onde evitare fraintendimenti. Utilizzando questa espressione non si vuole infatti indicare una sorta di istituto antitetico a quello proprietario,quanto più un contesto o una situazione che accomuna una moltitudine di soggetti,definibili di fatto come non proprietari. E ,per l’appunto,anche la figura degli stessi non proprietari meriterebbe una precisazione. Generalmente si potrebbe infatti intendere l’appellativo “non proprietario” come un termine volto a raggruppare individui che,formalmente parlando,non risultino titolari del diritto di proprietà su alcuna tipologia di bene. Per evitare fraintendimenti è però opportuno specificare che fare riferimento ad una simile terminologia,ancor più durante un tentativo di analisi approfondita,non significa certo andare a compiere una sorta di “conta dei beni” e dei soggetti titolari del diritto di proprietà su di essi. Una simile interpretazione porterebbe infatti ad una inevitabile impossibilità di compiere un qualsivoglia studio sul tema fin dal principio,considerando che uno scopo verosimile di tali riflessioni sarebbe quello di poter individuare le criticità proprie di soggetti per i quali la mancata titolarità di un bene impedirebbe loro di vivere un’esistenza libera e dignitosa.Quanto affermato in precedenza renderebbe quindi, di fatto, impossibile annoverare individui sotto un nucleo omogeneo a causa delle diversità,seppur minime,che andrebbero a caratterizzare ogni soggetto. In altri termini,non avrebbe senso fare un confronto tra ogni singolo

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soggetto andando a vedere l’effettiva titolarità di un bene e di quale bene si tratti. Ad esempio,ipotizzando un soggetto idealmente titolare di una sedia,o di una coperta o di altri beni della stessa natura,appare inverosimile poterlo escludere da una tipologia di analisi come quella accennata in precedenza solo a causa della presenza di un effettivo e formale diritto di proprietà in capo all’individuo,trattandosi infatti di beni che di certo non consentirebbero l’esistenza dignitosa di cui trattasi. Per questo motivo utilizzare espressioni quali non proprietà o non proprietari non significa certo andare ad operare una sorta di censimento per gli individui,quanto piuttosto fare riferimento a soggetti in concrete situazioni di disagio e senza disponibilità effettiva di tipologie e quantità di beni,con particolare riferimento agli immobili, essenziali per la sopravvivenza.

Parlare di non proprietari significa quindi riferirsi ad una moltitudine di soggetti privati della concreta possibilità di poter provvedere alla propria esistenza. Sarebbe lecito domandarsi se esistano dei termini più adatti e meno controversi per poter indicare questa categoria e probabilmente le soluzioni alternative sarebbero molteplici. Nonostante ciò,la scelta di sviluppare un’analisi sul tema tramite questa terminologia ha lo scopo di concentrare l’attenzione sulla proprietà in quanto istituto complice e responsabile delle condizioni in cui suddetti individui versano,e su una società fondata su di essa. In breve,far riferimento ai non proprietari significa porre l’accento su coloro che si trovano in contesti di precarietà non solo per la mancanza effettiva di disponibilità di beni essenziali ma anche a causa della conformazione e degli assetti interni del diritto in esame,con lo scopo di trovare soluzioni precise e che non esulino dal problema trattato.

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E’ superfluo dire che i termini accennati siano stati coniati solo in un periodo relativamente recente,a causa di riflessioni sul tema che– come verrà spiegato in seguito - sono emerse tardivamente. In particolare,tra gli studi di maggior rilievo è doveroso menzionare la trattazione di Alessandra Quarta,il cui testo “Non proprietà –Teoria e prassi dell’accesso ai beni “ riveste un ruolo centrale per l’analisi svolta in questa sede. E’ la stessa opera inoltre a fornirci una prova riguardo alla non tempestiva analisi sulle tematiche accennate,risalendo la stessa al 2016,come a testimoniare una mancata riflessione puntuale sulla questione negli anni precedenti. Sarebbe però erroneo ritenere che ,prima di quel periodo,non sia mai stata avvertita l’esigenza di spunti su problematiche,in fondo,costantemente presenti nel corso dei secoli ed è proprio su questo aspetto che si fonda la seguente trattazione.

Lo scopo della stessa risulta infatti essere quello di ripercorrere la nascita sia delle prime riflessioni relative all’istituto proprietario e alle sue criticità,sia delle prime teorie riguardanti modelli alternativi basati sulla non proprietà,con lo scopo di poter ampliare le tutele verso i suddetti soggetti non proprietari. Per compiere questo tipo di analisi,la trattazione si pone il fine di tracciare un cammino storico della figura della non proprietà,a partire dalla dottrina francescana - primo esempio indiretto di un modello di vita sociale senza proprietà - e dalle reazioni seguenti alla diffusione della stessa,a conferma delle difficoltà a sviluppare suddetti modelli. Inoltre,lo studio prosegue con lo scopo di offrire una sorta di fotografia sociale anche dei secoli successivi,andando in particolare a porre attenzione sia sulle modalità di esclusione sociale dei non proprietari fino al XVIII secolo ,sia il saldo legame creatosi nello stesso periodo tra la proprietà , la cittadinanza e il godimento dei diritti civili.

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Come ultimo passo,la trattazione si sofferma poi sui primi interventi normativi attuati in Italia direttamente verso la categoria dei non proprietari,con particolare attenzione riguardo al proliferare delle leggi speciali - diffusesi nell’ultimo secolo - e alla determinazione dell’ indennizzo,interventi che riflettono una prima attenta valutazione nei confronti dei non proprietari stessi.

Per terminare l’analisi sono infine presenti delle riflessioni conclusive,con lo scopo di effettuare un bilancio sull’evoluzione dell’istituto proprietario e sulla condizione attuale dei non proprietari per poi individuare eventuali possibili soluzioni relative alle tematiche trattate.

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Capitolo I

L’origine della non proprietà:dalla “paupertas”

francescana alle dispute clericali

1.1 Premessa

Il concetto della “non proprietà” si sviluppa principalmente sulla base di un riflesso,per cosi dire,del diritto di proprietà. E’ noto come la società odierna si fondi su un impianto giuridico che ruota intorno al diritto proprietario assoluto,con la conseguente e inevitabile creazione della maggior parte delle enormi disuguaglianze sociali che caratterizzano il nostro presente storico e di una quasi totale assenza di tutele nei confronti di soggetti classificabili come non proprietari.

Nonostante i numerosi tentativi, di stampo principalmente assistenzialista, posti in essere dai vari ordinamenti internazionali risulta tutt’ora difficile individuare una soluzione adeguata al problema,ancor meno ipotizzare un modello alternativo a quello odierno ,che vede la proprietà avere un ruolo da assoluto protagonista nel determinare l’ordine economico e,conseguentemente le relazioni sociali e giuridiche dei cittadini.

Le suddette considerazioni,secondo numerosi e illustri esponenti della dottrina,sono una logica conseguenza della formazione dello stesso istituto della proprietà,che non ha incluso la cosìddetta dimensione del “non avere”,estromessa dalla elaborazione teorica della situazione proprietaria che

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pertanto si qualifica soltanto in forza di poteri,obblighi e limiti che l’ordinamento riconosce al soggetto proprietario 1.

Viene dunque a presentarsi una completa svalutazione,per così dire,del soggetto non proprietario,il quale risulta spogliato di garanzie a cospetto del soggetto proprietario e perciò in perenne difficoltà nella costruzione di un proprio ruolo sociale. Storicamente, il non proprietario è stato infatti inserito nel sistema della proprietà soltanto in virtù di una relazione a dir poco superficiale,il cui costrutto si basava su una reciprocità per cui << il non-proprietario della mia proprietà,il quale deve riconoscere la mia proprietà,viene presentato come proprietario di altre proprietà che io come non proprietario devo riconoscere>>.2

Ciò che risulta subito evidente da questa impostazione è come essa appaia quantomeno riduttiva,quasi a dare per scontata un’unica visione del non proprietario, fondata su un paragone che ,di fatto, risulta essere non tra un proprietario e un non proprietario ,quanto tra due proprietari inquadrati da angolazioni diverse. Sembra invece venire a mancare una riflessione e soprattutto una regolazione della figura del non proprietario in quanto tale,del non possidente o del non titolare dell’usus.

Le evidenti lacune ,frutto della precedente impostazione, sono un’ineluttabile conseguenza di un modello,come già osservato,storicamente consolidato nella società moderna. I recenti tentativi di sradicamento di tale modello potrebbero trovare un comune punto di arrivo attraverso il cosìddetto recupero del binomio <<proprietà/non proprietà>> 3,metodo

che però rischia di sembrare obsoleto in quanto consente di

1 Alessandra Quarta,Non proprietà/Teoria e prassi dell’accesso ai beni p.113 2 Nicklas Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica p.135

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elaborare un modello concettuale socialmente adeguato, ma che -per la sua intrinseca dinamicità- non può essere formulato in una regola 4. Risulta infatti complicato riassumere in un

unico concetto la formulazione di principi diametralmente opposti,ancora di più concentrare in un’unica istituzione giuridica il binomio “avere-non avere” .Infatti,in concreto, mettere in relazione i due concetti relativi a diritti sui beni non trova un’effettiva corrispondenza in una realtà segnata da una diseguale distribuzione dei redditi 5,comportando come logica

conseguenza che <<ogni accrescimento della proprietà moltiplica nel contempo,in modo più che proporzionale,la non proprietà degli altri>> 6.

Proprio la riflessione sulla distribuzione dei redditi mette in risalto quella che forse è la più evidente causa del fallimento dell’ipotesi esaminata,dovuto ad un’impostazione dell’istituto proprietario centralizzata sul denaro che impedisce,di fatto,una separazione della proprietà dall’attribuzione di un valore economico,rendendo possibile soltanto interpretare la proprietà muovendo dal denaro e non viceversa Tale rilevanza economica ,unita ad un diritto di proprietà inteso solo come facoltà di esclusione , fa emergere la mancanza di misure di tutela volte a rendere <<colui che è non proprietario rispetto alla mia proprietà effettivamente proprietario in una misura tale che si potrebbe aspettare da lui il riconoscimento della mia proprietà>> 7 .

4 Nicklas Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica p.133

5 Alessandra Quarta,Non proprietà/Teoria e prassi dell’accesso ai beni p.114 6 Nicklas Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica p.134

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Il tema del denaro,o meglio ,del valore economico dei beni oggetto di proprietà si pone quindi come unica e fondamentale chiave di una porta altrimenti impossibile da aprire,come risulta essere il tentativo di valorizzazione del ruolo della non proprietà e dei non proprietari in un sistema che avvantaggia e protegge gli interessi dei titolari. Ed è proprio tramite lo studio dei valori economici associati ai beni che risulta possibile delineare una ricostruzione del ruolo dei non proprietari nel corso della storia,effettuare studi sulle misure utilizzate volte ad una loro maggior o minore tutela e ipotizzare nuove soluzioni a riguardo.

Per affrontare uno studio di tale portata è necessario innanzitutto effettuare una ricostruzione storica dell’argomento,analizzando le origini del tema della non proprietà e ripercorrendo le scuole di pensiero di coloro che per primi elaborarono modelli sociali in cui trovasse riconoscimento il non essere proprietari.

1.2 Sulla non proprietà:cenni storici

I primi passi mossi verso la teorizzazione della non proprietà iniziano a manifestarsi tramite lo strumento della critica nei confronti del modello proprietario. Essendo queste analisi riconducibili a tempi molto antecedenti alla nascita dei codici civili nati in epoca moderna non deve sorprendere la notevole differenza ,in termini di ideologia e soprattutto di astrattezza,rispetto ai predetti testi normativi.

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E’ già dai tempi di Platone che si può notare una critica alla funzione dell’istituto proprietario nel contesto sociale. Il filosofo non era,come in un infondato immaginario collettivo, un oppositore assoluto del diritto in esame. Si era però reso portatore di un’alternativa,con lo scopo di apportare dei miglioramenti soprattutto nei vertici della società,proponendo <<la comunione dei beni solo per i governanti,proprio per evitarne la corruzione che inesorabilmente preclude la libertà di pensiero a chi abbia interessi e beni personali da difendere.>>8

Questa sua critica nasceva dalla concezione di stato ideale portata avanti dallo stesso filosofo. La sua idea aveva radici in una visione d’insieme degli individui ,andando quindi a individuare e analizzare le loro esigenze collettive e non singolari per la formazione di uno stato “giusto”. Date queste premesse,Platone si focalizzava sulla proprietà analizzandone i rischi e le conseguenze -tra le quali una forte disuguaglianza sociale- nel caso essa fosse stata permessa senza limiti. Non era però una critica in senso assoluto,poiché il filosofo riteneva che comunque l’esercizio della proprietà fosse necessario,pur senza essere illimitato,per la realizzazione personale dell’individuo. Ciò che riteneva invece indispensabile era una forte limitazione nei confronti di coloro che dovevano perseguire la realizzazione dell’idea dello stato giusto,ossia i governanti. Per raggiungere questo scopo era quindi necessario che essi fossero disincentivati in ogni modo a qualunque tipologia di interesse personale derivante dalla proprietà dei beni.

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Un nucleo importante del pensiero critico alla proprietà proviene invece dall’epoca medievale,in particolare intorno al 1200 con la nascita del “modello pauperistico” promosso da San Francesco d’Assisi.E’ importante precisare fin da subito il ruolo e l’importanza che riveste questo movimento in relazione al periodo storico a cui si riferisce. Siamo infatti in una fase in cui la religione influenza molto tutte le altri componenti dell’agire umano,è la società stessa a basarsi sulla religione. A differenza dell’epoca moderna,in cui settori come l’economia vivono in una logica autoreferenziale e dotate di propria indipendenza da qualunque altra ideologia sociale,nell’età feudale era l’economia stessa a essere strettamente legata ad una dimensione simbolica,culturale e anche religiosa. Provare a cambiare l’assetto e alcuni meccanismi della religione poteva quindi provocare un’eco e delle ripercussioni importanti sulle altre questioni . E’ per questo motivo che una riforma con obiettivi prettamente spirituali come quella di Francesco finirà per attirare critiche e attenzioni da parte di soggetti anche esterni ad essa,data la sua importanza anche al di fuori dei recinti della religione

Le differenti edizioni della Regula francescana mettono quindi in luce quello che può essere definito come il primo vero modello alternativo basato sulla non proprietà. I dettami e i moniti espressi dal frate rappresentano il manifesto storico della centralità del non proprietario,avvalorando il ruolo di esso nella società e istituendo per la prima volta nella storia un modello in cui la proprietà risulta essere non solo superflua ma anche fonte di distrazione ,di vizio e di allontanamento dal volere divino. Ulteriore importanza viene anche data al dibattito sviluppatosi sulla valenza giuridica delle stesse indicazioni di Francesco,di fatto mai accompagnate da un reale

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vincolo imperativo ma che gli aderenti alla Regola intendevano rivestire di una maggior forza normativa.

Per comprendere al meglio la nascita di questo movimento- e di conseguenza delle prime forme di considerazione concreta del soggetto “non proprietario”- è necessario analizzare il contesto intorno al quale si sviluppa la concezione di “paupertas” francescana. Il periodo in esame vedeva infatti diffondersi molto velocemente i fondamenti di quello che potremmo definire un comunismo primitivo,basato sull’idea che la rinuncia volontaria al possesso dei beni temporali fosse la sola via concepita alla perfezione,che poteva essere raggiunta solo nel regno di Dio.9

Siamo infatti in una fase storica in cui la protesta nei confronti dell’ordine clericale e della Chiesa in generale si espandeva sempre più rapidamente tra le popolazioni cristiane .Il cristiano faticava a identificarsi con fenomeni sempre più frequenti all’interno dei vertici della propria religione,primo fra tutti la cosiddetta <<degenerazione della gerarchia ecclesiastica>>,sempre più alla mercè dei laici. Vi era , inoltre , un forte vento riformatore contro alcune prassi consolidate all’interno del clero,tra cui spiccava l’avversione al nicolaismo, dottrina molto diffusa , valutata come eretica e basata su una condotta spregiudicata e libertina,il cui comportamento più simbolico era l’inosservanza del celibato sacerdotale. Proprio quest’ultimo fattore era ritenuto essere uno dei maggiori responsabili della decadenza morale del clero e della sua condotta sempre più mondana. Anche la simonia,ossia la compravendita di beni,cariche spirituali o indulgenze,era vista ormai non solo come un sacrilegio, ma anche come un mezzo di accesso alle gerarchie ecclesiastiche da parte di soggetti privi dei necessari requisiti morali e culturali .Infine, anche alcune

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prassi riguardanti la nomina papale,come la consegna dell’anello o la cerimonia di investitura,erano viste come simbolo del potere temporale e della supremazia di esso su quello spirituale,lasciando al monarca un eccessivo potere.10

La stessa spinta riformatrice si poteva osservare anche nel Sacro Romano Impero,anche se su un piano prevalentemente morale. Si cercava di identificare le conseguenze di certi comportamenti,cercando di eliminarle,più che effettuare una ricerca delle cause.Si pensava che per risolvere il problema <<fosse sufficiente combattere i costumi rilassati che serpeggiavano tra il clero:la promozione morale dei sacerdoti avrebbe vivificato la posizione della chiesa>>.11 Pertanto non

sorprende un atteggiamento più morbido e comprensivo nei confronti delle prassi precedentemente citate e, soprattutto , la ricerca di una più autentica espressione religiosa che non si fermasse solo ai vertici clericali.

Le considerazioni fin qui espresse portano a intuire le ragioni per cui queste riforme siano giunte a intaccare e modificare anche lo stesso rapporto tra i soggetti e la proprietà. Infatti,questo clero dallo stile di vita più mondano e decadente era espressione di una modalità di vita che aveva le sue radici sociali nella piccola nobiltà locale ,rivelando,tra l’altro, frequenti e non casuali vincoli di parentela tra le due classi. Non può quindi sorprendere che la riforma della cristianità a lungo invocata abbia messo radici sulle tematiche relative alla proprietà e alla povertà,sintomo di <<dimostrazioni antifeudali>> dirette a colpire i membri indegni dell’istituzione religiosa.12

10 Ivi p.9 11 Ivi p.10 12 Ivi p.12

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Questo è il panorama storico-culturale in cui si collocano i primi interventi di San Francesco,le cui regole possono dirsi il primo vero e proprio simbolo di un’ipotesi di ripensamento della struttura proprietaria,nonché di una prima emersione della figura della non proprietà.

1.3.1 La Regula francescana: la “paupertas” come divieto di accesso al denaro

La prima versione della Regula emanata da Francesco fu scritta nel 1210.Va subito precisato come ,secondo molti esponenti,essa sia l’unica vera fonte delle genuine volontà francescane. Sono invece le regole del 1221 e del 1223,solitamente,ad essere analizzate in merito ai moniti espressi dal frate,nonostante siano in realtà considerate come delle rielaborazioni ,in un certo senso,più concilianti del documento precedentemente composto,quasi a simboleggiare una sorta di mano tesa verso l’ordine ecclesiastico dopo la pubblicazione di un testo dai tratti distintivi oggettivamente più severi.13

E’ quindi la Regula del 1221 a fornire le prime complete indicazioni della condotta professata da Francesco,con particolare riferimento alla questione della paupertas.

Il contenuto delle regole,in generale, è molto ampio .Esse risultano essere delle vere e proprie raccolte di indicazioni e divieti di Francesco verso tutti coloro che avrebbero voluto entrare a far parte del suo Ordine.

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Il primo e significativo divieto aveva ad oggetto il denaro,con il quale il contatto doveva essere del tutto precluso ai fedeli ,come si può facilmente intuire dalla dura espressione <<et si in aliquo loco inveniremus denarios,de hiis non curemus tanquam de pulvere,quem pedimus calcamus>>.14

Il frate vi si riferiva tramite due termini , denarius e pecunia,indicando con il primo un concetto molto vicino al conio e con il secondo ogni bene utilizzabile in sostituzione di esso.

Tale divieto risultava essere molto invasivo poiché andava a colpire l’unico mezzo su cui si basavano,e si basano tutt’ora,gli scambi commerciali dei beni. Era una vera e propria rivolta da parte di Francesco contro il sistema economico,volendone precludere ai monaci ogni forma di contatto.15

Logico quindi intuire quali siano le conseguenze che tale concezione può portare in materia proprietaria. Infatti ciò che risulta essere il secondo impedimento dettato dalla Regula ,ossia il divieto di proprietà privata ,è una chiara conseguenza delle considerazioni relative al denaro. Appare d’altronde inevitabile che,dopo aver impedito l’accesso all’unico strumento in grado di certificare ,o meglio,di favorire il passaggio della proprietà privata tra gli individui, tale impedimento vada a ripercuotersi su tale diritto ,ormai spoglio del suo “miglior alleato”.

14 Regula prima,cap.8 in Analekten p.9

“I frati non dovranno ricevere o permettere che si riceva <<pecuniam aut denarios>>,né per vestiti o 1ibri,né come compenso per il lavoro di ogni sorta. Essi non attribuiranno,né penseranno di poter attribuire <<in pecunia et denariis>> maggior valore che alle pietre. Se un fratello dovesse accogliere o conservare <<pecuniam vel deanerios>>,tutti i frati lo dovranno trattare come colpevole di apostasia.”

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Il legame a doppio filo che sembra emergere tra denaro e proprietà necessita quindi di una più accurata riflessione,dato che esso fornisce già in questa sede la possibilità di approfondire uno degli aspetti fondamentali su cui si dovrebbe intervenire per favorire un modello alternativo di recupero della non proprietà.

Possiamo infatti notare come già nel 1200 Francesco fosse arrivato ad una fondamentale conclusione,ossia quanto risultasse problematico un tentativo di rottura di suddetto legame attraverso un divieto agli individui di accesso alla proprietà tramite qualcosa che ne attribuisse un valore,il denaro.

E’ solo con l’attribuzione di un valore economico a un bene che si riesce ,ad oggi,a descriverne il valore,a renderlo oggetto di transazioni e a quantificare,di fatto,la dimensione sociale del soggetto che ne è proprietario rispetto a colui che ne risulta escluso. Cercare di separare l’istituto della proprietà privata,e di conseguenza dei diritti di godimento e disposizione in essa contenuti, dall’attribuzione e quantificazione di suddetto valore di matrice economica sarebbe probabilmente il primo passo,se non addirittura quello decisivo,per poter andare incontro ad un nuovo modello di società e alla creazione di un nuovo sistema con più tutele per il soggetto non proprietario.

1.3.2 La Regula francescana: la “paupertas” come rinuncia alla proprietà

La seconda spinta riformista della Regula Francescana riguardava invece la lotta alla proprietà privata in modo più

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mirato . E’ su questa spinta che si possono quindi individuare le prime basi di un modello di società alternativa a quella fondata sulla proprietà ,trovando degli spunti di riflessione sulla figura dei soggetti non proprietari.

Ciò che Francesco predicava e imponeva come condizione per entrare a far parte dell’Ordine era infatti la completa assenza della proprietà privata. Tramite la rinuncia al denaro veniva di conseguenza imposto agli aderenti all’Ordine di non poter più possedere alcunché,utilizzando solo le risorse derivanti dall’elemosina e dai lavori servili pur con l’esigenza,di stampo spirituale,di un equo tempo necessario per le preghiere.16

Questa formulazione ,pur non evidenziando a prima vista una completa avversione verso la proprietà nella sua accezione di diritto soggettivo,in realtà ne riduceva drasticamente il valore,rendendo di fatto impossibile ad eventuali proprietari occuparsi dei propri beni,data la quantità di tempo da impiegare in lavori e preghiere. Emergeva quindi una concezione sociale francescana basata su una povertà sostanziale.

Volendo approfondire i contenuti dei precetti francescani in materia di proprietà ci si può rendere conto come la sua lotta contro l’istituto si sviluppi sul vasto utilizzo del termine “sibi appropriare”.

Tale espressione veniva utilizzata da Francesco nella formulazione del suddetto divieto nei confronti dei singoli beni. Infatti,grazie anche a un’integrazione fondata sulle sue Ammonizioni ,si può intuire come Francesco si adoperi a disincentivare chiunque volesse aderire all’Ordine a conseguire posizioni gerarchicamente superiori,il cui raggiungimento riteneva strettamente condizionato dalla proprietà privata,considerata strumento di paragone tra individui.

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Secondo tali premesse il contrasto a queste sperequazioni poteva avvenire solo tramite una rinuncia spirituale e materiale. Si voleva quindi condannare la volontà degli individui di arrogare a sè beni o,in questo caso,posizioni che dovevano essere accessibili alla totalità dei soggetti.17

La conclusione che si evince dalla condanna espressa nella regola del 1221 è che Francesco abbia,nei confronti della proprietà, una posizione sicuramente di contrasto ma solo parziale. Quello contro cui si oppone non è tanto la nozione” giuridica” della proprietà quanto il suo essere mero strumento di esclusione,dato che il suo esercizio avrebbe potuto comportare una privazione ai danni dell’altro.18

E’ quindi interessante soffermarsi sulla differenza tra i due divieti analizzati,quello relativo al denaro e quello sulla proprietà privata,per meglio comprendere l’importanza della protesta francescana per il tema di cui trattasi.Infatti,se da una parte il divieto di possedere denaro e di detenere proprietà privata possono presentare un legame indissolubile,dall’altra è bene analizzare le differenze che essi manifestano. Il denaro era stato abolito da Francesco in senso assoluto,essendo valutato non solo come uno strumento pericoloso in termini materiali ma anche come fonte di danno a livello spirituale,simboleggiando l’avarizia. La critica invece mossa alla proprietà privata risulta avere caratteri molto diversi. Innanzitutto,dal punto di vista della terminologia, nei suoi scritti è frequente l’uso dei termini richiamanti il denaro come danarius e pecunia,mentre invece vengono di rado utilizzati i

17 Ivi p.57

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termini dominium o proprietas nell’ambito degli imperativi contro la proprietà.

L’utilizzo quasi nullo dei due termini che racchiudono da sempre il significato dell’istituto proprietario è una valida testimonianza di come la sua avversione non fosse nei confronti dell’intero istituto ma solo verso una parte di esso. L’intento francescano non si concretizzava ,quindi, in una critica alla proprietà in quanto tale, ma in un tentativo di sminuirne il valore , essendo considerata portatrice di disuguaglianze fra gli uomini e non come nozione giuridica.19

Non sorprende quindi che i beni destinatari dei moniti francescani fossero maggiormente gli immobili, data la loro propensione a generare limpide e univoche disuguaglianze.20

Per cui,a differenza del divieto di stampo assoluto verso il denaro ,l’espressione sibi appropriare si riferiva prevalentemente alla proibizione verso la sola proprietà privata e non ,apparentemente,verso quella in comune. Ciò che Francesco intendeva condannare era quindi il mero detenere proprietà. Tutto ciò si manifestava in concreto con raccomandazioni agli appartenenti all’ordine di effettuare eventuali occupazioni di spazi privati là dove fosse necessario e non fosse possibile sfruttare gli edifici religiosi,senza però acquisire mai la proprietà degli stessi . A ciò si aggiungeva una sorta di “obbligo di accoglienza e condivisione” del bene materiale verso chi ne aveva bisogno,a testimonianza della critica all’aspetto escludente della proprietà.21

19 Malcolm D.Lambert,Povertà francescana,p.58

20 Alessandra Quarta, Non proprietà- Teoria e prassi dell’accesso ai beni p.119 21 Malcolm D.Lambert,Povertà francescana,p. 59

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1.3.3 La Regula francescana : l’incertezza sul

dominium

I divieti verso l’utilizzo del denaro - con successiva riflessione sull’attribuzione di un valore economico ai beni- e verso la proprietà privata intesa con la sua accezione escludente sono quindi i primi spunti storici su cui si fonderanno le successive critiche al sistema proprietario e su cui,non casualmente,ricorreranno le successive riflessioni giuridiche aventi ad oggetto i soggetti non proprietari.

Prima però di procedere agli sviluppi sulle successive vicende relative al fenomeno della non proprietà è necessario effettuare qualche ulteriore riflessione sulla critica francescana. Fermo restando la veridicità degli assunti francescani,certificata non solo dagli scritti citati ma anche da veri e propri esempi di vita portati dal frate che dimostravano la sua avversione al mero carattere escludente della proprietà, è evidente come il richiamato scarso utilizzo dei termini dominium e proprietas possa far nutrire dei dubbi sulle reali convinzioni e avversioni francescane. Il suo non esprimersi in termini netti su un tema che ha sempre richiesto l’uso di una terminologia specifica e capacità di argomentazione ,a cui si aggiunge una seconda versione della Regula redatta nel 1223 in cui il monaco si mostra essere più laconico ed evasivo sulle questioni da lui stesso protratte,comportano il sopraggiungere di punti interrogativi su una sua possibile incertezza di fondo sulla questione. In particolar modo risulta difficile,in queste condizioni,comprendere la linea di confine della sua

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avversione verso la proprietà intesa in senso stretto e la sua reale posizione verso la proprietà di tipo comune. Ci si chiede se,e in che misura,la proprietà in comune e i beni oggetto di essa possano avere carattere escludente,generare o meno disuguaglianze ,essere quindi o meno al centro della critica francescana.

La teoria maggioritaria ritiene che Francesco abbia volutamente omesso un’analisi più ampia dei termini dominium e proprietas a causa di una sua effettiva incertezza sul tema della proprietà in comune,quest’ultima legata alla primaria questione dell’autonomia economica dell’Ordine stesso.

Infatti,essendo inizialmente incerti i mezzi di sussistenza di esso,un’approfondita analisi critica sul tema del dominium (inteso in senso stretto o in comune) non era da lui ritenuta necessaria;una volta invece acquisita l’autonomia economica la questione iniziava ad assumere un ruolo fondamentale,rendendosi obbligatoria una specificazione di quale fosse il vero nemico -in senso figurato- della critica francescana.22

L’incertezza sull’argomento porterà numerosi studiosi e membri del clero a confrontarsi in dibattiti sul tema ,in particolare quello relativo alla questione dell’usus,ritenuto secondo molti come il vero e proprio centro di gravità su cui sviluppare gli imperativi della critica francescana. In un contesto in cui il modello portato avanti da Francesco portava una vera e propria rottura rispetto ai precedenti stili di vita della , la disputa si rivelò molto accesa,motivo per cui è

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inevitabile soffermarsi ,almeno parzialmente ,sui punti salienti di essa e su coloro che ne arricchirono i contenuti.

1.4 Bonaventura e la qualificazione dell’usus

L’incertezza che aleggiava dietro ai moniti francescani ,unita alla poca chiarezza della terminologia usata dal frate, dette inizio ad una disputa interna all’ordine clericale che vide come protagonisti da una parte i cosiddetti maestri secolari- soggetti radicati da tempo nell’istituzione ecclesiastica e nei suoi longevi valori- e dall’altra i nuovi ordini mendicanti,vale a dire coloro che avevano aderito alla nuova concezione francescana. In un contesto rivoluzionario come quello portato avanti da Francesco non era impensabile aspettarsi delle reazioni da parte degli esponenti delle antiche tradizioni della Chiesa,anche in virtù del fatto che la nuova condotta promossa dal frate avrebbe potuto creare non pochi problemi verso i clericali,andando essa a colpire il patrimonio ecclesiastico. La diffusione di un tentativo di cambiamento nella vita del clero tramite una spinta a spogliarsi dei propri beni rischiava infatti di mettere in cattiva luce tutti coloro che si rifiutassero di farlo,motivo per il quale in tanti cercarono di minare dalle fondamenta gli insegnamenti francescani facendoli sembrare irrealizzabili o incoerenti, piuttosto che ripudiarli direttamente.

La disputa si sviluppava principalmente intorno alla natura del termine dominium,su cui Francesco si era pronunciato,come già accennato,con poca chiarezza. Essa vide

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come assoluto protagonista il cardinale Bonaventura da Bagnoregio,il quale fu il primo baluardo a difesa della teoria francescana sulla rinuncia alla proprietà contro le opposizioni dei sopracitati maestri secolari.

Il punto focale della disputa riguardava il fatto che il frate sembrava aver dato per scontato di poter scindere il diritto di proprietà dal parziale godimento di alcuni beni,configurando quindi una rinuncia alla proprietà che ,agli occhi di molti,sembrava essere solo formale e non sostanziale.

Il primo scontro dogmatico ebbe come oggetto la nozione di ” povertà perfetta”,di cui lo stesso Bonaventura aveva dato una chiara definizione. Egli riteneva infatti che la povertà francescana consistesse in una proibizione,ossia nel non avere la proprietà dei beni intesa come dominium,e in un permesso,relativo all’usus.23 Secondo il cardinale la proibizione

del dominium era comunque sufficiente a configurare la cosidetta povertà perfetta,intesa come rinuncia a due tipi di dominium ,individuale e comune,<<dei quali il primo è proprio di una persona singola mentre il secondo è proprio di un collegium>>.24

I maestri secolari affermavano invece che gli insegnamenti di Francesco non configurassero affatto la povertà perfetta,in virtù di una,di fatto,impossibilità ad attuare la rinuncia alla proprietas che tanto era professata. L’obiettivo dei maestri era infatti quello di screditare la Regula francescana mostrando come inattuabile un vero e proprio spoglio,sia formale che sostanziale,di tutti i beni.

23 Giovanni Tarello,Profili giuridici della questione della povertà p.55 24 Ivi p.55

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Le ragioni per cui era ritenuta impossibile la rinuncia alla proprietà trovavano fondamento su diversi argomenti,primo fra tutti il fatto che non si potesse separare in perpetuo la proprietas dall’usus,specialmente con riguardo ai beni consumabili.

La questione non configurava affatto un problema di tipo giuridico, ma di tipo sostanziale.Non si incentrava su un problema di titolarità-dovendo risolvere un interrogativo sul soggetto realmente titolare della proprietà dei beni-bensi sul fatto che fosse per loro impossibile una separazione tra proprietas e usus senza che al proprietario derivasse una qualche utilità . 25Non si poteva quindi attuare una realtà in cui

il soggetto titolare di usus del bene non finisse per risultarne per questo il proprietario sostanziale,cosa che avrebbe comportato comunque una proprietà in capo ai francescani e di conseguenza una mancata realizzazione della rinuncia ad essa.

La risposta di Bonaventura su queste tematiche si articolava intorno alla disciplina del godimento di un bene da parte di un soggetto,suddividendo il godimento stesso in quattro tipologie; proprietas,possessio,usufructus e simplex usus. Secondo il cardinale, i francescani sarebbero stati detentori di quest’ultimo. Bonaventura voleva infatti dimostrare che fosse possibile realizzare questo simplex usus ,ritenendo attuabile la separazione perpetua tra proprietas e usus basandosi sul fatto che ,in realtà, sussistesse comunque un beneficio per il reale proprietario anche se privato dell’ usus. Un beneficio non di natura economica ma spirituale per il proprietario stesso,moralmente appagato per aver consentito l’usus del bene ad altri nonostante questi ultimi avessero rinunciato al dominium .

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Ne derivava quindi un’utilità del soggetto proprietario,potendosi agilmente affermare una separazione di essa dall’usus e mantenendo valida la disciplina della rinuncia alla proprietà stessa .Più nello specifico,in merito alla questione sui beni consumabili,il cardinale richiamava l’esempio del peculium,un diritto in cui il titolare della proprietà risultava essere il padre nonostante il figlio potesse godere dei beni stessi.26

Altro argomento volto a dimostrare una concreta rinuncia della proprietà dei francescani nonostante il mantenimento dell’usus si basava su un principio romanistico secondo il quale non era possibile acquistare a titolo derivativo una proprietà contro la volontà dell’acquirente,data la mancanza di una sorta di primordiale concetto di animus possidendi da parte degli aderenti all’Ordine.27

La mancata chiarezza terminologica da parte di Francesco aveva quindi portato ad una sostanziale differenza di vedute:da un lato i maestri secolari erano convinti che la teoria francescana fosse basata su un’ erronea valutazione del frate sul rapporto sostanziale tra proprietas e usus,dall’altra Bonaventura e i francescani suggerivano una diversa interpretazione del rapporto stesso,rendendo di fatto possibile la separazione tra i due diritti e la realizzazione della dottrina francescana.

Archiviata questa prima serie di dispute si ebbe un’ulteriore scontro sulla nozione coniugata da Bonaventura relativa al simplex usus.Infatti,per come era stato disciplinato dallo

26 Ivi p.59 27 Ivi p.60

(28)

stesso cardinale,il simplex usus veniva a configurarsi come diritto reale minore a tutti gli effetti.

La questione rischiava di palesare aspetti di criticità.

Infatti,poiché lo stesso Bonaventura aveva introdotto il concetto come soluzione alla dicotomia proprietas/usus,annoverare lo stesso alla categoria dei diritti reali minori rischiava di vanificare tutte le analisi compiute dal cardinale,essendo diffusa la tendenza a considerare tali diritti come forme “minori” di proprietà o di dominium utile.

Una parziale soluzione venne portata da Nicola Ш,un papa sensibile alla dottrina francescana,che nel 1279 pubblicò la bolla “Exiit qui seminat” con la quale,prendendo spunto dalla classificazione bonaventuriana ,suddivise il concetto di simplex usus in due concetti distinti,il simplex usus facti e lo ius utendi. Tramite questa separazione egli intendeva dimostrare che l’azione,ossia l’uso di fatto,fosse in realtà distinta dall’acquisizione di un diritto sul bene.

In questo modo avrebbe trovato giustificazione la separazione tra proprietà e uso,non essendo possibile catalogare l’uso di fatto praticato dai francescani nel novero dei diritti reali minori,a cui poteva semmai ricondursi lo ius utendi. Ciò ovviamente non avrebbe escluso la circostanza che in qualsiasi momento il papa avrebbe potuto riappropriarsi,di fatto e di diritto,dei beni concessi all’ordine dei francescani tramite il simplex usus facti ,non trovando quest’ultimo alcuna tutela giuridica.28

L’ultima polemica sull’interpretazione della rinuncia alla proprietà si ebbe a proposito del confronto tra spiritualisti e conventuali,in particolare sulla questione dell’usus pauper.

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Successivamente alle tesi di Bonaventura si svilupparono queste due correnti di pensiero della dottrina francescana. Gli spiritualisti ,detti anche rigoristi,coerentemente col pensiero del cardinale ritenevano che la rinuncia alla proprietà fosse possibile solo tramite il cosidetto usus pauper,ossia l’uso minimalista dei beni per sopperire ad esigenze di sussistenza e per raggiungere la povertà perfetta. I conventuali invece ritenevano questo tipo di interpretazione troppo severa, con la convinzione che solo la rinuncia al diritto di proprietà fosse insita nell’insegnamento francescano e necessaria per gli appartenenti all’ordine.

Una trattazione del tema fu compiuta da Petrus Olivi,un provenzale di corrente spiritualista che non solo definì l’usus papuer necessario per applicare la povertà francescana,altrimenti inverosimile,ma che portò anche la disputa su un piano più elevato,dichiarando che chiunque avesse applicato l’uso dei beni non nella sua versione pauperistica ma con lo scopo di arricchirsi avrebbe commesso un peccato mortale.29

Questo pensiero ,con spiccata valenza politica, denotava la volontà da parte dell’Olivi di promuovere l’uso pauperistico dei beni non solo verso i francescani ma verso tutti i cristiani,altrimenti non perfetti . Non deve sorprendere quindi che ,di fronte a questa teoria,siano giunte all’Olivi molte obiezioni non solo da parte del clero “tradizionalista” ma anche da parte di alcune correnti francescane,per niente soddisfatte

(30)

dell’accostamento della loro dottrina alla cristianità nel suo insieme,di cui si ritenevano un modello di moralità superiore.

Le considerazioni finora espresse portano alla luce una moltitudine di osservazioni. La poca chiarezza di Francesco su alcuni termini e su alcune questioni cardine della sua dottrina risultò essere un importante appiglio a cui tutti suoi oppositori vollero agganciarsi. Questi tentativi di opposizione,sia sul tema della separazione tra proprietà e uso sia su quello dell’uso pauperistico,mostrano inequivocabilmente quanto fosse difficile già a quei tempi aderire ad un’impostazione,per cosi dire,rivoluzionaria ,basata su un abbandono volontario della proprietà. Non è inoltre trascurabile la rilevanza che assunse la questione giuridica della proprietà stessa come punto focale delle tesi a difesa della dottrina francescana,nonostante si evinca di come l’obiettivo del frate fosse in realtà tutt’altro,ossia quello di mandare un messaggio di rinuncia sostanziale ai beni senza concentrarsi invece su un diritto piuttosto che un altro ,quest’ultimo aspetto recepito dal frate solo marginalmente , come si può intuire dalla superficialità mostrata verso i termini giuridici dell’istituto.

1.5 L’influenza della dottrina francescana

Gli studi sulla dottrina francescana ,oltre a essere frutto di una complessa elaborazione,non hanno quindi influenzato solamente la vita interna all’ordine ma anche aspetti sociali e commerciali del futuro,data la vastità di collegamenti a cui si è sempre prestata la vicenda del diritto di proprietà. La ricerca

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,operata da Francesco ,di fondamenti giuridici e sostanziali di una realtà basata non più sulla proprietà ma su una vera e propria non proprietà si è rivelata essere un primo passo verso tutta una serie di dibattiti e politiche che sarebbero sorti nei periodi a venire.

Oltre al sopracitato tema incentrato sul denaro un ulteriore fondamento giuridico-sostanziale tramandato da Francesco fu senza dubbio quello basato sulla volontà. Era solo tramite un’azione volontaria che un soggetto poteva scegliere una vita incentrata sulla povertà,rinunciando ai diritti sui beni. Quest’ultima considerazione portava alla conclusione che anche la ricchezza fosse condizionata,di riflesso,da una forte intenzionalità. Questo primo precetto fu quindi fondamentale per costituire le basi del diritto soggettivo,antico e moderno,che ha sempre visto un legame indissolubile tra proprietà e volontà.

Nonostante ciò,si può quindi concludere che la prima vera formulazione di un modello di non proprietà non fu concepita come uno status che provocasse degrado nei confronti dell’individuo,né a livello sociale né personale,ma come virtù ed esperienza volta a dimostrare la possibilità di un’esistenza completa e soddisfacente pur senza appropriazione sul bene. Come già analizzato,oltre a smuovere molte realtà mondane diffuse fino a quel tempo all’interno della Chiesa,concepire l’esistenza di un benessere senza appropriazione di diritti fu la chiave per cercare di minare l’immobilità della ricchezza presso i singoli individui,con l’obiettivo di rafforzare sempre di più la non proprietà.

Esempi in tal senso si possono cogliere in primo luogo con la tendenza- verificatasi intorno al 1300- ad inserire situazioni di non proprietà in materia successoria ,nelle quali il de cuius preferiva lasciare i propri averi ai frati e non ad altri soggetti

(32)

legittimati ,in modo che i beni fossero comunemente utilizzabili . Venendo a tempi più recenti ,altri esempi si evincono analizzando le sempre più frequenti politiche di redistribuzione e assistenzialismo verso i non possidenti che hanno contraddistinto gli ultimi decenni. C’è però da precisare che la spinta francescana non intendeva certo culminare il suo movimento riformista con il solo assistenzialismo verso soggetti ,per cosi dire,meno proprietari di altri ma porre invece le basi per una nuova analisi delle dinamiche e delle radici stesse del diritto privato.30

30 Alessandra Quarta, Non proprietà- Teoria e prassi dell’accesso ai beni p.

(33)

Capitolo II

L’uso

della

non

proprietà

come

criterio

selettivo:l’identificazione del civis nelle società

fondate sulla proprietà.

2.1 Premessa

Nel secoli successivi alla critica francescana , l’istituto della proprietà ha subito un cambiamento radicale e una diversa caratterizzazione. Come già accennato, la dottrina del frate aveva un’ impronta prettamente religiosa, non orientata a effettuare una riflessione diretta sulla non proprietà nel contesto sociale,ma piuttosto a incentivare un cambiamento di approccio alla proprietà solamente tramite una spinta volontaria dell’individuo a privarsene,nel caso volesse entrare a far parte dell’ordine. Senza contare che le stesse opposizioni alle teorie di Francesco non avevano come scopo quello di proporre dei modelli alternativi alla sua critica,in modo da poter ipotizzare una differente configurazione del dualismo tra proprietari e non proprietari , ma solo quello di sminuire il lavoro dottrinale svolto dal frate per evitare eventuali ripercussioni di esso sui proprietari più abbienti. L’approccio del tutto marginale alla questione di cui sopra suggerisce come, in realtà, il tema della dicotomia tra proprietà e non proprietà non fosse di primaria importanza nel periodo storico di cui trattasi.

Era infatti un’età che,dal punto di vista della qualifica della proprietà,potremmo definire come età pre-moderna ,in cui i

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rapporti tra soggetti proprietari e non proprietari erano molto diversi rispetto a quelli odierni e la proprietà stessa non presentava i tratti distintivi di una “sacralità” che sembra ormai aver acquisito a tutti gli effetti . La società,costruita sopra le fondamenta del feudalesimo,era costituita infatti attraverso una diversa assegnazione di diritti e doveri sia nei confronti dei proprietari sia nei confronti dei loro alter-ego ,comportando quindi anche dei differenti gradi di tutela nei confronti di questi ultimi.

Al fine di comprendere meglio la questione è possibile tracciare una panoramica dei rapporti trattati ,presenti anche nel periodo esaminato in precedenza,tramite una ricostruzione del suddetto contesto nelle sue linee essenziali . Da un lato emergeva la figura del proprietario,colui che era titolare di numerosi beni e privilegi e che poteva contare su una nutrita schiera di soggetti -contadini,servitori ecc.- che svolgevano numerose mansioni per suo conto.Erano proprio questi ultimi a potersi invece identificare come non proprietari,soggetti privi di alcun diritto o titolarità su beni o persone e totalmente rimessi alle volontà e alle decisioni del signore/proprietario. Nonostante questa ricostruzione possa palesare delle evidenti sperequazioni tra le due categorie proprie dell’età pre-moderna,non deve invece sorprendere come il non proprietario risultasse in realtà più tutelato e protetto all’epoca piuttosto che nell’età moderna. Sebbene infatti egli fosse ,in un certo senso,totalmente dipendente dal soggetto proprietario e senza la possibilità di far valere alcun diritto nei suoi confronti,è altrettanto vero che la tradizione,la più importante fonte del diritto medievale,imponeva al signore determinati obblighi nei confronti dei suoi sottoposti. Era infatti obbligato,ad esempio, a provvedere al sostentamento degli stessi,doveva garantir loro una dimora e, in caso di guerra

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,aveva il dovere di difendere loro e le rispettive abitazioni dai nemici,finendo quindi per garantire ai non proprietari una protezione e dei mezzi di sostentamento che invece al giorno d’oggi risultano essere difficilmente identificabili e ipotizzabili nei confronti della categoria .Questo fenomeno è quindi sufficiente a spiegare,seppur parzialmente,non solo le ragioni per cui la questione relativa alle tutele nei confronti dei soggetti non proprietari non fosse di primaria importanza intorno al tredicesimo secolo,dato il soddisfacente grado di protezione posto in essere nei loro confronti,ma anche perché il percorso di analisi sul tema si sia sviluppato solamente in tempi più recenti,a testimonianza di un rallentamento di tale percorso in età medievale a favore di altre tematiche.

Col passare degli anni la questione di cui trattasi ha subito delle importanti modifiche,e con essa anche la rilevanza del tema della non proprietà. Già dal quattordicesimo secolo,con l’avvento delle prime forme di Enclosures,si poteva infatti notare una drastica diminuzione di tutele nei confronti dei soggetti classificabili come non proprietari,in particolare agricoltori e contadini.31 Il fenomeno,la cui denominazione fa

riferimento alle recinzioni che venivano poste con sempre più frequenza intorno ai campi privati,aveva senza dubbio lo scopo di manifestare molto più chiaramente una minore possibilità di accesso da parte di un individuo su un terreno di proprietà altrui,e di conseguenza di evidenziare in maniera più marcata rispetto al passato la differenza tra il proprietario e il non proprietario della terra stessa.

Venivano così a crearsi disagi sempre maggiori nei confronti di molti soggetti,a causa dei cambiamenti economici prodotti

31 Cathrina Lis,Hugo Soly, Povertà e capitalismo nell’Europa

(36)

dal fenomeno che ,se da un lato garantivano più efficienza,dall’altro <<generarono[…] un iniziale e sensibile calo del tenore di vita dei contadini>> o,in generale,dei lavoratori.32 Questi soggetti si vedevano privati dei mezzi di

sussistenza e di quelle forme primitive di “diritti collettivi”che avevano contraddistinto la categoria dei non proprietari nelle epoche precedenti,comportando di conseguenza il diffondersi sempre più rapido della povertà verso coloro che non erano titolari di alcuna terra. 33

Tutto ciò risultava essere il logico contraccolpo di un nuovo inquadramento dell’istituto della proprietà,che lentamente iniziava a spostarsi verso quel carattere di assolutezza presente nell’età moderna. Attribuire questo nuovo valore alla proprietà significava ampliare la forbice tra proprietari e non proprietari,fino a quel momento non cosi evidente tanto da essere quasi trascurabile, e di conseguenza acuire i malumori di coloro che risultavano esclusi da essa.

La questione della non proprietà iniziava quindi ad assumere una maggior rilevanza sociale e culturale,e con essa anche i dibattiti e le analisi sul tema.

L’ultimo passo relativo alla questione si ebbe nei periodi della rivoluzione francese,seguiti dall’avvento del capitalismo e del pensiero marxista. Nel diciottesimo secolo la proprietà cominciò ad assumere le sue sembianze attuali,risultando arricchita del suo carattere assoluto anche in virtù del suo inserimento all’interno delle codificazioni,la cui diffusione iniziava a manifestarsi in maniera evidente .Questa nuova impostazione del diritto in esame ,diventato anche oggetto

32 Jon S. Cohen, Martin L. Weitzman Enclosures and Depopulation: a Marxian

Analysis p.175-176

33 Alessandra Quarta, Non proprietà- Teoria e prassi dell’accesso ai beni

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delle dinamiche contrattuali,ha indubbiamente portato le differenze tra proprietari e non proprietari ad un massimo storico. Infatti,dichiarare che un proprietario di un bene ne risulta titolare in senso assoluto significa,per converso,escludere categoricamente il non proprietario da un qualsiasi legame col bene stesso e col soggetto che ne è a capo. Significa perciò rafforzare la posizione dello stesso proprietario rispetto a quella che era la sua figura in epoca feudale,elemento che comporta come automatica conseguenza la possibilità che esso si spogli,in maniera del tutto legittima,degli adempimenti –considerati dalla tradizione antica come veri e propri obblighi- verso i soggetti non proprietari,diminuendo quindi il loro grado di tutela e sminuendone la categoria.

L’evidente rafforzamento del valore della proprietà ne ha quindi logicamente comportato un costante incremento di rilevanza nella vita sociale,rendendola un fondamento sempre più solido delle società moderne e facendovi confluire al suo interno un carattere discriminatorio . I soggetti vengono identificati sempre con maggiore frequenza in base ai beni di cui detengono la titolarità, e nonostante al giorno d’oggi si avverta un tentativo di riduzione di questo fenomeno da parte del legislatore,la proprietà continua ad essere un elemento in grado di influenzare importanti aspetti sociali.

In questo contesto si può quindi collocare la tendenza , sviluppatasi nei secoli antecedenti all’età moderna,che vide la proprietà divenire uno dei più importanti criteri di attribuzione della cittadinanza agli individui,comportando enormi conseguenze sul piano della loro partecipazione sociale

(38)

e intensificando di rimando le riflessioni e i dibattiti inerenti alla tutela dei soggetti non proprietari.

Infatti,è proprio ponendo l’attenzione su questo fenomeno che si può proseguire l’analisi sul ruolo dei non proprietari nella società e sull’importanza che possono aver acquisito – o,al contrario,perduto- nel passato e nei secoli più recenti,con lo scopo di comprendere l’esistenza o meno di un grado di tutele o quantomeno di un ampliamento di protezione nei loro confronti .

2.2.1 La definizione di civis : cittadinanza e nazionalità.

La definizione di civis è stata costantemente legata al tema della dicotomia tra proprietà e non proprietà. Uno dei maggiori esempi del fenomeno consiste nel fatto che la partecipazione degli individui alla vita pubblica sia stata spesso fortemente legata a dei criteri di tipo censitario ,indirettamente basati per la maggior parte su beni di cui i soggetti erano titolari. 34Solo nei secoli più recenti è stato

possibile evidenziare un distacco tra la proprietà e l’inclusione comunitaria di un individuo ,grazie,ad esempio,all’istituzione del suffragio universale. Generalmente si può però affermare che la proprietà abbia spesso prodotto ,nel panorama politico, <<un effetto abilitante e – specularmente- la non proprietà ne ha avuto uno disabilitante>>35.

Per capire meglio l’incidenza della proprietà sull’assegnazione della cittadinanza nei vari periodi storici è necessario aver ben

34 Claudio Pavone,Mariuccia Salvati,Suffragio,rappresentanza,interessi:istituzioni

e società tra ‘800 e ‘900

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chiaro cosa si intenda per cittadinanza e che tipo di accezione e interpretazione abbia subito negli anni.

E’ infatti una comune tendenza,specialmente nelle epoche moderne, quella di considerare come sinonimi le nozioni di cittadinanza e nazionalità,nonostante siano invece definizioni da mantenere ben distinte. Dal punto di vista prettamente giuridico e formale,ciò che distingue il cittadino dallo straniero è lo <<status specifico cui fanno capo un insieme di diritti e doveri stabiliti da un ordinamento giuridico positivo.In senso politico,invece,la cittadinanza indica una più ampia appartenenza intesa come “unione spirituale” dei cittadini nello Stato>>36.

Questa differenza è stata spesso fonte di confusione,risultando difficile trovare un equilibrio oggettivo tra la nozione giuridica e quella di carattere più politico.

Si è infatti andata a creare una specie di sovrapposizione tra le due nozioni,cittadinanza e nazionalità,creando il concetto di “cittadinanza nazionale”,di natura ibrida. Questa sovrapposizione ha spesso creato delle problematiche riguardo alle modalità di assegnazione- consequenziali al riconoscimento della cittadinanza - di diritti che risultavano essere sottoposti non solo al riconoscimento giuridico ma anche a degli elementi più astratti riguardanti il carattere della nazionalità. Infatti,<< l’utilizzo dei due termini come sinonimi – così come far coincidere popolo e nazione – mostra la predominanza che è venuta ad avere la cittadinanza intesa (impropriamente) come “appartenenza” sulla cittadinanza

36 Giovanni Cordini,Elementi per una teoria giuridica della cittadinanza.Profili di

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(correttamente) intesa come “contenitore di diritti” >>37. E’

logico quindi pensare alle forti ripercussioni di questa -seppur comprensibile-interpretazione confusionaria,specialmente per quel che concerne l’attribuzione di alcuni diritti,come ad esempio quelli politici,senza dubbio di ampio rilievo nella vita dell’individuo cittadino. E’ infatti opportuno ritenere che ,se si parte da un ‘erronea unione concettuale tra nazionalità e cittadinanza,i diritti conferibili con quest’ultima rischino di dover affrontare un ulteriore ostacolo per la loro attribuzione rappresentato da un’eventuale mancanza di nazionalità,essendo quest’ultima un elemento fondato su valori sicuramente più astratti. Senza contare,inoltre ,le ripercussioni che potrebbero crearsi nel caso in cui l’elemento della nazionalità sfociasse in una forma ben più radicale o estremista,ad esempio il nazionalismo,tramite cui si potrebbe verificare un vero e proprio contrasto per l’attribuzione dei diritti laddove certe esigenze di comunità finissero per sovrastare il ruolo primario dell’individuo/cittadino.38

2.2.2 La definizione di civis: la cittadinanza “multilivello “ nel XIV secolo.

Chiarita questa prima distinzione, per evitare di trovarsi in spiacevoli fraintendimenti,un’analisi della proprietà come criterio di attribuzione della cittadinanza e sulle sue ripercussioni sui non proprietari risulta possibile solamente concentrandosi sulla nozione giuridico-formale di tale status. Ciò che deve subito essere portato all’attenzione è la distinzione tra il concetto- e le modalità –di attribuzione della

37 Costanza Margiotta,Cittadinanza Europea:istruzioni per l’uso p.7 38 Ivi p.7

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cittadinanza nell’epoca moderna con la concezione generale sviluppatasi nel periodo tra il XIV ed il XIX secolo39 .Questa

concezione si è poi consolidata nei secoli,nonostante l’inevitabile presenza di minimi correttivi, data la vastità del periodo in esame.

La nozione più antica,risalente in particolar modo all’epoca dei comuni,si basava su regole più complesse rispetto a quelle odierne ed il legame tra soggetto e ordinamento trovava il suo fondamento in un rapporto di natura pattizia e non ipso iure. Il soggetto,per divenire cittadino,prestava un giuramento e tramite esso diveniva titolare di varie tipologie di privilegi,esenzioni e soprattutto veri e propri diritti,tra cui ad esempio la possibilità di adire i tribunali,un buon grado di protezione contro le aggressioni,la possibilità di esser titolare di beni immobili o la partecipazione alla vita politica .Solo che, a differenza dell’età moderna ,questi diritti non venivano concessi ,per cosi dire,in blocco :non vi era infatti una categoria di diritti prestabiliti che venivano attribuiti solo con la titolarità formale della cittadinanza.Questo perchè l’autorità considerava di diverso valore alcuni elementi,tra i quali la proprietà, e qualifiche dei soggetti stessi .Questi elementi venivano ,in un certo senso,valorizzati in maniera non uniforme dall’autorità,portando quindi alla creazione di una cittadinanza senza dubbio non omogenea e creando invece quelli che potremmo definire dei diversi livelli di cittadinanza sui generis .40

Si creava quindi non una cittadinanza intesa in senso unitario ma una serie di pluralità di condizioni soggettive differenziate e gerarchizzate,che davano vita a diverse tipologie di cittadini

39Giacomo Todeschini,Cittadinanza e disuguaglianze economiche:le origini

storiche di un problema europeo. Introduzione

40 Sara Merzinger, Verso la costruzione di un diritto pubblico cittadino

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