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ZMOT. Il momento zero della verità nel processo decisionale di acquisto: una ricerca empirica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

“Marketing e Ricerche di Mercato”

Tesi di Laurea:

“ZMOT. Il momento zero della verità nel

processo decisionale di acquisto:

una ricerca empirica”

Candidato: Relatore:

Marcello Grimaudo Annamaria Tuan

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2 INDICE DEI CONTENUTI

Introduzione e obiettivi della tesi……….……….4

CAPITOLO 1 – La comunicazione aziendale……….…………6

1.1 Comunicazione aziendale……….………….6

1.2 Verso nuovi obiettivi: Corporate Social Responsibility……….………..13

1.3 Comunicazione social e rapporto con gli altri media………….…………19

1.4 Rapporti tra le fonti di comunicazione ed effetti sui risultati aziendali– l’ecoverso……….………27

1.5 Path to purchase………...34

1.6 Caratteristiche del contenuto della comunicazione……….…….39

1.7 ZMOT: Zero Moment Of Truth……….…………41

1.8 Purchase intentions, purchase funnel e consumer decision journey……….……….44

CAPITOLO 2 – Analisi della comunicazione……….…………..50

2.1 L’analisi di un testo……….……….50

2.2 L'analisi del contenuto: procedura……….……….54

2.3 Analisi del contenuto: natura qualitativa o quantitativa?...64

2.4 Forze e debolezze del processo di analisi del contenuto………..65

2.5 Software per l’analisi del contenuto………..66

2.6 Grounded theory……….………68

CAPITOLO 3 – Metodologia di ricerca……….……….70

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3.2 Risultati del questionario……….………78

3.3 Analisi fattoriale………..120

3.4 Limitazioni della ricerca……….132

3.5 Discussione………..139

CAPITOLO 4 – Conclusioni……….144

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA………..151

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Introduzione e obiettivi della tesi

La disciplina del marketing è una branca ibrida dell’economia. Prende in prestito temi e problematiche trattati in altre discipline più umanistiche, quali la sociologia, psicologia ed antropologia. A causa di questa sua natura, la quantificazione dei risultati derivanti dalle azioni di marketing messe in atto dal management è di difficile interpretazione. Sappiamo, invece, quanto sia utile misurare costantemente gli obiettivi in ogni fase del processo.

Il macro-obiettivo del seguente elaborato è, quindi, quello di individuare le modalità e provare a quantificare l’intensità del contributo che la comunicazione di marketing può fornire al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

In seguito alla rivoluzione digitale avvenuta con l’affermarsi del web 2.0, il path-to-purchase del consumatore si è arricchito di un ulteriore nuovo step: lo Zero Moment Of Truth (ZMOT). Questo step avviene in maniera sempre più continuativa e risulta essere il vero istante in cui prende luogo il processo che conduce all’acquisto, tramite l’alimentarsi delle percezioni e degli atteggiamenti nei confronti dei beni/servizi. Allo ZMOT di un individuo prendono parte, contemporaneamente e sullo stesso piano, amici, estranei, siti web, esperti, pubblicitari, oltre alle parti coinvolte direttamente nell’acquisto, ognuno con modalità e scopi differenti. Bisogna, dunque, mettere in evidenza che il classico purchase funnel, in cui il set dei brand viene progressivamente filtrato dall’individuo fino alla scelta ultima, non è ad oggi più così lineare: il numero di touchpoint (non solo nello ZMOT) col potenziale cliente è salito vertiginosamente ed è possibile tracciare un percorso più articolato, definito consumer decision journey (David Court, Dave Elzinga, Susan Mulder, and Ole Jørgen Vetvik, McKinsey&Company, 2009).

L’obiettivo specifico che ci si prefigge è, quindi, quello di esplorare questo universo comunicativo relativo alle imprese, in cui non sono solo

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queste ultime ad essere mittenti attivi. Il suddetto universo, definito “ecoverso”, ha visto un incremento di dimensioni e di intensità dei legami nel network delle diverse fonti, grazie alla rivoluzione digitale contemporanea. Si proverà, quindi, ad indagare sull’entità dell’influenza che le diverse componenti dell’ecoverso hanno tra loro e nei confronti degli atteggiamenti dei consumatori nel processo decisionale di acquisto, per capire se la comunicazione di marketing, intensa in maniera lata, possa effettivamente condurre ad una maggiore efficacia nel conseguimento degli obiettivi aziendali e, quindi, a risultati migliori.

 Nel primo capitolo di questa tesi si procederà ad esporre la letteratura riguardante le caratteristiche della comunicazione aziendale, i rapporti tra le diverse fonti all’interno dell’ecoverso e, infine, il nuovo path-to-purchase delineato in seguito all’avvento del web 2.0

 Nel secondo capitolo si farà luce sulle modalità di esecuzione di un’analisi del testo e sulla relativa utilità; poi, nello specifico, si tratteranno le tecniche di analisi del contenuto della comunicazione

 Nel terzo capitolo si presenterà l’indagine eseguita nelle sue fasi di costruzione, raccolta dati, analisi ed interpretazione, sottolineando le inevitabili limitazioni della ricerca

 Infine, nel quarto capitolo, verranno tratte le somme conclusive dell’elaborato per provare a trovare una sintesi fra la letteratura analizzata ed i dati primari prodotti ed interpretati

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CAPITOLO 1 – La Comunicazione aziendale

1.1 Comunicazione aziendale

Una delle sfide della professione del marketing è quello di stimare e comunicare il valore che viene creato tramite l'azienda; questo valore verrà traslato, successivamente, anche al valore di mercato dell'impresa. È importante ricercare il consenso dell'opinione anche degli investitori, che si dimostrano sensibili alle informazioni che traspaiono in maniera dinamica, oltre che di tutti gli stakeholder. Dal momento che i consumatori sono diventati la risorsa scarsa, c'è necessità di perseguire la creazione di domanda. Gran parte dell'attività del settore marketing consiste nel nutrire gli asset intangibili dell'impresa – brand equity, customer satisfaction, customer loyalty... I progressi di queste grandezze non sono, però, misurabili nel breve periodo dagli utili trimestrali della gestione operativa. È sul mercato azionario, invece, che i risultati sono più rapidi e dinamici; allora, la comunicazione da parte del marketing deve essere curata per ottenere l'approvazione degli stakeholder in generale. Come riportato dal Journal of Marketing Research (Journal of Marketing Research Vol. XLVI, June 2009, 293– 312), gli investitori reagiscono velocemente, premiando le imprese con un maggiore prezzo delle azioni, quando circolano informazioni percepite come positive, e viceversa. Secondo l'ipotesi dei mercati efficienti (EMH: efficient markets hypothesis) nella finanza, le loro reazioni tengono conto di tutte le informazioni disponibili. Ovviamente, questa ipotesi è alquanto forte, dal momento che gli investitori non sono necessariamente esperti di marketing e, inoltre, la razionalità limitata, le euristiche e i bias di ragionamento fuorviano le decisioni, rendendo la loro risposta non stimabile. I seguenti sono i dati raccolti tramite ricerche empiriche, riportati dal JMR. Gli investitori sembrano tener conto di eventuali notizie riguardanti miglioramenti della brand equity, che infatti conducono ad un impatto azionario positivo sul valore dell'impresa. Interbrand afferma che i marchi più forti non solo danno maggiori ritorni azionari, ma lo fanno anche con un rischio minore. Inoltre, i rendimenti

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maggiori si hanno con una strategia di corporate branding, piuttosto che di house-of-brands o di strategie miste. Altri asset intangibili le cui informazioni positive possono condurre ad un incremento del valore dell'impresa riguardano la customer satisfaction, la customer equity, la qualità percepita e le innovazioni nel settore della ricerca. Ad esempio, nel settembre del 2006 General Motors ha annunciato che avrebbe esteso le garanzie di 100000 miglia alle automobili del 2007, per recuperare clienti persi nei confronti di Toyota: lo stesso anno, il prezzo delle azioni sale del 2.4% (Chon 2006). Nell'agosto 2005, invece, la customer satisfaction di Dell (multinazionale di PC) scese del 6.3% e fu seguita da un calo del prezzo delle azioni da 41.79$ a 36.58$ nell'arco dello stesso anno (DiCarlo 2005).

Capitale fisico, know how, relazioni con il cliente, motivazioni, ideali sottesi, vision aziendale, posizionamento sono alcuni degli ingredienti da mescolare nella ricetta per un brand, il quale sintetizza i valori non solo tecnici, ma anche e soprattutto emotivi espressi da una azienda: ciò punta a creare e successivamente alimentare la brand equity del marchio, ovvero il suo patrimonio intangibile ed addizionale rispetto al puro valore tecnico-funzionale. Rispetto al prodotto in sé per sé, risulta più semplice e duraturo “decorare” il marchio con questi asset intangibili. Come spiega Judith Williamson (1978), che studia la pubblicità tramite una analisi formale dei messaggi espressi, un segno è qualcosa che riesce a veicolare un significato tramite un significante; il rapporto tra significante e significato non è intrinseco, assoluto, ma viene attribuito arbitrariamente e, qualora il segno sia chiaro e condiviso nel tempo, la relazione può essere percepita come naturale e incontrovertibile dai destinatari del messaggio. È proprio questo l’obiettivo della comunicazione corporate/brand dell’impresa, utilizzando come significante il proprio brand. A causa di un ambiente di mercato sempre più affollato e della considerazione per cui il consumatore sempre più tende a ritenere i valori tecnici del prodotto come prerequisiti di base, facendosi invece influenzare di più dalla comunicazione dell’immateriale (Pastore e Vernuccio, 2006), l’azienda si trasforma da produttrice di beni

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e servizi ad emittente di messaggi e ideali, così da emergere nella lotta concorrenziale. Agli estremi di questo ragionamento, possiamo citare il caso Benetton, che da decenni ha incentrato addirittura la pubblicità sulla trattazione di temi sociali, senza mai mostrare il prodotto.

Nonostante gli sforzi dell’impresa, varie distorsioni, causate dall’azienda o esterne, possono causare una incongruenza tra i messaggi emessi (corporate identity) e l’immagine percepita dal pubblico (corporate image); è importante, dunque, assicurarsi che le diverse fonti siano coerenti tra loro: l’immagine del brand è il risultato dell’interazione fra la comunicazione diretta da parte dell’impresa e quella indiretta, ovvero quella in cui l’azienda si ritrova solo come messaggio e non come mittente e può solo controllare indirettamente (Figura 1). I destinatari di cui si deve tenere conto non si limitano solo ai clienti o ai potenziali clienti, ma coinvolgono la comunità locale, il trade, i fornitori, i media, la finanza, la pubblica amministrazione e anche il grande pubblico, puntando alla legittimazione da parte dell’ambiente (Bertinetti, 1996) (Guidotti, 2004).

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Figura 1 – Distorsioni nella comunicazione della corporate identity

Possiamo distinguere gli strumenti comunicativi adottati da un’impresa in media tradizionali (stampa, tv e radio) e nuovi media digitali (Internet e social media). L’opinione comune è quella che la tendenza stia andando verso un subentro dei secondi ai primi e che una fetta sempre minore della popolazione faccia ancora affidamento alla vecchia scuola; secondo una ricerca condotta da Media Insight Project, solo l’11% della popolazione in Italia ha deciso di spendere soldi per magazine e quotidiani online e in soli dieci anni, dal 2001 al 2011, i quotidiani nel nostro Paese hanno perso circa due milioni di copie vendute, ossia circa il 40%. Nonostante i dati, stampa, tv e radio svolgono tuttora un ruolo importante ed è improbabile una loro estinzione: essi offrono un’informazione credibile e professionale al contrario dei new media, il cui problema è essenzialmente la mancanza di credibilità; in secondo luogo, anche se Internet è spesso idealizzato come “la voce del pubblico”, questo non è il caso dei social media. Questi ultimi sono

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fondamentalmente “business” con lo scopo di vendere dati e pubblicità. Il loro obiettivo è quello di raccogliere i dati degli utenti (Big data) da vendere a fini commerciali e di fornire uno spazio pubblicitario agli inserzionisti. Le due tipologie di media possono e devono essere integrate, date le loro finalità complementari: sebbene le persone trascorrano molto tempo sui social media, quando si tratta di cercare informazioni affidabili, Facebook e Twitter sono semplicemente delle porte di ingresso per il Corriere Della Sera, Repubblica, Post Internazionale, etc. Stampa, radio e televisione sono ancora visti come fonti di contenuti autorevoli e stimati, mentre i social media agiscono da aggregatori, consentendo l’accesso ad una serie di opinioni ed impressioni piuttosto che una collezione di fatti affidabili. I media tradizionali risultano ottimi per un approccio generalista alla massa dell’audience indistinta con una comunicazione più passiva (broadcasting), tendente alla semplice ricezione del messaggio; i media digitali hanno invece un approccio più specifico e mirato ai micro-target (narrowcasting), con una visione più interattiva nei confronti del messaggio e una comunicazione che risulta bidirezionale. Le imprese, dunque, puntano ancora su entrambi gli strumenti: tv, stampa e radio servono a creare awareness in maniera formale e seriosa; in un secondo momento, i media digitali consentono la creazione di un rapporto vero e possibilmente duraturo in maniera informale.

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11 Figura 2- Tipologie di modelli comunicativi aziendali

Esistono quattro tipologie di modelli comunicativi aziendali, come visibile in Figura 2 (Teodori, 2004): nel modello conservativo ed in quello estensivo la comunicazione avviene quasi esclusivamente su canali offline; le aziende operanti tramite il modello tecnologico hanno intuito le potenzialità dell’online, ma non la quantità dei contenuti qui comunicati è ancora limitata; infine, nel modello evoluto il web è il principale canale comunicativo, con una ampia disclosure. La maggior parte delle imprese ad alta capitalizzazione, che sono sollecitate a fornire informazioni tempestive e frequenti, si rispecchiano nel modello conservativo o nel modello evoluto; gli altri due modelli sono situazioni di transizione.

La comunicazione istituzionale d’impresa è quell’insieme di azioni atte a costruire e mantenere un’immagine aziendale positiva (Pastore e Vernuccio, 2006). Alcune complesse dinamiche, come l’apertura dei mercati internazionali, la maggiore accessibilità alle informazioni e

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l’aumento progressivo della concorrenza, hanno reso la comunicazione uno strumento indispensabile per rafforzare il proprio marchio e renderlo riconoscibile agli occhi dei consumatori. La comunicazione può portare ad effetti positivi di reputazione nel medio o nel lungo periodo, ma d’altro canto è particolarmente soggetta a shock informativi di breve periodo. Essa è da distinguere da una semplice informazione, che è invece unilaterale, in quanto viene declinata tenendo a mente le esigenze degli stakeholder a cui è indirizzata, risultandone influenzata: questo modello evolutivo della comunicazione come cura delle pubbliche relazioni, affermatosi intorno al 1950 secondo Grunig, viene definito two-way symmetric e risente del feedback dei destinatari (Invernizzi, 2000).

Figura 3 – Ciclo comunicativo bidirezionale

Risulta di focale importanza la cura della codifica del messaggio emesso che deve essere comprensibile, in maniera tale che esso venga correttamente decodificato dai destinatari, a meno di rumori esterni incontrollabili (Chall, 1958). La decodifica consiste in due fasi

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successive: nella prima fase (denotazione) si legge il messaggio tramite il significato letterale dei segni, cioè dandogli un'interpretazione oggettiva; nella seconda fase (connotazione) si interpreta il messaggio soggettivamente, in base al contesto di riferimento, alle esperienze e conoscenze del ricevente (Figura 3, Pastore e Vernuccio, 2006). È necessario sottolineare che i canali non prevedono solo quelli espliciti, ma anche quelli impliciti, ovvero i comportamenti tenuti dall’azienda comunicano

1.2 Verso nuovi obiettivi – Corporate Social Responsibility

Un tema relativamente recente che sta affiorando nella letteratura di marketing è il ruolo della corporate social responsibility. Le aziende hanno capito l’importanza dell’idea che esse riflettono di sé sul consumatore; tutto ciò lungi dall’essere esclusivamente legato alla mera produzione e commercializzazione, alla semplice ricerca di risultati quantificabili nel breve termine, ma spazia in ogni ambito dell’attività dell’impresa. La CSR può essere inserita tra le tecniche di megamarketing che Kotler (1986) definisce come sforzi strategici di un’impresa per ottenere l’approvazione dalla massa degli stakeholder. L’impegno e l’interesse verso temi e situazioni di attualità, quali la sostenibilità ambientale e biologica, la salvaguardia dei diritti umani, l’importanza data al consumatore, ai dipendenti ed agli altri stakeholder, atti quali donazioni e iniziative di volontariato, sono utili per dimostrare l’attenzione dell’impresa verso la società e riescono a conferire un’aura benevola distante dalla classica visione di società legata esclusivamente al profitto a tutti i costi. Queste conclusioni, anche se ovvie oggigiorno, sono relativamente nuove; solo dopo i primi anni del 2000, a causa del crollo del mito della crescita infinita della ricchezza, si è capita la necessità di una percezione positiva non solo dell’output materiale dell’impresa, ma anche (e forse soprattutto) di quello immateriale.

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D’altro canto, la direzione della branca del marketing è proprio un ritorno circolare verso la riappropriazione dell’individuo dei propri mezzi, come teorizzato da Marx e preso in prestito dalla recente letteratura di critical marketing. Questo è testimoniato proprio dall’esigenza che le imprese siano sempre più vicine al singolo ed esprimano valori e ideali da questo approvati e condivisi, in modo da venire avvertite come un dialogo reciproco e non univoco. Da ciò prende vita la teoria del consumer brand engagement, un concetto multidimensionale e dinamico che si basa sulla capacità del brand di ascoltare i desideri e le aspettative dei consumatori e andarvi incontro usando ogni possibile touchpoint fisico e virtuale; questo costrutto va oltre alle dimensioni cognitiva, emotiva e conativa, ma è di natura esperienziale e sociale; esalta il rapporto effettivo tra consumatore e brand che prevede uno sforzo reciproco. Di conseguenza, il communication mix punta ad esaltare la risposta emotiva ed esperienziale, utilizzando gli strumenti interattivi del web 2.0, condividendo con l’audience valori, pensieri e rendendoli protagonisti. Il consumatore vuole impegnarsi in una relazione stretta col brand che riconosce vicino a sé, partecipare alla vita di questo e metterlo in atto (brand enacting). Ciò diviene possibile qualora il marchio si apra, aumentando il livello di disclosure.

D’altro canto, il pericolo potenziale è quello di un greenwashing – termine che indica la ricerca di una fittizia immagine positiva riguardo l’impatto ambientale riflessa verso l’opinione pubblica – in tutti gli ambiti del sociale, non solo in quello ambientale. Ad oggi non esiste un concetto univoco di responsabilità sociale di impresa; ma la definizione più diffusa è quella data nel 2001 dal Libro Verde della Commissione delle Comunità Europee, secondo cui essa consisterebbe in una “Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Secondo una ricerca effettuata nel 2015 dalla Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability su un campione di 30000 individui in 60 Paesi, infatti, ben il 52% degli italiani è disposto a spendere di più se il brand è sostenibile. La crescità è sensibile se

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paragonata al 44% del 2013 e al 45% del 2014. In Europa il dato è pari al 51% nel 2015, mentre si attestava al 40% nel 2014 e al 37% nel 2013. Le aziende impegnate nella sostenibilità ambientale e sociale hanno fatto registrare nel 2015 una crescita del fatturato pari al 4%, a differenza di quelle scoperte su questo versante, il cui giro d’affari è incrementato meno dell’1%. Inoltre, il 65% delle vendite nei beni di largo consumo proviene proprio da marche “responsabili”. Le fasce d’età disposte ad accordare un premium price maggiore alle suddette imprese sono i Millennials (21-34 anni) con il 73% (50% nel 2014) e la generazione Z (15-20 anni) con il 72% (55% nel 2014). A livello globale, un dato sorprendente è che sono gli individui che hanno un reddito annuo di 20000 dollari quelli maggiormente disposti a pagare un prezzo superiore per prodotti sostenibili (68%) rispetto a soggetti con un reddito annuo pari a 50000 dollari (63%). Lo stesso amministratore delegato di Nielsen Italia, Giovanni Fantasia, si sofferma sul fatto che ormai la sostenibilità dei processi e dell’output sia un requisito essenziale e non una semplice distinzione, anche durante il momento dell’acquisto. All’estero risultano crescite più elevate per i mercati meno maturi, quali Sud America (71%), Medio Oriente (75%) e Sud Est Asiatico (80%), rispetto a quelli consolidati come il Nord America (44%). In Italia, tra i driver di sostenibilità più impattanti che fanno propendere per un marchio troviamo al 41% il rispetto per l’ambiente da parte del brand, al 38% un packaging biodegradabile, al 33% che il brand sia impegnato nel sociale, al 31% un impatto positivo verso la comunità locale. A livello globale, questi numeri salgono leggermente. Altri dati raccolti ci informano sul fatto che, quando circa il 17% acquista in seguito alla visione di uno spot pubblicitario, la percentuale sale al 21% quando questo mette in mostra l’impegno etico dell’impresa. Sovrapponendo questi dati che mostrano i fattori che spostano gli equilibri nella scelta del brand ad altri dati che indicano quanti sarebbero disposti a spendere di più per le suddette scelte otteniamo informazioni molto incoraggianti: il 72% pagherebbe un premium price per prodotti di brand affidabili, il 70% per prodotti in linea con le esigenze di salute e benessere, il 69%

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per prodotti freschi e fatti da ingredienti naturali, il 58% se l’azienda produttrice è eco-friendly, il 56% se è impegnata nel sociale, il 53% se il packaging è a basso impatto ambientale, stesso dato se l’azienda ha implementato iniziative a favore della comunità locale, il 45% se l’advertising televisivo veicola messaggi positivi mirati alla società e all’ambiente.

Una ulteriore indagine è stata condotta da Digimind – azienda che si occupa della creazione e dello sviluppo di attività di social monitoring e competitive intelligence – e presentata durante l’evento “La sostenibilità delle aziende e la sensibilità della Rete: gli effetti delle politiche aziendali sul valore d’impresa” tenutosi il 16 Novembre 2016 a Napoli. Dai dati raccolti nell’arco di un anno, corrispondenti a circa 188000 conversazioni in tema CSR, emerge che è il settore del food and beverage quello per cui il consumatore fa più attenzione all’impegno sociale del brand, con circa 56000 conversazioni (55%). Più bassi i settori del fashion (9%) e del beauty (6%). I consumatori hanno, dunque, una maggiore attenzione verso prodotti utilizzati nel quotidiano. Altri temi “green” affrontati sui social riguardano il vegan, il made in Italy e l’ecocompatibilità (Figura 4).

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E’ da sottolineare che, invece, il tema ambientale sia trattato in maniera più residuale, dal momento che, come afferma Giovanni Boccia Artieri, professore di Sociologia dei media digitali e Internet Studies presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e relatore dell’evento, si è più attenti a problemi più tangibili individualmente: “Non è che non siamo più interessati all’impatto ambientale, ma le nostre battaglie personali le conduciamo più nei micro consumi e nei micro spazi quotidiani, per cui il packaging di un prodotto che mi indica se questo contiene o meno olio di palma è un impegno concreto”. Le aziende cercano di instaurare un dialogo con i destinatari e adattare non solo le offerte, ma anche i valori e gli ideali abbracciati, alle esigenze e idee espresse dal target selezionato. Perciò, è importante monitorare le conversazioni sul web; i social media sono un mezzo nuovo molto interessante da questo punto di vista, soprattutto perché prodotte in maniera spontanea e non imposta dalle aziende. I risultati della ricerca hanno dimostrato che i Figura 4 – Risultati indagine Digimind riguardo le conversazioni sui social in tema CSR

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social sono il mezzo più utilizzato per lo scambio di informazioni tra gli utenti in materia di sostenibilità, con il 60% di esse proveniente da Twitter (Figura 5).

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Tra gli strumenti che cercano di quantificare l’impegno e il contributo che una impresa conferisce alla società con le su citate iniziative troviamo il bilancio sociale, che si è recentemente affiancato al bilancio di esercizio. Secondo la definizione fornita dal Ministero dell’Interno nel 2007 “. Il bilancio sociale è l'esito di un processo con cui l'amministrazione rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e dell'impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l'amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato”. Questo documento è rivolto agli interessi degli stakeholder e deve indicarne, dunque, i benefici sociali che essi possono ricavare dalle iniziative messe in atto. Vengono, quindi, resi espliciti gli obiettivi selezionati ed i risultati raggiunti. Tuttavia, non esistono criteri di redazione obbligatori o convenzionali; i criteri vengono scelti soggettivamente da ogni impresa. Il rischio di comportamenti scorretti non è scongiurato dalla pubblicazione del bilancio sociale, che può anzi essere quasi un alibi. Esempio classico è quello della Parmalat, che aveva già redatto un bilancio sociale poco prima che scoppiasse lo scandalo della bancarotta fraudolenta scoperto nel 2006.

1.3 Comunicazione social e rapporto con gli altri media

Ogni anno, le aziende statunitensi spendono intorno ai 130 miliardi di dollari nella pubblicità tradizionale (televisione, radio, stampa e outdoor) per incrementare le vendite e costruire il proprio brand. Si sta, però, assistendo ad uno spostamento degli investimenti pubblicitari verso frontiere meno tradizionali, quale appunto l'uso dei social media, i quali sfruttano l'innovazione del web 2.0 per creare non solo punti ulteriori di contatto, ma anche una interazione reciproca e bidirezionale con i consumatori. Recenti ricerche dicono che l'investimento totale nella pubblicità in questo ambito è in continua crescita in tutto il mondo: ad esempio, dal 2013 al 2014 l'aumento è stato del 56%, passando da $11.36 miliardi a $17.74 miliardi, mentre dal 2014 al 2015 l'aumento

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del 33.5% ha portato ad una spesa di $23.68 miliardi. Si stima che la percentuale di investimento sui social rispetto agli investimenti totali nel marketing sarà più che raddoppiata nei prossimi cinque anni. In questa nuova era, diventa importante il social CRM, in modo da sfruttare questo nuovo mezzo per creare una relazione più approfondita con il singolo cliente. Le aziende interagiscono su questi media postando messaggi, definiti messaggi F2C (firm to consumer); è importante, per i manager, capire le effettive capacità di questi strumenti nel perseguimento degli obiettivi. Le connessioni sociali tra gli utenti influenzano la modalità in cui il messaggio sui social si propaga: le reazioni positive o negative ad un post hanno un impatto anche su utenti non consumatori che non hanno interagito direttamente con il brand, tramite i news feed. Accanto ai messaggi F2C, troviamo altri messaggi su cui vigilare, i C2C, cioè quelli con cui i consumatori interagiscono fra loro o si influenzano a vicenda: questi possono essere recensioni, messaggi su forum, microblog (come Twitter) ... Allo stesso modo degli F2C, anche i C2C hanno un forte impatto sull'immagine del brand nel medio-lungo periodo e, quindi, sul comportamento dei consumatori. Per questo motivo, i manager devono analizzare e capire in che modo i F2C, così come i media tradizionali, possono incanalare i C2C verso la direzione da loro auspicata e, in generale, devono organizzare un ottimale e coeso “ecoverso”, cioè ambiente di comunicazione dell'impresa, per sfruttare le sinergie di questi diversi mezzi. Da una ricerca condotta da De Vries & co. nel 2017 su una impresa di telecomunicazione europea e con l'uso di dati Nielsen riguardo la pubblicità tradizionale, i F2C, i C2C, metriche di brand e di acquisizione di clienti, in un periodo di 119 settimane, si evince che la pubblicità tradizionale ha un impatto maggiore nel creare awareness e consideration del brand; ma i C2C sono più forti nello stimolare la preferenza. Ancora, la pubblicità tradizionale è più efficace nell'aumentare l'acquisizione di clienti, seguita dai post F2C e dai post C2C. In definitiva, i risultati suggeriscono che le attività di social media dell'azienda sono complementari con gli sforzi nella pubblicità tradizionale. Inoltre, quest'ultima accresce il volume e la valenza dei

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C2C che, a loro volta, stimolano la preferenza e l'acquisizione dei consumatori. Ulteriori studi confermano che i messaggi C2C sono più efficaci della pubblicità tradizionale nello stimolare le vendite. Goh, Heng e Lin (2013) scoprono che, ad esempio, i C2C sono migliori dei F2C nello spingere all'acquisto di capi di abbigliamento; Kumar (2013), invece, mostra che i F2C conducono ad un aumento di C2C, i quali si convertono in maggiori vendite di un negozio di gelati. Dai risultati della precedentemente citata ricerca di De Vries risulta che un aumento dell'1% della pubblicità tradizionale conduce ad un aumento dello 0.024% nell'awareness e dello 0.022% nella consideration; inoltre, l'acquisizione di nuovi clienti sale dello 0.202%. Gli effetti nel tempo dell'aumento della pubblicità tradizionale hanno un maggiore durata per quanto riguarda l'acquisizione dei nuovi clienti, che varia da 2 fino a 9 settimane, mentre varia solamente tra 2 e 4 per l'awareness e la consideration. Un aumento dell'1% nel volume di visualizzazioni di F2C conduce ad un aumento dello 0.007% nella consideration e dello 0.103% nell'acquisizione di clienti. Un aumento dell'1% nella valenza dei post social C2C si traduce, invece, in un incremento dello 0.042% nel valore della preferenza verso il brand; un aumento di un punto percentuale nel volume dei C2C porta, infine, ad un miglioramento nell'acquisizione dei clienti, che sale dello 0.056%. Interpretiamo ora i dati. La maggiore efficacia della pubblicità tradizionale verso la dimensione dell'awareness può essere causata dal fatto che questa sia trasmessa attraverso più canali e abbia, quindi, una portata maggiore. Inoltre, informando i consumatori riguardo il proprio brand e le offerte, si ha, con la stessa modalità, l'opportunità di influenzare il consideration set; quest'ultimo è influenzato solo in misura minore dai post F2C. La valenza dei messaggi C2C agisce significativamente sulla preferenza, soprattutto perché questi sono indirizzati ad un target che è già interessato ad una certa categoria di prodotto e cerca informazioni a riguardo; l'alta credibilità ed imparzialità dei C2C li rende utili ai consumatori nella stima del valore di un brand e delle sue offerte e, quindi, sulla preferenza. Al contrario, i F2C e la pubblicità tradizionale

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sono visti con sospetto, poiché tendono ad aver una visione parziale, in cui lo scopo è quello di persuadere il soggetto con l'ottica del profitto; inoltre, con queste due tecniche, il consumatore non è alla ricerca attiva di informazioni come nei post consumer-to-consumer, ma ne viene tempestato ed interrotto durante altre attività, col risultato di prestare dunque meno attenzione. Nonostante ciò, la pubblicità tradizionale, grazie alla portata ed alle informazioni, porta al maggior aumento nell'acquisizione dei clienti (0.202% contro 0.103% e 0.056%). In aggiunta, possiamo dare uno sguardo al rapporto reciproco fra le tre tecniche dell'ecoverso: dai risultati si può evidenziare che la pubblicità tradizionale stimola sia il volume che la valenza dei messaggi social C2C, innescando discussioni e scambi di opinioni sul prodotto: un incremento della prima dell'1% fa lievitare dello 0.037% il volume di C2C e dello 0.096% la valenza. Un incremento dell'1% dei post F2C porta ad un aumento dello 0.223% della pubblicità tradizionale, mentre l'incremento dell'1% di quest'ultima è seguito da una diminuzione dei F2C dello 0.345%: ciò testimonia la tendenza e necessità di intraprendere campagne di pubblicità tradizionale successivamente alle attività sui social media, influendo prima sul target specifico e facendo, poi, leva sull'effetto positivo degli F2C sulla pubblicità tradizionale stessa. In ultima istanza, notiamo che maggiori acquisizioni portano a più impressioni F2C (1% porta a +0.239%), a causa del maggior numero di like sulle pagine social dei brand. La awareness influenza in positivo volume e valenza dei post C2C (1% porta a +0.028% e +0.129%, rispettivamente).

Traendo le somme da questi numeri riportati, bisogna sottolineare che la pubblicità tradizionale non può, nel breve periodo, essere accantonata, visti i suoi attuali risultati nella costruzione del brand e nell'acquisizione di clienti, oltre che nella spinta al volume ed alla valenza dei post C2C; i post F2C sono un valido complemento se bene utilizzati. L'acquisizione, che porta all'aumento di impressioni F2C, suggerisce che i nuovi clienti tendono a legarsi al brand tramite i social media, innescando così un circolo virtuoso.

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Inoltre, da una recente ricerca di Kumar (2016) si evince che i post F2C hanno effettivamente un impatto positivo e significativo sulla spesa dei clienti e sul cross-buying. Questi post lavorano sinergicamente con la pubblicità via email in maniera maggiore e, in maniera leggermente inferiore, con quella via TV. Nello specifico di questa ricerca, si osserva che l'elasticità dei post F2C rispetto alle spese dei clienti è pari allo 0.014, mentre quella rispetto al cross-buying è dello 0.587. I valori dell'elasticità dell'email marketing sono rispettivamente di 0.0913 e 0.0433, mentre quelli della tv sono 0.101 e 0.507. L'incrocio sinergico tra F2C e tv crea sulla spesa e sul cross-buying un aumento percentuale pari, rispettivamente, a 1.03% e 0.84%. Mentre, il mix F2C-email porta ad un aumento di 2.02% e 1.22%. L'effetto dei F2C è maggiore per consumatori che hanno più esperienza col brand, più tecnologici e con più attitudine all'uso dei social ed è, inoltre, positivamente associato con una maggiore redditività dei clienti. È la possibilità dei soggetti di avere una voce tramite commenti e mi piace a rendere queste comunicazioni più efficaci. In ultima istanza, si può scomporre l'effetto dei post F2C nelle sue tre dimensioni principali: valenza, suscettibilità, ricettività. L'impatto con la maggiore elasticità sulle due dimensioni, spesa e cross-buying è quello della ricettività, la caratteristica per cui il post riesce a raggiungere i destinatari, misurata tramite commenti, like e share, con valori rispettivamente pari a 0.0188 e 0.0864. Al secondo posto si trova la valenza, la caratteristica che indica il sentimento positivo generato, con elasticità pari a 0.0128 e 0.0285. Infine, la suscettibilità dei consumatori è la dimensione meno influente sulle due grandezze e riporta valori di elasticità pari a 0.0092 e 0.0076.

Nonostante la crescente importanza di questi strumenti, la ricerca sugli effetti dei social media e, in particolare, sugli effetti sinergici tra questi ed il marketing tradizionale è ancora agli albori. Chang e Thorson (2004) trovano che la sinergia tra pubblicità web-tv crea risultati migliori di una

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scelta strategica univoca; Naik e Peters (2009) evidenziano come la pubblicità online (banner o ricerca) amplifichi l'efficacia della pubblicità offline (tv, stampa, giornali e riviste), tramite anche un incremento di visite sul sito web. Srinivasan (2005) e Kumar (2006) osservano che l'attività dell'utente sui social è influenzata dalle tecniche di comunicazione tradizionali. Un altro aspetto che bisogna sottolineare è quello per cui, come l'efficacia delle azioni di marketing in generale, così anche l'efficacia degli effetti sinergici tra i vari canali è soggetta ad una variabilità temporale. La teoria PLC (product life cycle) suggerisce proprio che l'efficacia della pubblicità è maggiore nel periodo di introduzione e di crescita del prodotto, per scemare progressivamente durante il ciclo di vita (Parsons 1975). L'effetto del marketing mix sulle vendite può variare nel tempo a causa delle preferenze del consumatore e/o dei cambiamenti nell'ambiente di mercato, quali nuove normative, maggiore competizione o introduzione di nuovi prodotti. Anche l'inserimento di nuovi media comunicativi può influire sull'efficacia di quelli preesistenti. Allo stesso modo, sia la pubblicità online che nello specifico i social media hanno la stessa capacità della televisione di costruire il brand, con effetti anche qui dinamici dovuti alle modifiche nello user generated content e nelle reazioni nel corso del tempo. Le elasticità di breve e lungo periodo del marketing mix (pubblicità, prezzo, prodotto, distribuzione) variano nel tempo. Questo approccio, chiamato TVEM (time-varying effect model) e alternativo rispetto al modello base che non riconosce questa variazione, consiglia di riallocare le risorse in risposta alle modifiche esterne del contesto di riferimento e riconosce che anche gli effetti sinergici tra i canali sono dinamici. I seguenti risultati ottenuti da una ricerca eseguita da Kumar V. (2016, Figura 6) riportano proprio il variare nel tempo di queste grandezze, col modello TVEM.

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Nella stessa ricerca vengono, inoltre, misurate le elasticità relative di più tecniche in tre punti temporali (settimane 50,100 e 150), per indicarne la variabilità (Tabella 1).

Possiamo osservare che, ad esempio, alla settimana 50 l'elasticità dei campioni omaggio rispetto ai social media è 1.06; scende a 0.75 nella settimana 100 ed a 0.57 nella settimana 150. Ciò vuol dire che l'efficacia relativa dei post social rispetto ai campioni omaggio aumenta all'aumentare del tempo, viceversa l'efficacia dei campioni rispetto ai social diminuisce. Alla luce di queste considerazioni, risulta doveroso per

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il management allocare le risorse di marketing in maniera dinamica. Nella stessa ricerca si conclude, appunto, che tale escogitazione può consentire un risparmio di $0.4 milioni per anno su pubblicità televisiva e promozioni in-store, massimizzando le vendite, ceteris paribus. Si quantifica, inoltre, che un aumento delle impressions sui social del 10% può condurre ad un aumento delle vendite di $498 a settimana col metodo TVEM, rispetto a $133 del modello base.

1.4 Rapporti tra le fonti di comunicazione ed effetti sui

risultati aziendali– l’ecoverso

La brand communication può prevedere sia vie dirette in cui è la stessa azienda a promuoversi o a comunicare informazioni su più canali, sia vie indirette tramite, ad esempio, notizie riportate dai media e tramite user generated content sui social; questi diversi percorsi costituiscono il cosiddetto ecoverso delle fonti di comunicazione, un universo omnicomprensivo formato da un insieme di attori e caratterizzato da una influenza reciproca e non trascurabile tra questi ultimi; ogni fonte funge da riverbero per propagare i propri effetti e quelli delle altre fonti (Figura 7). Si può notare un andamento evolutivamente opposto dei due percorsi: mentre la comunicazione da parte dell’azienda si sta spostando da un approccio one-to-many ad un approccio one-to-one, il word of mouth registra l’andamento inverso. I tre principali attori risultano l’impresa, il pubblico e i media; le principali fonti di azione sono la comunicazione da parte dell’impresa, le notizie dei media, l’online WOM, il consumer sentiment e i risultati aziendali.

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28 Figura 7 – Ecoverso delle fonti di comunicazione

Nell’ambito comunicativo, le aziende non devono focalizzarsi esclusivamente sulle metriche legate all’advertising, ma devono estendere la portata del controllo agli altri strumenti, tenendo d’occhio i messaggi di qualsiasi natura veicolati tramite social, stampa e altri media tradizionali e prestando attenzione al consumer sentiment. Da un’analisi condotta da Sethuraman, Tellis e Briesch (2011) si evince uno scarso impatto della pubblicità sulle performance aziendali, con più del 40% delle elasticità di lungo periodo della pubblicità osservate comprese solo tra 0 e 0.1 su 402 casi studiati; in una più recente analisi condotta da You, Vadakkepatt e Joshi (2015), l’elasticità riportata riguardo il word of mouth online era invece pari a 0.24, più del doppio della precedente. Hewlett (2016) conduce una nuova analisi focalizzata sul settore bancario statunitense per rilevare l’entità dell’ecoverso e suggerire ai marketer linee guida a cui attenersi nello sviluppo delle strategie comunicative. Partendo dalle cinque fonti di comunicazione

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precedentemente illustrate, egli studia gli effetti reciproci su valenza e volume sulle altre fonti e di ogni fonte su se stessa; il numero di effetti reciproci tra le diverse fonti è pari a 5*(5-1)=20, a cui vanno sommati gli altri 5 effetti auto-riflessivi di ogni singola fonte.

Figura 8- Effetti all’interno dell’ecoverso

Gli effetti sopra riportati (Figura 8) sono in grande maggioranza significativi; si sottolinea in particolare il forte effetto reciproco tra online WOM e notizie sui media tradizionali, oltre a quello tra consumer sentiment e risultati aziendali; questi ultimi hanno anche un perfetto effetto auto-riflessivo. Partendo dalle osservazioni di Anderson (1998), secondo cui una valenza negativa delle notizie si sparge più ampiamente e velocemente rispetto a quelle positive, questo circuito ci può far capire quanto possa essere pericolosa una comunicazione negativa anche sulle

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altre grandezze; più notizie negative conducono a un maggiore WOM online che, a sua volta, conduce ad un calo nel consumer sentiment e ad un ulteriore aumento delle notizie negative pubblicate; anche il consumer sentiment contribuisce ad un incremento delle news; tutto ciò fa scemare i risultati aziendali. Questo è particolarmente evidenziabile correntemente, in un periodo di maturità dei social, in cui vi è maggiore probabilità di condividere le esperienze negative piuttosto che quelle positive, differentemente dallo scorso decennio.

Allo stesso modo, però, una spirale negativa può essere disinnescata tramite la comunicazione sui social (Twitter) con il duplice effetto di ridurre il WOM online e le notizie negative e di influire sul consumer sentiment; anche i comunicati stampa sono utili a proposito, innescando più WOM positivo e quindi migliorando i risultati; si evidenzia ad oggi uno spostamento verso quest’ultima tipologia di comunicazione per far fronte al sentiment negativo.

Significativo è il fatto che l’advertising bypassi le altre grandezze e punti ad influire direttamente sui risultati aziendali (depositi in questo caso), senza avere stretti rapporti con WOM, sentiment e notizie sui media, ma focalizzandosi più alle preferenze e percezioni dei consumatori in un più lungo periodo. Tra le asimmetrie portate a galla vi è quella per cui le comunicazioni da parte dell’impresa rispondono più al WOM online che al consumer sentiment più classico, basato su ricerche di marketing, forse perché più veloce da misurare su larga scala. Inoltre, il consumer sentiment è influenzato dal WOM, ma non viceversa (0% influenza sul WOM da parte del consumer sentiment). Il WOM online influenza anche i risultati aziendali, ma è assente l’influenza in senso opposto. Non si rileva una influenza diretta neanche dei media tradizionali nei confronti dei risultati aziendali.

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31 Modifiche su Notizie sui

media tradizional i WOM online Comunicazion e dall’impresa Consume r sentiment Risultati aziendali Notizie sui media tradizionali -Carryover positivo -Più articoli negativi portano a più articoli -Più WOM online -Articoli positivi portano a più advertising -Più articoli portano a più comunicati stampa e a meno tweet, più moderati -Calo nel consumer sentiment

WOM online -Più WOM porta a più articoli -Carry over positivo -Più WOM porta a più advertising, a comunicati stampa più moderati e a tweet più positivi -Calo nel consumer sentiment -Più WOM porta a risultati inferiori Comunicazion e dall’impresa -Più tweet portano a meno articoli ma più negativi -Tweet più moderati portano a più articoli -Più tweet portano a meno WOM -Più comunicat i stampa portano a più WOM, -Carryover positivo -Comunicati stampa più positivi portano a più advertising -Più tweet portano a un onsumer sentiment più positivo -Comunicat i stampa e advertisin g portano a risultati più positivi

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32 -Più comunicati stampa portano a più articoli e più positivi positivi in caso di comunicat i positivi -Più advertising porta a tweet più positivi e comunicati stampa più moderati Consumer sentiment -Sentiment negativo porta a più articoli -Sentiment negativo porta a tweet più moderati -Carryover positivo -Sentiment negativo porta a risultati inferiori Risultati aziendali -Più articoli positivi -Più comunicati stampa -Sentiment più positivo -Carryover positivo

Possiamo progressivamente registrare, con l’andare del tempo, una perdita di fiducia nei tweet da parte dei consumatori, accompagnata da una difficoltà ad ottenere copertura mediatica attraverso la propria pubblicità, attraendo spesso articoli negativi. Il WOM online sta diventando indipendente dai comunicati stampa da parte dell’azienda e tende ad essere sempre più negativo, sta perdendo la capacità di alzare il consumer sentiment. Nonostante ciò, le imprese cercano ancora di combattere un sentiment negativo con comunicati più positivi. Twitter viene utilizzato quando c’è un sentiment positivo e per tenere a bada il WOM negativo; i tweet vengono diminuiti in caso di eccessivo WOM e

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copertura mediatica. Come sottolineato prima, il consumer sentiment non risulta più essere un driver per i risultati aziendali; invece, una strategia basata su un buon volume di tweet ma di tono moderato in valenza sta cominciando a ripercuotersi su questi risultati.

Hewett osserva che la strategia della Bank of America di postare numerosi tweet ma di tono più moderato ha efficacia maggiore nel migliorare il consumer sentiment, i depositi e attenuare il WOM online, rispetto ad esempio alla Well Fargo, la quale emette meno tweet di tono troppo positivo; ciò è dato dal fatto che la Bank of America usa Twitter soprattutto per la cura del customer service, rispondendo alle lamentele sul canale, mentre le altre banche puntano più ad utilizzare Twitter per fornire notizie, informazioni e promuovere: queste ultime attività accrescono la valenza – e quindi il tono - dei tweet.

Le conclusioni che si possono trarre dall’analisi esposta sono diverse. Innanzitutto, un fattore non controllabile da parte delle aziende è la maggiore eco delle notizie negative rispetto alle positive in termini di crescita volume; a sua volta, maggiori volumi accrescono il tono negativo in un circolo vizioso innescato dall’ecoverso. L’online WOM sta acquisendo sempre più importanza nell’ecoverso a discapito del consumer sentiment. Una strategia su Twitter che accresca il volume di tweet, ma con una valenza moderata (puntando alla cura del customer service più che alla promozione), riesce a far scemare l’online WOM (WOM alto porta a bassi risultati) e le notizie sui media tradizionali. I comunicati stampa sembrano avere un notevole effetto non solo nel migliorare il tono del WOM, ma anche nell’influenzare i risultati aziendali. Infine, l’advertising bypassa l’ecoverso influendo direttamente sui risultati. Tutto ciò testimonia la necessità da parte delle imprese di usare in maniera complementare i canali online e quelli offline nelle strategie di brand communication.

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1.5 Path to purchase

I nuovi paradigmi del marketing hanno evidenziato come le nozioni che descrivevano il processo di acquisto dei consumatori in maniera lineare sono oggi obsolete e da rimpiazzare con un modello inteso come network (Achrol e Kotler, 2011): path to purchase (P2P). Si registra che il 27% dei consumatori negli USA ricerca informazioni online in seguito a spot tv (Nielsen, 2012), mentre il 16% dei consumatori UK ricerca informazioni o posta sui social in seguito a spot televisivi (Ofcom, 2013). Dunque, i media online stanno rendendo possibile un’osservazione di questo percorso di acquisto ed un monitoraggio continuo delle conversazioni, degli atteggiamenti e dell’engagement/ disengagement in una maniera più veloce ed economica delle ricerche classiche. Secondo il P2P delineato da Srinivasan (2010), il sentiero prevede tre step: conoscenza (cognizione), preferenza (affezione), convinzione ed acquisto (conazione). La prima grandezza viene misurata tramite le visite sul sito (owned media) e i click su paid search (paid media); la seconda tramite i sentimenti espressi, ad esempio con i like e i commenti (earned media); la terza tramite le vendite (Figura 9).

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35 Figura 9 – P2P classico

Kotler and Keller (2012) affermano, però, che questo percorso sia indicato per beni o servizi il cui acquisto preveda un alto coinvolgimento (ad esempio auto), mentre esistono altri sentieri per prodotti poco differenziati (conazione-affezione-cognizione) o per acquisti con basso coinvolgimento (cognizione-conazione-affezione). A prescindere dal percorso seguito, risulta evidente il legame fra le diverse metriche, l’una come segnale dell’altra.

Dalla ricerca di Srinivasan (2016) si evince che variabili quali la distribuzione, il prezzo, la pubblicità TV, i like, le visite al sito e i click su paid search hanno una casualità di Granger, con un livello di significatività del 5%, nei confronti del volume delle vendite (Tabella 3). Inoltre, si può notare una causalità reciproca tra metriche cognitive (paid

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search clicks, visite al sito web) e metriche affettive (like e unlike), come precedentemente affermato nel P2P.

Egli rileva che, anche per i beni con basso coinvolgimento, il modello che riesce meglio a spiegare il volume delle vendite (R²=33%) è quello che tiene conto sia delle leve di marketing mix che delle metriche online (da soli rispettivamente R²=27% e R²=9%): leve quali distribuzione e prezzo incidono per l’80%, ma del restante 20% la pubblicità su TV rappresenta il 5%, mentre le variabili online incidono per il 15% sulle vendite (10% owned: cognizione spiega più dell’affezione); questo suggerisce una necessità di slittamento della pubblicità dalla tv all’online per questi beni.

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Dalla Tabella 4 delle elasticità si nota che, ad esempio, raddoppiando gli investimenti tv i paid click salgono di circa 10%, i quali a loro volta influiscono sulle visite online (72%) e sui like (240%); anche le stesse visite online influiscono molto sui like (270%). Le relazioni inverse hanno invece elasticità minori (9%-5%-25%). Un’ulteriore segnalazione è che i like e le visite al sito possono creare unlike (37.5%-18%), che a loro volta influiscono negativamente, anche se di poco, sulle vendite (-0.7%); invece, paid click, visite al sito e like aumentano le vendite. Anche se minimamente (0.6%), le imprese tengono conto dei paid click per decisioni di aumento della distribuzione.

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Figura 10 – Relazioni reciproche tra le diverse leve del marketing e le vendite

Dalla Figura 10 possiamo, inoltre, osservare le magnitudini delle relazioni reciproche tra le grandezze esposte. Un aumento di 1 GRP (gross rating point, unità di misura che indica la pressione pubblicitaria) nella pubblicità tv conduce a +137 unità vendute, oltre ad incrementare il paid search di 9 unità, le quali a loro volta aumentano di altre 40 unità ognuna le vendite. Ogni paid search porta anche a +5 visite sul sito e a mezzo like. Da sottolineare il fortissimo impatto di un unlike che porta a -319 in termini di unità vendute; ciò non è ovviamente causato dalla singola persona che toglie il “mi piace”, ma dal conseguente word of mouth negativo. Sono, quindi, le varie grandezze del P2P a condurre in maniera diversa a differenti volumi di vendite: ad esempio, si osserva che un aumento del 10% del tv advertising accompagnato da un aumento di 50 like porta a +1800 unità vendute, valore ottenibile anche con lo stesso aumento del 10% nella tv accompagnato da 17 visite sul

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sito in più; nel caso studiato, gli owned media hanno, quindi, tre volte l’effetto degli earned media.

1.6 Caratteristiche del contenuto della comunicazione

Da una analisi condotta da Stephen, Sciandra e Inman (2016) si trova che, su Facebook, risulta più importante il come si comunica rispetto a cosa si comunica, allo scopo di influire sull’engagement dell’utente (like, commenti, condivisioni, click…). La presenza di caratteristiche persuasive nel post tende a far scemare l’engagement, mentre, a differenza della comunicazione sui media tradizionali, un contenuto più informale e meno chiaro risolleva l’interesse; la causa di ciò sembra risiedere nel fatto che gli utenti che seguono la marca sui social sono tendenzialmente consumatori o potenziali tali già relativamente interessati al brand e preferiscono una comunicazione che punti a stringere la relazione piuttosto che a vendere; la minore chiarezza è percepita come sintomo di autenticità e presuppone una interazione bidirezionale. Precedentemente, analisi simili sono state svolte nella comunicazione tv (Resnik e Stern, 1977 – Olney, Holbrook e Batra 1991 – Singh e Cole 1993), nella stampa (Turley e Kelley 1997) e nella comunicazione digitale (Bart, Stephen e Sarvary 2014; Danaher, Smith, Ranasinghe e Danaher 2015; Drossos 2007; Goldfarb e Tucker 2011; Lohtia, Donthu e Hershberger 2003), evidenziando come il contenuto possa avere ulteriori caratteristiche rispetto a quelle puramente informative e puntare all’aspetto emozionale, anche quando il destinatario del messaggio non è ancora legato al brand.

Sono individuate varie tipologie di contenuto e i risultati a cui sono pervenuti Stephen, Sciandra e Inman nella loro analisi (2016):

- provocazione: punta a suscitare emozioni positive; questo aumenta leggermente la reach del post, anche se l’uso di humour la diminuisce;

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- persuasione: punta ad influenzare comportamenti, opinioni ed atteggiamenti. Si basa su tre grandezze, che tendono ad essere elevate nella comunicazione tradizionale di marketing, come affermato dalla letteratura sull’elaborazione del pensiero e dalla psicologia (Petty e Cacioppo 1979; Petty, Wells e Brock 1976; Brehm 1966): rilevanza del contenuto con il brand, che migliora la motivazione e l’attenzione; chiarezza del messaggio, che deve essere fluente per richiedere meno sforzo e persuadere; tono pubblicitario, che può portare al rigetto della comunicazione qualora il consumatore intenda la volontà di persuadere. Le ultime due grandezze risultano essere molto elevate nella pubblicità tradizionale, poiché unidirezionale, mentre la comunicazione moderna – tra cui quella social – punta sulla rilevanza del contenuto; invece, qui, le altre due generano opinioni negative; - informazione: riguardo il prodotto, il marchio o il valore fornito; il

primo tipo aumenta la reach del post, il secondo spinge a condividere/commentare; il terzo tipo, invece, dà effetti negativi sui commenti, a testimonianza della poca appropriatezza di questi contenuti (ad esempio il prezzo) sui social;

- call to action: tramite cui si richiede di eseguire un’azione utile per migliorare l’engagement, quale mettere like o commentare; tecniche del genere hanno raramente effetti positivi e, al contrario, procurano opinioni negative;

- riferimenti: tramite cui vengono trattati eventi o entità esterne al brand ma ad esso collegati e, di solito, attuali, di cui l’audience risulta interessato, al fine di ottenere attenzione; si riportano miglioramenti nell’engagement tramite questi mezzi;

- elementi multimediali: nel caso dei media digitali, oltre al testo possono essere presenti elementi audio/video o link; ciò aiuta a ridurre le opinioni negative.

Tra i contenuti, nell’analisi, si nota che avere un tono più neutrale riduce le opinioni negative. A causa delle caratteristiche su esposte riguardo l’aspetto persuasivo sui social, risulta che, a prescindere dall’audience

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che il post riesce a raggiungere, siano solo gli utenti già interessati (core fan) a prestare effettiva attenzione; ciò mette in discussione la scelta dell’impresa di pagare Facebook per ampliare la reach (Stephen, Sciandra e Inman 2016).

1.7 ZMOT: Zero Moment Of Truth

Nel 2005 la società multinazionale Procter & Gamble teorizzò il concetto noto come First Moment Of Truth (FMOT), cioè il momento esatto, compreso tra 3 e 7 secondi, in cui il consumatore compie la propria scelta d’acquisto; ciò prende luogo davanti allo scaffale, tra le diverse opzioni disponibili nel luogo di acquisto. Fino allo scorso decennio, le teorie sull’esperienza d’acquisto individuavano, dunque, 3 fasi (Figura 11):

1. Stimolo. L’individuo riceve un certo stimolo che innesca in lui la consapevolezza di un bisogno

2. First moment of truth (scaffale): il consumatore sceglie che prodotto acquistare tra i vari articoli presenti sullo scaffale

3. Second moment of truth (esperienza): l’acquirente utilizza effettivamente il prodotto selezionato e valuta il proprio grado di soddisfazione, condividendo successivamente l’esperienza

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Nel 2011, il Managing Director US della multinazionale Google, Jim Lecinski, introduce una nuova definizione, mai enunciata in precedenza: Zero Moment Of Truth (ZMOT), il momento – il più importante secondo Google - in cui il potenziale cliente crea le proprie convinzioni e quello in cui il processo d’acquisto effettivamente inizia. Esso è costituito da tutte le informazioni di qualsiasi natura reperite online, a cui l’individuo viene sottoposto riguardo ad un certo bene/servizio o brand e che vanno ad alimentare le sue opinioni: recensioni, commenti, ricerche sui motori di ricerca, informazioni sui social… . Questo momento si verifica sempre più in tempo reale, ad ogni ora del giorno, senza soluzione di continuità e, sempre più spesso, tramite smartphone. Si assiste, dunque, ad un incremento dei touchpoint in cui il consumatore si trova in contatto col brand; questi touchpoint non sono più solo brand-owned, ma soprattutto customer-owned (Katherine N. Lemon & Peter C. Verhoef, Journal of Marketing: AMA/MSI Special Issue, Vol. 80 November 2016, 69–96). Inoltre, il flusso di informazioni non è unidirezionale: allo ZMOT di un individuo prendono parte, contemporaneamente e sullo stesso piano, amici, estranei, siti web, esperti, pubblicitari, ognuno con modalità e scopi differenti; qui non assistiamo solo al tentativo di persuasione da parte dei venditori, ma anche e soprattutto a informazioni più obiettive fornite da soggetti terzi al rapporto azienda-cliente.

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43 Figura 12- Fasi nella decisione d’acquisto, nuova teoria ZMOT

In questo nuovo paradigma, lo ZMOT si inserisce tra lo stimolo ed il FMOT (Figura 12); ma si innesca, inoltre, un nuovo collegamento con il Second moment of truth di altri consumatori, che attraverso la condivisione delle esperienze, principalmente tramite social network e recensioni online, alimentano – positivamente o negativamente – le opinioni dei potenziali nuovi consumatori. Il nuovo sistema risulta, dunque, maggiormente relazionale rispetto al precedente. Nessun settore merceologico può ritenersi esente da tale procedimento mentale di scelta.

L’emersione di questo nuovo step nel P2P è giustificata dall’esponenziale incremento della popolazione attiva online. Dallo studio commissionato ad aprile 2011 da Google a Shopper Sciences, che ha intervistato 5.000 consumatori, è emerso ad esempio che le fonti d’informazione consultate prima dell’acquisto, dal 2010 al 2011, sono passate in media da 5.3 a 10.4 ad individuo, prima della decisione definitiva. Inoltre, l’84% dei consumatori ha dichiarato che il momento zero della verità è stato fondamentale per la propria decisione d’acquisto, addirittura con

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una percentuale superiore rispetto a quanti hanno ritenuto influente lo stimolo iniziale (76%) ed il FMOT (77%).

1.8 Purchase intentions, purchase funnel e consumer

decision journey

Il ciclo di acquisto di un prodotto da parte di un consumatore può essere articolato in 5 fasi, costituenti il cosiddetto purchase funnel (Figura 13): 1. Awareness: la semplice conoscenza e capacità identificativa di un

certo prodotto da parte del consumatore

2. Consideration: l’inclusione da parte del consumatore del prodotto in questione all’interno del proprio potenziale spettro di acquisto, grazie alla valutazione positiva delle caratteristiche dell’offerta 3. Preferenza/intenzione di acquisto: l’inclinazione logica o emotiva

di un consumatore verso una certa soluzione, non ancora tradotta in atto, ma solo potenziale

4. Acquisto: l’azione effettiva messa in atto dal consumatore verso quel prodotto

5. Riacquisto: il processo logico/emotivo che conduce ad un acquisto ripetuto del prodotto

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45 Figura 13- Purchase funnel classico

Il passaggio dal terzo al quarto step può essere soggetto a distorsioni e non tradursi mai in atto d’acquisto (Figura 14). Ci sono due principali fattori di distorsione: gli atteggiamenti degli altri e i fattori situazionali imprevisti.

Figura 14- Distorsioni nel passaggio da purchase intention a purchase decision

Gli atteggiamenti negativi degli altri possono mitigare le intenzioni di acquisto, in base a due grandezze:

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 Intensità dell’atteggiamento negativo della persona terza

 Motivazione del consumatore a compiacere la persona terza Quanto maggiori sono l’intensità negativa del soggetto terzo ed il legame con la persona da compiacere, tanto maggiore sarà la distorsione della purchase intention del soggetto potenziale consumatore. Viceversa, questa grandezza potrà incrementarsi nel caso di approvazione; il quadro si complica dal momento che ogni individuo è collocato in un sistema reticolare di relazioni, in cui possono esservi pressioni in direzioni contrarie.

La purchase intention può anche essere influenzata da fattori situazionali imprevisti. Tra questi annoveriamo, ad esempio, una modifica del reddito, del prezzo atteso e dei benefici attesi del prodotto.

Quindi, le intenzioni di acquisto non sono soggette ad una automatica trasformazione verso l’acquisto effettivo.

In letteratura l’argomento risulta ancora dibattuto. Fishbein (1971) suggerisce che, sebbene gli atteggiamenti nei confronti di un bene/brand possano non essere buoni indicatori di uno specifico atto, gli atteggiamenti nei confronti dell’eseguire una certa azione nei confronti di un bene/brand (comprare un certo bene/brand in una data situazione) riportino, invece, correlazioni maggiori con l’acquisto stesso. Fishbein propone, dunque, un modello in cui la previsione di un comportamento è legata all’atteggiamento nei confronti dell’atto, piuttosto che dell’oggetto in sé e per sé.

L’utilità delle intenzioni di acquisto come indicatori dell’acquisto è stata verificata empiricamente in vari studi, tra cui quelli di Aizen e Fishbein, quelli di Jamieson e Bass (1989) ed in altre ricerche del Survey Research Center of the University of Michigan (Mueller, 1957). Inoltre, anche le testimonianze di aziende che usano queste misure per stimare il successo di prodotti nuovi da lanciare remano in questa direzione, affermandone l’efficacia. Un’ulteriore conferma arriva dallo studio di P.

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Douglas e Y. Wind (1971); in questa ricerca essi trovano, inoltre, che le classiche scale Likert a 5/7 punti, utilizzate da numerose imprese, sono degli strumenti più che adeguati per misurare le intenzioni che a loro volta, affermano anche loro, guidano verso una corretta stima degli acquisti effettivi (Susan P. Douglas and Yoram Wind (1971). “Intentions to buy as predictors of buying behavior”, in SV-Proceedings of the second annual conference of the Association for consumer research, eds. David M. Gardner, College Park, MD: Association for consumer research, pages:331-343).

Bisogna, però, mettere in evidenza che il classico purchase funnel, in cui il set dei brand viene progressivamente filtrato dall’individuo fino alla scelta ultima, non è ad oggi più così lineare, a causa della rivoluzione digitale del web 2.0: come visto in precedenza, il numero di touchpoint (non solo nello ZMOT) è salito vertiginosamente ed è possibile tracciare un percorso più articolato, definito consumer decision journey (David Court, Dave Elzinga, Susan Mulder, and Ole Jørgen Vetvik, McKinsey&Company, 2009). Questo percorso risulta circolare ed è formato da quattro fasi: consideration, active evaluation, moment of purchase e post-purchase experience (Figura 15).

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48 Figura 15- Fasi del Consumer decision journey

Diversamente dall’imbuto, il numero di marchi considerati può qui aumentare nella seconda fase (active evaluation), invece che diminuire, dal momento che i consumatori si mettono alla ricerca attiva di informazioni. Gli altri brand possono interrompere il processo decisionale inserendosi nella seconda fase. A seconda del settore merceologico, il numero medio di marchi entrati nelle fasi successive cambia: ad esempio, nel settore dei PC i soggetti hanno inserito in media una nuova marca nella fase di active evaluation al numero di 1.7 marche presenti nel consideration set. Gli acquirenti di auto ne hanno invece aggiunte 2.2 in media rispetto al set iniziale di 3.8 (Tabella 5).

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Tabella 5- Numero di marchi entrati nel consideration set nelle diverse fasi, per settore merceologico

Dunque, nel nuovo consumer decision journey le logiche di marketing push fanno spazio a quelle pull, in cui è il consumatore a cercare attivamente le informazioni di cui ha bisogno. Questa ricerca mostra anche che i 2/3 dei touchpoint utilizzati durante la fase di active evaluation consistono in fonti di informazione guidate dal consumatore, quali recensioni online e raccomandazioni tramite word of mouth di amici e parenti o sui social; solo 1/3 restano informazioni veicolate dalle imprese.

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