• Non ci sono risultati.

ACIDOSI METABOLICA DA METFORMINA review della letteratura

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "ACIDOSI METABOLICA DA METFORMINA review della letteratura"

Copied!
66
0
0

Testo completo

(1)

ACIDOSI METABOLICA

DA METFORMINA

Review della Letteratura

(2)

INDICE

Introduzione

Impatto Socio Sanitario del Diabete Epidemiologia del Diabete

Prevalenza del Diabete Incidenza del Diabete

Prevalenza ed Incidenza del PreDiabete

Meccanismo di danno b cellulare e possibile impatto dei farmaci antidiabetici orali

Farmacologia dei Biguanidi Acidosi Lattica

Nostra esperienza

(3)

INTRODUZIONE

Il diabete mellito sta dilagando nel mondo. Una crescita inarrestabile ovunque: nei paesi sviluppati, in quelli emergenti e in quelli ancora in via di sviluppo. Nelle zone del mondo più sviluppate (Europa, Nord America, Australia) cresce meno che in Africa, Asia e Sud America ma cresce comunque moltissimo. Gli individui affetti dalla malattia nel mondo sono ormai vicini ai 400 milioni e la stima è che raggiungano i 600 milioni entro il 2035. Per questo la lotta al diabete è una delle tre emergenze sanitarie identificate dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e dall’Organizzazione Mondia le della Sanità (OMS o WHO), insieme alla malaria e alla tubercolosi, unica delle tre ad essere malattia non trasmissibile, anche se questo concetto, come scritto più avanti, potrebbe non essere del tutto corretto.

Cresce soprattutto il diabete tipo 2, che rappresenta circa il 90% dei casi in Italia, fortemente legato anche nel nostro Paese all’eccesso ponderale, a sua volta riferibile a iperalimentazione e a scarsa attività fisica ma anche alla struttura stessa della società. Una società che sembra essere infettata da un “virus” che lentamente condiziona lo sviluppo della malattia in tante persone. Un “virus” che è alimentato da industrializzazione, meccanizzazione, urbanizzazione,stress psico-fisico, ricerca di una facile ricompensa nel cibo che, d’altro canto, è di semplice accesso, larga diffusione di alimenti ad elevato tenore calorico, grande pressione pubblicitaria nei confronti di prodotti alimentari, modificazioni dieto indotte e di tipo obesiogeno e diabetogeno della flora batterica dell’intestino, probabile presenza di sostanze con azioni negative

(4)

(endocrine disruptors) sui meccanismi di controllo della glicemia in quello che mangiamo, beviamo e respiriamo. Un “virus” che, accanto alla forte componente genetica, fa dubitare del fatto che il diabete debba continuare ad essere annoverato fra le malattie non trasmissibili. La malattia ovviamente non è virale e tecnicamente non è trasmissibile ma esiste una predisposizione al diabete che viene ereditata e gli individui che lasciano alle generazioni successive questa eredità sono sempre più numerosi. Esiste poi la trasmissione da una generazione all’altra di uno

stile di vita malsano (troppo cibo e poca attività fisica) e di un ambiente poco salutare. Condizioni che sono largamente indipendenti dal libero arbitrio dell’individuo e che vanno ricondotte ai contesti familiari e sociali in cui gli individui nascono, crescono e vivono. Ci sono zone del mondo in cui al momento della nascita l’individuo ha una probabilità di quasi il 100% di sviluppare diabete tipo 2 nel corso della vita. Questa probabilità sta diventando elevata, troppo elevata, anche per chi nasce in Italia, nonostante la malattia sia poligenica e multifattoriale e non monogenica. L’imprinting diabetogeno è importante: se in casa c’è abbondanza di dolciumi, il bambino considererà che fanno parte dell’alimentazione quotidiana. Se in casa nessuno mangia verdura, l’adolescente crederà che sia normale non nutrirsene. Se nel frigorifero di casa accanto all’acqua minerale c’è la bottiglia della bibita zuccherata i minori riterranno quella un liquido alternativo con cui dissetarsi. Se in famiglia nessuno fa attività fisica ma si passa il tempo libero davanti alla TV o al computer, quel comportamento sarà considerato il riferimento a cui ispirarsi. Il diabete tipo 2 non è virale ma lo stile di vita diabetogeno lo è. E sta infettando il mondo. Il diabete ha un notevole impatto socio-sanitario ma esso stesso ha

(5)

una forte spinta da parte della società moderna. IMPATTO SOCIO-SANITARIO DEL DIABETE

Non cresce solo il diabete tipo 2 ma cresce anche il diabete tipo 1, seppure meno in termini assoluti, causato da una aggressione autoimmune: il proprio organismo viene considerato estraneo e da distruggere e in questo caso si tratta delle cellule che producono insulina. Una autoimmunità che non sembra essere estranea a fattori ambientali patogeni la cui natura è poco definita ma che sembrano in parte coincidenti con alimenti, farmaci, inquinamento. Anche in questo caso, quindi, la struttura della società moderna contribuisce allo sviluppo della malattia.

Il diabete tipo 1 è la varietà di malattia che più colpisce l’opinione pubblica per la necessità delle persone affette di somministrarsi insulina più volte al giorno e per il fatto di comparire soprattutto in bambini, talora piccolissimi, adolescenti o giovani adulti. Il diabete tipo 2 ancora oggi purtroppo viene sottovalutato, sia da chi ne è affetto che dai suoi familiari e, non raramente, anche dagli “addetti ai lavori”. Fra i primi sono ancora troppo diffuse espressioni gergali come “ho un po’ di diabete”, “porto la glicemia alta”, “ha un po’ di zucchero nel sangue” oppure “ho il diabete alimentare ma se mi impegno scompare” o “ha il diabete che viene agli anziani”. Fra i secondi è abbastanza frequente rilevare che il diabete è considerato una malattia cronica che, in quanto molto diffusa, può essere affrontata con un approccio minimalista. In effetti la percezione di malattia è spesso errata: il diabete è una malattia molto complessa, sistemica e da affrontare seriamente perché può condizionare in maniera importante la

(6)

vita di chi ne è affetto. Il diabete non è curabile ma è controllabile e il buon controllo permette di avere una vita piena di gioie e soddisfazioni nella famiglia, nel lavoro, nello sport. Il cattivo controllo, però, può portare a disabilità e anche premorienza.

In Italia i casi noti di diabete erano circa 1,5 milioni nel 1985 e si avvicinano ora ai 4 milioni , quindi sono più che raddoppiati in 30 anni. Si tratta di un caso ogni 16 residenti. E accanto ai casi noti non vanno dimenticati i casi non diagnosticati perché spesso, e talora per anni e anni, la malattia non dà segni di sé. Si stima che siano un milione gli italiani con la malattia misconosciuta. In totale, quindi, circa 5 milioni di persone in Italia ha il diabete, pari ad 1 caso ogni 12 residenti. E il numero degli individui affetti salirà probabilmente a 7 milioni fra 15-20 anni. I dati epidemiologici italiani suggeriscono circa 250.000 nuove diagnosi di diabete tipo 2 e circa 25.000 nuove diagnosi di diabete tipo 1 ogni anno. Il diabete ha una rilevanza sociale oltre che sanitaria e questo è stato sancito, in Italia prima ancora che negli altri Paesi del mondo, da una legge (n. 115 del 1987) che è diventata un punto di riferimento ineludibile. Una legge che ha anche valorizzato il ruolo dell’assistenza da parte dei centri diabetologici. Una legge che ha largamente ispirato numerosi documenti nazionali e regionali dei successivi 30 anni e anche il Piano Nazionale della Malattia Diabetica deliberato nel 2013 dal Ministero della Salute. Un Piano che ha consolidato il modello italiano di cura della malattia e identificato diverse aree di intervento per rendere omogenei gli interventi di prevenzione, diagnosi, monitoraggio e cura delle persone con diabete che vivono in Italia. Un modello che consta, oltre che dei medici di famiglia, di una rete capillare di centri specialistici diffusi su tutto il

(7)

territorio nazionale, basati su competenze multi professionali (diabetologo, infermiere, dietista, talora psicologo e/o podologo, e secondo necessità cardiologo, nefrologo, neurologo, oculista, ecc.) e che forniscono con regolarità consulenze per circa il 50% delle persone con diabete, prevalentemente, ma non esclusivamente, quelle con malattia più complessa e/o complicata. Per effetto di questa rete l’Italia è il Paese occidentale con il più basso livello medio di HbA1c e i più bassi tassi di complicanze croniche e di eccesso di mortalità nelle persone con diabete. A tale proposito va sottolineato il ruolo dell’assistenza diabetologica nel ridurre la mortalità nelle persone con diabete: coloro che sono assistiti nei centri diabetologici hanno una minore mortalità totale e cardiovascolare rispetto a chi non li frequenta . Anche per questo il Piano Nazionale della Malattia Diabetica prevede una presa in carico di tutte le persone con diabete da parte dei centri diabetologici, con l’applicazione di una incisiva gestione integrata con i medici di famiglia . Una presa in carico che è previsto avvenga già nella fase iniziale della malattia. È stato infatti recepito il concetto che il team diabetologico non dovrebbe intervenire per la prima volta quando si è sviluppato grave scompenso metabolico o quando si sono sviluppate complicanze della malattia perché la comparsa di queste condizioni cliniche testimonierebbe l’inefficacia di quello che è accaduto prima di quel momento e sancirebbe il fallimento del sistema di cura. Sarebbe paradossale se l’assistenza specialistica non svolgesse la sua parte quando potrebbe cambiare la storia naturale della beta-cellula e, quindi, della malattia ma venisse chiamata di fatto a decretare un insuccesso. E sarebbe parimenti paradossale che i circa 2500 diabetologi italiani e i loro team non fossero coinvolti nella cura quando questa mira a

(8)

prevenire il danno d’organo e venissero chiamati in causa solo quando questo si è verificato, talora in maniera eclatante (infarto, ictus, insufficienza renale avanzata, retinopatia grave, piede diabetico, ecc.). I team diabetologici italiani costano circa 1% del totale della spesa sostenuta per curare le persone con diabete e possono incidere in misura assai significativa sull’altro 99%, riducendolo. Prevenendo le complicanze croniche che rappresentano il 90% della spesa, fra ricoveri, specialistica e farmaci. Accorciando la durata delle degenze con una presa in carico al momento dell’accoglimento nei reparti di chirurgia, ortopedia, ginecologia, ecc. Ottimizzando l’uso dei farmaci anti-iperglicemizzanti e dei dispositivi per il monitoraggio e la cura. Evitando sprechi con la terapia insulinica (la voce di spesa maggiore fra i farmaci anti diabetici). Osservando una scrupolosa appropriatezza nelle prescrizioni di esami di laboratorio e strumentali. Collaborando nelle scelte sulle strategie di cura operate a livello nazionale, regionale e locale.

Il team diabetologico è importante ma la persona con il diabete deve essere protagonista della cura. Non esiste alcuna altra malattia cronica in cui il ruolo dell’individuo affetto è così importante e decisivo sull’esito. Un ruolo che è tanto maggiore quanto più precocemente compare la malattia, considerando che questa, al giorno d’oggi, grazie ai successi della cura, può durare molte decadi. L’età media alla diagnosi del diabete tipo 2 in Italia è attualmente 50-55 anni ma ormai non pochi soggetti con questa varietà di diabete ne ricevono la diagnosi prima di aver compiuto 30 anni, soprattutto nelle etnie non caucasiche, ed hanno quindi la prospettiva di vivere con la malattia per 50-60 anni. Senza dimenticare che i diabetici tipo 1, la cui diagnosi avviene quasi sempre prima dei 20 anni e non

(9)

infrequentemente nei prima anni di vita, spesso raggiungono e superano gli 80 anni di età e totalizzano quindi una durata di malattia di 7-8 decadi e anche più. Si tratta di persone che vivono con la malattia gli anni della scuola, dell’attività sportiva e del lavoro, con quello che questo comporta in termini di inserimento in contesti dove il diabete talora è erroneamente interpretato da terzi come un problema, una limitazione, un ostacolo, una disabilità. Ignorando il fatto che una persona con diabete può raggiungere tutti i traguardi nella vita: dalla possibilità di essere più volte madre al successo come attore, cantante, musicista o uomo di stato, dal vincere molteplici medaglie olimpiche al conquistare la vetta di altissime montagne. Ciononostante, è innegabile che il prezzo da pagare per questi e altri successi, solo apparentemente meno importanti, consista in una meticolosa applicazione personale nella cura. La stima è che nel corso della vita una persona con diabete debba imporsi un’azione specifica in termini di alimentazione, attività fisica, assunzione di farmaci, controlli glicemici domiciliari, esecuzione di esami di laboratorio o strumentali, visite mediche da 100 a 500 mila volte, in rapporto alla durata della sua malattia. Questa persona, quindi, va educata alla gestione della malattia in tutte le sue numerose sfaccettature. E vanno educati anche coloro che stanno intorno alla persona con diabete: nella famiglia, nella scuola, nell’ambiente di lavoro o ricreativo. Quella persona potrebbe avere bisogno dell’assistenza degli altri e gli altri non possono ignorare di cosa ha bisogno una persona con diabete per poter esprimere sé stessa in tutti gli ambiti e non possono ignorare cosa devono fare in alcune circostanze per una persona con diabete (ad esempio in occasione di una ipoglicemia severa).

(10)

Considerando i 4 milioni di cittadini affetti da diabete, è possibile affermare che praticamente la malattia è oggi presente in ogni famiglia italiana, se la consideriamo allargata ai parenti di secondo/terzo grado. Se non è un genitore o un figlio, si tratta di un fratello, un nonno, uno zio, un nipote. Una famiglia in cui avere un proprio membro, e talora più membri, con il diabete significa modificare, a volte o sempre, le abitudini alimentari per non creare troppe difformità a tavola fra chi ha e chi non ha il diabete o, più saggiamente, per seguire tutti uno stile di vita più sano che riduca il rischio che altri della famiglia sviluppino la malattia. Una famiglia in cui la presenza del diabete in un proprio membro comporta, se questo è un piccolo bambino oppure un anziano o una persona non autosufficiente, la necessità di aiutarlo, se non proprio accudirlo, nelle sue necessità quotidiane o periodiche: assumere farmaci, misurare la glicemia, fare sport o anche solo una passeggiata, andare dal pediatra o dal medico di famiglia, recarsi in ospedale dal diabetologo, ecc. Una famiglia in cui assistere una persona con diabete può determinare assenza dal lavoro o rinuncia ad attività ricreative o alle vacanze. Tutti segni inequivocabili del peso sociale della malattia.

Il diabete, è inutile celarlo, può diventare una malattia grave, con un impatto notevolissimo sulla qualità della vita quando causa disabilità. Il diabete è la prima causa di cecità, la seconda causa di insufficienza renale terminale con necessità di dialisi o trapianto, la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori, una concausa di metà degli infarti e degli ictus. I dati epidemiologici documentano che in Italia ogni 7 minuti una persona con diabete ha un attacco cardiaco, ogni 26 minuti una persona con diabete sviluppa un’insufficienza renale, ogni 30 minuti una

(11)

persona con diabete ha un ictus, ogni 90 minuti una persona subisce un’amputazione a causa del diabete e ogni 3 ore una persona con diabete entra in dialisi. Complicanze tanto gravi da far sì che il diabete sia responsabile di una premorienza stimata mediamente in 7-8 anni. Il diabete non è una malattia fastidiosa, un numero asteriscato su un referto di laboratorio, con cui convivere. Il diabete, sarebbe sbagliato nasconderlo, è una malattia che può uccidere e non poche volte lo fa senza dare grossi segni della sua presenza, come un killer silenzioso. In Italia ogni 20 minuti una persona muore a causa del diabete anche se il diabete spesso non è menzionato nella sua scheda di morte.

Il diabete costa moltissimo alla comunità. In Italia la quota di spesa che il Fondo Sanitario Nazionale si accolla per curare le persone con diabete, una malattia che condiziona un più facile sviluppo di qualsiasi altra malattia, è di circa 15 miliardi di euro all’anno, pari ad oltre il 10% del totale. Questa somma è calcolata utilizzando i costi reali dei ricoveri e della varie prestazioni specialistiche e non le tariffe virtuali. Utilizzando questi ultimi, comunque, la spesa, seppure inferiore a quella di altri Paesi occidentali, è comunque ingente e ammonta a circa 10 miliardi di euro per anno .

A questa grande quantità di denaro pubblico vanno aggiunti circa 3 miliardi di euro di spese dirette sostenute dalle persone e dalle loro famiglie e non meno di 10-12 miliardi di euro di costi indiretti, molti dei quali a carico delle casse dello stato per prepensionamenti e assenze dal lavoro . Il totale ammonta a 25-30 miliardi di euro, l’equivalente di una finanziaria o, come si usa dire oggi, di un patto di stabilità. Una somma in continuo aumento e che fra poco non sarà più sostenibile se non si riuscirà a circoscrivere la diffusione del “virus”. Per questo “virus” esiste un solo

(12)

vaccino: la conoscenza della malattia, dei suoi fattori di rischio, del modo di prevenirla cambiando lo stile di vita degli individui ma anche cambiando la struttura della società per evitare il “contagio”.

EPIDEMIOLOGIA DEL DIABETE

Il diabete mellito tipo 2 ha assunto le caratteristiche e le dimensioni di una vera propria emergenza sanitaria a causa della sua elevata prevalenza. Secondo stime attuali, si contano nel mondo circa 415 milioni di soggetti affetti da diabete mellito e questo numero è destinato ad aumentare a 642 milioni nel 2040 . La dimensione del problema, la diffusione a tutte le fasce d’età, la gravità delle complicanze associate alla malattia fanno del diabete uno dei maggiori problemi sanitari su scala globale .

PREVALENZA DEL DIABETE

I dati di prevalenza del diabete disponibili in Italia derivano da studi di coorte o da fonti informative di tipo amministrativo. Le fonti ufficiali del Ministero della Salute sono costituite sia dai dati di monitoraggio annuale dello stato di salute della popolazione condotto dall’ISTAT, sia dal sistema di sorveglianza PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) . L’ISTAT utilizzando un set di indicatori costruiti sulla base delle informazioni raccolte nell’indagine multiscopo sulle famiglie “Aspetti della vita quotidiana”, basate su questionario cartaceo o intervista faccia a

(13)

faccia, ha rilevato che alla fine degli anni ’80 la prevalenza del diabete noto era pari al 2.5%. I dati riportati nell’annuario statistico ISTAT 2015 indicano che il diabete interessa il 5,4% degli italiani (5,4% dei maschi e 5,4% delle femmine), pari a oltre 3 milioni di persone. I valori standardizzati, che tengono conto del cambiamento nella composizione per età e sesso della popolazione italiana nel corso degli anni, indicano un incremento del tasso di prevalenza del 90% negli ultimi 13 anni (dal 3.9% nel 2001 al 4,8% nel 2014).

Un’altra rilevante fonte di informazioni sulla malattia diabetica è costituita dall’Osservatorio ARNO, relativa ad un campione complessivo della popolazione di quasi 10 milioni di soggetti afferenti a 32 ASL sparse sul territorio nazionale. I dati del 2015 dimostrano, sulla base di varie fonti informative (dati di consumo di farmaci, registro delle esenzioni per patologia e schede di dimissione ospedaliera), che il tasso di prevalenza totale del diabete è pari al 6.2%, quasi un punto percentuale in più rispetto ai dati ISTAT . Dallo stesso registro ARNO è altresì emersa una differenza di genere nella prevalenza del diabete che risulta pari al 6.6% negli uomini e al 5.9% nelle donne, già emersa a partire dal 2000 e rimasta inalterata nel corso del tempo. Anche nell’ambito del sistema di sorveglianza PASSI, il diabete risulta più diffuso tra gli uomini (4,9% vs. 3,7% nelle donne). Tale differenza era stata già osservata in uno studio condotto nella regione Veneto fra il 2001 ed il 2004, che aveva evidenziato un aumento del tasso di prevalenza standardizzata dal 3.9% al 4.35% nei soggetti di genere maschile e dal 3.47% al 3.76% nel genere femminile. Tale differenza nei tassi di prevalenza potrebbe riflettere le diverse metodologie di raccolta dei dati impiegate in queste indagini.

(14)

Dall’analisi dei dati ISTAT 2014 emerge, inoltre, come la prevalenza di diabete aumenti con l’età, fino a raggiungere il 20.3% nelle persone di età ≥75 anni. Dato confermato dall’indagine PASSI 2013, che ha evidenziato che nella fascia 50-69 anni una persona su dieci dichiara di avere ricevuto una diagnosi di diabete. Nell’Osservatorio ARNO i 2/3 dei casi di diabete sono collocati nella fascia di età compresa fra i 50 e gli 80 anni, 1 caso su 4 ha un’età superiore a 80 anni, mentre solo 7 casi su 100 e 24 casi su 100 hanno un’età inferiore a 19 anni e 34 anni, rispettivamente. Nell’Italian Longitudinal Study on Aging , uno studio prospettico di coorte che ha coinvolto 5632 soggetti di età compresa fra 65 e 84 anni, la prevalenza del diabete risultava pari al 13,8%. La prevalenza del diabete appare ancora più elevata nei soggetti di età superiore a 65 anni presenti in strutture per lungo-degenti, raggiungendo il 17% secondo quanto emerso da un’analisi condotta nel 2013 in 83 strutture della regione Piemonte che accoglievano 5076 residenti .

Per quanto riguarda la diffusione del diabete per area geografica, secondo i dati ISTAT, la prevalenza è mediamente più alta nel Sud (6,5%), con un valore massimo registrato in Calabria, e più basso nel Centro (5,7%) e nel Nord (4,7%), con valore minimo stimato nella provincia autonoma di Bolzano. Tali differenze potrebbero dipendere dalla diversa composizione per età della popolazione nelle diverse aree geografiche. Secondo i dati del sistema di sorveglianza Passi, relativi al pool di ASL partecipanti nel 2010, la prevalenza del diabete fra le persone di età 18-69 anni è pari al 5%. L’analisi per macro aree geografiche evidenzia un gradiente significativo fra Nord e Sud passando dal 2% della provincia autonoma di Bolzano all’8% della Basilicata .

(15)

Secondo il rapporto nazionale PASSI 2013, la prevalenza riferita di diabete è maggiore nelle persone senza titolo di studio o con la sola licenza elementare (14%) e in quelle con maggiori difficoltà economiche (7%). Una prevalenza più elevata di diabete negli strati di popolazione a reddito più basso era stata già rilevata nel Turin Study , che rispetto a quanto osservato in altri studi ed in aree geografiche differenti, aveva evidenziato anche una prevalenza maggiore del diabete nel genere femminile.

Secondo i dati dell’Osservatorio ARNO, la prevalenza di diabete trattato farmacologicamente è pari al 5.2%. Il 63% dei pazienti diabetici viene trattato con farmaci ipoglicemizzanti, il 6.5% con ipoglicemizzanti+insulina, 11% con insulina.

Quest’ultima forma di terapia è praticata da oltre il 75% dei casi di diabete con età inferiore a 19 anni .

Relativamente al diabete tipo 1 sono stati recentemente pubblicati dati di prevalenza nella popolazione pediatrica (0-18 anni) nella regione Veneto, che documentano nell’anno 2013 una prevalenza pari a 1.26/1000 soggetti, con un aumento della prevalenza del 15,8% rispetto al 2008, senza significative differenze di genere .

INCIDENZA DEL DIABETE

È possibile stimare che ogni anno si verifichino 5-7 nuovi casi di diabete tipo 2 ogni 1000 persone, senza significative differenze di genere.

Relativamente al diabete tipo 1, i dati ottenuti dal registro di Torino documentano un’incidenza pari a 9.3/100000 soggetti/anno nel ventennio

(16)

1984-2004 in un’età compresa tra 0 e 29 anni, risultando più elevata in età pediatrica che fra i giovani adulti e con un incremento del 60% nel periodo 2000-2004 rispetto al 1984-1989 in entrambe le fasce d’età.

Secondo quanto ricavato dal Registro del diabete tipo 1 in Italia nel periodo 1990-2003, il tasso di incidenza era pari a 12.26 per 100.000 persone/ anno, risultando significativamente più elevato nel genere maschile (13.13 vs. 11.35). In Sardegna, l’incidenza di diabete tipo 1 in età pediatrica (0-14 anni) risulta decisamente più elevata, secondo quanto emerge dal registro regionale, risultando pari a 44.8/100000 soggetti/anno nel ventennio 1989-2009 , con un incremento annuo del 2.12% .

Secondo i più recenti dati dell’Istituto Superiore di Sanità , nel quinquennio 2005-2010, il valore medio nazionale del tasso di incidenza del diabete tipo 1 nei bambini di età compresa fra 0 e 4 anni, stimato utilizzando le prime ospedalizzazioni, è pari a 13.4/100.000/anno, ed è più alto nei bambini (14.1/100000/anno) rispetto alle bambine (12.7/100000/anno).

La distribuzione geografica del tasso, come atteso, è risultata estremamente eterogenea. La Sardegna presenta il più elevato tasso di incidenza 55.6/100000/anno. Valori significativamente superiori rispetto a quello medio nazionale si registrano anche in Sicilia (18.7/100000/anno) e nelle Marche (18.4/100000/anno); al contrario, in Lombardia, Veneto, Toscana e Puglia si rilevano valori significativamente inferiori. Nel complesso, nell’area meridionale e insulare l’incidenza risulta più elevata rispetto al nord del Paese. Tuttavia, l’incidenza di diabete tipo 1, desunta sempre dalle schede di dimissione ospedaliera nel periodo 2001-2013 nei bambini di età compresa fra 0 e 14 anni in Puglia, risulta pari a

(17)

18.3/100000 soggetti/anno . Sono stati, inoltre, recentemente pubblicati i dati di incidenza relativi alla popolazione pediatrica (0-18 anni) nella regione Veneto, che documentano nel 2012 un’incidenza pari a 16.5/100000 persone/anno, senza differenze di genere. L’incidenza è risultata più bassa nei bambini di età compresa tra 0-4 anni (12/100.000/anno) rispetto agli atri gruppi di età, in particolare, si osservava un picco di incidenza pari a 22/100.000/anno tra 10 e 14 anni . La prevalenza del Latent Autoimmune Diabetes in Adults (LADA), una forma di diabete autoimmune a progressione più lenta, risulta pari al 4.5%, secondo stime ottenute impiegando la misura degli anticorpi anti GAD e IA-2A . Le caratteristiche cliniche dei pazienti con LADA (ad es. più giovane età alla diagnosi e peso inferiore) sono differenti da quelle del diabete tipo 2 e più simili a quelle del diabete tipo 1.

PREVALENZA E INCIDENZA DEL PREDIABETE

La diagnosi di diabete è preceduta da una fase asintomatica nella quale si può osservare una spiccata variabilità fenotipica delle manifestazioni associate all’alterazione dell’omeostasi glucidica. La presenza di iperglicemia a digiuno (IFG), ridotta tolleranza glucidica (IGT) o la combinazione di entrambe queste condizioni costituiscono un insieme di categorie che vanno sotto il nome di Alterazioni della Regolazione Glicemica (ARG) che dovrebbero essere considerate non solo fattori di rischio per lo sviluppo di diabete, ma anche fattori associati allo sviluppo di complicanze sia macrovascolari che microvascolari.

(18)

di IGT si attesta al 6.7%. Approssimativamente 318 milioni di persone, con un’età compresa fra i 20 ed i 79 anni, si trovano in una condizione di rischio per diabete, e malattie cardiovascolari. In Italia, sempre secondo le stime dell’IDF, ricavate da due studi non recenti la prevalenza di IGT è pari a 6% con tassi superiori fra le donne (1.549.000) rispetto agli uomini (1.105.000) e con una relazione positiva all’età. A distanza di 10 anni il tasso di conversione a diabete risulta pari al 7.6%, con un rischio 11 volte superiore fra i soggetti con IFG, 3.9 volte fra i soggetti IGT e 20.5 volte superiore fra coloro che presentavano la combinazione IFG/IGT .Impiegando questionari specifici come il FINDRISC si ha una buona possibilità di identificare i casi di DM2 non diagnosticato o di IGT, con una sensibilità del 77% ed una specificità del 44% . Sempre il questionario FINDRISK impiegato in combinazione con la glicemia a digiuno permette di identificare la maggioranza dei soggetti con diabete e il 50% di quelli con IGT, e di limitare il numero dei soggetti da sottoporre a OGTT. Questo dato è stato confermato nelle coorti italiane dello studio europeo DE-PLAN . Dai dati raccolti dai medici di medicina generale su 25.000 individui fra i 30 ed i 64 anni, e dall’analisi dell’OGTT eseguito nei soggetti a rischio, la prevalenza di IFG e IFG/IGT risultava 8.3% e 1.2%, rispettivamente . Nei soggetti ad alto rischio, afferenti ai servizi di diabetologia, reclutati nello studio GENFIEV e valutati sempre con OGTT, è stata riscontrata una normale regolazione glucidica (NGT) nel 50% dei casi, mentre il 4% presentava IFG, il 23% IGT, il 18% IFG+IGT e il 15% diabete .

Nell’infanzia, i dati europei evidenziano una prevalenza di IFG e IGT compresa tra 1%-3.7% e fra 2.1%-4.5%, rispettivamente. In Italia, nella

(19)

fascia d’età compresa tra 8-18 anni, la prevalenza di AGR, risulta pari a 7.7% (2.4% IFG; 4.7% IGT e 0.5% IFG+IGT). In presenza di obesità/sovrappeso la prevalenza di IFG risulta più elevata e pari a 3.4%.

MECCANISMO DI DANNO B- CELLULARE NEL DM DI

TIPO II E POSSIBILE IMPATTO DEI FARMACI

ANTIDIABETE

La disfunzione β-cellulare rappresenta uno dei meccanismi principali nella patogenesi del diabete mellito di tipo 2 e può precedere di diversi anni l’insorgenza del diabete manifesto. Il deterioramento della funzione delle β-cellule è un fenomeno progressivo che interessa sia la massa sia l’attività secretiva cellulare e riconosce diversi meccanismi che portano, nel tempo, alla morte β-cellulare.

Fenomeni quali l’infiammazione, lo stress ossidativo, i depositi di amiloide e lo stress del reticolo endoplasmatico sono stati implicati nel danno cellulare e questi fenomeni possono svilupparsi per una complessa interazione tra fattori ambientali e fattori genetici.

La preservazione della funzione β-cellulare è un obiettivo importante nella gestione della malattia diabetica e i diversi farmaci oggi utilizzati nel trattamento per il diabete possono intervenire in maniera differente sulla funzione delle β-cellule, favorendone in alcuni casi il deterioramento o prevenendo, in altri, i fenomeni di apoptosi che portano alla morte

(20)

cellulare.

Funzione e “disfunzione” β-cellulare

Il pancreas endocrino di un soggetto sano contiene circa un milione di isole di Langerhans, sede delle cellule α β δ e PP. Le β-cellule pancreatiche, adibite alla produzione e secrezione dell’insulina, costituiscono circa il 70-80% della componente cellulare delle isole e, assieme alle altre cellule insulari, hanno la funzione di regolare con meccanismi piuttosto complessi le concentrazioni plasmatiche del glucosio.

La fisiologia della secrezione insulinica è finemente regolata;difatti, sebbene diverse sostanze farmacologiche possano avere un effetto “secretagogo”, cioè di stimolo sulla secrezione di insulina, è il glucosio la principale molecola che regola l’attività secretiva delle β-cellule pancreatiche. Dopo il suo ingresso a opera di specifici trasportatori, il glucosio viene fosforilato dalla glucokinasi e il suo successivo metabolismo all’interno della β-cellula porta a un’aumentata sintesi di ATP, che fornisce l’energia necessaria per l’inizia le secrezione insulinica dai granuli preformati (secrezione rapida), seguita da quella dai granuli di nuova formazione. La secrezione fisiologica di insulina in seguito all’ingresso del glucosio nella β-cellula si caratterizza infatti per un picco rapido (entro 10 minuti circa), cui segue un rilascio di insulina più consistente e prolungato. A questo si aggiunge una secrezione basale, pulsatile, con picchi regolari ogni 15 minuti circa, che è particolarmente rilevante per la regolazione del metabolismo del glucosio nei tessuti

(21)

periferici, soprattutto a livello epatico. A livello dei tessuti periferici l’insulina determina infatti due eventi fondamentali nell’omeostasi glucidica:da un lato sopprime la produzione epatica di glucosio e, dall’altro, favorisce l’ingresso e l’utilizzazione del glucosio in fase postprandiale.

Nei soggetti con diabete mellito di tipo 2 (DM2), questi meccanismi sono alterati a causa dell’insulino-resistenza periferica e del relativo deficit di secrezione insulinica, che rappresentano le due principali alterazioni patogenetiche alla base della malattia. Tuttavia, sebbene entrambi i difetti siano essenziali per lo sviluppo e la progressione del diabete, il loro peso può essere estremamente variabile in ciascun paziente.

L’insulino-resistenza rappresenta senz’altro il primo difetto nella storia naturale del DM2, precedendo anche di anni l’insorgenza dell’iperglicemia. Nelle condizioni di insulino-resistenza,si assiste inizialmente a un incremento della secrezione di insulina, con lo scopo di mantenere l’euglicemia. In questa fase precoce, infatti, le β-cellule rispondono all’aumentata richiesta periferica di insulina attivando meccanismi di compenso che prevedono sia un’espansione della massa β-cellulare sia l’iperfunzione delle cellule esistenti, il tutto finalizzato ad aumentare la quantità di ormone secreto.

Quando all’insulino-resistenza si sovrappone la “disfunzione β-cellulare”, cioè l’incapacità delle β-cellule di compensare la resistenza periferica con una secrezione adeguata di insulina,compaiono l’iperglicemia e il diabete manifesto.

Dal punto di vista clinico questo in genere si traduce dapprima nella comparsa dell’iperglicemia postprandiale. Successivamente, a seguito

(22)

della perdita della secrezione pulsatile basale e della mancata soppressione della produzione epatica di glucosio, si manifesta anche l’iperglicemia a digiuno.

Esistono ormai numerose evidenze che dimostrano come la perdita progressiva della funzione β-cellulare anticipi la comparsa del DM2 manifesto. Come dimostrato dallo United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS), un deterioramento della secrezione insulinica è infatti già presente nel 50% dei pazienti diabetici al momento della diagnosi.

Meccanismi implicati nella disfunzione

βcellulare: ridotta secrezione o ridotta massa β-cellulare?

Il deficit β-cellulare può dipendere da un declino nella massa e/o nella funzione secretoria delle β-cellule, ma questi due momenti patogenetici non sono necessariamente correlati.

Le alterazioni delle β-cellule pancreatiche nel DM2 si caratterizzano infatti per alterazioni sia di tipo quantitativo, cioè una perdita progressiva della massa di β-cellule, sia per alterazioni di tipo qualitativo,che portano a un progressivo deterioramento della loro funzione secretiva. Quest’ultimo difetto,come è noto, si caratterizza per la perdita della prima fase rapida di secrezione insulinica, seguito dalla perdita della secrezione pulsatile basale e da un incremento del rapporto proinsulina/insulina, che indica la ridotta capacità della β cellula di convertire la proinsulina, precursore dell’ormone, in insulina e C-peptide. L’alterazione della fase precoce di secrezione insulinica dopo un carico orale di glucosio è infatti considerata come un predittore di progressione da “prediabete” a DM2 manifesto.

(23)

La perdita di funzione della β cellula nei soggetti con “prediabete” è legata in gran parte anche a una riduzione della massa β cellulare, come dimostrato da Butler et al. in uno studio su reperti autoptici, che ha evidenziato una perdita del 40% della massa β cellulare nei soggetti con ridotta tolleranza glucidica e di oltre il 60% in quelli con diabete conclamato.

Diversi meccanismi sono stati chiamati in causa per spiegare la riduzione del numero e della funzione delle β cellule nel DM2.

Tra questi vi è lo stress del reticolo endoplasmatico (ER), un fenomeno che potrebbe essere innescato dall’aumentata richiesta di secrezione insulinica e determina l’accumulo di proteine non correttamente processate e l’attivazione dell’unfolded protein response(UPR), con lo scopo di ripristinare le normali condizioni fisiologiche dell’ER. Quest’attivazione innesca però una cascata di segnali responsabili distress cellulare con conseguente produzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) e attivazione di una risposta infiammatoria.

Anche la “gluco-lipotossicità” legata all’overload nutrizionale riveste un ruolo cruciale. Infatti, lo stress ossidativo che ne consegue, oltre ad alterare l’espressione di fattori di trascrizione che regolano importanti funzioni della β-cellula , è stato associato a un’alterazione della fosforilazione ossidativa e a una diminuita sintesi di ATP, con conseguente ridotta secrezione di insulina. Oltre a interferire con la sintesi di insulina, il fenomeni di gluco- e lipotossicità possono anche favorire i processi apoptotici e alterare i meccanismi di rigenerazione tipici della β-cellula . La sostanza amiloide è un altro fattore che è stato posto in relazione con il danno della massa β-cellulare.

(24)

La formazione di placche amiloidi a livello delle isole pancreatiche è stata riscontrata infatti in reperti autoptici di circa il 90% dei soggetti con DM2. Il principale costituente dei depositi di amiloide nel pancreas è il polipeptide amiloide insulare (IAPP), o amilina, la cui espressione nelle β-cellule sembra stimolata dalla presenza cronica di elevati livelli di glucosio e acidi grassi circolanti. Questo peptide, normalmente solubile, viene convertito in fibrille insolubili che portano alla formazione dei depositi di amiloide e la sua relazione con il danno β-cellulare sarebbe legata agli effetti citotossici a livello cellulare.

Tuttavia, la relazione tra l’amiloidosi delle isole pancreatiche e la patogenesi del DM2 non è stata del tutto chiarita. L’entità della formazione delle placche amiloidi nel DM2 è infatti molto variabile e, in alcuni soggetti diabetici, molto modesta. Inoltre,non è possibile determinare l’entità di questo fenomeno in vivo nell’uomo. Si ipotizza pertanto che la formazione dei depositi di amiloide possa rappresentare una conseguenza piuttosto che la causa delle alterazioni della massa β-cellulare tipiche del DM2.

Non ultima, l’infiammazione cronica di basso grado che si accompagna all’obesità e al DM2 è un altro fenomeno associato alla disfunzione β-cellulare. Il tessuto pancreatico rappresenta infatti una delle sedi del processo infiammatori sistemico, e nel suo contesto è stata descritta la presenza di infiltrazioni di macrofagi e altre cellule produttrici di citochine proinfiammatorie che possono interferire con il segnale insulinico a livello dei tessuti periferici o determinare disfunzione β-cellulare con deficit della secrezione insulinica.

(25)

possono portare nel tempo a una progressiva disfunzione delle β-cellule, fino alla perdita della massa β-cellulare per morte cellulare o possibili fenomeni di de-differenziazione delle β-cellule mature verso cellule meno differenziate, sebbene il ruolo della de-differenziazione nella patogenesi della disfunzione β-cellulare nel DM2 debba essere ancora chiarito.

Fattori genetici associati alla disfunzione β-cellulare

È osservazione comune che nel DM2 l’entità della disfunzione β-cellulare e della sua progressione siano estremamente variabili da soggetto a soggetto. Al di là dei meccanismi che sono stati appena citati, tale variabilità è legata alla predisposizione genetica di ciascun soggetto e, ancora di più, all’interazione tra numerosi loci genetici predisponenti e fattori ambientali . Il ruolo della componente genetica nella patogenesi del DM2 ha infatti acquisito nell’ultimo decennio un’importanza sempre maggiore, e le stime dei genome wide association studies,GWAS, indicano allo stato attuale oltre 60 loci genici associati al rischio di DM2.

Sebbene il meccanismo attraverso il quale molte di queste varianti geniche predispongano allo sviluppo del DM2 non sia ancora stato chiarito, si ritiene che la maggior parte dei geni coinvolti siano implicati nello sviluppo e nella funzione della cellula o nella regolazione della massa β-cellulare.

Il gene che è stato più fortemente associato al rischio di DM2 è il gene TCF7L2 (transcription factor 7-like 2), localizzato sul cromosoma 10 e implicato nel WNT signaling, un network di proteine coinvolte nell’embriogenesi, nella proliferazione e motilità cellulare, anche a livello

(26)

pancreatico.

Studi funzionali suggeriscono che varianti di questo gene,tra le quali la più studiata è la variante intronica rs7903146,possano conferire suscettibilità allo sviluppo di DM2 principalmente attraverso un’alterazione della secrezione insulinica. Nei soggetti carrier dell’allele di rischio T rs7903146 è stata riscontrata infatti una ridotta secrezione insulinica sia in risposta al glucosio sia all’arginina rispetto agli omozigoti wild type,con una riduzione dell’ insulinogenic index, un indice di funzionalità β-cellulare (vedi in seguito), del 50%.

La compromissione della secrezione insulinica in questi soggetti sarebbe determinata dall’alterazione dei meccanismi di esocitosi dei granuli di insulina, oltre a un effetto sull’asse entero-insulare e sulla risposta delle β-cellule agli ormoni incretinici.

Tra gli altri geni associati alla suscettibilità al DM2, varianti nel locus MADD sono state associate a un’alterazione nelle fasi di processamento dell’insulina, dimostrata dall’associazione degli alleli di rischio con elevati livelli a digiuno di proinsulina ma non di C-peptide, mentre i geni SLC30A8, GIPR e C2CD4B sono stati associati a una ridotta secrezione dell’ormone, caratterizzata da elevati livelli di proinsulina e insulino-genic index ridotto, e i loci MTNR1B, FADS1, DGKB e GCK a una compromissione nella fase precoce della secrezione insulinica.

In particolare, il gene MTNR1B (melatonin receptor 1B) codifica per una proteina di membrana che svolge la funzione di recettore per la melatonina ed è espresso, oltre che nel tessuto cerebrale e retinico, anche nelle β-cellule pancreatiche.

(27)

sono state associate a una ridotta secrezione insulinica dopo carico orale o venoso di glucosio, confermando la relazione tra la secrezione dell’ormone e il ritmo circadiano e suggerendo una possibile alterazione della risposta della β-cellula alla melatonina.

Il gene SLC30A8 (solute carrier family 30 member 8) codifica per il trasportatore dello zinco Znt8, necessario per l’ingresso dello zinco nei granuli secretori di insulina e la corretta maturazione e storage dell’ormone. Sebbene con risultati non univoci, varianti geniche nel locus di questo trasportatore sono state associate a una ridotta secrezione insulinica e un aumento dei livelli circolanti di proinsulina, per un possibile difetto nel funzionamento del trasportatore con conseguente riduzione dei livelli intracellulari di zinco e un difetto di cristallizzazione dell’insulina.

Nonostante i recenti progressi legati ai GWAS, i geni a oggi individuati rappresentano solo il 5-10% della componente genetica del DM2, suggerendo la necessità di individuare le varianti più rare, ma con un possibile maggior impatto sulla suscettibilità alla malattia, e soprattutto la necessità di approfondire gli studi funzionali per chiarire i meccanismi attraverso i quali le varianti geniche individuate influenzano la biologia della β-cellula e lo sviluppo del diabete.

Lo studio della funzione β-cellulare

La complessità della funzione β-cellulare fa sì che attualmente nessun test in vivo sia in grado, da solo, di indagare in maniera accurata tutti gli aspetti della fisiologia e/o della disfunzione della β-cellula.

(28)

Il dosaggio dell’insulina plasmatica a digiuno, sebbene largamente utilizzato, non riflette in maniera precisa la funzione della β-cellula, dal momento che le concentrazioni plasmatiche dell’insulina sono influenzate anche da altri meccanismi successivi alla fase di secrezione, come la distribuzione, la degradazione e la clearance.

Diverse metodiche statiche e dinamiche, oggi supportate anche da complessi modelli matematici, sono dunque utilizzate per ottenere una stima della funzione β-cellulare che tenga conto non solo della secrezione di insulina, ma anche della sua correlazione con i livelli plasmatici di glucosio.

Tra queste, l’indice HOMA-B (homeostatic model assessment-B), uno degli indici più utilizzati negli studi clinici ed epidemiologici, si basa sul rapporto tra insulinemia e glicemia a digiuno e rappresenta una funzione della secrezione β-cellulare, sebbene presenti alcune limitazioni e necessiti di essere interpretato con cautela.

Un’altra metodica basata sullo studio in condizioni di digiuno è il calcolo del rapporto proinsulina/insulina (PI/I), che valuta la capacità della β-cellula di convertire la proinsulina in insulina e può essere utilizzato per stimare il grado di secrezione da parte della β-cellula. L’aumento dei livelli circolanti di proinsulina è considerato un marcatore precoce di disfunzione β-cellulare e nei soggetti affetti da DM2 il rapporto proinsulina/insulina risulta aumentato di 2-3 volte rispetto ai soggetti non diabetici.

Tra i test dinamici, la risposta acuta dell’insulina dopo un carico ev di glucosio (acute insulin response, AIRg), espressione della prima fase di secrezione dell’ormone, può essere calcolata valutando l’incremento rispetto al baseline dell’insulinemia plasmatica dopo un intervallo

(29)

compreso tra i 2 e i 10 minuti dalla somministrazione del glucosio.

I principali dati che si ottengono dall’OGTT sono quelli relativi alle caratteristiche della prima e seconda fase della secrezione insulinica, generalmente espressi come area incrementale sotto la curva (AUC) dell’insulina durante il periodo (2-3 ore) di esecuzione del test.

Il rapporto tra l’aumento dell’insulina e del glucosio plasmatico 30 minuti dopo OGTT, IVGTT o dopo un pasto misto, noto come insulinogenic index (∆I/∆G-30), mette in relazione l’incremento dell’insulina circolante rispetto all’entità dello stimolo rappresentato dal glucosio, che è tipicamente ridotto nei soggetti affetti da DM2. La “deconvoluzione del C-peptide plasmatico”si basa su un sofisticato modello matematico e consente un’accurata valutazione della secrezione insulinica totale “pre-epatica”.

In base a questo metodo, la cinetica del C-peptide nel plasma periferico riflette la cinetica della sua secrezione pancreatica,dal momento che il C-peptide non va incontro al metabolismo epatico come l’insulina, e può essere utilizzato dunque per avere una stima della secrezione insulinica a partire dalle concentrazioni plasmatiche del C-peptide.

L’utilizzo della somministrazione di glucosio per os come durante un carico orale di glucosio o di un pasto misto,sebbene rappresenti uno stimolo “più fisiologico” alla secrezione insulinica, è considerato meno specifico per lo studio della funzione β -cellulare rispetto alla somministrazione per via endovenosa, dal momento che in seguito alla somministrazione orale altre sostanze possono stimolare la secrezione pancreatica di insulina, come gli ormoni intestinali.

(30)

prescindere dalla sua correlazione con il grado di insulino-resistenza e dall’utilizzo, dunque, delle diverse metodiche di glucose clamp per la valutazione della sensibilità insulinica.

Ruolo dei farmaci ipoglicemizzanti sulla funzione β-cellulare

I farmaci oggi a disposizione per il trattamento del DM2 sono attivi sui principali difetti metabolici che ne stanno alla base: l’insulino-resistenza (metformina e tiazolidinedioni, TZD) e il deficit β-cellulare (sulfoniluree, glinidi, incretine), il deficit incretinico e l’eccesso di glucagone (incretine), il riassorbimento renale di glucosio (SGLT-2 inibitori) o l’assorbimento intestinale di glucosio (inibitori dell’α-glucosidasi).

La possibilità che alcuni di essi possano migliorare la disfunzione β-cellulare ha un rilievo clinico particolarmente importante, dal momento che questo può rallentare il peggioramento del compenso glicemico e il passaggio definitivo alla terapia insulinica nei pazienti con DM2.

Il miglioramento della funzione β-cellulare riportata in alcuni studi sembra riconducibile all’effetto “ipoglicemizzante” delle diverse terapie. Infatti, praticamente tutti i farmaci, seppur con meccanismi diversi, sono in grado di ridurre il grado di glucotossicità, migliorando “in acuto” la funzione e lo stunning delle β-cellule.

Per esempio, nello studio ADOPT, tutti i farmaci, incluse le sulfoniluree, erano in grado di migliorare nel breve termine l’indice HOMA-B , mentre con il passare del tempo vi erano differenze nel declino della funzione β-cellulare in base al tipo di trattamento.

(31)

Per molti dei farmaci ipoglicemizzanti a nostra disposizione è stato infatti dimostrato un miglioramento degli indici surrogati di funzione β-cellulare, anche se la difficoltà di misurare la funzione secretiva delle β-cellule in vivo e le diverse situazioni cliniche e sperimentali complicano l’interpretazione di questi risultati.

Per la metformina, uno dei farmaci da più lungo tempo in commercio, sono pochi gli studi che hanno valutato gli effetti sulla riserva β-cellulare, probabilmente poiché il suo meccanismo d’azione è legato principalmente alla riduzione del grado di insulino-resistenza. È noto come la metformina sia in grado, clinicamente, di ridurre la conversione da pre-diabete a diabete manifesto in persone a elevato rischio e che il suo uso si associ a un declino dell’indice HOMA-B minore rispetto ad altri ipoglicemizzanti. Al di là del miglioramento della funzione β-cellulare secondario alla ridotta glucotossicità, diverse evidenze sperimentali sembrano indicare un ruolo diretto della metformina sulle β-cellule. Infatti, studi in vitro hanno dimostrato un aumento della secrezione insulinica in pancreas isolati e perfusi o β-cellule esposti alla metformina, con un miglioramento del pattern di secrezione e la prevenzione dell’apoptosi delle β-cellule in presenza di concentrazioni tossiche di glucosio o FFA. In uno studio condotto su insule pancreatiche isolate da sei donatori di organi affetti da DM2, Marchetti et al. hanno inoltre dimostrato come concentrazioni terapeutiche di metformina fossero in grado di migliorare la sopravvivenza delle β-cellule e di ridurre l’espressione di diversi marcatori di apoptosi. Molto più numerose sono le segnalazioni per l’altra classe di farmaci insulino-sensibilizzanti, i TZD, il cui meccanismo d’azione è legato all’attivazione del peroxisome proliferatoractivated receptor

(32)

gamma(PPAR-γ) che regola l’espressione di diversi geni implicati nel metabolismo glicolipidico e nella differenziazione delle cellule adipose . Infatti, diversi studi in modelli sia animali sia clinici, hanno dimostrato come i TZD migliorino la funzione β-cellulare, probabilmente con un effetto diretto sulla β-cellula, suggerito anche dalla presenza sulle β -cellule umane di recettori PPAR-γ.

Anche le evidenze cliniche sono molto numerose e in generale confermate dalla maggiore durabilità del compenso glicemico con questa classe di farmaci. Diversi studi, per esempio, hanno dimostrato come il trattamento con pioglitazone da 12 a 28 settimane, da solo o in associazione alle sulfoniluree, a metformina e/o a insulina, fosse in grado di ridurre i livelli di proinsulina o il rapporto proinsulina/insulina in modo più evidente rispetto agli altri bracci di trattamento.

Numerosi sono anche gli studi sperimentali che hanno dimostrato un ruolo degli incretino mimetici sulla funzione e sulla massa delle β-cellule.

La terapia incretinica, sia con inibitori degli enzimi DPP4 sia con analoghi recettoriali del GLP-1, corregge molti dei difetti patogenetici tipici del DM2, potenziando la secrezione insulinica postprandiale, riducendo le concentrazioni di glucagone, riducendo l’appetito e il peso corporeo. In aggiunta, diverse evidenze sperimentali e cliniche suggeriscono un ruolo di potenziale preservazione della funzione β-cellulare. Infatti, studi in modelli sperimentali hanno dimostrato come la terapia incretinica sia in grado di determinare la proliferazione e la differenziazione delle β-cellule, di indurre neogenesi e ridurre i fenomeni apoptotici, di migliorare la massa β cellulare e il normale rapporto tra β-cellule e α-cellule anche in modelli animali di diabete.

(33)

Per esempio ratti Zucker (Zucker diabetic fatty rats; ZDF), sottoposti a infusione continua di GLP-1 per 2 giorni, mostravano un miglioramento del compenso glicemico, un aumento della proliferazione delle β-cellule, come dimostrato dagli aumentati livelli di Ki-67, un marcatore di proliferazione delle β-cellule, e una riduzione dei marcatori di apoptosi. Il trattamento con analoghi del GLP-1 inoltre era associato a un

aumento della massa β-cellulare nei soli animali iperglicemici. Negli studi di fase 3, proglatide era in grado di aumentare l’indice HOMA-B del ~25% e di ridurre il rapporto proinsulina/insulina. Risultati simili sono stati ottenuti anche con gli altri analoghi del GLP-1, come exenatide che, a parità di effetto sul compenso glicemico, si è dimostrata superiore alla terapia con insulina glargine sui marcatori di disfunzione β-cellulare.

Inoltre, l’inibizione dell’enzima DPP-4 promuove il ripristino di un normale rapporto β-cellule/α-cellule in modelli animali (topi) di DM2 e gli studi clinici sugli inibitori del DPP-4 mostrano un miglioramento della capacità secretiva della cellula e degli indici surrogati di funzione β-cellulare, come l’indice HOMA-B e il rapporto proinsulina/insulina, sebbene non significativo rispetto ad altri ipoglicemizzanti orali. Ma evidenze di un effetto benefico sulla funzione delle β-cellule esistono anche per sulfoniluree, glinidi , inibitori dei co-trasportatori sodio-glucosio 2 (SGLT-2), chirurgia bariatrica e la stessa terapia insulinica.

Riguardo alle sulfoniluree, l’effetto di “miglioramento” sulla funzione β-cellulare sembra in larga parte dipendere dal tipo di test utilizzato e mediato dal loro meccanismo d’azione di stimolo della secrezione insulinica, mentre altri studi hanno dimostrato come l’uso prolungato di questi farmaci fosse associato con concentrazioni di insulina uguali o

(34)

minori rispetto ai valori pre trattamento. Esistono inoltre evidenze che le sulfoniluree non modificano o aumentano i livelli di proinsulina.

Questa minore protezione offerta dalle sulfoniluree nei confronti della funzione β-cellulare sembra suggerita anche dall’analisi basale dello studio BetaDecline, uno studio prospettico multicentrico promosso dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD), che aveva come scopo quello di identificare i predittori clinici di progressione della disfunzione β-cellulare in pazienti con DM2. I risultati di questo studio mostrano, alla valutazione basale, come i farmaci secretagoghi (sulfoniluree e glinidi) siano associati a un rischio ~4 volte maggiore (OR 4,2;IC al 95%, 2,6-6,9) di disfunzione β-cellulare rispetto alle altre classi prese in esame all’inizio dello studio (metformina,TZD,acarbosio). Il follow-up di questo studio, appena conclusosi, potrà confermare o meno questa associazione.

Anche la terapia insulinica intensiva per un periodo di tempo limitato è seguita da un miglioramento della funzione secretoria delle β-cellule. Infatti, il trattamento insulinico precoce è raccomandato in caso di iperglicemia severa all’esordio o in qualsiasi momento di “scompenso” nella storia del DM2.

Studi clinici hanno dimostrato come una terapia insulinica intensiva a breve termine (short-term intensive insulin therapy, IIT) in pazienti di nuova diagnosi possa avere effetti benefici sulla funzione β-cellulare, mantenendo il controllo glicemico fino a un anno dalla sospensione della terapia.

Questi dati sono stati confermati anche in una recente metanalisi su un ampio numero di pazienti che ha dimostrato come la terapia insulinica fosse in grado di indurre la remissione dal DM2 in oltre il 40% dei pazienti

(35)

fino a 24 mesi dalla diagnosi, suggerendo un potenziale ruolo della terapia insulinica precoce nel modificare in maniera favorevole la storia naturale della malattia.

La rapida correzione dell’iperglicemia determina infatti un miglioramento della secrezione insulinica per eliminazione della glucotossicità. I benefici della terapia insulinica sulle β-cellule potrebbero però anche essere legati almeno in parte ai suoi effetti antinfiammatori, in grado di influenzare in modo diretto la sopravvivenza cellulare.

Tutte queste evidenze indicano quindi che diversi farmaci hanno le potenzialità, se non di arrestare, almeno di rallentare la progressione del danno β-cellulare. Ma scegliere quale tra queste opzioni terapeutiche sia quella “giusta” è materia ancora più controversa, dal momento che gli studi di comparazione tra i vari farmaci ipoglicemizzanti sulla funzione β-cellulare sono a tutt’oggi davvero limitati. Una metanalisi ha recentemente valutato gli studi randomizzati e controllati che hanno testato metformina, pioglitazone e sitagliptin sugli indici HOMA-B e sul rapporto proinsulina/insulina. Come mostrato nella figura 2, gli studi presi in esame nella metanalisi,che avevano una durata media di 12-54 settimane, hanno evidenziato come la metformina migliorava la funzione β-cellulare più degli altri due farmaci, e l’associazione metformina sita gliptin più delle altre associazioni.

In uno studio di comparazione con insulina, dopo 52 settimane di terapia, il gruppo in trattamento con exenatide aveva un aumento di tutte le misure della funzione

β-cellulare, con aumento della secrezione di C-peptide stimolatada glucosio nella prima e nella seconda fase di 1,53 e 2,85 volte (p < 0,0001)

(36)

rispetto a glargine. Al contrario, uno studio di Weng et al. ha dimostrato la superiorità della terapia insulinica su altri tipi di intervento in pazienti di nuova diagnosi.

Le evidenze sul ruolo cruciale della disfunzione β-cellulare nell’insorgenza e nella progressione del DM2 sono ormai consolidate. Vi è quindi enorme interesse sui meccanismi fisiopatologici che ne sono alla base, oggi oggetto di un intenso studio che ha lo scopo finale di individuare quali variabili, cliniche o genetiche, siano in grado da un lato di predire l’evoluzione della disfunzione delle β-cellule e, dall’altro, di identificare potenziali target terapeutici per arrestarla.

Uno dei problemi che si incontrano nella pratica clinica è quello di “diagnosticare” il grado di disfunzione β-cellulare, dal momento che i test più attendibili sono quelli meno applicabili su larga scala.

Alla luce delle attuali conoscenze, diversi farmaci sono in grado di incidere sulla funzione delle β-cellule, almeno nel breve termine. Certo è che nella maggior parte dei pazienti con DM2 vi è la necessità di intensificare la terapia per mantenere nel tempo il compenso glicemico, e che i farmaci con maggiore durability sembrano avere migliori performance intermini di protezione β-cellulare. Quanto questo si traduca in un’effettiva protezione nei confronti della progressiva perdita della massa di β-cellule è ancora oggetto di studio.

(37)

FARMACOLOGIA BIGUANIDI

Le biguanidi fecero la loro comparsa come farmaci ipoglicemizzanti alla fine degli anni ’50, ma il loro impiego clinico fu messo in discussione dopo la pubblicazione nel 1976 dei risultati dello studio “University Group Diabetes Program” (UGDP) per i possibili effetti collaterali a esse attribuiti. Infatti, l’uso preferenziale della fenformina spesso a dosaggi eccessivi, e in particolare la segnalazione di casi di acidosi lattica durante il trattamento, avevano suggerito particolare cautela per questa classe di farmaci, che fu addirittura bandita da alcuni Paesi (USA e Canada)1 . Una serie di studi clinici condotti nei primi anni ’90 e le migliori conoscenze sui meccanismi di azione e sul profilo farmacocinetico, hanno riabilitato la metformina (MT), che oggi rappresenta il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete di tipo 2 e della sindrome metabolica. La MT svolge la sua azione ipoglicemizzante soprattutto negli stati di insulino-resistenza, ripristinando la sensibilità dei tessuti all’azione dell’insulina senza influenzarne direttamente la secrezione. Di conseguenza agisce solo in presenza di insulina e di per sé non causa ipoglicemia in condizioni di euglicemia sia nei diabetici sia nei soggetti sani . L’azione ipoglicemizzante della MT è stata attribuita da tempo alla sua capacità di inibire la funzione mitocondriale e di ridurre a livello epatico la fosforilazione ossidativa e il ciclo di Krebs3 . Ne consegue, per una progressiva riduzione dei livelli intracellulari di ATP, un accumulo di coenzimi ridotti, NADH in particolare, e una riduzione del potenziale redox cellulare. La caduta dei livelli intracellulari di ATP stimola la via glicolitica nel tentativo di compensare il deficit energetico cellulare. Se da

(38)

un lato tutto questo consente una diminuzione della produzione epatica di glucosio, contribuendo alla riduzione della glicemia nei diabetici, dall’altro produce un ulteriore accumulo di substrati gluconeogenetici, lattato, piruvato, alanina e glicerolo. Di qui si spiega l’aumento della produzione di lattato rilevato in corso di terapia con biguanidi, più evidente per la fenformina che per la MT. Infatti, il radicale metilico della MT conferisce a questa molecola una minore permeabilità di membrana rispetto alla fenformina, dotata di una maggiore lipofilia in virtù del suo radicale difenilico. Studi più recenti hanno focalizzato maggiore attenzione sulla MT, definendone meglio i suoi meccanismi di azione. L’effetto ipoglicemizzante della MT è più evidente sulla glicemia a digiuno, dal momento che il farmaco agisce soprattutto a livello epatico riducendo la gluconeogenesi. Più recentemente il suo meccanismo d’azione cellulare è stato posto in relazione con l’attivazione del sistema AMPK (AMPmediated phosphokinase). Tale complesso enzimatico è un importante modulatore cellulare del metabolismo glucidico e lipidico. L’attività della AMPK aumenta in risposta alla deplezione delle scorte cellulari di energia e inibisce la gluconeogenesi epatica attraverso la soppressione dell’attività della acetil-CoA carbossilasi, ma è operativa anche a livello muscolare dove aumenta l’utilizzazione di glucosio. Numerosi studi clinici hanno dimostrato la capacità della MT di ridurre la glicemia sia a digiuno sia post-prandiale nei pazienti con diabete di tipo 2 in misura non inferiore a quanto osservato con le sulfoniluree o i glitazonici, e di potenziare gli effetti di queste due classi di farmaci se usata in associazione con esse. Rispetto alle sulfoniluree ha il vantaggio di non indurre ipoglicemie, se usata da sola, e di non determinare aumento

(39)

ponderale. Inoltre, il miglior controllo glicemico osservato in corso di terapia con MT, si associa anche a una correzione di altri parametri notoriamente alterati nel diabete di tipo 2 e nella sindrome metabolica. Va segnalato il miglioramento del profilo lipidemico in rapporto probabilmente a una diminuzione della sintesi delle lipoproteine VLDL9 . In particolare è stata osservata una diminuzione della lipemia postprandiale che di per sé ha effetti aterogeni. Il peso corporeo si riduce o più spesso viene stabilizzato dal trattamento con MT a differenza di altre modalità di terapia farmacologica, che invece ne inducono un significativo aumento. Il calo ponderale è in relazione sia con un diminuito introito energetico per riduzione dell’appetito, sia con un’azione diretta sui depositi lipidici. La MT, infine, è in grado di modificare favorevolmente altri fattori di rischio cardiovascolare, spesso alterati in pazienti con diabete di tipo 2 o sindrome metabolica. Fra questi si ricordano la proteina C reattiva, l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1), le molecole di adesione vascolari (VCAM-1) e i prodotti di glicosilazione avanzata (AGE). Questi effetti pleiotropici rafforzano il concetto che la MT può essere utile nella prevenzione delle complicanze croniche del diabete mellito di tipo 2 non solo per i suoi effetti benefici sul metabolismo glucidico, ma anche per la possibilità di influenzare favorevolmente i fattori di rischio cardiovascolare direttamente o attraverso la correzione della condizione di insulino-resistenza. È stato documentato da studi clinici che la MT riduce la morbilità e la mortalità cardiovascolare nel diabete mellito. Lo studio prospettico UKPDS, per quanto riguarda gli “end-point” cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, angina instabile), hanno mostrato risultati più favorevoli nel gruppo di soggetti diabetici e

(40)

obesi trattati con MT rispetto ai gruppi sottoposti a trattamenti diversi (dieta, sulfoniluree o insulina). Più recentemente, uno studio retrospettivo condotto su circa 9000 pazienti con diabete di tipo 2 che iniziavano una terapia farmacologica orale ed erano seguiti in media per 5 anni, ha dimostrato una riduzione della mortalità totale e cardiovascolare di circa il 40% nei pazienti che assumevano MT in monoterapia o in combinazione rispetto a quelli trattati solo con sulfoniluree. Merita di essere citata anche la segnalazione di una riduzione del rischio di sviluppare neoplasie maligne nei soggetti diabetici14. Sulla base di queste considerazioni si comprende perché la MT rappresenti oggi il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete di tipo 2 e nella sindrome metabolica. Rimane tuttavia una serie di controindicazioni che certamente ne limitano l’uso. Ed è giusto quindi porsi la domanda se queste controindicazioni siano ancor oggi troppo restrittive e se sia tempo di aprire un dibattito, come hanno fatto recentemente Holstein e Stumvoll, sulla possibilità di rivedere criticamente il problema. Fra le controindicazioni all’uso della MT si ricordano l’età avanzata, l’insufficienza renale cronica anche lieve, l’insufficienza epatica, l’insufficienza cardiaca e l’insufficienza respiratoria. Le controindicazioni tengono conto soprattutto del rischio di acidosi lattica che potrebbe essere accentuato in queste condizioni cliniche dall’uso della MT. Infatti, la produzione di lattato aumenta in condizioni di ipossia tessutale o di rallentata eliminazione del metabolita. I limiti della creatininemia e del filtrato glomerulare che controindicano l’uso della MT sono variamente enunciati nelle raccomandazioni delle diverse società scientifiche, oscillando fra 1,20-1,50 mg/dl e < 40 ml/min15. Anche il limite di età è espresso vagamente. L’acidosi lattica, definita dalla presenza

(41)

di un pH < 7,25 e dalla presenza di lattacidemia > 5,0 mmol/L, è la complicanza metabolica più temuta in corso di trattamento con biguanidi, poiché si associa a un elevato rischio di mortalità. I dati della letteratura indicano un’incidenza di acidosi lattica da fenformina pari a 40-64 casi per 100.000 anni-paziente. Anche per la MT sono stati riferiti casi di acidosi lattica, ma in misura 10-20 volte inferiore. Questo si giustifica, come è stato sopra ricordato, con il profilo farmacocinetico della MT più favorevole rispetto a quello della fenformina. Ha un’emivita più breve della fenformina (1,5-5 vs 7-12 ore), è meno lipofilica per cui non si accumula nel fegato e viene eliminata immodificata attraverso il filtrato glomerulare e la secrezione tubulare. La fenformina aumenta il turnover del lattato e sopprime la sua ossidazione, facilitandone l’accumulo, mentre la MT pur aumentandone le concentrazioni attraverso la riduzione della gluconeogenesi, ne favorisce l’ossidazione. In genere sono esposti al rischio di acidosi lattica i pazienti più anziani in cui sono associate altre affezioni importanti, quali insufficienza renale avanzata, grave insufficienza epatica, scompenso cardiaco, infarto del miocardio e sepsi. La mortalità riferita in questi casi è particolarmente elevata, ma secondo i dati della letteratura la gravità e la prognosi dell’acidosi lattica appaiono correlate più alla rilevanza delle malattie associate che alle concentrazioni plasmatiche di MT. Se si riesaminano gli studi in cui l’uso della MT era attuato nel rispetto rigoroso delle controindicazioni, non si segnalano casi di acidosi lattica. Per esempio, nello studio COSMIC (Comparative Outcome Study of Metformin Intervention vs Conventional), in cui si sono posti a confronto due ampi gruppi di pazienti con diabete di tipo 2 trattati con MT o con altre combinazioni farmacologiche, non si sono osservate

Riferimenti

Documenti correlati

In questo articolo, oltre a ricapitolare la patogenesi e la terapia della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2 in età pedia- trica, presentiamo dati originali e

È stato inoltre ampiamente documentato non solo che l’incremento della prevalenza del diabete sia soprattutto a carico del diabete tipo 2, verifican- dosi in particolare tra i

All’ingresso in reparto il quadro clinico era caratterizzato da astenia intensa, dolori addominali, frequenti ipoglicemie, nonostante la riduzione delle unità di insulina, a

Nel 1987 Pories 1 ha pubblicato l’interessante osservazione che la quasi totalità (99%) dei soggetti affetti da obesità grave associata a diabete di tipo 2 o a intolleranza ai

durata di malattia 13 anni), da allora in terapia con ipoglice- mizzanti orali (insulino-sensibilizzanti e secretagoghi) fino a 3 anni fa, quando, per scadente compenso, la paziente

Nel 2006 vom Saal e Welshons (37) hanno esaminato 100 studi pubblicati sulle basse dosi di BPA e identifica- to effetti biologici significativi per dosi inferiori alla LOAEL

Il follow-up dello studio finlandese Diabetes Prevention Study ha dimo- strato, anche dopo anni dalla sospensione del protocol- lo intensivo, la durata dei

Secondo: i polimorfismi della SHBG rs6257 e rs6259 sono risultati associati in maniera consistente ai livelli pla- smatici della proteina e sono risultati predittivi del rischio di