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Attività Motoria Adattata nella Neuropatia Sensitivo-Motoria ereditaria degli Arti Inferiori

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Academic year: 2021

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Dipartimento di medicina Clinica e Sperimentale

Direttore: Prof. Mario Petrini

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE E

TECNICHE DELLE ATTIVITÀ MOTORIE

PREVENTIVE E ADATTATE

Presidente: Prof. Fabio Galetta

“Attività Motoria Adattata nella Neuropatia

Sensitivo-Motoria ereditaria degli Arti Inferiori”

Candidata

Carlotta Baldasserini

____________________

Relatore

Chiar.mo Prof. Alberto Franchi

_______________________

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INDICE

INDICE ... 3

Introduzione ... 4

1. Attività motoria adattata con disabilità ... 6

2. Neuropatia ... 8

2.1. I Nervi ... 8

2.3. Sintomatologia ... 10

2.3.1. Debolezza alle braccia e alle gambe ... 10

2.3.2. Intorpidimento, formicolio, dolore ... 10

2.3.3. Assenza del senso di posizione ... 11

2.3.4. Sensazioni di guanti e calzini ... 11

2.3.5. Danno alle fibre autonomiche ... 11

2.4. Cause di neuropatia ... 11

2.4.1. Le neuropatie acquisite ... 11

2.4.2. Le neuropatie ereditarie ... 15

2.5. La Malattia di Charcot Marie Tooth ... 16

3. Età evolutiva ... 20

4. Inclusione scolastica e sociale ... 23

5. Studio di un caso ... 29

5.1. Esame morfologico e funzionale ... 33

5.2. Il grado di escursione articolare e di allungamento ... 33

5.3. Le capacità condizionali ... Error! Bookmark not defined. 5.4. Le capacità coordinative ... Error! Bookmark not defined. 5.5. Esame morfologico e funzionale del caso ... 35

5.6. Test di Valutazone preliminare ... 40

5.6.1. Test di flessibilità ischio-crurali ... 40

5.6.2. Test del quadricipite ... 41

5.6.3. Test in posizione diamante ... 42

5.7. Protocollo di lavoro personalizzato (esercizi di attività motoria adattata) ... 44

5.7.1. Esercizi con pallina da tennis ... 44

5.7.2. Esercizi Flesso-estensione per piedi... 46

5.7.3. Esercizi alla spalliera ... 46

5.7.4. Esercizi di mobilizzazione per il ginocchio ... 47

5.7.5. Esercizi di allungamento ischio-crurali ... 48

5.7.6. Allungamento ileo-psoas ... 50 5.7.7. Allungamento adduttori ... 52 5.8. Monitoraggio in itinere ... 55 5.9. Verifica finale ... 56 Conclusioni ... 59 Bibliografia ... 60

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Introduzione

Nel corso dell’anno accademico 2015-2016 ho seguito un tirocinio sulla didattica e le metodologie dell’allenamento e delle attività sportive adattate, un tirocinio che è stato per me estremamente interessante, istruttivo e coinvolgente.

Il corso era tenuto dal Prof. Franchi, docente appunto di “Teoria, tecnica, didattica e

metodologia delle attività sportive adattate”.

Lavoravo in quello stesso periodo nell’ambito dei servizi sociali presso una scuola elementare, dove mi prendevo cura di alunni afflitti da disabilità varie, sulle quali per altro potevo incidere in misura veramente modesta, sia a causa del numero di alunni da seguire (troppo elevato per poter fare un lavoro individuale), sia a causa del poco tempo a disposizione. Mi sono così trovata contemporaneamente a vedere da vicino, “dal vero” molti dei casi problematici di cui, fino a quel momento, avevo più che altro letto o sentito parlare. In particolare ho avuto modo di conoscere un ragazzino di 17 anni che frequentava il 3° anno di un istituto superiore, affetto da neuropatia sensitiva degli arti inferiori. È da qui che è partito il desiderio di approfondire le mie conoscenze sull’argomento “neuropatia”, sulla storia clinica di quel ragazzo, sui problemi della disabilità, e soprattutto il mio desiderio di adoperarmi per aiutare persone come quel ragazzo a convivere meglio con la propria disabilità e a superarla almeno un po’ grazie ad opportuni esercizi adattati alle condizioni individuali.

È da qui che nasce la scelta di fare la mia tesi di laurea su questo argomento. Il mio lavoro parte quindi con una descrizione della neuropatia, una patologia che, se non è ereditaria, è in “agguato” per tutti noi perché, come ho descritto nel capitolo relativo, è spesso conseguenza di abuso di alcolici, di deficit nutrizionali, malattie sistemiche, di farmaci, etc…

Mi sono soffermata sulla malattia di Charcot-Marie-Tooth, perché è quella la neuropatia di cui soffre il ragazzo. Un capitolo riguarda l’età evolutiva, uno l’inclusione scolastica e sociale

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di disabili, uno è interamente dedicato al caso particolare, comprendente anche l’esame morfologico funzionale preventivo al programma di esercizio fisico che ho previsto per lui, il programma stesso e l’esame di verifica per la constatazione dei risultati ottenuti.

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1. Attività motoria adattata con disabilità

L'attività motoria adattata è un'attività motoria pensata, stabilita e plasmata per il soggetto al quale si vuol far svolgere. Ha lo scopo di migliorare la qualità della vita di un soggetto, portandolo ad interagire al meglio con ciò che è, e con ciò che lo circonda. Per riuscire in questo intento occorre innanzitutto che il soggetto conosca se stesso, il proprio corpo e le sensazioni che da esso derivano, ne prenda padronanza e lo gestisca nelle varie situazioni di “esperienza di vita”. Ma non si pensi che si tratti di semplice esercizio fisico.

Non si può infatti non condividere quello che il Prof. Franchi dice nel suo libro “Attività

Fisica Adattata“ a proposito della sostanziale differenza fra esercizio fisico, cioè atto motorio

voluto e precisato, e ginnastica, la scienza che studia l'esercizio fisico e gli effetti che con esso si possono produrre sull'organismo umano; fra sport praticato per gareggiare e vincere ed Educazione Fisica praticata per il conseguimento e il mantenimento della buona salute. Sport ed Educazione Fisica possono condividere mezzi e tecniche, ma perseguono scopi ben diversi.

Il principio dell'Educazione Fisica, e perciò delle Scienze Motorie, è:

 dare opportunità di movimento, favorire al massimo la motricità volontaria, specialmente se ci stiamo occupando di soggetti che possono anche star fermi tutto il giorno in una carrozzina;

 compensare la mancanza di movimento naturale con una appropriata attività motoria adattata.

 prevenire le deformità e trattare quelle esistenti, migliorando la qualità della vita, visto che le deformazioni generano dolore e con il movimento si attenua il dolore articolare e muscolare.

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L'obbiettivo generale da perseguire è il mantenimento di un buono stato di salute e il raggiungimento e il mantenimento di un soddisfacente grado di autonomia personale.

Ma ricordandoci che il concetto di “star bene” è un concetto dinamico, da custodire e difendere come un prezioso tesoro, l'obbiettivo più specifico è quello di sviluppare, migliorare, consolidare, mantenere le capacità psicomotorie. Naturalmente tutto questo deve tener conto dell'età del soggetto. Un protocollo di lavoro per un soggetto in età evolutiva non può essere uguale, quanto meno per la tempistica, al protocollo di lavoro pensato e predisposto per un soggetto in età adulta, o in terza età.

Fondamentale per l'ottenimento di un'apprezzabile autonomia personale ritengo sia, ancor prima di qualsiasi attività motoria, una corretta respirazione. Anche persone normo-dotate, ma specialmente persone con disabilità, possono presentare difficoltà respiratorie, ed è bene migliorare la loro funzionalità respiratoria attraverso un protocollo mirato, prima di intraprendere un'attività motoria.

Il protocollo di lavoro mirato per quanto riguarda la respirazione si articola in vari step: 1. Presa di coscienza

2. Apnee controllate 3. Respirazione controllata 4. Respirazione a narici alternate

5. Respirazione addominale – toracica – clavicolare.

Quanto al metodo di lavoro faccio tesoro di quanto riporta nel già citato libro il Prof. Franchi allorché dice di applicare il metodo globale, cioè l'esecuzione di un'azione motoria nella sua globalità, quindi così come viene, per passare, con il procedere dell'allenamento, al metodo analitico, che scompone l'azione motoria in più movimenti per arrivare all'esecuzione corretta dell'azione motoria da eseguire.

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2. Neuropatia

Il sistema nervoso consta di due componenti: il sistema nervoso centrale, costituito da encefalo e midollo spinale, e il sistema nervoso periferico, costituito da nervi che connettono il sistema nervoso centrale alla periferia, cioè a cute, articolazioni, tendini, muscoli, visceri, etc. “Periferico” perché, appunto, “lontano dal centro”, proprio per indicare la funzione che i nervi hanno di collegare il sistema nervoso centrale, il cervello, agli organi periferici. Il sistema nervoso periferico è la parte danneggiata in caso di neuropatia. Neuropatia è quindi il termine che descrive disturbi conseguenti a un danno dei nervi periferici. Una neuropatia dà sintomi o segni di malattia se ostacola il passaggio di informazioni dal cervello ai muscoli striati o lisci (veicolate dalle fibre motorie e vegetative) e dalla periferia al centro.

2.1.

I Nervi

L’unità base del sistema nervoso periferico è il “neurone” o cellula nervosa. Esso ha il compito di inviare informazioni da una parte all’altra del corpo attraverso impulsi elettrici. Ciascun nervo è costituito da un corpo cellulare e da un lungo prolungamento, l’assone. L’assone conduce gli impulsi dal corpo cellulare alla periferia, dove entra in contatto con strutture specializzate, i recettori, presenti nella cute, nei muscoli e negli organi interni. Molti assoni sono avvolti da una membrana, chiamata “guaina mielinica”, che permette agli impulsi elettrici di trasmettersi più velocemente e in modo efficiente. Gli assoni viaggiano uniti in tronchi nervosi che raggiungono le varie parti del corpo umano come fossero i cavi di un complesso “circuito elettrico”.

In base al tipo di fibre che contengono si hanno tre tipi di nervi:  Nervi motori: responsabili dei movimenti volontari

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 Nervi sensitivi: che ci fanno percepire il dolore, ci permettono di sentire le vibrazioni, di avere sensazioni tattili, di riconoscere le forme degli oggetti, di conoscere la posizione di parti del nostro corpo nello spazio.

 Nervi vegetativi: detti anche autonomici, che controllano funzioni involontarie, cioè funzioni che non sono sotto il controllo della volontà, come il respiro, il battito cardiaco, la pressione arteriosa, le funzioni digestive, le funzioni sessuali. Lavorano sempre in maniera autonoma, indipendentemente dal fatto che dormiamo o siamo svegli.

Sebbene molte neuropatie interessino, in misura diversa, tutti e tre i tipi di fibre nervose, in alcuni casi solo uno o due tipi di fibre sono interessate, e si parla quindi di neuropatie motorie, neuropatie sensitive, neuropatie vegetative.

1.2

Mono o Polineuropatie

La malattia di un singolo nervo periferico è detta mononeuropatia. La mononeuropatia colpisce un singolo nervo in una area ben definita. Essa è spesso la conseguenza di una lesione traumatica, di una compressione locale con schiacciamento del nervo, o di processi infiammatori o ischemici. In tal caso la sintomatologia è localizzata e limitata alla zona di innervazione del nervo leso. Esempi di mononeuropatie sono la sindrome del tunnel carpale e la paralisi di Bell.

La sindrome del tunnel carpale è la conseguenza di una compressione del nervo mediano

nel suo passaggio al livello del polso. La compressione del nervo può essere secondaria a un eccessivo uso del polso, o a processi infiammatori; talora sono presenti condizioni sottostanti quali diabete, artrite reumatoide, acromegalia.

La paralisi di Bell è un disturbo del 7° nervo cranico (nervo facciale) che contiene fibre

motorie per i muscoli mimici della faccia e fibre vegetative. La causa di questo disturbo è sconosciuta nella maggior parte dei casi. Si manifesta con asimmetria delle labbra, la bocca, cioè, appare storta verso sinistra o verso destra, e l’occhio dalla stessa parte della deformazione della bocca viene chiuso con difficoltà. Qualche volta si associano disturbi dell’udito e del gusto. Il danno neuropatico può aver interessato solo la guaina mielinica del

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nervo (prognosi più favorevole) o anche l’assone (prognosi meno favorevole), per cui si richiederà un tempo più lungo (da 1 a 6/7 mesi) per il recupero, che comunque nella maggior parte dei casi avviene spontaneamente. Se i disturbi si manifestano in aree distinte e interessano due o più nervi, si parla di mononeurite multipla. Sono disturbi che si presentano, in genere, nel corso di malattie sistemiche, come ad esempio, il diabete o malattie reumatologiche.

Polineuropatia è il nome generico che raggruppa la maggior parte delle neuropatie

periferiche. C’è un interessamento bilaterale e simmetrico dei nervi periferici, cioè i disturbi si manifestano in entrambi i lati del corpo a cominciare dalle mani e dai piedi. A seconda che siano offesi i nervi motori, sensitivi o tutti e due si parla di neuropatia motoria, sensitiva o mista.

2.3. Sintomatologia

Alcune neuropatie si manifestano all’improvviso, altre invece si manifestano gradualmente, nell’arco di anni. I sintomi ovviamente dipendono dal tipo di fibre nervose interessate (motorie, sensitive, vegetative) e dalla loro localizzazione, e si tratta in genere di debolezza, formicolii e dolore.

2.3.1. Debolezza alle braccia e alle gambe

La debolezza è un sintomo che rivela una compromissione dei nervi motori. Se sono colpiti gli arti inferiori si potrà manifestare un senso di pesantezza alle gambe, affaticabilità,

difficoltà nel camminare o nel salire le scale. Se sono colpiti gli arti superiori si potrà provare fatica anche nel compiere piccole operazioni da casalinga; magari svitare il coperchio di un barattolo, o portare la borsa della spesa, o anche soltanto aprire una porta.

2.3.2. Intorpidimento, formicolio, dolore

Quando la lesione riguarda i nervi sensitivi i sintomi possono essere molto diversi. Si possono avere sensazioni spontanee come formicolii, intorpidimenti, prurito, bruciori,

sensazione di bucature di spilli, fitte dolorose, scosse elettriche: si parla di parestesie, disturbi che di solito peggiorano di notte. Si possono anche avere sensazioni sgradevoli, reazioni diverse dal normale, scatenate da stimoli tattili (disestesie) o riduzione della sensazione

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(ipoestesia) o addirittura scomparsa della sensazione (anestesia). Così può avvenire che una persona si ferisca, si tagli o si scotti senza rendersene conto.

2.3.3. Assenza del senso di posizione

È un disturbo che rende scoordinati e insicuri nel camminare. Oppure ci si può rendere conto di avere modificato il modo di camminare, senza peraltro capire come e perché. Talvolta si cammina “trascinando” i piedi, oppure si cammina spostandosi da destra a sinistra

nell’inconsapevole tentativo di mantenere l’equilibrio 2.3.4. Sensazioni di guanti e calzini

Benché mani e piedi siano completamente nudi la persona ha la sensazione di indossare guanti, calzini o ciabatte.

2.3.5. Danno alle fibre autonomiche

Una lesione alle fibre autonomiche può dare vertigini, instabilità quando si è in piedi. Ma può anche dar luogo a costipazione, diarrea, disfunzioni sessuali, assottigliamento della pelle.

2.4. Cause di neuropatia

Le neuropatie si suddividono in due grandi gruppi:

Le neuropatie acquisite, che derivano da malattie acquisite nel corso della vita.

Le neuropatie ereditarie, che derivano da anomalie genetiche.

La maggior parte delle neuropatie appartiene al gruppo delle neuropatie acquisite, e le cause che le determinano sono diverse.

Quando non si conosce la causa della neuropatia, si parla di neuropatie “idiopatiche”.

2.4.1. Le neuropatie acquisite

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puó manifestare nel corso della malattia, talvolta abbastanza precocemente. Si manifesta con dolori e parestesie a cui si associano talvolta disturbi autonomici poiché si tratta, in genere, di neuropatia sensitiva.

 Alcool e altre sostanze tossiche. Una delle cause frequenti di neuropatia è l’abuso di alcool, ma anche altre sostanze tossiche possono danneggiare i nervi. Ad esempio il piombo, che può provocare una neuropatia motoria, o l’arsenico e il mercurio, che possono provocare una neuropatia sensitiva.

 Deficit nutrizionali. Le neuropatie causate da deficit nutrizionali sono in genere classificate come neuropatie carenziali. Un regime dietetico inadeguato o un problema di malassorbimento da parte dell’apparato digerente, a livello gastrico o intestinale, possono determinare deficit di vitamina B12, B1 (tramina), B6 (piridossina) o di vitamina E e questo può provocare polineuropatie con degenerazione assonale.  Malattie sistemiche. Molte condizioni sistemiche, oltre al già citato diabete, possono avere manifestazioni neuropatiche. Per esempio epatopatie, alterazioni endocrine, insufficienza renale e altre possono associarsi a neuropatie.

 Malattie autoimmuni. Il compito del sistema immunitario sarebbe quello di proteggere l’organismo da agenti infettivi esterni, ma talvolta, per ragioni sconosciute, esso attacca parti del nostro organismo facendo insorgere malattie auto-immuni. Se gli organi attaccati sono i nervi periferici possono insorgere neuropatie immuno-mediate, cioè, appunto, causate da una alterazione del sistema immunitario.

Le più comuni malattie immuno-mediate sono: o SINDROME DI GUILLAIN-BARRÈ.

Si tratta di una poliradicolonevrite acuta che può rapidamente entro pochi giorni, evolvere in paralisi totale e insufficienza respiratoria. È spesso preceduta da infezioni o vaccinazioni che vengono ritenute fattori “scatenanti”. Si risolve spontaneamente entro 6-8 settimane, purché sottoposta a precoce

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trattamento terapeutico, ma lascia talvolta degli esiti. Una variante della Guillain- Barrè è la sindrome di Miller-Fisher.

o SINDROME DI MILLER-FISHER.

Si manifesta con “caduta” delle palpebre, cioè la ptosi palpebrale e andatura instabile, cioè atassia.

o POLIRADICOLONEVRITE INFIAMMATORIA DEMIELINIZZANTE

CRONICA.

È praticamente la variante cronica della Guillain-Barrè e può manifestarsi con attacchi ripetuti oppure presentarsi con un andamento lentamente progressivo. o NEUROPATIE CRONICHE.

Con anticorpi verso i nervi periferici. In alcune neuropatie si sono identificati anticorpi diretti contro specifici componenti del nervo periferico, per esempio la MAG, cioè la Glicoproteina Associata alla Mielina o i gangliosidi (GM1; GD1a; GD1b).

o NEUROPATIE ASSOCIATE A VASCULITI.

La vasculite è un’infiammazione dei vasi sanguigni che può interessare sia i vasi diretti ai nervi periferici che quelli diretti ad altri organi. Se l’infiammazione interessa i vasi diretti ai nervi periferici si possono determinare piccoli “infarti” dei nervi, che danno luogo ad una neuropatia vasculitica. Sono associate alla vasculite inoltre malattie reumatologiche, come l’artrite reumatoide, il lupus critematoso sistemico, la panarterite nodosa. A seconda dell’entità delle lesioni, la vasculite può causare neuropatie, mononeuriti o mononeuriti multiple.

o NEUROPATIE ASSOCIATE A GAMMOPATIE MONOCLONALI. Nelle gammopatie monoclonali singoli cloni di linfociti B o plasmacellule nel midollo osseo o negli organi linfoidi si espandono e formano tumori, benigni o

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maligni, che secernono anticorpi. Un singolo clone di linfociti B produce un solo tipo monoclonale di anticorpi (o gammaglobuline). Da qui il nome di gammopatia monoclonale. In alcuni casi gli anticorpi reagiscono contro componenti di nervi periferici, in altri casi frammenti di anticorpi si depositano nei tessuti formando “amiloide”.

 Tumori. Un’infiltrazione diretta dei nervi da parte di cellule tumorali o un effetto indiretto, a distanza, del tumore può determinare una neuropatia. Nel secondo caso, cioè quando il tumore agisce per effetto indiretto, si parla di “sindrome paraneoplastica”.

 Amiloidosi. L’amiloide è una sostanza che depositandosi nei nervi periferici interferisce con la loro funzione. La malattia si chiama amiloidosi e ne esistono vari tipi:

o amiloidosi primaria, spesso associata a gammopatie monoclonali omieloma, nella quale i depositi di amiloide sono costituiti da frammenti di anticorpi monoclonali.

o amiloidosi cosiddetta familiare, nella quale i depositi di amiloide contengono una forma anomala di una proteina. Ma in questo caso la neuropatia che si instaura è ereditaria.

 Agenti infettivi. Una neuropatia può essere causata anche da virus e batteri. Uno dei virus che causano neuropatie è l’Herpes Zoster, responsabile del “fuoco di S. Antonio”. Il virus dell’AIDS, lo HIV-1, causa varie forme di neuropatia, tra le quali dolorose neuropatie sensitive; il Citomegalovirus è responsabile di poliradicolanevriti che si aggravano rapidamente, soprattutto in soggetti immunodepressi; anche l’epatite B e C sono talvolta associate a neuropatia. Delle infezioni batteriche che causano neuropatie, una delle più note è la lebbra, che causa una neuropatia sensitiva; un’altra è la difterite, che causa una neuropatia paralitica rapidamente ingravescente.

 Farmaci. Sono molti i farmaci che possono provocare neuropatie; il più diffuso è forse l’amiodarone, usato nelle aritmie cardiache, ma anche farmaci usati in alcune patologie renali, farmaci antitumorali, farmaci usati per tenere sotto controllo l’alcolismo.

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 Trauma o compressione. Un trauma esterno o la compressione da parte di tendini o di altri tessuti circostanti può causare una neuropatia localizzata. Sono note la sindrome del tunnel carpale, causata dalla compressione del nervo mediano al polso, e la radiculopatia lombo-sacrale, nota come “sciatica”, causata dalla compressione delle radici dei nervi al loro punto di uscita a livello della colonna vertebrale. Altre zone nelle quali può frequentemente determinarsi una compressione dei nervi sono il gomito e il dorso del ginocchio. Per le neuropatie per le quali non si può identificare una causa si usa la definizione “Neuropatia idiopatica”. Anche le neuropatie idiopatiche possono essere motorie, sensitive o miste.

2.4.2. Le neuropatie ereditarie

Le neuropatie ereditarie sono causate da alterazioni genetiche che vengono trasmesse di generazione in generazione. Il difetto genetico è spesso noto, e quindi accertabile attraverso test diagnostici già disponibili.

Nell’ambito delle neuropatie genetiche si distinguono forme degenerative e forme metaboliche, ciascuna delle quali può essere a difetto genetico noto o ignoto.

Nel caso in cui il gene responsabile non sia stato ancora identificato si fa riferimento, se è noto, al “locus”, cioè il sito su un determinato cromosoma in cui risiede il gene; talvolta però non è noto neppure il “locus”.

In base alle fibre nervose selettivamente o prevalentemente coinvolte le neuropatie genetiche si distinguono in tre gruppi:

 Neuropatie sensitivo-motorie: Sono forme nelle quali l’alterazione interessa sia le fibre motorie sia quelle sensitive, o per un’alterazione metabolica o per un processo degenerativo.

 Neuropatie motorie: Sono forme in cui sono alterate solo le fibre motorie, verosimilmente per la degenerazione dei motoneuroni spinali che hanno l’assone più lungo, cioè quelli che inviano l’impulso ai muscoli più lontani dal centro.

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 Neuropatie sensitive ed autonomiche: Sono forme assai rare nelle quali l’alterazione riguarda le fibre sensitive e quelle del sistema neurovegetativo, per cui i pazienti vanno soggetti ad ulcerazioni, mutilazioni, fratture.

Le neuropatie ereditarie più frequenti sono le HSMN (Hereditary Sensory Motor Neuropathy) un tempo conosciute come Malatia di Charcot-Marie Tooth, da cui l’acronimo CMT. Sono state recentemente riclassificate con l’acronimo HSMN e ne esistono numerosi sottotipi, distinti in base alle caratteristiche cliniche e alle alterazioni genetiche che presentano.

2.5. La Malattia di Charcot Marie Tooth

Sono trascorsi ormai 130 anni da quando Jean Martin Charcot e Pierre Marie in Francia e Howard Henry Tooth in Inghilterra, nel 1886, descrissero contemporaneamente una sindrome neurologica riscontrata in alcune famiglie e da essi definita “atrofia muscolare peroneale”. Nei loro reports gli autori si soffermarono sulla descrizione delle principali caratteristiche della patologia, inclusa l'ereditarietà, le deformità scheletriche, la progressiva atrofia e debolezza muscolare distale, attribuendo tutto ciò ad un disordine del nervo periferico. Alcuni anni più tardi, nel 1893 Déjérine e Sottas descrissero una neuropatia più severa insorta nella prima infanzia in due fratelli, caratterizzata da ipertrofia del nervo. Tanti altri studiosi hanno contribuito alla razionale classificazione di questo complesso gruppo di disordini neuromuscolari. Oggi si sa molto sulla malattia di Charcot-Marie-Tooth, ma certo non tutto e sempre nuove osservazioni allargano più e più il campo d'indagine e le possibilità terapeutiche. Genericamente si parla di Neuropatie Ereditarie Sensitivo Motorie, ma la CMT è una malattia molto eterogenea da un punto di vista genetico; comunque il fenotipo clinico è relativamente omogeneo, caratterizzato da atrofia e debolezza dei muscoli distali degli arti, in modo particolare del compartimento peroneale (da qui la vecchia dizione di “atrofia

muscolare peroneale”), associata a perdita della sensibilità distale, deformità scheletriche,

quali piede cavo e dita a martello, e riduzione o scomparsa dei ROT. ROT è l’acronimo di Riflessi Osteo-Tendinei, cioè riflessi nei quali il movimento di risposta, cioè la contrazione involontaria, brusca o breve di un muscolo, si ottiene in seguito a uno stimolo, a una leggera

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percossa su un tendine o su un osso. I più noti sono il rotuleo, l’achilleo, il riflesso degli adduttori, il radiale, ecc…

Le mutazioni genetiche alla base delle diverse forme di CMT coinvolgono geni che codificano proteine strutturali della mielina, proteine che formano elementi del citoscheletro, enzimi e fattori di trascrizione. Anche se l’alterazione di queste proteine interessa in via primaria la mielina, essa porta comunque, in seconda istanza, ad una degenerazione assonale che dipende dalla durata della patologia. Il decorso della CMT è caratterizzato da un primo interessamento della muscolatura distale degli arti inferiori: questo andamento riflette il coinvolgimento più precoce e severo delle fibre nervose più lunghe. Vengono poi interessate le gambe, poi le mani ed infine la parte distale della coscia, con il tipico aspetto delle gambe a “bottiglia di champagne rovesciata”.

La successiva perdita delle fibre nervose sensitive segue la stessa sequenza. Infine si ha la scomparsa dei ROT, generalmente seguendo un modello tempo-dipendente. L’omogeneità dei sintomi e delle manifestazioni della CMT rende difficile la precisa diagnosi dei sottotipi della malattia, per cui risulta indispensabile utilizzare un approccio complesso, basato sugli esami elettrofisiologici. Generalmente la patologia presenta gravità variabile, anche fra consanguinei, con soggetti senza sintomi o con pochi sintomi e altri che presentano disabilità importanti. Tale variabilità è da attribuirsi, forse, a fattori ambientali tuttora oggetto di studio, o a mutazioni geniche non ancora riconosciute o semplicemente a diversa penetrazione della mutazione genica interessata. La CMT si manifesta in genere nella prima decade di vita e presenta un decorso lento e progressivo. Raramente esordisce con ipotonia degli arti inferiori, mentre più spesso si osserva difficoltà nella deambulazione, con andatura steppante (steppage) e piede cavo sin dall’infanzia o dell’adolescenza. Ma si sono trovate intere famiglie affette da CMT che hanno avuto i primi sintomi della patologia molto tardivamente. Le deformità scheletriche, piede cavo e dita a martello, sono molto comuni nella CMT; si riscontrano infatti nel 66% dei pazienti affetti da questa patologia, senza considerare i diversi sottotipi. Non sono ancora del tutto noti i meccanismi per cui si instaurano tali deformità, ma è verosimile che squilibri del piede e dei muscoli delle gambe, soprattutto quando siano presenti già in età infantile, possano avere un ruolo fondamentale nel determinare le deformità rilevabili nell’adulto. Infatti si è osservato che tali deformità sono assenti nelle forme di CMT ad inizio tardivo e che, invece, in quelle ad inizio precoce, le anomalie si

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determinano e progrediscono col passar del tempo, con la comparsa prima del piede piatto e successivamente del piede cavo.

L’andatura steppante e la caduta del piede sono segni comuni e precoci, mentre la debolezza dei muscoli flessori del piede si instaura più tardi nel corso della malattia. La deambulazione può essere pregiudicata in misura variabile, ma la grande maggioranza dei pazienti deambula autonomamente e solo di rado ha bisogno di ausili.

La mano “en griffe”, o ad artiglio, è una deformità tipica della CMT, ma gli arti superiori sono, in genere, meno frequentemente interessati e il loro coinvolgimento è meno grave. L’ereditarietà della CMT può essere autosomica dominante, autosomica recessiva o X-linked. Sono noti oltre 50 geni associati alle neuropatie ereditarie, ma molti sono ancora da scoprire. La trasmissione avviene più spesso con modalità autosomica dominante; cioè basta ereditare una copia alterata del gene da parte di uno dei due genitori per manifestare la malattia. Ma sono note anche alcune forme a trasmissione autosomica recessiva, cioè forme nelle quali i genitori sono portatori sani e ogni figlio ha il 25% di probabilità di essere affetto; c'è infine una CMT ad ereditarietà X-linked, cioè legata al cromosoma X, che ha manifestazioni più gravi nei maschi rispetto alle femmine. Si possono distinguere forme demielinizzanti (CMT1) caratterizzate da un danno alla mielina, cioè al rivestimento isolante dei nervi, e forme assonali (CMT2) nelle quali il danno primario è a carico delle terminazioni nervose e non del loro rivestimento. La CMT ad ereditarietà X-linked (CMTX) ha manifestazioni più gravi nei maschi rispetto alle femmine; nei maschi si manifesta con aspetti prevalentemente demielinizzanti mentre nelle femmine con aspetti prevalentemente di neuropatia assonale. La CMT1 è generalmente classificata secondo criteri di genetica molecolare nei sottotipi A, B, C, D. Rimane ancora molto da scoprire su questa malattia, anche se ricercatori di ogni paese hanno condotto o stanno conducendo interessanti studi in merito ad essa. Uno studio di Garibay, Solomito, Bell e altri si è occupato della deambulazione di bambini e adolescenti affetti da CMT. Sono state confrontate le andature di un gruppo di bambini e adolescenti di età comprese fra 4 e 12 anni affetti da CMT con le andature di un uguale gruppo di bambini e adolescenti della stessa età, ovviamente sani. L'esame dell'andatura è avvenuto nelle stesse condizioni e nello stesso ambiente, cioè nello stesso laboratorio di studio.

Ciò ha permesso al gruppo di lavoro la valutazione clinica della differenza di comportamento della caviglia attraverso la valutazione del grado di debolezza del flessore e del dorsiflessore.

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La stabilità posturale e l'equilibrio in soggetti con CMT è l'argomento di uno studio di Lencioni, Rabuffetti e altri del 2014.

Ancora una volta due gruppi a confronto: soggetti con CMT e soggetti di pari età e sesso, perfettamente sani. Dovevano passare dalla posizione di “seduti” a quella di “in piedi” fino a raggiungere una postura stabile. I risultati dimostrarono che i soggetti con CMT hanno valori di stabilità inferiori. La grande difficoltà nel mantenere la postura eretta sembra essere prevalentemente associata alla debolezza del muscolo flessore plantare piuttosto che al danno del sistema propriocettivo.

Le performance peggiori sembrano essere associate alla ridotta forza muscolare e alla perdita di fibre nervose sensorie. La debolezza dei muscoli distali sembra avere influenza sia sulla stabilizzazione posturale sia sulla postura eretta a riposo. L'analisi dei parametri riguardanti la stabilizzazione posturale costituisce una importante informazione sui disordini dell'equilibrio in soggetti con CMT1A.

Uno studio di Fiona Blyton, Monique N.Ryan, Robert Ouvier e Joshua Burns rivolto ai crampi nella CMT1A ha però rivelato un “link” precedentemente sconosciuto, fra il crampo e il tremore della mano nei bambini con CMT1A e questo ha aperto nuovi spazi di ricerca per una migliore comprensione di queste “complicazioni” della CMT1A.

Anche la caratteristica del piede cavo è stata oggetto di studi attenti. Tozza, Pisciotta, Aceto, hanno condotto uno studio finalizzato alla valutazione dell'influenza dell'indebolimento somato-sensorio, della debolezza dei muscoli distali e delle deformità del piede sull'equilibrio. Usando una piattaforma baropodometrica sono stati raccolti dati relativi a 21 pazienti con CMT1A. Per valutare il disquilibrio posturale venne misurata la superficie di oscillazione sia ad occhi aperti che ad occhi chiusi; fu fatta cioè un'analisi stabilometrica. Un'analisi statica fu invece fatta per definire la forma dell'impronta del piede, con misurazione del carico e della superficie plantare dell'avampiede, del medio piede e del retropiede. I risultati ottenuti vennero confrontati con i valori rilevati in un gruppo di comparazione. Rispetto a questo gruppo i pazienti con CMT1A avevano più bassa superficie plantare e un minor carico sul medio piede, un carico più alto nell'avampiede. Inoltre i pazienti CMT1A avevano maggior instabilità posturale, sia ad occhi aperti che a occhi chiusi.

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3. Età evolutiva

L’età evolutiva è un periodo fondamentale della vita di un individuo. In termini di età non ha una rigida divisione temporale, ma in genere si individua l’età evolutiva come “il periodo

compreso tra la nascita e i 20 anni all’incirca”. Tale periodo viene diviso, grosso modo, in

tre fasi principali: la prima fase va dalla nascita ai 6 anni di età la seconda fase va dai 7 anni ai 13-14 anni di età la terza fase va dai 14 anni ai 20, tenendo conto che tra la seconda e la terza fase si inserisce un periodo che ha caratteristiche tali da poter essere ritenuto una vera e propria fase.

Ma l’età evolutiva viene anche definita come ”… quel periodo della vita durante il quale

l’individuo raggiunge il pieno sviluppo delle sue caratteristiche somatiche e psichiche. In tal senso potremmo estendere l’età evolutiva fino ai 20-25 anni, perlomeno per quanto riguarda il raggiungimento del pieno sviluppo somatico”.

Quanto allo sviluppo psichico si potrebbe affermare che, in senso generale, è un fenomeno che non si arresta mai. Non a caso quella branca della psicologia che focalizza il processo di cambiamento durante la crescita, definita prima, e fino a poco tempo fa “Psicologia dell’età

evolutiva” è ora preferibilmente indicata come “Psicologia dello sviluppo”. Proprio perché il

cambiamento, lo sviluppo psichico, non si arrestano con il raggiungimento della maturità biologica.

È tuttavia vero che le maggiori rivoluzioni di ordine psichico, dalla consapevolezza di sé alla formazione stabile della personalità, procedono di pari passo con i maggiori cambiamenti di tipo fisico. E in tal senso appare legittimo inquadrare l’età evolutiva, ancora una volta, dalla nascita fino a circa il ventesimo anno di età. Nel DM 272 del 28/07/2000 i legislatore ha fissato il termine dell’età evolutiva a 14 anni e infatti l’arco temporale tra la nascita e i 14 anni di età è il periodo più significativo che ci permette di osservare l’acquisizione, l’aggiustamento ed una relativa stabilità delle caratteristiche fisiche e psichiche. Inoltre, mettendo l’accento soprattutto sugli aspetti motori, si può ritenere la prima parte dell’età

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evolutiva sia quella più complessa, ma anche la più delicata, sia per l’approccio di tipo fisico (su un soggetto che non ha piena maturità articolare ed organica generali), sia da un punto di vista psichico. È dalla nascita ai 6 anni, cioè nei primissimi anni di vita, che compaiono e si rafforzano gli schemi motori di base. L’espressione del movimento riveste un’importanza cruciale, sia nel consentire un armonioso sviluppo fisiologico, compresa la maturazione ottimale delle componenti nervose e propriocettive, che sotto l’aspetto cognitivo, per quanto attiene alla conoscenza dell’ambiente circostante e l’acquisizione dei concetti di spazio e di tempo. Il movimento corporeo è dunque una delle manifestazioni dell’intera personalità, perché chiama in causa strutture psicologiche ed organiche.

Il movimento è strutturato in schemi motori di base e schemi posturali. Gli schemi motori di base compaiono per primi e rappresentano il presupposto per il successivo sviluppo della motricità. Appartengono al gruppo degli schemi motori le azioni del camminare, correre, lanciare, saltare, arrampicare, etc. e si collocano nel tempo e nelle tre dimensioni dello spazio. Gli schemi posturali possono essere statici o statico-dinamici (una parte del corpo si muove e una resta ferma). Vi appartengono azioni come flettere, piegare, etc. Entrambi gli schemi si evolvono secondo stadi successivi. La sollecitudine naturale che il bambino compie rispetto agli schemi motori di base lo porterà, col passare del tempo, ad affinare i gesti a sensibilizzarsi rispetto agli stimoli esterni, a coordinare meglio il proprio corpo e a compiere gesti sempre più economici sotto il profilo energetico e sempre più performanti sotto l’aspetto concreto.

Per uno sviluppo globale dell’individuo occorre sollecitare lo sviluppo degli schemi motori di base. Molto importante è l’impiego di attività ludiche ed è altrettanto importante graduare verso l’alto le difficoltà da sostenere. Le ripercussioni si avvertiranno nello sviluppo neuro-muscolare, pedagogico e psicologico del soggetto.

La semplice crescita in termini anagrafici non necessariamente porta ad una automatica maturazione motoria. Se ci sono dei “gap”, delle lacune nelle tappe evolutive, non tutto potrà essere pienamente recuperato o appreso nella vita adulta.

Lo sviluppo motorio deve quindi essere attentamente seguito e dovrebbe essere sempre incoraggiato; e se nella maggior parte dei bambini questo processo avviene in modo naturale, bisogna evitare di contrastarlo, mentre nei casi di soggetti con ritardi nel processo di maturazione neurologica è fortemente consigliato stimolare in modo più partecipativo tale processo.

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coordinative, è l'età compresa fra 5 e 11-12 anni. Lo sviluppo di tali capacità si conclude intorno ai 12-13 anni.

Dopo i 13 anni, nella seconda fase dell'età evolutiva, cioè fino ai 20 anni, la maturazione delle capacità coordinative si stabilizza, o tende poco a poco a diminuire, almeno nei soggetti non allenati.

Dopo i 30 anni la qualità decade ancora di più per l'incipiente regressione della funzionalità del sistema nervoso, anche se in realtà bisogna attendere il climaterio per registrare una diminuizione significativa della capacità motoria.

Nella terza età si instaurano in genere fatti artrosici soprattutto a carico delle vertebre cervicali e l'esercizio fisico sarà mirato soprattutto a contrastare questa involuzione. La mobilità articolare amplifica le possibilità biomeccaniche di recupero, permettendo di economizzare gli interventi muscolari.

Nell'anziano si riscontrano instabilità, insicurezza di movimento e di deambulazione dovuti ad alterazioni osteo-articolari, a patologie varie quali Parkinson, variazioni pressorie, deficit muscolari o articolari. Gioveranno in genere gli esercizi usati per i bambini, con la finalità di esercitare e migliorare l'equilibrio statico e dinamico, di sollecitare la capacità di orientamento, di favorire l'autonomia di spostamento, di stimolare la vita di relazione. Ma va sottolineata l'importanza di utilizzare programmi il più possibile personalizzati, applicandoli con lezioni frontali e partecipate, in modo da coinvolgere emotivamente il soggetto e renderlo il più possibile protagonista.

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4. Inclusione scolastica e sociale

Fin dai tempi antichi le menomazioni fisiche sono state considerate un fattore discriminante nell’integrazione sociale, e quindi motivo di forte emarginazione: un male da nascondere e da rimuovere. Nella sua opera “Le abilità diverse” Maurizio Sibilio traccia un excursus storico sul ruolo sociale del soggetto diversamente abile, dai tempi antichi, quando i bambini con malformazioni fisiche venivano eliminati con riti crudeli, all’avvento del cristianesimo, quando più “pietosamente” venivano abbandonati per la strada e affidati alla pietà dei passanti, ai secoli XV-XVI-XVII, quando venivano internati nelle carceri perché considerati una minaccia per la società, fino all’Illuminismo, quando per la prima volta l’anormalità venne considerata una condizione umana che non pregiudicava la dignità dell’individuo, e alla Rivoluzione Francese, quando con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo venne sancito il diritto all’uguaglianza per tutti gli uomini, a prescindere dal ceto sociale, dal sesso, dalla razza e dalle condizioni fisiche e psichiche. In Italia bisognerà aspettare la fine del XIX secolo e la prima parte del XX secolo per affidare l’educazione dei portatori di handicap a strutture specializzate gestite dai Comuni. La formazione scolastica di questi bambini non è ancora garantita dallo Stato, ma è curata da associazioni religiose ed organizzazioni private.

La riforma Gentile del 1923 istituì nelle scuole elementari le “classi differenziali” per gli alunni che presentavano anormalità di sviluppo. E un altro passo importante fu rappresentato dal nuovo sistema educativo elaborato da Maria Montessori per istruire i bambini disabili. Maria Montessori aveva iniziato la sua carriera nel manicomio romano di Santa Maria della Pietà che ospitava anche bambini con difficoltà e turbe del comportamento, che pativano la solitudine e soffrivano di un grave abbandono affettivo; bambini che venivano trattati alla pari dei malati mentali adulti. La Montessori oltre a trasmettere a questi bambini amore e affetto, elaborò un metodo di istruzione del tutto innovativo che distingueva i bambini in base alle varie fasi della crescita, perché all'interno di ogni fase essi sono più o meno propensi ad

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imparare determinate cose trascurandone altre.

Un'inversione di tendenza si ebbe nel periodo fascista, quando la disabilità fu intesa come una malattia per quanto riguarda l'educazione. I bambini portatori di handicap vennero “strappati” alle famiglie, esclusi dal contesto scolastico e rinchiusi in istituti di riabilitazione. Proprio in questo contesto sorsero le scuole speciali di cui parla Antonio Carlini. La Circolare Ministeriale n.1771/12 dell '11 marzo 1953 recita: “Le classi speciali per minorati e quelle di

differenziazione didattica sono istituti scolastici nei quali viene impartito l'insegnamento elementare ai fanciulli aventi determinate minorazioni fisiche o psichiche ed istituti nei quali vengono adottati speciali metodi didattici per l'insegnamento ai ragazzi anormali, es. Montessori. Le classi differenziali, invece, non sono istituti scolastici a se stanti, ma funzionano presso le comuni scuole elementari ed accolgono gli alunni nervosi, tardivi, instabili, i quali rivelano l'inadattabilità alla disciplina comune e ai normali metodi e ritmi di insegnamento e possono raggiungere un livello migliore solo se l'insegnamento vieni ad essi impartito con modi e forme particolari”. Si è quindi combinata la prospettiva medica alla

prospettiva educativa: l'intervento educativo speciale focalizza l'attenzione sul deficit specifico del fanciullo: l'insegnante si avvale del parere del medico specialista, la cui diagnosi consente all'insegnante di adottare il più corretto insegnamento da impartire all'alunno con difficoltà. Ma la logica base è sempre quella della separazione dell'alunno disabile-malato dall'alunno normale-sano. Il riscatto sociale per i diversamente abili arrivò con la Costituzione della Repubblica Italiana che con gli articoli 3, 34 e 36 stabilisce l'eguaglianza e il diritto allo studio di tutti i cittadini e definisce i compiti dello stato nel rimuovere ogni tipo di ostacolo che non consenta al cittadino la sua piena affermazione.

Nel 1947 la circolare n° 667/87 del Ministero della Pubblica Istruzione definì la metodologia per la costituzione delle classi differenziali.

Nel 1962 in Italia partì il Piano di Sviluppo della Scuola e nello stesso anno, con la legge n° 1859 del 3 dicembre, fu istituita la Scuola Media Unificata con le classi per gli alunni disadattati. Nel 1968 la legge n° 144 del 18 marzo istituì apposite sezioni speciali per alunni disadattati nella scuola materna e stabilì che i disabili potevano frequentare la 1a classe di Scuola Media in gruppi non superiore alle 15 unità; una tappa di autentica democrazia quella dell'inserimento degli alunni disabili nella scuola di tutti.

È in quegli anni, comunque, che si fa strada l'idea di una scuola che dà un notevole valore al contesto di vita e di relazioni, ritenuti fattori imprescindibili di sviluppo e di apprendimento. Come già aveva detto Vygotskij i bambini si inseriscono in modo graduale nella vita

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intellettuale di coloro che li circondano. Finalmente si ritiene essenziale coeducare i ragazzi disabili con quelli normali tramite un contesto di vita e di relazione che si ispira al paradigma ecologico di V. Bronfenbrenner per cui lo sviluppo umano è una sorta di interazione reciproca, sempre più complessa tra un organismo umano attivo in sviluppo e le persone, gli oggetti, i simboli che si trovano nel suo ambiente immediato.

L' inserimento degli alunni disabili nelle classi comuni avviene finalmente nel 1971 con la legge n°118 del 30 marzo “...l'istruzione dell'obbligo (degli alunni in situazione di handicap)

deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette classi normali”.

Le carenze della legge n°118 furono sottolineate dalle aspre critiche di vari pedagoghi, ma fu soprattutto il documento messo a punto dalla commissione dell'allora ministro della Pubblica Istruzione, la signora Falcucci, a dare l'avvio a una reale integrazione scolastica degli alunni diversamente abili. È per questo che il documento della Falcucci viene definito “la Magna

Charta” dell'integrazione scolastica.

Il documento afferma che l'inserimento degli alunni con handicap, dalla scuola materna alla scuola media, si può attuare solo attraverso un modo nuovo di fare scuola, legato alla preparazione e all'aggiornamento degli insegnanti, che sono pertanto chiamati a delicati compiti di sperimentazione, di ricerca, di aggiornamento, di progettazione.

Grande rilevanza ha la sentenza della Corte Costituzionale n°215 del 3 giugno 1987 che consente la frequenza della scuola secondaria superiore agli alunni disabili, ma soprattutto precisa che l'intervento scolastico non può limitarsi alla semplice socializzazione in presenza, ma deve garantire apprendimenti rapportabili ai percorsi previsti per tutti, sia pure con i necessari adattamenti.

A completamento di tutto questo ci sono la CM 262/1988 che parla di programmazione integrata degli interventi attraverso intese fra scuola, ASL ed Enti Locali – e la legge quadro n° 104 del 1992. Questa legge rappresenta una tappa fondamentale perché colloca il diritto all'integrazione fra i diritti fondamentali della persona e del cittadino. La legge prevede un atteggiamento di “cura educativa” nei confronti degli alunni con disabilità, che si realizza in un percorso formativo personalizzato, alla cui condivisione e individualizzazione partecipano più soggetti istituzionali. Proprio l'art.1 di questa legge garantisce il rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata.

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nella società e impone di prevenire e rimuovere le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona disabile, di perseguire il recupero funzionale e sociale delle persone affette da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali, e infine di predisporre interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale. Utilizzando, ovviamente, gli strumenti dell'integrazione, che sono: la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socioassistenziali, culturali, ricreativi, sportivi; la definizione di accordi di programmi tra Enti Locali, organi scolastici e/o i presidi sanitari locali; la dotazione di attrezzature tecniche e sussidi didattici; l'assegnazione di personale docente specializzato e di operatori ed assistenti specializzati.

Dunque l'inclusione scolastica di alunni con disabilità ha vissuto fasi importanti nella storia della scuola e degli ordinamenti in Italia: dalla totale esclusione da qualsiasi intervento educativo, alla separazione in classi speciali, all'inserimento nella scuola di tutti fino alla nuova prospettiva di inclusione nella scuola per tutti. C'è voluto molto tempo, ma alla fine si è affermato, almeno sulla carta, il concetto che ogni persona disabile ha il diritto di essere trattata senza pietismi e senza buonismi, poiché nessuno è diversamente abile per propria scelta. Chiunque può diventare disabile nel corso della vita, e poi recuperare; e sarebbe quindi logico che ognuno di noi si ponesse, per così dire, nei piedi di un disabile per “pensare disabile” come dice il Prof. Franchi, per porsi domande, per capire. Ma la legge 104 non elimina il problema. Una legge, una circolare applicativa, una disposizione non servono se perdura una mentalità sbagliata, se si continua a considerare i disabili come “diversi”.

Fu salutato come un traguardo importante quello raggiunto 36 anni fa, nel 1980, quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'OMS, pubblicò un documento che per la prima volta, e in modo dettagliato, distingueva menomazione, disabilità e handicap. È la ben nota classificazione ICIDH (International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps). La ICIDH descriveva la menomazione come la presenza di una anomalia nelle strutture corporee, psicologiche e/o fisiologiche di un individuo, dovuta ad una malattia congenita o acquisita. Descriveva la disabilità come la diretta conseguenza della menomazione. La disabilità può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, e riduce in parte o totalmente la capacità di svolgere un'attività rispetto ad una persona dello stesso sesso e della stessa età. E descriveva l'handicap come una condizione di svantaggio che si manifesta nel momento in cui una persona che presenti una disabilità a causa di una menomazione si metta in relazione con il contesto socio-culturale e venga a trovarsi in una condizione di svantaggio. I termini – menomazione, disabilità, handicap - che mostrano un

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approccio al problema essenzialmente medicalista, furono sostituiti da termini come attività, partecipazione, strutture corporee che evidenziano un approccio multiprospettico: biologico, personale, sociale. Questo diverso approccio al problema è quello emerso nel corso della 54ma Assemblea mondiale della Sanità nel 2001 e approvato da quasi tutte le nazioni afferenti all'ONU. Fu nel corso di quell'Assemblea che fu stilata una nuova classificazione dela condizione di salute che teneva conto di 5 parametri:

 Fattori ambientali  Partecipazione  Attività

 Strutture corporee  Funzioni corporee

la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) specifica in modo dettagliato i parametri di riferimento. Particolarmente importante è il parametro 1 relativo ai fattori ambientali. Tiene conto del luogo di nascita, del luogo di residenza, delle opportunità che il territorio offre (o non offre), dell'esistenza di servizi ad hoc, della condizione economica, della condizione familiare, dell'età, dell'occupazione, delle interazioni possibili tra famiglia e società; perfino del tipo di edilizia. La menomazione della vecchia ICIDH (International Classification of Impairments, Disability and Handicaps) è quella e quella resta, ma cambia tutto a seconda di come e dove la situazione è vissuta. Attività e partecipazione sono un po' legate l'una all'altra, perché implicano ambedue lo stare insieme, lo stare con gli altri, con i familiari, con gli amici, con i compagni di scuola o di lavoro, il fare sport. Quanto tutto questo sia importante lo comprendiamo se solo ci soffermiamo a riflettere sul fatto che il problema più grande nella disabilità è la solitudine. Il 4° e 5° parametro, relativi alle strutture corporee e alle funzioni corporee ci riportano a quella visione medicalista che era già presente nella ICIDH. Così la ICIDH è stata sostituita dalla ICF.

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4.1. La novità della ICF

Questa classificazione tuttora attuale, consiste nell'aver spostato l'attenzione dalla malattia o dalla menomazione ai “residui” di salute e alle potenzialità; nel considerare la disabilità in modo inclusivo, come una condizione di salute in ambiente sfavorevole. Insomma, i parametri definiti dall'OMS nella Classificazione Internazionale ICF mirano a realizzare un nuovo modello di disabilità; tendono a dare una visione globale della persona (funzione, strutture, attività e partecipazione), e non della malattia, puntando sullo sviluppo delle sue abilità. Come dice V. Bonomo “si valorizza la persona con le sue risorse e non si

sottolineano i suoi deficit”. Attraverso basi scientifiche validate l'ICF fornisce delle linee

guida per comprendere e descrivere lo stato di salute degli individui e tutto ciò che è collegato a quello stato di salute. La classificazione ICF è molto accurata e comprende un gran numero di voci: più di 800 per definire le funzioni e le strutture del corpo; quasi 700 per definire le attività; oltre 100 per definire la partecipazione. Il che permette di associare ad ogni persona uno o più “qualificatori” che quantificano il suo livello di “functioning”, di funzionamento. Nel 2007 l'OMS ha formulato, come derivazione diretta dell'ICF, una classificazione che ha come oggetto specifico bambini e adolescenti. È la ICF-CY (Child and Young), che si è rivelata uno strumento importante per pianificare interventi educativo-riabilitativi, per orientare l'istruzione, per valorizzare l'occupazione lavorativa, per fare leggi ad hoc.

L'elaborazione dell'ICF-CY ha comportato la necessità di costruire un linguaggio comune che andasse oltre i parametri nazionali adottati da ciascun Paese per classificare le stesse disabilità, in modo da offrire soluzioni omogenee agli stessi problemi.

Altri traguardi importanti sono stati raggiunti. Nel dicembre 2006 fu approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Un traguardo importante poiché raggiunto dalla comunità internazionale; fino ad allora, infatti, non esisteva uno strumento internazionale vincolante per gli Stati in materia di disabilità: La Convenzione ONU per le persone con disabilità, ratificata con legge 18/2009, condivide la concezione del “modello sociale della disabilità” secondo la quale la disabilità è dovuta alla “interazione fra il deficit di funzionamento dell'individuo e il contesto sociale,

culturale e personale in cui esso vive” (Bonomo).

Ora le leggi ci sono: non resta che dar loro ”completa” applicazione. Rimarrebbero forse piccoli vuoti legislativi, ma il problema della disabilità sarebbe sostanzialmente risolto.

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5. Studio di un caso

Giorgio (ma è un nome di pura fantasia) è un ragazzo di 17 anni che vive in provincia di Lucca e frequenta il 3° anno di un istituto superiore. È figlio unico. Il padre è un imprenditore edile e la madre lavora come operaia.

È un ragazzo sereno, socievole, aperto, collaborativo, perfettamente integrato nella sua classe. Quando sono andata a parlare con lui dei suoi problemi fisici legati alla malattia che lo affligge fin dalla nascita, non ha mostrato alcun fastidio, o disagio ma ha risposto con totale disponibilità.

G. è affetto dalla malattia di Charcot-Marie-Tooth, brevemente indicata con l’acronimo CMT, completato però, nel suo caso da un numero e da una lettera - 1A - che stanno ad indicare che si tratta di neuropatia autosomica dominante. Come ho già detto precedentemente, sono noti oltre 50 geni associati alle neuropatie ereditarie, e molti ve ne sono ancora da scoprire. La trasmissione autosomica dominante definisce una modalità di trasmissione nella quale è sufficiente ereditare una copia alterata del gene da parte di uno dei genitori per manifestare la malattia. Ma sono note anche alcune forme a trasmissione autosomica recessiva, cioè forme nelle quali i genitori sono portatori sani e ogni figlio ha il 25% di probabilità di ammalarsi. E c'è anche una CMT ad ereditarietà legata al cromosoma X, cioè la CMT X-linked, che ha nei maschi manifestazioni più gravi che nelle femmine.

La CMT1A, quella che appunto affligge G., venne inizialmente descritta come l’associazione del sottotipo CMT1 con la mutazione di un gene mappato sul braccio corto del cromosoma 17p11.2. Studi successivi dimostrarono che responsabile della CMT1A era la duplicazione di un ampio segmento di DNA mappato sul cromosoma 17p11.2. Tale segmento conteneva il gene relativo alla PMP22, una proteina mielinica periferica, la cui duplicazione è causa del 70% delle forme di CMT1A.

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Poco si conosce di questa proteina e delle sue normale funzioni, ma numerosi studi hanno accertato che essa è localizzata soltanto nella mielina compatta.

Da un punto di vista clinico la CMT1A è caratterizzata da un esordio precoce, generalmente in età infantile. Si presenta con quei sintomi che accomunano le varie forme di CMT:

 Degenerazione e atrofia muscolare: i muscoli interessati sono quelli periferici ( distali degli arti inferiori e superiori). I più colpiti sono i peronei ( da cui il nome di atrofia muscolare del peroneo), i tibiali e i flessori delle dita. Ne deriva un logico indebolimento della forza muscolare. Essi si atrofizzano perché non sono più innervati a causa del deficit neurologico.

 Accorciamento dei tendini: atrofizzandosi i muscoli si accorciano, di conseguenza i tendini, tra i quali il maggiormente colpito è quello di Achille, cioè il tendine calcaneale che si origina dal muscolo tricipite della sura e si inserisce sull'osso del calcagno.

 Deformità degli arti e dita a martello od ad artiglio: ciò è dovuto allo squilibrio muscolare e all'accorciamento dei tendini. I piedi possono presentarsi cavi, e quindi equini, con tendenza di (deambulazione) sulle punte. Il tallone può essere varo, e quindi storcersi verso l'interno, portando la persona a sbilanciarsi all'esterno durante la deambulazione. Una delle conseguenze più immediate è la formazione di calli. Le dita tendono a piegarsi e ciò comporta una serie di problemi per quanto riguarda i piedi.

Questa patologia è stata ereditata dalla nonna paterna, che sembra aver avuto i primi segni della malattia soltanto in età adulta. Nella famiglia la nonna sembra essere l’unica ad aver avuto manifestazioni della CMT; almeno fino ad ora il padre è perfettamente sano almeno per quanto riguarda questa patologia.

G. ne soffre fin dalla nascita. Tant' è che già a sei anni è stato sottoposto a due elettromiografie, una riguardante il 1° interosseo di SX e una riguardante il tibiale anteriore DX e il tibiale anteriore SX, che però non evidenziarono segni di interessamento del II° motoneurone. Invece due elettroneurografie, quella motoria [che riguardò il nervo mediano DX, il muscolo opponente pollice in due sedi di stimolazione (polso e gomito)], e quella

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sensitiva, (che riguardò il nervo mediano DX, il muscolo falange medio nella sede di stimolazione “polso”), ebbero come reperto:

“netta compromissione delle conduzioni motoria e sensitiva sul nervo mediano destro con

netto aumento della latenza distale delle risposte motorie”.

E un reperto che recita: “netta compromissione della conduzione motoria sul nervo peroneo

profondo e della conduzione sensitiva sul nervo surale a sinistra”.

Questa fu la risposta agli esami sia di elettroneurografia motoria riguardante il nervo peroneo profondo SX e il muscolo estensore breve delle dita, (con sede di stimolazione collo piede e caput fibulae), sia agli esami di elettroneurografia sensitiva riguardante il nervo surale DX, (con sede di registrazione nel malleolo laterale e sede di stimolazione nel 3° medio gamba). Insomma, già a soli 7 anni di età, G. aveva non pochi problemi. E a completamento del quadro fornito dagli esami sopracitati (ce lo dice la data, che è di appena pochi giorni successiva), furono eseguite una analisi cromosomica e un'analisi molecolare.

L'esito della prima fu il seguente: “L’ibridazione fluorescente in situ con le sonde

RPS-1004H15 ha evidenziato una duplicazione nella regione 17p11.2 correlata alla malattia di Charcot-Marie-Tooth 1A (CMT1A)”, mentre l'esito della seconda, finalizzata alla ricerca di

una duplicazione nella regione 17p11.2-12 fu che “nel paziente [...] l’indagine non ha

rilevato la presenza del frammento di giunzione”.

Ma si precisa che: “...Tale frammento è rilevabile mediante PCR e digestione enzimatica solo

nel 67% dei casi con duplicazione della regione 17p11.2-12”.

I problemi già allora presenti, e certamente altri riguardanti la deambulazione nel frattempo aggravatisi, portarono alla decisione di un intervento chirurgico per correggere difetti dei piedi, sia il destro che il sinistro. L’intervento fu eseguito nel gennaio del 2007. Sulla base di una diagnosi di piede cavo equino fu effettuata una “tenotomia fascia plantare e tendine

flessore alluce DX e SX, Vulpius a DX, splat tibeale ant. a SX, TP pro TA a DX”.

Questa è la descrizione dell’intervento:

A SX incisione plantare e tenotomia della fascia plantare e del tendine flessore dell’alluce, incisione anteriore sul dorso del piede, isolamento distale del tendine TA, sdoppiamento e trasposizione esterna con fissazione sul cuboide con vite e interferenza. Controllo clinico e RX buono. Emostasi, sutura e medicazione. Gesso.

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incisione posteriore di gamba e tenotomia aponeurotica dosata del tendine di Achille, incisione antero mediale centrata sullo scafoide, isolamento distale del tendine del TP che viene distaccato, incisione postero mediale ed isolamento ed estrazione del moncone di TP, incisione anteriore sul dorso del piede, individuato il dorso del cuneiforme, si impianta una ancoretta a cui viene legato il tendine del TP passato sottocute. Controllo clinico buono. Emostasi, sutura per strati e medicazione. Gesso.

È evidente, che oltre ai problemi segnalati dalle analisi elettromiografiche e neuromiografiche, il bambino presentava già quella deformazione dei piedi, il piede cavo, caratteristico della CMT1A. E doveva essere una situazione piuttosto grave se appena due anni dopo, nell'ottobre 2009, si rendeva necessario un altro intervento, questa volta al solo piede destro. La diagnosi di “piede destro inverso neurogeno recidivo” portò ad un intervento di “Osteotomia valgizzante del calcagno + osteotomia di sottrazione del cuboide + osteotomia di sollevamento del I° raggio + allungamento Achille DX.”

Infine, (gli auguro e mi auguro di cuore che sia davvero l'ultimo) nel 2015, ancora un intervento chirurgico, ancora ai piedi. Questa volta ad entrambi.

Diagnosi: piede talo equino.

Si è trattato di due distinti interventi, uno in successione all’altro, senza soluzione di continuità ed eseguiti dalla stessa equipe medica. Il primo per la lateralità sinistra, il secondo per la lateralità destra.

Dopo questo ultimo intervento G. ha seguito un protocollo riabilitativo presso una struttura del Servizio sanitario Nazionale. Ora frequenta regolarmente la scuola, e segue, insieme a tutta la classe, le lezioni di Educazione Fisica curricolari. Frequenta una palestra 2 giorni alla settimana. È un ragazzo ammirevole: vive la sua disabilità (uso questa parola con una certa difficoltà, direi con disagio. Mi viene da chiedermi: disabile perché?) in modo sereno e intelligente. È allegro, vivace, amico di tutti, in perfetta armonia con i suoi compagni di classe, con gli insegnanti, con la scuola, con la società. L’ho conosciuto quando ho preso parte ad un tirocinio curato dal Prof. Franchi. A farmelo conoscere è stato lo stesso Prof. Franchi visto il mio interesse per casi problematici. Ed è da allora che mi interesso alle neuropatie in generale e al problema di G. in particolare.

È noto che, almeno allo stato attuale, non esiste una terapia farmacologica che abbia una qualche efficacia per la CMT1A. Numerosi “trial” clinici hanno studiato la terapia con acido ascorbico (vitamina C), che era sembrata così promettente all'inizio, ma sono stati tutti

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completati con esito, purtroppo, negativo. In attesa di sperimentazioni più efficaci, i pazienti possono convivere meglio con la CMT1A solo grazie alla attività motoria adattata, che ha dato e dà buoni risultati.

Anche in questo campo, per altro, le conoscenze sono insufficienti ad individuare percorsi mirati e utili quanto meno ad impedire la progressione del male. È importante quindi che per persone come G. venga predisposto un protocollo di lavoro estremamente attento, che tenga conto della situazione dal momento di inizio dell’attività prevista, con verifiche della situazione in un momento successivo, a distanza di circa 6 mesi, ma eseguendo piccole verifiche intermedie, a tempi più brevi, per accertare miglioramenti magari quasi impercettibili e modificare, ove necessario, il protocollo di lavoro prefissato, e quanto meno “congelare”, per così dire, la situazione iniziale ed escludere, possibilmente un qualsiasi progresso della malattia.

5.1. Esame morfologico e funzionale

L’esame morfologico funzionale è parte integrante dell’esame clinico del soggetto che intendiamo trattare e fornisce dei dati che risultano utili per il trattamento di squilibri neuromuscolari e muscoloscheletrici.

Molte affezioni neuromuscolari mostrano un deficit motorio, alcune con quadri ben definiti, altre con lesioni simmetriche o asimmetriche. Per valutare correttamente le capacità motorie di un soggetto è necessario avvalersi di un esame morfologico e funzionale mirato, che porterà a stabilire un protocollo motorio che, non solo seguirà una diagnosi funzionale e clinica fatta dal medico curante, ma anche il parere dei congiunti e dell’interessato stesso. L’esame morfologico si dovrà basare su precisi parametri valutativi quali:

Lateralizzazione

 Esame funzionale (che comprende la mobilità articolare, le capacità motorie e i paramorfismi-dismorfismi)

Comunicazione

Capacità attentive e relazionale

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