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"Sessualità e identità di genere nella narrativa di Elena Ferrante"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E

LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

ELABORATO FINALE

Sessualità e identità di genere nella narrativa di Elena

Ferrante

RELATORE PROF.SSA Cristina Savettieri

CORRELATORE PROF.RE Sergio Zatti

CANIDATO Eva Florinda Maria Zago

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2 TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

AM L‟amore molesto AG L‟amica geniale

SNC Storia del nuovo cognome SCF Storia di chi fugge e di chi resta SBP Storia della bambina perduta VBDA Vita bugiarda degli adulti Fr Frantumaglia

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3

L’amore molesto e il bisogno di possedere la madre.

«Il vestito della liberazione arrivava per linea materna» (Fr, 157)

L‟amore molesto è il primo romanzo pubblicato da Elena Ferrante, nel 1992. L‟incipit annuncia con tono distaccato la morte per annegamento della madre e la coincidenza tra questo evento e il compleanno di Delia, protagonista e voce narrante, delineando anche la topografia dell‟evento1

:

«Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno» (AM, 9).

Sembra quasi che la narratrice abbia voluto compilare un articolo giornalistico a partire dalle 5 W: What? Who? Where? When? Why?

Ma alla conclusione del romanzo la protagonista e voce narrante si rifiuterà di cercare una versione cronachistica dei fatti:

«Mi ero chiesta perché mia madre avesse deciso di morire in quel posto. Non l‟avrei saputo mai. Ero l‟unica fonte possibile del racconto, non potevo né volevo cercare fuori di me» (AM, 168).

Il romanzo, infatti, vuole essere non un‟indagine bensì una «destrutturazione psicologica», che approda a una «ricreazione artistica del passato»2 della protagonista.

A parlare è Delia, che racconta della madre Amalia, e a partire dalla sue ultime ore di vita ricostruisce una lunga vicenda di violenza domestica e sopraffazione. La vicenda si svolge in soli due giorni, ma la cronologia è forzata da una continua oscillazione temporale tra passato e presente, attraverso sedici analessi e quattro visioni,3 frutto della fervida immaginazione di Delia.

Il racconto è dominato da una focalizzazione interna a tutti gli effetti, focalizzazione – potremmo dire – “progressiva”, in quanto la narrazione si fa specchio della labilità della memoria di chi narra, per cui la verità nascosta emerge per gradi. Così, ogni volta che ci viene presentato un dettaglio o una scena del passato, Delia ha poi bisogno di tornarvi e metterlo a fuoco, andando a fornire una prospettiva più ampia, attraverso epifanie, personaggi chiave e scene centrali che tornano e si richiamano, con continui «passaggi dal

1 T. D

E ROGATIS, Elena Ferrante. Parole chiave, e/o, Roma, 2018, p. 35. 2 S. M

ILKOVA, Artistic tradition and Feminine Legacy in Elena Ferrante’s “L’amore molesto”, California, Italian Studies, 6(1),2016, p. 2.

3

T. DE ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano,

in Made in Italy e cultura. Indagine sull'identità italiana contemporanea, a cura di D. Balicco, Palumbo, Palermo, 2015, p. 296.

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4 presente al passato con sortite nell‟onirico».4

Mario Martone, regista che nel 1995 ha tratto dal romanzo il film omonimo, mette in risalto questa caratteristica aggiungendo un particolare visivo di rilievo: la miopia di Delia, costretta fin da piccola a portare gli occhiali correttivi. Tra gli elementi di originalità introdotti nel film, Amalia, a Bologna (piuttosto che Roma) a casa della figlia, sistema i suoi disegni sparsi sulla scrivania. In una rapida sequenza di primi piani vediamo passati in rassegna alcuni di questi lavori e notiamo che essi seguono lo stesso schema “frammentato” della narrazione: per esempio nel terzo fumetto, caratterizzato da un‟impaginazione di rigore geometrico, cambia la prospettiva, che passa dal singolo oggetto – un cestino con dentro una borsa – a una visione dall‟alto che lo contestualizza. È esattamente il meccanismo che ha descritto Stiliana Milkova per lo schema narrativo del romanzo, rilevando che la memoria selettiva di Delia emerge come schizzi approssimativi, meri schemi di eventi o figure del passato che poi si configurano come distinti tableau visivi,5 fino a quando riesce a dare un nome al suo trauma, a raccontarselo e raccontarlo. Sembra quasi che Ferrante stessa alluda a questo procedimento quando Delia, nelle ultime pagine del romanzo sulla spiaggia di Spaccavento, dice: «Ero già tornata in quel luogo, dopo la morte di mia madre. Non avevo visto né il mare né la spiaggia. Avevo visto solo dettagli» (AM, 168).

Il racconto si configura allora come una progressiva revisione del punto di vista della voce narrante,6 che asseconda il percorso interiore del personaggio. Ecco allora che il tessuto della narrazione si presenta sconnesso, scucito, inattendibile: riproduzione quanto mai fedele del complesso processo di autoconsapevolezza a cui la protagonista e voce narrante giungerà, catarticamente, alla fine del romanzo, rovesciando la posizione di partenza. Il lettore all‟inizio conosce una Delia in abiti maschili, schiva al contatto con la madre, disturbata dalla sua presenza, persino dalla sua lingua, e infine la lascia mentre accoglie in sé, fisicamente – con nuovi abiti – e metaforicamente – accettando la sua eredità femminile – quella Amalia che aveva cercato di non farsi piegare dalla violenza. E che si toglie la vita per dare alla figlia la possibilità di rinascere e rigettare la cultura maschilista di cui sono state vittime – consapevolmente e non.

Amalia e il fascino della resistenza

4 F. F

ERRARI, Elena Ferrante. L’amore molesto, 12/06/2017, in

https://fiordilibri.wordpress.com/2017/06/12/elena-ferrante-lamore-molesto/ 5

S. MILKOVA, Artistic tradition, cit., p. 2. 6 T. D

E ROGATIS, “L’amore molesto” di Elena Ferrante. Mito classico, riti di iniziazione e identità femminile,

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5

Amalia è vittima di reiterati episodi di violenza da parte di un marito di cui non conosciamo il nome. Una violenza che si configura fin da subito come strumento per affermare una gerarchia patriarcale di dominio. La filosofa tedesca Hannah Arendt distingue il concetto di „violenza‟ da quello di „potere‟, attribuendo a quest‟ultimo un‟accezione positiva di controllo, condizione prima dell‟esistenza della sfera pubblica all‟interno della quale gli uomini parlano ed esercitano il potere politico.7 Pratica “prepolitica” muta è invece la violenza, che contraddice il principio di dialogo su cui l‟interazione politica verte, rischiando così di silenziare o cancellare la formazione identitaria dell‟individuo. Ferrante indaga proprio questo meccanismo nel suo romanzo: come il discorso maschile oggettivizza – tramite la violenza – la femminilità, fino a controllarla, cancellarla e assorbirla.8 Amalia subisce la colpa di essere donna e di ricevere le attenzioni degli uomini sui mezzi pubblici, per strada, per quanto coltivi «l‟abitudine a non rendersi piacente (AM, 31), per placare la gelosia del marito. Ma se da un lato è segnata dall‟adesione alla concezione di maternità propria dell‟immaginario comune, dall‟altro la sua forma di resistenza consiste in un processo di iper-femminilizzazione. Questo modo di reagire alle norme convenzionali allarma anche la figlia, la quale si costruisce una figura della donna sulla base del modello stereotipato della mentalità patriarcale, che sovrastima ed enfatizza le sue caratteristiche femminili. Questa ambivalenza vuole mostrare come l‟indicibile della relazione madre-figlia – ovvero la mancata simbolizzazione di questa relazione – sia funzionale al mantenimento dell‟ordine patriarcale.9

La prima notte che passa in casa di Amalia dopo il suo funerale, Delia sogna la madre in due “vesti” un po‟ antitetiche: nella prima è proiettata nel ruolo di donna incinta, emblema della femminilità; mentre nella seconda è una figura fortemente erotizzata. Il racconto si sofferma a lungo sulla descrizione dei suoi capelli, che «luccicavano come quelli di una pantera ed erano fitti» (AM, 33): penso che non sia casuale il riferimento alla pantera, animale che nella simbologia araldica è simbolo di sottigliezza astuta, che attrae gli animali con la lucentezza della sua pelle per poi divorarli.10 Effettivamente l‟idea che Delia ha di Amalia è quella di un animale seducente, colpevole della sua bellezza, di quella chioma di capelli che «si disfano come se ce li avesse scolpiti in volute sulla fronte e l‟ebano della pettinatura mutasse struttura molecolare sotto le sue mani» (AM, 34). Nella

Frantumaglia Ferrante ci ha riservato una pagina inedita del romanzo, con una lunga

riflessione sui capelli nerissimi della donna. Dal punto di vista di Delia, la chioma vigorosa

7 M

ANDOLINI, Telling the abuse, in G. R. Bullaro, S. V. Love, The works of Elena Ferrante. Reconfuring the margins, Palgrave Macmillan, New York, 2016, pp. 271-292, su gentile concessione dell‟autrice.

8

MANDOLINI, Telling the abuse, cit. 9 P

INTO, Poetiche e politiche della soggettività, Mimesis, Roma, 2020, p. 21.

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della madre è segno del suo perfido egoismo; la frustrazione per la mancata somiglianza con la madre, Delia si taglia i capelli per dimostrarle di essere diversa da lei:

«Io avevo i capelli fini di mio padre. […] Risultava impossibile acconciarli in modo da ottenere la pettinatura di mia madre. […] Mi guardavo allo specchio rabbiosa. Amalia era stata perfida, non mi aveva dato i suoi capelli. Si era tenuta per sé la chioma vigorosa, aveva voluto che non diventassi mai bella quanto lei.[…] Così una volta, non so come cominciò […] le rubai le forbici da sarta, attraversai il corridoio, mi chiusi nel bagno e mi sforbiciai i capelli con accanimento, a occhi asciutti, provando una gioia feroce. […] Poi andai a mostrarmi a lei per farla soffrire, volevo dirle: guarda, non ho più bisogno di pettinarmi come te. […] Vide qualcosa che la ferì o la spaventò. Si mise a piangere» (Fr, 97).

Nel romanzo c‟è un episodio da cui trapela l‟ossessione di Delia per i capelli della madre, concepiti come una colpa:

«per lavarli non bastava sapone, occorreva tutto il contenitore dell‟uomo che lo vendeva

nell‟interrato, in fondo ai gradini bianchi di cenere o di lisciva. Sospettavo che a volte mia madre, sfuggendo alla mia sorveglianza, li andasse ad immergere direttamente nel bidone, col consenso dell‟uomo della bottega» (AM, 34).

La presenza minacciosa di quest‟uomo è segno di come l‟immaginazione di Delia riflette quella di suo padre e del fratello della donna, zio Filippo, ai cui occhi Amalia è un oggetto carnale la cui sensualità esalta il desiderio maschile ma, allo stesso tempo, e proprio per questo, va tenuta a bada11. Così, i ricordi di figlia di Delia vagano confusi tra l‟immagine di una donna potenzialmente infedele e la vittima di un uomo che, consapevole dell‟attrazione che la moglie esercita, suo malgrado, su altri uomini, cerca con ogni mezzo di modificarne e mortificarne la personalità:12

«Lui la proteggeva con una violenza che non sapevo mai se avrebbe schiacciato soltanto i rivali o gli si sarebbe anche rivolta contro uccidendolo […] Una volta si convinse che un uomo nella ressa l‟avesse toccata. La schiaffeggiò sotto i nostri occhi. Io restai dolorosamente meravigliata. Ero certa che avrebbe ucciso l‟uomo e non capivo perché, invece, avesse preso a schiaffi lei. Anche adesso non capivo come mai l‟avesse fatto. Forse per punirla di aver subìto sulla stoffa del vestito, sulla pelle, il calore del corpo di quell‟altro» (AM, 63-4). «Mia madre pedalava tutto il giorno sulla Singer come una ciclista in fuga. In casa viveva dimessa e schiva, nascondendo i suoi cappelli, le sue sciarpe colorate, i suoi vestiti. Ma, sospettavo, proprio come mio padre, che fuori casa ridesse diversamente,

11 M

ANDOLINI, Telling the abuse, cit. 12 F

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7

respirasse diversamente, orchestrasse i movimenti del corpo in modo da lasciare tutti a occhi sbarrati» (AM, 102).

C‟è un uomo in particolare che scatena la rabbia distruttiva del padre di Delia, Nicola Polledro detto Caserta, amico dell‟uomo e dello zio Filippo. Amalia non può nominarlo, pena essere malmenata: «Amalia veniva spesso inseguita per casa, raggiunta, colpita al viso prima col dorso della mano, poi col palmo, solo perché aveva detto “Caserta”» (AM, 39). È lui, nel dopoguerra, a mettere in commercio i ritratti del marito: Caserta, «che era furbo, nero nero come un saraceno ma con gli occhi di diavolo assatanato» (AM, 52) si fa dare dai soldati americani, e soprattutto dai marinai, foto-tessere delle loro donne, siano esse mogli, amanti, sorelle, madri, e il padre di Delia ne fa ritratti. Amalia però non accetta che il marito passi a lavorare per un certo Migliaro, a cui vende ritratti di una zingara discinta senza volto, che non è altri che lei, con la sua acconciatura e le sue forme:

«una costruzione maestosa, inequivocabilmente simile alla bella pettinatura che Amalia sapeva realizzare coi suoi lunghi capelli. […] Quando nostro padre portò a termine la sua zingara, io ne fui certa e anche Amalia: la zingara era lei» (AM, 137)

Delia ha quattro anni quando assiste al primo episodio di violenza che la madre subisce per essersi intromessa negli affari del marito:

«Quando Caserta andò via, mio padre senza preavviso colpì Amalia due volte in faccia con la destra, prima col palmo e poi col dorso. Quel gesto lo ricordavo preciso, col suo movimento a onda che prima va, poi viene: glielo vedevo fare per la prima volta. Lei scappò in fondo al corridoio nel ripostiglio e cercò di chiudersi dentro. Fu tirata fuori a calci. Uno la colpì a un fianco e la mandò contro l‟armadio della camera da letto. Amalia si rialzò e strappò tutti i disegni dalle pareti. Fu raggiunta, afferrata per i capelli e sbattuta con la testa contro lo specchio dell‟armadio, che si spezzò» (AM, 137-8).

Come sostiene Kersti Yllö nella sua analisi femminista della violenza familiare, la violenza e la riduzione del corpo di Amalia a fantasia libidinale mercificata non sono altro che un modo per oggettivizzare e controllare la sua soggettività, al fine di annientarla: «A mio padre niente di Amalia era mai sembrato innocente […]. Per quel suo essere gradita lui la puniva con schiaffi e pugni» (AM, 122). L‟unico modo di resistenza che la donna conosce è quello di “aggrapparsi” alla sua macchina da cucire:13

«Per tutti i giorni della sua vita aveva ridotto il disagio dei corpi a carta e tessuti, e forse se n‟era fatta un‟abitudine dall‟interno della quale tacitamente ripensava la dismisura secondo misura» (AM, 125). Fino a quando Amalia non

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va a vivere con le figlie in un edificio del centro storico che lei trova «imponente», ma che a Delia dà l‟impressione di «un carcere, un tribunale o un ospedale» (AM, 23). L‟approccio di Amalia, la quale, interiorizzando la violenza del marito, si adatta allo stereotipo di moglie e madre che si adegua alla dominazione dell‟uomo, cambia soltanto quando, non si sa quanti mesi prima di morire, «cinque, sei?» (AM, 25), inizia a frequentare regolarmente Caserta. E da allora, sappiamo dalle chiacchiere della vedova De Riso, vicina di casa di Amalia, «“Aveva la testa un po‟ per aria” […] “Era contenta”» (AM, 27-8). Talmente contenta, che dà sfogo a quella risata che il marito le ha represso per tutti gli anni che sono stati insieme, perché lui «non sopportava che ridesse» (AM, 121):

«Considerava la risata di lei d‟una sonorità d‟occasione, visibilmente falsa. Tutte le volte che c‟era qualche estraneo per casa […] le raccomandava: “Non ridere”. Quella risata gli sembrava uno zucchero sparso ad arte per umiliarlo. In realtà Amalia cercava solo di dare suono alle donne d‟apparenza felice fotografate o disegnate sui manifesti o sulle riviste degli anni Quaranta: bocca larga dipinta, tutte denti scintillanti, sguardo vivace. Era così che si immaginava di essere, e si era data la risata giusta» (AM, 121).

Ora finalmente, con Caserta, «Rideva soprattutto lei, con una risata così forte che si sentiva dal pianterreno» (AM, 44), e sul treno che avrebbe dovuto portarla a Roma «Nello scompartimento s‟è messa a ridere senza motivo e ha cominciato a sventolarsi con un lembo della gonna» (AM, 124). Questa reazione può essere sicuramente letta una «risata in faccia all‟insopportabile» (Fr, 22):

«la risata in faccia all‟Insopportabile è una scommessa per la letteratura e oggi è la risata che mi interessa di più» (Ibidem).

Amalia sceglierà di morire col solo reggiseno indosso per affermare il suo diritto ad essere donna, senza dover mortificare il suo corpo, pur senza cancellare il suo passato, simboleggiato dagli orecchini (un regalo del marito), dall‟anello di fidanzamento e dalla fede che ha indossato fino alla fine. La chiave di lettura della sua morte ce la dà Ferrante stessa nella Frantumaglia, quando ci spiega il valore della sparizione delle donne nei suoi romanzi attraverso il significato dell‟espressione “io non ci sto”, che esprime il segno della loro irriducibilità:

«La scomparsa delle donne non va interpretata solo come un crollo della combattività di fronte alla violenza del mondo, ma anche come rifiuto netto. C‟è in italiano un‟espressione intraducibile nel suo doppio significato: “io non ci sto”. Se presa alla lettera significa: io non sono qui, in questo luogo, di

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fronte a ciò che mi state proponendo di accettare. Nel suo significato comune suona invece: non sono d‟accordo, non voglio. Il rifiuto è assentarsi dai giochi di chi schiaccia tutti i deboli» (Fr, 317). Amalia è «la vittima che non è annichilita» (AM, 125), e non ci sta più a immaginarsi «stretta tra quattro pupille, espropriata dai due sguardi» (AM, 157). Non fugge, infatti, solo dal marito violento e patriarcale, ma anche dalle «fantasie di vecchio col cervello perso» (AM, 157) di Caserta, il quale si appropria del corpo della donna svendendo al vecchio nemico il quadro del negozio Vossi. Gettandosi in acqua Amalia si rifiuta di rimanere intrappolata come merce di scambio nella loro competizione, che dimostra chi tra i due è l‟uomo più forte, più ricco.

«Certamente le aveva causato più dolore la scoperta che quell‟uomo seguitava con perversa costanza a perseguitarla, come aveva fatto anni prima quando le aveva inviato i suoi regali sapendo di esporla alla brutalità del marito. Me l‟immaginavo disorientata, quando aveva saputo che Caserta era andato da mio padre a raccontare di lei, del tempo che passavano insieme. La vedevo sorpresa perché mio padre non aveva ucciso il suo presunto rivale, come aveva sempre minacciato di fare, ma gli aveva dato pacatamente ascolto per poi mettersi a spiarla, per malmenarla, per minacciarla, per tentare di reimporle la sua vicinanza» (AM, 152).

Delia alla ricerca delle origini della “matrofobia”

Il rapporto di Delia con la madre è caratterizzato da un desiderio possessivo prima, e da un sentimento di ostilità poi. Il desiderio infantile di ripristinare la fusione con Amalia è

frustrato dalla gelosia possessiva del padre che alimenta nella sua psiche infantile il fantasma di una madre ambigua, distante, pronta al tradimento. È il padre che la spinge ad esprimere, a sua volta, una forma di amore molesto nei confronti di Amalia (e di se stessa).14

«Mi sembrò aderente al racconto – spiega Ferrante – che fosse molesto l‟amore, l‟amore che fa del padre il rivale della figlia, l‟amore esclusivo per la madre, l‟unico grande tremendo amore originario, la matrice inabolibile di tutti gli amori» (Fr, 157-8).

.L‟amore molesto, quindi, è l‟interferenza che il desiderio violento del padre frappone tra Delia e Amalia, separandole.15 E che si traduce in un «sistematico rifiuto della sua eredità, e (quindi) della sua femminilità».16 Questa forma di rifiuto si manifesta nel chiamare spesso Amalia col suo nome di battesimo, oltre che nel fastidio che la sua presenza per casa le

14 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 303. 15

Ibidem.

16 Nel linguaggio freudiano il rivale molesto è il padre che contende alla bambina l‟amore della madre nella fase preedipica. Cfr. FERRANTE, Frantumaglia, cit., pp. 157-8.

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provoca. Quando la madre va a trovarla a Roma, dove vive ormai da dieci anni, stravolge le dinamiche sociali e domestiche della sua vita indipendente. Amalia è estremamente socievole mentre la figlia è riservata, la madre è ordinata mentre Delia è affezionata al disordine della sua casa.17 Martone dà una rappresentazione visiva molto efficace del complesso rapporto che Delia ha con il corpo della madre. Quando Amalia le si avvicina per portarle il caffè caldo, Delia si ritrae al contatto spingendosi fra le lenzuola contro il muro e fingendo di dormire.

«Irrigidita tra le lenzuola, avevo l‟impressione che sfaccendando mi trasformasse il corpo in quello di una bambina con le rughe. Quando arrivava con il caffè, mi rannicchiavo da un canto per evitare che mi sfiorasse sedendosi sulla sponda del letto. La sua socievolezza mi infastidiva. […] Con lei sapevo essere solo contenuta e insincera» (AM, 9-10).

Delia ha vissuto in una sospensione del tempo in cui le due condizioni, quella dell‟infanzia e della maturità, sono sovrapposte e bloccate reciprocamente.18 Se – come si è visto – Amalia reagisce alla violenza con un processo di iperfemminilizzazione, Delia proprio di questo la reputa colpevole, e riscontra in quell‟atteggiamento un modello da condannare, da cui distaccarsi: «Ero a tal punto decisa a diventare diversa da lei, che perdevo a una a una le ragioni per assomigliarle» (AM, 171). Di contro, si rifugia allora nel modello maschile. Per quanto crescendo abbia acquisito consapevolezza della violenza del mondo napoletano in cui è cresciuta, ammette di essersi sempre sentita solidale con lo zio Filippo:19

«Avevo sempre provato una vecchissima simpatia per quel suo [di zio Filippo] corpo logoro e per quella sua aggressività da camorrista sbruffone. Ma quand‟ero ragazza non potevo sopportare che si schierasse a quel modo. […] Forse non tolleravo che la parte più segreta di me si servisse della sua solidarietà per avvalorare un‟ipotesi coltivata altrettanto segretamente: che mia madre portasse inscritta nel corpo una colpevolezza naturale, indipendente dalla sua volontà e da ciò che realmente faceva» (AM, 55, corsivo mio)

Per questo, già da bambina si sente responsabile di quella madre colpevolmente troppo affascinante, fascino di cui avverte il peso come se fosse una colpa innata:

«Noi pensavamo che nostro padre, per tutto quello che le faceva, dovesse uscire di casa un mattino e morire bruciato o schiacciato o affogato. Lo pensavamo e la odiavamo, perché era la molla di quei

pensieri» (AM, 56, corsivo mio).

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MANDOLINI, Telling the abuse, cit. 18 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 298. 19 M

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Da perfetta figlia della cultura patriarcale, Delia cerca – e trova – una giustificazione alla violenza di cui la madre è vittima, e cerca di arginare la dispersione del suo corpo, per prevenire una gelosia che non è già più solo del padre. Ma ha sempre l‟impressione – espressa in maniera figurale – che la donna si espanda fisicamente in direzione degli uomini vicino a lei, attirandone l‟attenzione:

«Era uno sforzo inutile, il corpo di Amalia non si lasciava contenere. I fianchi le si dilatavano per il corridoio verso i fianchi degli uomini che aveva a lato; le sue gambe, il ventre si gonfiavano verso il ginocchio o la spalla di chi le sedeva davanti. O forse avveniva il contrario. Erano gli uomini che si incollavano a lei come mosche alle carte appiccicosa» (AM, 62-3).

Durante i viaggi in funicolare, Delia se ne sta «crocefissa alle gambe di lei» per proteggerla dallo sguardo degli altri uomini: «come avevo visto che faceva sempre mio padre in quella circostanza» (AM, 62). Al fotografo che sotto casa loro espone per qualche giorno una foto-tessera della donna, Delia intima di toglierla per prevenire la gelosia del padre, che però è un sentimento che si è ormai propagato in lei: «Lanciavo sguardi furtivi nel buio per esercitare a

mia volta un controllo su Amalia, anticipare la scoperta dei segreti di lei, evitare che anche

lui scoprisse la sua colpevolezza» (Ibidem, corsivo mio). La dichiarazione: «Mi ero sempre figurata una trama di agguati tessuta apposta per farla sparire dal mondo» (AM, 11), palesa un desiderio assassino che emerge ripetutamente nella sua psiche infantile, risultato di un amore ossessivo nei confronti di questa donna, sfuggente e seduttiva allo stesso tempo,20 che la fa vivere col terrore che la madre possa abbandonarla:

«Se tardava, l‟ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo. Allora scappavo in un ripostiglio senza finestre e senza luce elettrica […]. Chiudevo la porta e me ne stavo al buio, a piangere in silenzio […]. “Quando torni ti ucciderò”, pensavo, come se fosse stata lei a tenermi chiusa lì dentro» (AM, 11).

L‟amore molesto per la madre in età adulta sfocia in matrofobia, nel terrore di non riuscire a definire un proprio confine corporeo, di essere smarginata, invasa dalle forme della propria madre. Delia sente quindi il bisogno di differenziarsi e rifiutare radicalmente l‟iperseduttività di Amalia.21 Si spiegano così gli abiti mascolini con cui Mario Martone veste Anna Bonaiuto nei panni di Delia, che, tra tante perplessità, ottiene di portare a spalla la bara della madre: «Me l‟avevano concesso tra molte resistenze: le donne non portano bare in spalla» (AM, 16). Durante il funerale Delia sente irrompere all‟improvviso, dall‟interno del proprio corpo, il

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E ROGATIS, Parole chiave, p. 98. 21 Ibidem, p. 106.

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«liquido caldo» (AM, 16) del ciclo mestruale, e lo avverte come un segno del «sollievo colpevole» (Ibidem) che prova nell‟essersi sbarazzata della madre. L‟evento fisiologico viene percepito come un‟invasione, «un segnale convenuto tra estranei» (AM, 15) contro il quale non può opporsi:

«Quando la bara era stata deposta nel carro e questo si era avviato, erano bastati pochi passi e un sollievo colpevole perché la tensione precipitasse in quel fiotto segreto del ventre. Il liquido caldo che usciva da me senza che lo volessi mi diede l‟impressione di un segnale convenuto tra estranei dentro il mio corpo» (AM, 16).

Carmela Pesca interpreta questi segnali fisici ed esterni di liquefazione come manifestazione del disagio della femminilità repressa di Delia22, e similmente Anna Scacchi osserva che la figlia avverte il corpo materno come una liquida minaccia alla propria identità dura e autonoma,23 come se il corpo di Amalia si fosse tramutato lasciando nella sua scia indizi e tracce umide della sua presenza in città.24 La mascolinità di Delia è un fattore che marca ulteriormente il distacco dalle sorelle, come messo in evidenza nella scena dei saluti, in cui Martone aggiunge un elemento di originalità rispetto al romanzo, cioè la maternità di una delle due sorelle, condizione che Delia non conoscerà mai: «non avevo voluto o non ero riuscita a radicare in me nessuno. Tra qualche tempo avrei perso anche la possibilità di avere dei figli» (AM, 78). Anche la gettoniera in disuso all‟interno dell‟ascensore della casa in cui abita Amalia, che esibisce la sua «vuotezza astinente» (AM, 24), allude alla sua sterilità: «In genere non amavo quei sarcofaghi di metallo […]. Ma quello [l’ascensore] aveva pareti di legno, porte a vetri con arabeschi grigi ai bordi, maniglie d‟ottone lavorate, due panche eleganti che si fronteggiavano, uno specchio, l‟illuminazione fioca […] – e – una gettoniera degli anni Cinquanta. […]. Ma, pur guastando la calma vecchiaia di quello spazio, la gettoniera per la sua vuotezza

astinente non mi dispiaceva» (AM, 24, corsivo mio).

La collocazione della cabina, (al quinto piano, due piani oltre quello di Amalia, perché nessun inquilino vi abita e dunque il pianerottolo è buio e solitario), poi, rinvia ad una condizione di superiore distacco e di arroccamento difensivo.25 Oltre ad essere un luogo che emana un senso di decoro e protezione anomalo per una città come Napoli, luogo degli

22 C. P

ESCA, The narrative function of clothing, in altrelettere, University of Zurich, 19.10.2017, p. 4. 23 T. P. N

JEGOSH, L’amore molesto di Amalia e Delia, in A. Scacchi, Lo specchio materno – madri e figlie tra biografia e letteratura, Luca Sossella Editore, Roma, 2005, p. 243.

24

M. BOVO-ROMOEUF, Sensualité et obscenité dans “L’amore molesto” et “I giorni dell’abbandono” d’Elena Ferrante, UGA Éditions/Université Grenoble Alpes, 15 septembre 2006, p. 3.

25 D

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eccessi metereologici, estetici, linguistici ed emotivi26, Delia percepisce quell‟ascensore come un «utero siderale»27, con tanto di «lunga coda delle corde d‟acciaio» (AM, 27) che fanno da cordone ombelicale28. È in questo spazio che va a rifugiarsi subito dopo il funerale di Amalia, ed è qui che, l‟ultima volta che è stata a Napoli, la gelosia e l‟imbarazzo nel toccare il corpo della madre esplodono: Delia sottrae la mano alla madre, se la porta al cuore e le chiede di uscire fuori:

«“Hai mai avuto un uomo in tutti questi anni?” […] La reazione era stata esagerata al confronto coi suoi comportamenti sempre molto contenuti […] Mi ero ritratta e la mano me l‟ero poggiata sul cuore per calmarne i battiti molto veloci. […] “Esci” le avevo detto. L‟aveva fatto davvero: non mi diceva mai di no» (AM, 26).

Delia e Amalia non sono riuscite a costruire un legame madre-figlia in quanto vittime entrambe di violenza di genere, che nel caso della madre si esprime attraverso il modo degradante e mutilato di amare del marito che evoca lo stupro del mito,29 e nel caso della figlia si esprime fisicamente attraverso le molestie del padre di Caserta e simbolicamente attraverso l‟assimilazione al dominio maschile. La violenza subita da Delia è un momento di oggettificazione e annichilimento della soggettività, che coincide con la separazione dal modello incarnato da Amalia:30 cancellare con una forma di matricidio – per usare l‟espressione di Melanie Klein – ogni traccia dell‟origine: «tutto rifatto, per diventare io e staccarmi da lei» (AM, 77).31 Le ferite sul corpo della madre sono oggetto di adorazione e di eccitazione erotica. Non potendo sentirsi prossima al corpo della madre nell‟intimità, che Amalia le nega («non mi permetteva di toccarla» (AM, 35) , la figlia stabilisce un contatto orale di incorporazione ed evoca la duplicazione della violenza sul proprio stesso corpo: secondo un principio simmetrico di spostamento, fare del male a se stessa significa fare del male alla madre: 32

«Quel dito ferito di mia madre, forato dall‟ago quando non aveva nemmeno dieci anni, mi era noto più delle mie dita proprio grazie a quel dettaglio. Era viola e alla lunetta l‟unghia pareva sprofondare. Avevo desiderato a lungo di leccarlo e succhiarlo, più dei suoi capezzoli […] progettavo di bucarmi

26 Ibidem, p. 305.

27

DE ROGATIS, Mito classico, cit., p. 289. 28 Ibidem, p. 289.

29 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 303. 30 M

ANDOLINI, Una rivoluzione privata. La de-ri-costruzione della soggettività femminile in Cronache del mal d‟amore di Elena Ferrante,in Turning Points, SIS Interim Conference, 29-30 April 2016, su gentile concessione dell‟autrice.

31 D

E ROGATIS, Parole chiave, p. 106. 32 Ibidem.

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anch‟io l‟unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo. Ciò che di lei non mi era stato concesso volevo cancellarglielo dal corpo» (AM, 75-6).

Se il matricidio comporta rimanere paradossalmente intrappolata proprio dentro l‟utero di quel fantasma materno, nell‟eterna dipendenza della «bambina con le rughe» (AM, 10),33

in Delia si innesca una pericolosa dinamica di proiezione nella madre, attraverso illusori sdoppiamenti dell‟io e miraggi di sovrapposizione identitarie.34

I suoi giochi con Antonio vogliono essere il riflesso dei giochi che immaginava Amalia facesse con il suo presunto amante.

«Non volevo essere “io” se non ero l‟io di Amalia. Facevo come mi ero immaginata che in segreto Amalia facesse. E le imponevo, in mancanza di percorsi suoi dei quali potessi essere parte, i miei percorsi da casa al “Coloniali” di Caserta il vecchio. Usciva di casa, voltava l‟angolo, spingeva la porta a vetri, assaggiava creme, aspettava il suo compagno di giochi. Ero io ed ero lei. Io-lei ci incontravamo con Caserta. Infatti non vedevo il viso di Antonio, quando Antonio appariva dalla porta sul cortile, ma quello che, in quel viso, c‟era del viso da adulto di suo padre. Amavo Caserta con l‟intensità con cui mi immaginavo che l‟amasse mia madre. E lo detestavo, perché la fantasia di quell‟amore segreto era talmente vivida e concreta, che sentivo che non avrei mai potuto essere amata allo stesso modo: non da lui, ma da lei, da Amalia. Caserta si era preso tutto quello che spettava a me» (AM, 160-1).

Questo gioco delle identità però si scontra con una realtà che abbatte la possibilità di identificazione, e che innesca una drastica e forzata destrutturazione della soggettività immatura della protagonista.35 Delia si scopre sola e terrorizzata senza il conforto che l‟identificazione con la madre le dava. In questo senso il trauma dell‟abuso è allora un processo di dissociazione dal modello femminile che Amalia incarna. Mandolini nota che la gratificazione sessuale, chiara proiezione del desiderio della figlia per la madre, si dissipa man mano che Delia si allontana dalla madre, ed è gradualmente sopraffatta da un sentimento di sgomento, che sarà una delle caratteristiche della sua vita sessuale da adulta.36 «Un giorno trovai la pasticceria vuota e quella porticina aperta. Ero Amalia che nuda come la zingara dipinta da mio padre […] andava a strisciare nell‟interrato buio insieme a Caserta. Ero, all‟imperfetto. […] Ero identica a lei e tuttavia soffrivo per l‟incompiutezza di quell‟identità. Riuscivamo a essere “io” solo nel gioco, ormai, e lo sapevo. Senonché curvo, in fondo ai tre gradini oltre la porticina, Caserta mi guardò di sbieco e mi disse: “Vieni”. Mentre mi inventavo che la sua

33 Ibidem. 34

MANDOLINI, Una rivoluzione privata, cit. 35 Ibidem.

36 M

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voce, insieme a quel verbo, dava suono anche ad “Amalia”, lui mi salì lievemente con un dito nodoso e sporco di crema su per una gamba, sotto il vestitino che mi aveva cucito mia madre. […] Più le cose accadevano, più mi indispettivo, perché non riuscivo a essere “io” nel piacere di lei, e tremavo soltanto. Del resto anche Caserta non mi stava venendo convincente. A volte ce la faceva a essere Caserta, a volte smarriva i suoi lineamenti. […] Così a un certo punto dovetti cedere e ammettere che l‟uomo che mi diceva “Vieni” in fondo ai tre gradini dell‟interrato era il venditore di coloniali, il vecchio cupo che fabbricava gelati e dolci, il nonno del piccolo Antonio, il padre di Caserta» (AM, 161-3).

Questo episodio resta represso nella memoria di Delia per quarant‟anni. Era riuscita a raccontarlo al padre solo proiettandolo fuori da sé, vestendo la madre dei panni di un‟adultera, andando così a confermare il sospetto, che il padre nutriva ossessivamente, di una relazione clandestina tra la moglie e Caserta:

«Saltai sulla scheggia di pavimento su cui c‟era mio padre, il cavalletto, la camera da letto. Gli riferii, nel dialetto sguaiato del cortile, le cose oscene che quell‟uomo mi aveva fatto e detto. […] gli dissi che Caserta aveva fatto e detto ad Amalia, col suo consenso, nell‟interrato della pasticceria, tutte le cose che in realtà il nonno di Antonio aveva detto e forse fatto a me. Lui smise di lavorare e attese che mia madre tornasse a casa.» (AM, 163).

L‟immaginario di Delia, colonizzato dalla cultura patriarcale, che vorrebbe il silenziamento del trauma infantile causato da un corpo maschile, funziona quindi da cornice narrativa in cui riordinare questa esperienza.37 L‟incapacità di Delia di ri-raccontare la storia della sua violazione sessuale, un meccanismo che origina dall‟esperienza dello stupro stesso, inibisce così il processo di identificazione della figlia con la figura della madre abusata.38 Come sottolinea Ann Cahill, l‟annientamento dell‟integrità sessuale e del desiderio della persona è la principale implicazione etica di stupro.39 De Rogatis suggerisce che la delazione di Delia possa interpretarsi come la concretizzazione del desiderio assassino che la protagonista bambina provava nei confronti della madre.40 La rimozione dell‟evento violento, la copertura con il silenzio e il comportamento dissociato sono, nella visione della psichiatra Judith Herman, un meccanismo difensivo che autorizza il minore ad adattasi all‟ambiente abusivo. Questa strategia è spesso associata ad un processo di conformità con il violentatore, con il quale la vittima stabilisce un legame e dunque rimprovera il parente non colpevole. Possiamo allora interpretare la rimozione dello stupro di Delia e la sua rielaborazione di

37 P

INTO, Poetiche e politiche della soggettività, cit., p. 21. 38

MANDOLINI, Telling the abuse, cit. 39 Ibidem.

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quell‟esperienza come un tentativo di essere accettata all‟interno delle dinamiche sociali e familiari di stampo patriarcale, respingendo il suo ruolo di vittima/oggetto. Se questo atto marca ufficialmente l‟assimilazione di Delia nella sfera del linguaggio maschile, Herman suggerisce che il minore che reprime il suo abuso si disconnette dalla sua storia personale e può solo produrre un discorso non lineare e frammentato.41 Come sostiene Mandolini, avere una soggettività implica anche ricordare di essere stata oppressa.42 Si spiega così l‟incapacità di Delia di costruire una narrazione unitaria e coerente della sua storia:

«Non avevo dimenticato niente ma non volevo ricordare. All‟occorrenza, avrei potuto raccontarmi tutto, per filo e per segno; ma perché farlo? Mi raccontavo solo quello che serviva, a seconda dei casi, decidendo di volta in volta sull‟onda della necessità» (AM, 56-7).

Così come nel rievocare le sue fantasie di bambina, «suoni compatti materializzati in immagine» (AM, 39), allude a un segreto che non era in grado di nominare:

«Sapevo già allora che in quell‟immagine della fantasia c‟era un segreto che non poteva essere svelato, non perché una parte di me non sapesse come accedervi, ma perché se l‟avessi fatto l‟altra avrebbe rifiutato di nominarlo e mi avrebbe cacciata via da sé» (AM, 40).

Alla stazione di Chiaia, durante l‟inseguimento di Caserta, Delia vive una forte regressione cronologica veicolata dal codice fiabesco di Alice in Wonderland:43 «ero un‟Alice invecchiata all‟inseguimento del coniglio bianco» (AM, 83). In questa circostanza si scatena in Delia una «complessa disarticolazione del tempo»44, in cui passato e presente, realtà e immaginazione si confondono, e ci viene presentato uno dei passaggi in cui la voce autoriale e la sua istanza immaginifica è più significativa:

«Mi resi conto, mentre la funicolare seguitava la sua discesa, che poco prima […] avevo composto un terzo uomo che non era Caserta e nemmeno Polledro. […] Amalia, dentro la mia testa, ora fissava a sua volta quell‟estrosa composizione somatica che avevo ottenuto poco prima. […] La fissai meglio allo sfondo, come se stessi lavorando a un puzzle non ancora identificabile nei dettagli: solo i capelli sciolti, un profilo scuro davanti a tre sagome di legno colorato che forse erano state lì poco meno di mezzo secolo prima. Ora Amalia era definitivamente comparsa a tutto campo, giovane e flessuosa, nell‟atrio di una stazione che, come lei non c‟era più. Mi fermai per darle il tempo di incantarsi a guardare le sagome: forse una coppia elegante che aveva un cane lupo al guinzaglio. Sì. Erano di cartone e di legno […] Ricorsi a dettagli scelti alla rinfusa per colorarle e vestirle.» (AM, 86-7).

41 M

ANDOLINI, Telling the abuse, cit. 42

Ibidem. 43 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 298. 44 D

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I dettagli delle sagome, tutt‟altro che casuali, sono la marca distintiva tanto di Caserta quanto di Amalia: il soprabito di cammello (segno di una agiata condizione borghese) per lui, e il tailleur blu per lei45. Questi abiti sono per Delia la prova di una vita segreta della madre.46 Il cane lupo che portano al guinzaglio potrebbe essere Delia stessa, che, succube della cultura patriarcale, pensa di avere il dovere di sorvegliare la «madre infida», segnata da un‟aura di colpevolezza:

«[Delia] si è convinta, da piccola, che Amalia l‟ha messa al mondo solo per proiettarla fuori di sé, separarsene e darsi agli altri sregolatamente. Questo fantasma di Amalia è il punto di incrocio tra le ossessioni paterne e il senso di abbandono sperimentato da Delia bambina» (Fr, 25).

La morte della madre costringe allora Delia a fare i conti con la propria storia e a rimettere in discussione le finzioni memoriali su cui aveva eretto la propria soggettività47. Solo dopo la sua morte, il ricordo del trauma diviene liberatorio, e Delia può accedere a un‟altra immagine della madre, non veicolata dalle voci maschili, che le permette di vedere la sua posizione di oggetto e al contempo di soggetto narrante, avvicinandosi a ciò che Teresa de Lauretis intende per “de-ri-costruzione”.48

Il corpo di Delia tra repulsione e desiderio

L‟esperienza sessuale di Delia con Antonio, nipote dell‟uomo che l‟ha molestata da bambina e, insieme, amico d‟infanzia, viene letta da Nicoletta Mandolini come un mimetismo inconsapevole dello stupro in una situazione sicura49. La descrizione ambigua di questo episodio, infatti, mostra l‟alternanza tra controllo attivo e inerzia da parte di Delia, tra la resistenza all‟oggettivazione dell‟atto sessuale e la finale, ma sicura, ricollocazione in un ruolo di apatica passività.50 Quando Antonio cerca il contatto fisico, Delia è spaventata e insicura, e non sa se interpretare il suo comportamento come una semplice manifestazione di virilità o come un segnale di pericolo, ed esercita un controllo estremo sul suo corpo e sulle sue reazioni, espresso molto bene dalle scelte verbali: «dovevo», «intuivo», «sentivo», «non riuscivo», «temevo», «cercavo», «mi sedetti cautamente», «pensai», «avrei dovuto fingere»,

45 Quest‟abito è, per Delia, «la prova di un‟altra vita della madre, una vita segreta» F

ERRANTE, La Frantumaglia, p. 25.

46 Ibidem. 47 M

ANDOLINI, Una rivoluzione privata, cit. 48

PINTO, Poetiche e politiche della soggettività, cit., p. 21. 49 M

ANDOLINI, Telling the abuse, cit. 50 Ibidem.

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«non osai», «temevo», «bastava» (AM, 110-11). Quando realizza che Antonio non ha intenzioni violente, Delia regredisce a una condizione di totale passività: «Prima mi sedetti

cautamente e poi mi allungai remissiva» (AM, 111, corsivo mio). Totalmente immune al

desiderio, decide di aspettare che il suo corpo reagisca con una forma di difesa già sperimentata:51

«Seppi allora che non sarebbe accaduto niente di nuovo. Stava cominciando un rito ben noto a cui da giovane mi ero sottoposta spesso, sperando che cambiando uomo di frequente il mio corpo inventasse una volta o l‟altra risposte adeguate. La risposta invece era stata sempre la stessa, identica a quella che ora andavo articolando. […] Io non avevo nient‟altro che quel piacere diffuso, gradevole e tuttavia non urgente. Ero sicura da tempo che non avrei mai superato quella soglia» (AM, 110). L‟abuso subìto da Delia in età infantile ha eroso la sua soggettività femminile, ne ha distrutto l‟identità sessuale e annichilito il desiderio. E l‟incapacità di reagire agli stimoli le fa

percepire questo rapporto come un‟esperienza liminare alla morte:

«come sempre, non sentivo nessuna spinta ad aiutarlo, anzi stentavo a muovermi […] Non riuscivo a rispondere. Temevo che il respiro già lento mi si sarebbe fermato del tutto. Inoltre ero paralizzata da un imbarazzo crescente per i liquidi copiosi che stavo versando» (AM, 110).

Ferrante tiene a sottolineare che il corpo di Delia è incapace di elaborare una risposta perché è bloccato «in una sorta di rovescio programmatico della figura sessualmente densa che lei ha attribuito alla madre» (Fr, 27): alla iper-sessualizzazione di Amalia, cioè, la figlia reagisce con una «algida mascolinizzazione di copertura» (Fr, 51), per cui il suo corpo risulta un ingorgo «tra repulsione e desiderio» (Fr, 27). Ferrante descrive così il personaggio di Delia: «è una persona contratta in ogni muscolo, in ogni parola; gentile e gelata, affettuosa e distante. I suoi rapporti con gli uomini sono non esperienze, ma esperimenti per mettere alla prova un organismo strozzato: esperimenti tutti falliti» (Fr, 24). Penso che la sua «accondiscendenza senza partecipazione» (AM, 111), possa interpretarsi anche come un atteggiamento di inerzia rispetto all‟atto sessuale che, secondo Pierre Bourdieu, nell‟ottica maschile rappresenta una «forma di dominio, di appropriazione, di possesso».52 Questo punto di vista viene fuori, meglio che nel romanzo, nel film, dove Antonio – non nella stanza d‟albergo ma in una vasca termale – ha un approccio quasi violento con il corpo nudo di Delia. Quando la donna realizza che Antonio non ha reali intenzioni violente, si rilassa e regredisce in uno stato di inattività totale; immune al desiderio, il suo corpo reagisce con una

51 Ibidem. 52 P. B

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19 spiccata esperienza difensiva: l‟insensibilità53

. Di fronte al suo distacco, il partner si ritira allora rispettosamente, e quello che rimane a Delia è un‟esperienza dolorosa e umiliante: «Gli fui grata ugualmente per la dose minima di umiliazione e dolore che mi aveva inflitto» (AM, 116).

La descrizione delle esperienze di masturbazione giovanili di Delia ci appare scandalosa se pensiamo che la prima pubblicazione del romanzo risale all‟inizio degli anni novanta. È importante allora riflettere sul significato che ha voluto esprimere Elena Ferrante, fornendo una descrizione dell‟atto sessuale così disturbante: perché lo ha fatto? Perché in questi termini? Ci risponde in uno dei cinquantuno frammenti che costituiscono L’invenzione

occasionale, in particolare ne Il racconto del sesso, dove dichiara di voler raccontare il sesso

in modo diverso, tenendo conto dei bisogni e dell‟intimità della donna, senza prescindere dalla reale soddisfazione del desiderio femminile:

«La scena erotica, in linea di massima, è stata costruita intorno al desiderio degli uomini nei confronti del nostro corpo. Dalla lirica d‟amore alla serie televisiva siamo state rappresentate come la meta sospiratissima della loro passione. Lo sguardo maschile ci ha continuamente reinventate in funzione delle sue necessità sessuali […] prescindendo dalla reale soddisfazione del nostro desiderio. Da qualche tempo le cose sono mutate. […] Ma l‟impressione è che, anche senza volerlo, ci pieghiamo tuttora al racconto maschile del sesso. […] Forse il primo passo di reale frattura dovrebbe essere […] un racconto femminile che, pur dicendo dettagliatamente del sesso, non sia afrodisiaco, e perciò espliciti ciò che noi donne per pudore, per quieto vivere, per amore, sottaciamo»54.

Ferrante si prende la libertà di turbare il lettore con una prosa che espliciti proprio quello che le donne hanno sempre sottaciuto: la sgradevolezza dell‟atto sessuale, quello che nella quadrilogia Lila chiamerà “il fastidio di chiavare”. Allora, per citare Francesco Orlando,

L’amore molesto ci piace e coinvolge perché ci fa intuire una verità rimossa dal discorso

comune55. La logica del ritorno del represso orlandiano infatti prevede sempre che lo scrittore si ponga contro la sua epoca e non secondo la sua epoca56.

Ferrante e il movimento femminista

Attraverso la storia di Amalia e Delia, Ferrante si è inscritta all‟interno di una genealogia di narratrici che colloca al centro dell‟identità femminile la figura materna. L’Amore molesto

53 M

ANDOLINI, Telling the abuse, cit. 54 F

ERRANTE, L’invenzione occasionale, cit., pp. 33-4 55

BRUGNOLO, COLUSSI, ZATTI, ZINATO, La scrittura e il mondo – teorie letteraria del Novecento, Carocci editore, Roma, 2016, p. 254.

56 B

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sottopone Delia a un percorso di liberazione narrativa che Pinto assimila alla pratica di decolonizzazione dello sguardo elaborata dal femminismo radicale italiano.57

Nel 1972 si assiste a un evento epocale con lo spostamento del movimento femminista, volto verso gli Stati Uniti, all‟Europa: in Francia vengono organizzati tre incontri a cui partecipano donne italiane e francesi che identificano la connessione simbolica con il rapporto madre-figlia come primo e più importante rapporto, necessariamente gerarchico, tra donne, che la cultura patriarcale ha posizionato nell‟ambito dell‟impensato,58

dell‟inimmaginabile, l‟inedito, il non previsto e non prefigurato dalla società patriarcale.

In questo quadro, il movimento femminista vuole riappropriarsi sovversivamente di alcuni strumenti psicoanalitici e inventarne di nuovi, svicolando dalle forme di relazione con l‟altro che impone l‟ordine simbolico patriarcale. Francesca Giardini interpreta Speculum (1974) di Luce Irigaray come una sorta di manifesto della guerra condotta contro il pensiero occidentale e il suo fallocentrismo, in cui la filosofa fornisce delle indicazioni su come aprire a un pensiero differente sull'essere donna. Se – rileva – né il “padre” occidentale dell‟inconscio né nessun filosofo hanno mai creato uno spazio di pensiero in cui la donna possa dare forma alla sua esperienza, allora il femminile – in tutte le sue forme: la donna castrata, la madre fallica, la materia informe, la natura gratuita, l‟esclusa – vuole essere lo specchio, il supporto su cui il soggetto maschile possa ritrovarsi e riconoscersi uguale a se stesso.59 Non vuole più essere soltanto l‟Altro dell‟uomo, che serva a «mantenere in lui decaduto l‟organizzazione di un universo sempre identico a sé».60

Irigaray denuncia allora la distruzione della relazione genealogica tra madre e figlia ad opera del patriarcato, da cui scaturisce la mancanza nella nostra cultura della rappresentazione di questo rapporto, a vantaggio di quello madre-figlio. Insieme a Irigaray, Hèléne Cixous e Julia Kristeva pongono a confronto le assemblee del Sessantotto con i gruppi di autocoscienza, e rilevano lo scarto della presa di parola pubblica tra le due esperienze61. Da qui, il movimento femminista è voluto risalire alle condizioni strutturali alla base della gerarchia tra i sessi, a partire dall‟analisi delle strutture e dei blocchi delle relazioni tra donne che le irretiscono in una parola mai pienamente pubblica e politica.62 Le femministe francesi vogliono sciogliere il nodo della relazione tra madre e figlia, relazione che la psicoanalisi freudiana e lacaniana

57

PINTO, Poetiche e politiche della soggettività, cit., p. 19. 58Ibidem, p. 26.

59 F. G

IARDINI, “Speculum” di Luce Irigaray [1999], in “Diotima-La rivista”, 2, 2004, www.diotimafilosofie.it/wp-content/uploads/2017/09/2/-PADM_5.3.pdf.

60 L. I

RIGARAY, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, 1975, p. 131. 61

I. PINTO, Poetiche e politiche della soggettività, cit., p . 27. 62 F. G

IARDINI, Psicoanalisi e politica tra Francia e Italia, in “Attraversare i confini”, vol. X, 2012, pp. 65-83, p. 73.

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21 cataloga sotto il termine “isteria”.63

Il nucleo dell’Amore molesto è proprio il sovvertimento del corpo dell‟isterica, grazie al concetto di “genealogia femminile” proposto da Irigaray nella conferenza “Il corpo a corpo con la madre” del 1980, con cui vuole affermare “un venire al mondo di donne legittimate dal riferimento alla loro origine femminile”.64

Il rapporto tra Delia e Amalia si posiziona oltre le relazioni patriarcali, a indicare che c‟è un di più di esperienza tra le due che è rimasta in-significata, cioè fuori da uno spazio di pensiero in cui la donna possa trovare voce e dare forma alla propria esperienza.65 Con la morte di Amalia e la discesa negli inferi della città di Napoli di Delia, madre e figlia comunicano grazie a nuovi linguaggi, che superano le griglie patriarcali della psicoanalisi, di quelle freudiana come di quella lacaniana, per le quali l‟eccedenza femminile è mero elemento patogeno, isterico66. Se si leggono la sofferenza e il disordine enigmatico vissuti da Delia con gli strumenti del femminismo della differenza, alla luce dell‟interpretazione che dà Muraro del mito di Demetra e Kore sulla scia di Irigaray, la violenza patriarcale distrugge la relazione genealogica, e non c‟è spazio per una relazione positiva tra le due donne. L‟assenza di genealogie femminili – osserva Muraro – è necessaria per il mantenimento del dominio patriarcale, affinché il mondo delle donne possa essere risucchiato da quello degli uomini, che si nutre del materno-femminile e lo assimila a sé.67 Ferrante rielabora il mito di Demetra e Kore in maniera molto simile a quello sopra proposto, facendo coincidere la terra non più fertile con il corpo di Delia, un corpo androgino non per scelta ma perché incapace di provare piacere a seguito della violenza sessuale. L‟abuso subìto non permette infatti a Delia di significare la propria esperienza, se non ripetendo le angosce possessive del padre. La mancanza simbolica della relazione con la madre si traduce in odio verso Amalia, e genera una finzione sorretta dall‟imago (che nella terminologia lacaniana sintetizza la componente simbolica e quella dell‟immaginario) della madre propria della mentalità patriarcale e dalle sue fantasie e i suoi traumi di figlia.68

Ferrante riprende e riarticola la necessità politica e poetica di risignificare, attraverso la narrazione, la nascita e il periodo dell‟infanzia – e non la morte – quale luogo in cui riscoprire la “simbolicità non metaforica della madre”, ossia il luogo in cui è stato praticato prima di tutto l‟amore per la madre.69

L‟antica mitologia è prova, secondo Irigaray, dell‟«esistenza di una società ginecocratica prima del patriarcato. […] Il modo mitologico di

63 G

IARDINI, Psicoanalisi e politica tra Francia e Italia, p. 73 64 P

INTO, Poetiche e politiche della soggettività, p. 25. 65 Ibidem, p. 27.

66 Ibidem, p. 28 67

PINTO, Poetiche e politiche della soggettività, p. 28. 68 Ibidem, p. 29.

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narrare la storia dipende dal fatto che allora parola e arte non erano separate».70 Nel 1992 Christa Wolf individuava in Cassandra una discendente della Pizia di Delfi, portavoce dell‟oracolo, e mostrava come la patriarcalizzazione dei culti e dei miti fosse avvenuta attraverso la violenta detronizzazione delle genealogie femminili, subito sostituite con sacerdoti di sesso maschile provenienti dalla Creta Minoica.71 La mitopoiesi al femminile di Ferrante permette a Delia di «raccontare ciò che le era sembrato a lungo non raccontabile» (Fr, 62), ponendosi in modo alternativo rispetto alla tradizione mitologica e letteraria che racconta canonicamente il legame madre-figlia soltanto in funzione delle figure maschili.72 Attraverso una diversa meccanica della memoria, Delia può risignificare l‟inconscio e portare alla luce il lato femminile che aveva represso per essere riconosciuta dalla società patriarcale, che le impediva di parlare come una donna e raccontare la sua storia. Alla fine della narrazione Delia smaschera la verità politica dell‟oppressione subìta dalle donne, e costruisce una nuova soggettività che possa dirsi finalmente posizionata e sessuata.73

Vestiti, catàbasi e riconoscimento

Una volta a casa della madre, sente scorrere acqua copiosamente. Che Amalia possa aver lasciato il rubinetto aperto è un pensiero che la inquieta, in virtù dello stile di vita molto parsimonioso della madre, la quale appartiene «a una cultura tramontata che non concepiva sprechi» (AM, 29). Insolito è anche che il fatto che in bagno Delia trovi una busta della spazzatura ripiena di vecchia biancheria rattoppata:

«Dentro […] c‟era quel lezzo di corpo affaticato che conservano i panni sporchi o fatti di tessuto invecchiato, intrisi in ogni fibra degli umori di decenni […] vecchie mutande bianche e rosa, con molti rattoppi ed elastici antiquati che apparivano qua e là dalla stoffa cucita, come binari negli intervalli tra un tunnel e l‟altro; reggiseni sformati e usurati; canottiere bucate; elastici per tener su le calze, di quelli che si usavano fino a quarant‟anni fa e che lei conservava inutilmente; collant in uno stato penoso; sottovesti fuori moda e fuori commercio da tempo, stinte, coi merletti ingialliti. Amalia, che si era sempre vestita di stracci per povertà […] sembrava che avesse deciso all‟improvviso di sbarazzarsi di tutto il suo guardaroba» (AM, 30-1).

70 L. M

URARO, Le genealogie femminili, http://www.diotimafilosofe.it/wp-content/uploads/2017/10/2-PADM_5.2.pdf, p. 4.

71

PINTO, Poetiche e politiche della soggettività, p. 32. 72 Ibidem, p. 24.

73 M

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Questa insistenza sui dettagli della biancheria intima logorata è riconducibile alla «leggerezza pensosa» di Amalia che, giocando con le «stoffe vuote» della propria vita (AM, 130), cerca di riparare i propri traumi e le proprie lacerazioni.74 Caserta chiede a Delia questa busta in cambio di una valigia che lascia davanti la porta dell‟appartamento. Valigia che, sapremo dalla signora De Riso, come in un thriller che si rispetti, non è mai stata trovata. Lo strano incontro sul pianerottolo con Caserta dà avvio a una smarginatura dalla sorveglianza repressiva e dalle sue false sicurezze della protagonista, che non riesce ad assecondare l‟istinto di seguire l‟uomo:75

«esitai a seguirlo su per le scale: pensai di doverlo fare ma mi sentii inchiodata al pavimento come una statua» (AM, 42).

Inizia a questo punto la caccia al tesoro che la madre ha organizzato per il suo compleanno. Dal bagaglio Delia estrae della biancheria nuova, due abiti – uno rosso-ruggine e uno blu – una vestaglia color cipria e degli slip. La constatazione di una lacerazione su un fianco degli slip provoca in lei un forte malessere:

«Sentii che lo stomaco mi si contraeva e trattenni il respiro» (AM, 47); «in bagno […] non riuscii più a trattenere i conati di vomito e per qualche secondo ebbi paura che tutto il corpo si scatenasse contro di me, con una furia autodistruttiva che da bambina avevo sempre temuto e che avevo cercato di governare crescendo» (AM, 48).

Questo sentimento di disgusto veicola l‟angoscia per l‟intrusione di Amalia nella sua intimità. La biancheria lacerata evoca un‟appropriazione divorante della madre e del suo universo erotico, che entrando con violenza negli indumenti della figlia ne deforma l‟interiorità.76

Il disgusto è uno strumento fondamentale della sua introspezione, perché la rottura o lo scivolamento dei confini e la conseguente labilità della linea di confine fra esterno e interno incrinano la compattezza difensiva del suo io. Questa sensazione le fa oltrepassare la soglia della ripugnanza e le permette di rinegoziare il legame madre/figlia collocandosi in una posizione flessibile, scivolosa tra interno ed esterno delle norme sociali, culturali.77 In questa stessa direzione va la maschera della cosmesi: sia Delia che Amalia non si truccano quasi mai, eppure Amalia ha intorno agli occhi residui di un trucco molto pesante quando viene trovato il suo corpo, e senza un nesso esplicito Delia reagisce al disgusto truccandosi con il beauty che trova nella valigia: «Era una reazione inconsueta. Non mi truccavo né spesso né volentieri.» (AM, 48). È questo il primo (o il secondo, se contiamo il ciclo mestruale) segno della sua metamorfosi. Guardandosi allo specchio Delia crede di

74 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 312. 75

DE ROGATIS, Parole chiave, cit., p. 105. 76 D

E ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, cit., p. 311. 77 Ibidem, pp. 307-8.

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vedere alle sue spalle il fantasma della madre: «“Sei un fantasma” […] “Non ti assomiglio”» (AM, 48-9). De Rogatis parla allora di resistenza di Delia al processo di reciproca empatia che la «maschera del trucco» (AM, 95) innesca.78 Secondo la filologa Kerényi, infatti, la maschera instaura un contatto tra i vivi e i morti, in quanto strumento di trasformazione unificatrice.79 La caccia al tesoro prosegue con la tappa al negozio delle sorelle Vossi, marchio del reggiseno che Amalia indossava quando è stato ritrovato il suo corpo, e della biancheria nuova della valigetta. Nel camerino del negozio Delia si ritrova a indossare il primo dei vestiti, quello rosso, e si stranisce nel constatare che è la misura giusta per lei: «Mi tolsi stancamente il vestito del funerale […] Dopo un attimo di incertezza sfilai anche le mutande di mia madre che avevo messo la sera prima e indossai quelle di pizzo che avevo trovato nella sua borsetta. Erano esattamente la mia misura. Passai perplessa un dito lungo lo strappo sul fianco che Amalia probabilmente aveva causato infilandosele e poi feci passare per la testa l‟abito color ruggine» (AM, 70, corsivo mio).

Successivamente, nell‟estrarre il documento d‟identità di Amalia per sottoporre la foto-tessera al proprietario del negozio – che non sa ancora essere Antonio – Delia si accorge che i tratti del viso e i capelli della fototessera sono stati alterati:

«I lunghi capelli baroccamente architettati sulla fronte e intorno al viso erano stati accuratamente raschiati via. Il bianco emerso intorno alla testa era stato mutato con una matita in un grigio nebuloso. Con la stessa matita qualcuno aveva lievemente indurito i lineamenti del viso. La donna nella foto non era Amalia: ero io» (AM, 72).

Se prima dell‟inseguimento sulla funicolare Delia non si sente padrona del suo corpo: «Mi sentivo […] affannata, cioè, coi movimenti troppo veloci e scarsamente coordinati, la fretta di chi fruga dappertutto e non ha tempo da perdere» (AM, 73-4), nella stanza d‟albergo dove si reca con Antonio riacquisisce il controllo di se stessa e, instaurando un legame con la maschera della cosmesi precedente, si prepara a riconoscersi in quanto identità relazionale disposta ad accettare la propria interdipendenza rispetto all‟Altro materno.80

Mi pare significativo, alla luce di quanto detto sopra, che questo processo di consapevolezza avvenga sotto l‟acqua:

«Mi accorsi con soddisfazione che riuscivo a dominare la necessità di affrettarmi. Ero separata da me: la donna che voleva essere scoccata via a occhi sbarrati era osservata spassionatamente dalla donna sotto l‟acqua. […] Mia madre, che da anni esisteva solo come un‟incombenza fastidiosa, a

78

DE ROGATIS, Elena Ferrante e il Made in Italy, p. 308. 79 K. K

ERÉNYI, Uomo e maschera, in Riti e misteri, Bollati, Boringhieri, Torino, 2000, p. 342. 80 M

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volte come un assillo, era morta. Ma mentre mi strofinavo il viso rigorosamente, in specie intorno agli occhi, mi resi conto con tenerezza inattesa che invece Amalia avevo sotto la pelle, come un liquido caldo iniettato chissà quando. […] Vidi mia madre così come figurava sulla sua carta d‟identità e le sorrisi» (AM, 104-5).

Dopo la doccia, guardandosi allo specchio, Delia riconosce Amalia, e per la prima volta accoglie con serenità questa somiglianza, sentendosi bella. Nelle tasche della vestaglia rosa, insieme a un biglietto di auguri firmato dalla madre, trova tracce di sabbia, e capisce allora che Amalia aveva voluto modellare su di sé quegli indumenti, lasciandoglieli in eredità, insieme alla concezione che «i vestiti definiscono e migliorano il corpo di una donna», invece di degradarlo81.

«Poi indossai la vestaglia di raso e per la prima volta nella mia vita, malgrado quel detestabile color cipria, ebbi l‟impressione di essere bella […]. Capii all‟improvviso che il contenuto della valigia non era destinato a lei ma a me. […] Me ne resi conto di colpo come se fosse la vestaglia stessa sulla pelle a raccontarmelo. Infilai le mani nelle tasche, certa che vi avrei trovato il biglietto d‟auguri. Infatti era lì, preparato apposta per sorprendermi. […] Rimisi le mani in tasca e scoprii che nel fondo c‟era un lieve strato di rena. Mia madre aveva indossato quella vestaglia prima di annegarsi» (AM, 105-6).

Come «una figura delle carte napoletane: l‟otto di spade, la donna tranquilla e armata che avanza a piedi, pronta a mettersi in gioco durante una partita di briscola» (AM, 131), Delia attraversa il cavalcavia che Amalia percorreva per consegnare i guanti, e che lei era convinta fosse lo scenario dei tradimenti della madre, e inizia ad avvertire l‟instabilità della realtà su cui aveva fantasticato sulla base del la tacita alleanza con la retorica patriarcale. Delia entra in casa del padre nel ruolo di spettatrice e critica dell‟arte con questa dichiarazione: 82

«Il mare non può essere azzurro se il cielo è rosso fuoco» (AM, 140), e ritrova il quadro che aveva rievocato davanti la vetrina del negozio Vossi descrivendo i profili quasi sovrapposti di due donne con gli arti troncati dalla cornice:

«Due donne, i cui profili quasi si sovrapponevano, tanto erano vicine e impegnate negli stessi movimenti, correvano a bocca spalancata, da destra verso la sinistra della tavola. Non si poteva sapere se inseguivano o se erano inseguite. L‟immagine sembrava segata via da uno scenario molto più ampio, sicché delle donne non si vedeva la gamba sinistra e le loro braccia tese erano troncate ai polsi.» (AM, 65).

81 L. M

ULLENNEAUX, Burying mother’s ghost, Forum Italicum, 41(1), 2007, p. 248. 82 M

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