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“Fare famiglia in Europa: convergenza o divergenza”

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Academic year: 2021

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Fare famiglia in Europa: convergenza o divergenza?

Manuela Naldini (Università di Torino)

Introduzione

Negli ultimi Cinquanta anni la famiglia in Europa ha conosciuto un processo di profonda e rapida trasformazione. A partire dalla prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso si assiste alla fine di quella che è stata definita ‘l’epoca d’oro’ della famiglia (Roussel 1992; Kuijsten 1996) quando i tassi di matrimonio e di fecondità erano alti, l’instabilità coniugale un fenomeno marginale, e la famiglia era basata su una chiara divisione dei ruoli: all’uomo (marito e padre) spettava il ruolo di procacciatore di risorse a alla donna il lavoro domestico e familiare. Il ‘grande’ mutamento inizia nei Paesi scandinavi e nell’ Europa settentrionale (Roussel 1992; Sobotka e Toulemon 2008) e poi si è progressivamente diffuso, nell’area continentale e nel resto d’Europa, con ritmi e tempi diversi a seconda delle varie aree geografiche, delle coorti e delle classi sociali.

Possiamo dunque parlare di un processo di convergenza della famiglia in Europa? Alla fine degli anni Ottanta, Roussel (1992), illustrando i principali cambiamenti familiari avvenuti in sedici Paesi europei, notava sia segnali di convergenza, sia di mancanza di unità. Raggruppando i Paesi sulla base di quattro indicatori – fecondità, coabitazione, divorzio e nascite fuori dal matrimonio – si registravano bassi livelli nei Paesi del Sud dell’Europa, alti livelli nei Paesi nordici (eccetto Norvegia) e diverse combinazioni tra Paesi. L’analisi non includeva però ancora i Paesi dell’Europa Centro-orientale.

Alla fine del Ventesimo secolo-inizio del Ventunesimo una varietà di forme e di modi di intendere e ‘fare’ famiglia convive a fianco della famiglia coniugale con figli basata sul matrimonio. L’insieme delle trasformazioni familiari e demografiche e in particolare la diversificazione dei corsi di vita, dei tempi e delle scansioni nelle transizioni, la riduzione del numero dei figli, nonché l’aumento della separazione e dei divorzi hanno prodotto una “pluralizzazione” dei modelli familiari. Famiglia e coppia non coincidono più, il matrimonio può essere contratto anche da due persone dello stesso sesso. Figli e genitori (biologici, adottivi, sociali e legali) si diventa in molti modi. Ciò, ovviamente, ha avuto anche importanti

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ricadute sulle strutture familiari (del chi vive con chi). Con riguardo alle forme di convivenza si è assistito ovunque a una riduzione dell’ampiezza dei nuclei familiari, a causa della riduzione del numero dei figli e dell’aumento del numero di coloro che vivono da soli. Si è assistito inoltre ad una diminuzione delle strutture familiari complesse, e ad un aumento generalizzato di quelle che, con un termine in parte ambiguo, sono definite ‘le nuove famiglie’ (convivenze, eterosessuali e omosessuali, famiglie monogenitore, famiglie ricostituite). Si tratta di ‘modi’ nuovi di fare famiglia sia dal punto di vista delle regole e dei valori (come ad esempio convivere senza sposarsi, convivere da omosessuali), sia per l’emergere di nuove fasi nel ciclo di vita individuale e familiare o il divenire più comune di fasi della vita un tempo meno diffuse (vivere da soli o sole in età anziana o in seguito ad una separazione o prima di mettersi in coppia).

Anche sul piano dei valori che guidano le scelte individuali, di coppia e familiari sono avvenuti importanti cambiamenti. La famiglia nelle sue linee di divisione orizzontale (nei rapporti di coppia) e verticale (nei rapporti tra le generazioni) è stata attraversata da un processo di ‘democratizzazione’ per la maggiore importanza attribuita al benessere individuale, all’autonomia e realizzazione personale, alla qualità della relazione.

La maggior parte dei Paesi in Europa sembra avere seguito la stessa direzione, andando verso quella che è stata definita la ‘convergenza alla (nella) pluralizzazione’ (Kuijsten 1996). Anche se lo stesso autore rilevava come il concetto di pluralizzazione segnali un fenomeno in contrasto con l’idea di una convergenza, poiché essa può avvenire e di fatto avviene in direzioni e con intensità diverse tra Paesi. Una diversità che non dipende solo dai tempi e dalla velocità in cui dati fenomeni avvengono, ma dalle opportunità o viceversa i limiti posti dal contesto istituzionale, normativo, culturale di ciascun paese. Non va, infatti, dimenticato che i modelli di formazione della famiglia appartengono ai fenomeni di lunga durata, resistendo, pur trasformandosi, anche a cambiamenti radicali nell’assetto politico e sociale (Therborn 2004).

A partire da una prospettiva storica e comparata, l’obiettivo di questo lavoro è illustrare le similarità e le differenze nelle linee di tendenza riguardanti la formazione della famiglia (coabitazione, matrimonio e modelli di fecondità) in Europa dalla metà degli anni Sessanta ad oggi, identificando gli elementi di convergenza o mancata convergenza.

In quale direzione stanno cambiando i modi ‘di fare’ famiglia in Europa? Esistono ancora differenze al di qua e al di là della linea idealmente tracciata da Trieste a Pietroburgo che,

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secondo Hajnal (1965; trad. it. 1977), distingueva la famiglia ‘occidentale’ da quella ‘orientale’ in Europa? La famiglia del Sud da quella del Nord Europa? Quali i tempi e la portata dei cambiamenti familiari? Osserviamo una tendenza alla convergenza tra le varie regioni d’Europa? Come possiamo comprendere i mutamenti familiari, nella formazione della famiglia (coabitazione, matrimonio), nel diventare genitori, utilizzando una lente attenta alle dimensioni di variazione storico-geografica, oltre che per coorte e classe sociale?

Le direzioni del cambiamento, la convergenza (o mancata convergenza) tra regioni e Paesi sono temi che sono discussi alla luce del ruolo della (incompiuta) ‘rivoluzione’ di genere, soprattutto della nuova partecipazione delle donne al mercato del lavoro, e del ruolo delle politiche sociali rispetto alla formazione della famiglia.

Dato l’ampio arco temporale e geografico preso in esame, le linee di convergenza (o mancata) in Europa sono tracciate ricorrendo a dati che si riferiscono alle medie nazionali (pur con i limiti di esse), ma quando possibile, oltre che utile ai fini analitici, i cambiamenti sono illustrati raggruppando i Paesi in 6 aree geo-culturali identificate tenendo conto delle diversità nei regimi di welfare e di genere: i Paesi Scandinavi, i Paesi Anglosassoni, l’Europa Occidentale, i Paesi a lingua tedesca, il Sud Europa, i Paesi dell’Europa Centro-orientale (Olàh 2015).

1. Diventare adulti e formare la famiglia

1.1 L’Uscita di casa dei giovani: il contrasto tra Nord e Sud

A partire dalla fine degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, in tutti i Paesi europei si assiste ad un aumento della permanenza nella casa dei genitori da parte dei giovani in connessione sia con l’aumento della scolarità, sia con le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro. Seppure la direzione del cambiamento sia comune, alcuni studi (Billari 2004; Sobotka e Toulemon 2008) mettono in evidenza una divergenza netta tra il modello di comportamento adottato dai giovani nel Nord rispetto ai giovani del Sud Europa. I Paesi Mediterranei, e in particolare Italia e Spagna, seguite dal Portogallo e dalla Grecia, mostrano i tassi di permanenza insieme più elevati e più lunghi. In questa parte d’Europa la metà o più dei venticinque-ventinovenni viveva ancora con i genitori, senza

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I Paesi dell’ex blocco sovietico, entrati solo recentemente nelle analisi comparative, rappresentano un’area geo-culturale eterogenea. Se osserviamo l’età media di uscita dalla casa dei genitori dei giovani dell’Europa Centro-orientale, nati nella coorte intorno al 1960, vediamo che essi tendono mediamente a uscire di casa prima dei giovani italiani o spagnoli. Tuttavia, se li confrontiamo con i giovani trentenni che vivono ancora in casa con i genitori, vediamo che il blocco non è omogeneo. Infatti, in Polonia e in Ungheria, le percentuali sono molto simili a quelle di Spagna e Italia. Più in generale quello che sembra differenziare i corsi di vita dei giovani trentenni dell’Europa del Sud rispetto a quelli dell’Europa dell’Est sono le motivazioni soggettive connesse con le scelte o meno di autonomia dalla famiglia. Infatti, in questo ultimo gruppo di Paesi si vive a lungo a casa dei genitori per così dire involontariamente, principalmente a causa delle difficoltà abitative (vedi Sobotka e Toulemon 2008, tab. 1); laddove in Italia e Spagna gran parte dei giovani dichiarano di essere soddisfatti di vivere in famiglia fino a che non ne formano una propria. Nei Paesi dell’Europa del Sud, inoltre, la ragione principale di uscita dalla casa dei genitori è il matrimonio. Riprenderemo più avanti queste prime differenze, che sono dovute, sia a modelli culturali di famiglia e modelli di responsabilità e obbligazioni tra le generazioni di ‘lunga durata’ che dividono l’Europa lungo la linea Est e Ovest (Haijnal 1965) Nord e Sud (Reher 1998), sia all’azione delle politiche di sostegno alla autonomia dei più giovani.

1.2 La Coabitazione

Nell’Europa del Ventunesimo secolo un numero ridotto di giovani entra nella vita di coppia attraverso il matrimonio (Sobotka and Toulemon 2008), anche se esistono importanti differenze tra Paesi. Coabitare, prima di sposarsi o in alternativa al matrimonio, è oggi un modo ‘normale’ di formare la famiglia. Questo tipo di soluzione insieme sentimentale e abitativa non è certo un’invenzione recente, ma nuovo è il significato ad essa attribuito dagli individui e il grado di riconoscimento sociale e di legittimazione di cui gode.

Secondo la ‘teoria della seconda rivoluzione demografica’ (Lesthaeghe 1995), la ‘svolta culturale’ - connessa ai processi di individualizzazione e di secolarizzazione, che avrebbero investito le società occidentali a partire dalla metà degli anni Sessanta – è il fattore che più ha contribuito all’aumento della coabitazione (e al declino del matrimonio). Sono cambiate le aspettative individuali verso la coppia e più in generale è cambiato il ruolo e il significato del

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matrimonio. Quest’ultimo da ‘rito di passaggio’ è divenuto sempre più un ‘rito di conferma’, una possibile alternativa, una scelta non solo rinviabile nel tempo quando non ci sono ancora le condizioni, ma anche reversibile, quando l’amore finisce. Le ragioni e i modi di entrata nella vita di coppia sono dunque cambiati, sia perché il matrimonio non è più l’unica via, sia perché vi è una minore asimmetria nella coppia e una maggiore negoziazione nei modi di entrata nella vita di coppia. Anche le trasformazioni della vita intima (Giddens 1992; trad. it. 1995), la maggiore importanza attribuita alla ‘storia’ di coppia, alla qualità della relazione, al benessere individuale, e alla presenza (e durata) dell’amore hanno giocato a favore di rapporti di coppia percepiti come più fluidi e meno vincolanti nel tempo, appunto come le convivenze senza matrimonio, quando non il vivere insieme a distanza (Living Apart Together -LAT). Tre diversi stadi sono stati identificati nell’emergere della convivenza (Sobotka e Toulemon 2008). Il primo è quello della ‘diffusione’, quando una fetta crescente dei giovani adulti decide di formare la coppia attraverso un’unione consensuale e questa eventualmente diviene anche la pratica della maggioranza. Nel secondo stadio, definito della “permanenza”, la coabitazione tende ad avere una durata più lunga ed è meno frequente che termini in un matrimonio. Infine, vi è un terzo stadio, in cui la coabitazione è considerata in sé una soluzione di vita familiare, le nascite non sono più determinate e/o successive al matrimonio, ma indipendenti da esso. Si assiste così durante questo terzo stadio all’aumento delle nascite fuori dal matrimonio.

In Europa nel complesso ad essere più diffuso è il primo stadio, con una prevalenza di convivenze precedenti al matrimonio (prematrimoniali e giovanili), anche se nel Nord-Europa sono diffuse anche quelle di secondo e terzo stadio. Le convivenze prima e senza matrimonio, infatti, si sono diffuse prima e più velocemente nei Paesi più secolarizzati del Nord Europa, in Inghilterra e in Francia, poi più lentamente in quelli meno o più tardivamente secolarizzati e dove le reti familiari hanno maggiore importanza. Nei Paesi dell’ex-blocco sovietico, dove la loro incidenza era prima molto ridotta, sono aumentate notevolmente laddove il processo di secolarizzazione era più avanzato, come in Lettonia, Estonia, Ungheria e Slovenia, sono rimaste più limitate in Paesi cattolici come la Lituania, la Polonia e la Slovacchia (Sobotka e Toulemon 2008).

Seppure in molti Paesi le convivenze costituiscano oggi il modo principale in cui una coppia va a vivere insieme, le differenze tra le diverse aree geografiche e culturali dell’Europa rimangono marcate. Solo nei Paesi Scandinavi e in Francia le convivenze tra adulti nelle età

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centrali sono un fenomeno consistente. È in questi Paesi che vi è la più alta incidenza di convivenze con figli. All’opposto troviamo i Paesi del Sud Europa e alcuni Paesi dell’Est Europa (Romania, Croazia, Slovenia, Bulgaria e Polonia) dove il fenomeno, seppure in forte crescita, rimane ancora limitato (Lappegård 2014).

1.3 Il Matrimonio

La diffusione delle coabitazioni senza matrimonio, incluse quelle che hanno figli, segnala una profonda trasformazione del matrimonio come istituzione sociale sia della coppia, sia della filiazione. Il matrimonio è ancora un legame di grande valore, un elemento di distinzione sociale (Cherlin 2009). Tuttavia oggi è sempre meno necessario come fondamento del fare famiglia: si può decidere di contrarlo oppure no, e anche di contrarlo e poi scioglierlo.

In parallelo alle trasformazioni del ruolo e significato del matrimonio, si è assistito al calo della nuzialità. Dalla metà anni Sessanta-inizi anni Settanta, infatti, benché i tassi di nuzialità continuino a rimanere molto alti, le analisi per età e per coorte indicavano in molti Paesi, e in particolare nel Nord Europa, sia un rallentamento della propensione al matrimonio, sia un abbassamento dell’età allo stesso. La metà degli anni Sessanta segna dappertutto il punto di svolta che in generale corrisponde ad un arresto del trend di crescita nei tassi di nuzialità: ma è soprattutto nei Paesi scandinavi che si rivela come una inversione di tendenza di grande spettacolarità. Nei decenni successivi tutti i Paesi dell’Europa ‘occidentale’ sembrano seguire l’esempio della Scandinavia: prima la Germania Federale e la Svizzera, poi l’Inghilterra e la Norvegia, infine la Francia, l’Italia e la Spagna.

La riduzione nei tassi di matrimonio è conseguenza, in parte della maggiore diffusione delle convivenze alternative al matrimonio, in parte della posticipazione del processo di formazione della famiglia, ossia, è dovuta ad un innalzamento dell’età dei giovani al matrimonio. In Italia, come in altri Paesi del Sud Europa, il cambiamento inizia con un decennio di ritardo, ma poi, a partire dagli anni Novanta, il fenomeno diviene particolarmente evidente. Lo stesso avviene per i Paesi dell’ex blocco sovietico.

Tuttavia, è proprio sul fronte del matrimonio che la linea immaginaria che separa Trieste da Pietroburgo, i Paesi del modello ‘occidentale’ da quelli del ‘modello orientale’ di famiglia, mostra la sua tenuta, non tanto o solo in termini di propensione a contrarlo, quanto soprattutto in termini di età al matrimonio. Come si può osservare dalla figura 1 , seppure vi sia un trend

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all’aumento generalizzato, i Paesi dell’Europa Centro-orientale continuano a distinguersi per un’età media delle donne al primo matrimonio relativamente precoce. Pertanto seppure il calo della nuzialità sia un fenomeno comune, la parte Centro-orientale ancora oggi si distingue dal resto dell’Europa.

[Qui inserire Fig. 1. Età media al primo matrimonio della donna per differenti gruppi di Paesi, 1960-2012]

Il secondo grande cambiamento del matrimonio è rappresentato dall’introduzione del matrimonio omosessuale, o paritario. Il superamento del requisito che i coniugi siano di sesso diverso ha, infatti, sovvertito dall'interno le norme che regolano il matrimonio, e al tempo stesso ha contribuito a ridefinire i modi ‘di fare’ e di ‘concepire’ la famiglia. Il matrimonio tra due persone dello stesso sesso rappresenta anche una svolta epocale per il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Ma le forme di riconoscimento legale dei rapporti di coppia tra persone delle stesso sesso restano differenti anche solo all'interno di uno spazio sociale e politico come è quello rappresentato dai Paesi che appartengono alla Ue (Unione europea).

[Qui inserire Fig.2 La legislazione sulle coppie omosessuali in Europa, 2011]

Come si può osservare dalla mappa della figura 2, le linee di separazione tra Est e Ovest, Nord e Sud restano profonde rispetto ai riconoscimenti delle diversità familiari, con i Paesi Nordici e Centro-occidentali più veloci nel riconoscere i diritti delle coppie omosessuali, quelli dell’Europa Centro-orientale e del Sud (con l’importante eccezione della Spagna) più restii ad adeguarsi ai ‘nuovi’ modi di fare famiglia. Recentissime, ancorché parziali, novità in termini di riconoscimenti dei diritti delle coppie dello stesso sesso, in Paesi quali l’Italia e la Croazia, segnalano, tuttavia, un possibile processo di convergenza.

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Diventare genitore è un passaggio cruciale nella vita degli individui e delle coppie, non solo perché segna sia un passaggio generazionale, sia la trasformazione della coppia in famiglia, ma anche perché contrassegna una svolta che a differenza di altri passaggi (il primo lavoro, uscire di casa, andare a convivere, sposarsi ecc.) non è più reversibile. Come per altre scelte individuali e familiari cruciali nel corso di vita, tempi, modi, in parte motivazioni della scelta di avere uno, o più, figli sono cambiati nei decenni a cavallo del secolo. Si diventa genitori di meno figli e più tardi. Si può diventare genitori senza essere sposati e continuare ad esserlo quando la coppia genitoriale cessa di essere una coppia. Si può condividere con altri in forma allargata la responsabilità genitoriale o viceversa doverla esercitare da soli o sole. Si può avere un figlio “proprio” anche senza la mediazione del rapporto sessuale e così via.

2.1 Meno figli e più tardi

Dopo la eccezionale crescita del numero dei figli, durante il periodo conosciuto come il ‘baby boom’, a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, seppure con intensità diverse, si assiste in tutta Europa ad una caduta della fecondità al di sotto i due figli per donna (figura 3). Dapprima il calo si osserva nei Paesi a lingua tedesca, poi nei Paesi dell’Europa occidentale e nei Paesi scandinavi all’inizio degli anni Settanta. Il Sud Europa, Italia inclusa, entra nel gruppo dei Paesi a bassa fecondità più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, seguiti dai Paesi anglosassoni e dai Paesi dell’Europa Centro-orientale. Nella maggior parte dell’occidente il tasso di fecondità scende sotto, e in taluni casi molto sotto, il livello di sostituzione, ovvero sotto i due figli medi per donna.

Billari e Kohler (2004) distinguono a questo proposito tra Paesi a bassa fecondità e Paesi a bassa-bassa fecondità, cioè al di sotto di 1,5 figli per donna. Questa distinzione attraversa e scompiglia la linea di Hajnal. Da un lato, infatti, i Paesi a bassa fecondità includono sia i Paesi anglosassoni, sia quelli scandinavi e Centro-occidentali (ad eccezione della Germania). Dall’altro lato, i Paesi a bassa-bassa fecondità includono i Paesi mediterranei, la Germania e i Paesi dell’Europa Centro-orientale. Questi ultimi rappresentano in effetti, un caso interessante e per certi versi a sé. Infatti, nonostante in questi Paesi l’età media al matrimonio sia rimasta comparativamente bassa, a partire dal periodo di transizione all’economia di mercato, data la eccezionalità e specificità dei processi di trasformazione in cui sono stati coinvolti, la

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fecondità, che in precedenza era maggiore che nei Paesi occidentali confinanti (il caso più eclatante era rappresentato dalle due Germanie), ha iniziato a scendere rapidamente. Dagli anni Novanta questi Paesi sono entrati, appunto, nel gruppo di quelli a bassa-bassa fecondità.

[Qui inserire Figura 3 Tasso di Fecondità totale per differenti gruppi di Paesi in Europa, 1960-2012]

In parallelo al trend del rinvio e del declino della fecondità si assiste anche al fenomeno della crescita del numero delle donne senza figli alla fine del periodo riproduttivo. Nei Paesi a lingua tedesca (con l’eccezione dell’ex Germania dell’Est) e in Italia si osservano alte percentuali di donne senza figli che sembrano anche essere responsabili della bassa fecondità totale alla fine del periodo riproduttivo (Sobotka e Toulemon 2008). Anche se è stato osservato che questo fenomeno non può essere considerato la causa della bassa fecondità negli altri Paesi del Sud Europa, né la ragione della caduta della fecondità in alcuni Paesi dell’Est come Bulgaria, Polonia e Romania (Olàh 2015, p. 3).

2.2 L’aumento delle nascite naturali

Un altro importante aspetto del cambiamento familiare è rappresentato dalla crescita della fecondità naturale, ossia, del numero dei figli nati fuori dal matrimonio. All’inizio degli anni Sessanta solo il 10 per cento delle nascite aveva luogo fuori dal matrimonio nei Paesi scandinavi, che avevano allora il tasso più alto. Dagli anni Novanta del secolo scorso circa la metà dei bambini in questa parte d’Europa nasce all’interno di un rapporto di coppia non fondato sul matrimonio. In altre regioni il cambiamento è stato più lento, e una crescita più pronunciata avviene solo a metà/fine anni Ottanta nei Paesi anglosassoni, nei Paesi dell’Europa dell’Ovest, nei Paesi a lingua tedesca e nell’Europa Centro-orientale. Nei Paesi dell’Europa meridionale un incremento considerevole si osserva solo nell’ultimo decennio, seppure l’intensità di tale trasformazione sia stata particolarmente elevata negli ultimi anni (Sobotka e Toulemon 2008; Olàh 2015). Va peraltro osservato che elevati tassi di fecondità naturale possono nascondere fenomeni diversi. Nei Paesi scandinavi gran parte di

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queste nascite avvengono entro rapporti di convivenza more uxorio difficilmente distinguibili dal matrimonio. Ciò vale anche per la Francia e la Germania; laddove per la Gran Bretagna più spesso si tratta di nascite al di fuori di una convivenza di coppia. Pertanto più spesso si tratta di madri sole e per lo più anche molto giovani (Saraceno e Naldini 2013).

Una linea promettente di analisi dei cambiamenti nei modelli di fecondità è quella che li mette in relazione con la diversificazione dei comportamenti familiari e con le forme di riconoscimento degli stessi. È stato affermato che il declino del matrimonio, come elemento centrale del cambiamento teorizzato dai demografi della seconda transizione demografica, non può essere considerato responsabile della riduzione della fecondità (Sobotka e Toulemon 2008). In effetti, nell’Europa del Ventunesimo secolo si osserva una correlazione positiva tra Paesi a più alta fecondità e Paesi ad alto tasso di unioni consensuali (Lappegård, 2014), oltre che a più alto tasso di occupazione femminile. Le ragioni per cui i vari gruppi sociali, anche in tempi diversi intervengono sulla fecondità per contenerla anche nei numeri ridotti attuali non possono essere affrontate in questo saggio. Tuttavia, nella prospettiva enunciata da Therborn (2004) a proposito dei cambiamenti della famiglia, si potrebbe osservare come le scelte, le motivazioni, i vincoli e le risorse individuali si combinano in strategie procreative di coppia e familiari (bisogni interni), che a loro volta interagiscono con tendenze e situazioni esterne (economiche, sociali ma anche politiche) fortemente caratterizzate a livello locale, regionale e di culture familiari specifiche (Saraceno e Naldini 2013).

2.3 Genitorialità e diversità familiari

La moltiplicazione dei modi di diventare genitori è una delle cause più importanti della “pluralizzazione di modi di fare famiglia” tra fine Ventesimo- inizio Ventunesimo secolo. A ciò hanno contribuito, da un lato, l'aumento delle famiglie ‘ricostituite’ e di fatto, a seguito di separazione e divorzio, nonché l'aumento delle nascite fuori dal matrimonio; dall’altro, le nuove tecniche di riproduzione assistita Le prime separando, matrimonio e genitorialità, hanno aperto il ventaglio dei modi di "essere" genitori e figli oggi. Le seconde hanno ampliato la possibilità di "diventare" genitore, dal figlio in provetta alla maternità surrogata,

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rivoluzionando filiazione e genitorialità e oggi rappresentano una delle più importanti sfide della famiglia del Ventunesimo secolo.

Se guardiamo al tema delle forme di riconoscimento delle ‘diversità’ genitoriali (dall’adozione, all’adozione del figlio del partner) e in particolare al tema del riconoscimento giuridico delle possibilità di genitorialità aperte dalle nuove tecniche di riproduzione assistita (dalla procreazione medicalmente assistita, cosiddetta eterologa, alla maternità surrogata) vediamo che esso è diversamente declinato nei contesti nazionali europei. Dato che in molti Paesi è possibile chiedere l’adozione anche come single o anche se non sposati e in altri no. Ma è nel campo delle cosiddette tecniche eterologhe (ovvero quando il materiale biologico utilizzato proviene in parte da una donazione) che la distinzione tra famiglia ad ‘oriente’ e ad ‘occidente’ della linea immaginaria che va da Pietroburgo e Trieste mostra la sua tenuta. In effetti, le differenze tra Paesi (cfr anche la figura 2) rispecchiano quelle relative ai riconoscimenti delle coppie dello stesso sesso. L’accesso alla genitorialità per le coppie omosessuali (e/o ai singles) è possibile in tutti i Paesi del Nord e nei Paesi Anglosassoni (inclusa, recentemente la cattolica Irlanda), e in tutti i Paesi Mediterranei in cui è riconosciuto il matrimonio omosessuale (Spagna e recentissimamente in Portogallo), ma non in Italia e Grecia. Diversamente da quanto osservato per altri aspetti del cambiamento familiare, nel caso del diritto di famiglia l’Europa Centro-orientale costituisce un blocco omogeneo. Infatti, in questo gruppo di Paesi i riconoscimenti dei diritti alle coppie omosessuali restano molto limitati: non è possibile il matrimonio tra persone dello stesso sesso, né tantomeno è possibile il riconoscimento della genitorialità, nemmeno nella forma più temperata dell’adozione del figlio del partner (ILGA 2017).

Scelte e decisioni riproduttive, individuali, di coppia e familiari, disegnano dunque, ma sono anche disegnate dagli assetti istituzionali, rispecchiando non solo il dinamismo demografico di una data società, ma anche quello culturale, economico e sociale. Per questo è utile leggere i cambiamenti familiari in Europa, le convergenze (o le mancate convergenze) tra aree geografiche alla luce del ruolo che hanno nello spiegare le differenze nelle scelte riproduttive tra Paesi due fattori: l’uguaglianza di genere e le politiche sociali.

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L’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro, lo sviluppo del movimento femminista e l’accesso femminile a livelli d’istruzione pari (o superiori) a quello degli uomini sono considerati i fattori che più ampiamente hanno avuto ripercussioni sui nuovi comportamenti demografici e familiari. In questo senso possiamo affermare che le donne sono state le indiscusse protagoniste del mutamento. L’occupazione femminile inizia a crescere un po’ in tutti i Paesi occidentali negli anni Settanta ma diviene un fenomeno generalizzato solo un decennio più tardi. Analizzando i dati nel lungo periodo, appare evidente come l’aumento sia stato consistente sia in termini di crescita del tasso di attività femminile, sia in termini di composizione femminile della forza lavoro. L’aumento del tasso di attività femminile, nel periodo 1960-90, è stato particolarmente consistente nei Paesi scandinavi. Alti livelli di occupazione femminile, seppure al di sotto di quelli Scandinavi, si osservano nei Paesi Anglosassoni dalla metà/fine anni Ottanta, nei Paesi a lingua inglese dall’inizio anni Novanta. I Paesi dell’Europa Centro-orientale, che hanno una tradizione di partecipazione femminile al mercato del lavoro, conoscono un’inversione di tendenza all’inizio anni Novanta, come conseguenza dei processi di ristrutturazione economica e sociale in cui sono coinvolti. I Paesi del Sud Europa che avevano bassi tassi di partecipazione femminile (con la nota eccezione del Portogallo) vedono crescerla a partire dagli anni Novanta, senza però mai raggiungere i livelli degli altri gruppi di Paesi, e anzi conoscendo una battuta d’arresto in seguito alla recessione economica iniziata nel 2008 (Naldini e Saraceno 2011).

Tuttavia, al di là di questo trend generale continuano a persistere importanti differenze tra aree geografiche e all’interno delle stesse, sia in termini di livello che di come, nonché di quali donne partecipino, per titolo di studio, per coorte di appartenenza, per configurazione familiare. Anche le variazioni locali e regionali all’interno di un Paese possono essere molto marcate, come nel caso italiano. È indubbio tuttavia che con l’eccezione dei Paesi dell’ex-blocco sovietico, in tutta Europa nel lungo periodo si osserva una tendenza all’aumento della partecipazione femminile nel mercato del lavoro. Questa “nuova” partecipazione delle donne, e in particolare la crescita della partecipazione delle madri, ha significato il crollo del modello di famiglia male breadwinner/female carer, ossia di una famiglia basata su una rigida divisione del lavoro in base al sesso (l’uomo procacciatore di reddito e la donna casalinga), almeno per quanto riguarda il procacciamento di reddito, molto meno per quanto riguarda il lavoro familiare e l’emergere della famiglia a doppia partecipazione.

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Alla fine degli anni Novanta la coppia dual earner (a doppia partecipazione) o one and a half earner (con un lavoratore a tempo pieno e l’altra a tempo parziale) era il modello di famiglia maggioritario – sia nel caso di coppie senza figli sia nel caso di coppie con figli – nella maggior parte dei Paesi europei, dove i 2/3 delle coppie con almeno un reddito è costituita da coppie con due percettori di reddito. All’inizio del Ventunesimo secolo, solo in alcuni Paesi dell’area mediterranea (Italia, Grecia e Malta) e/o Paesi cattolici (Polonia e Irlanda) le coppie a doppia partecipazione non costituiscono il modello prevalente (Saraceno e Naldini 2011). Seppure la partecipazione delle donne al mercato del lavoro sia aumentata in tutta Europa, i gap di genere (tra uomini e donne) nel lavoro extrafamiliare e, soprattutto nell’ambito del lavoro familiare, non si sono chiusi. Si parla a questo riguardo anche di una rivoluzione ‘incompiuta’ per sottolineare come le donne (in particolare le madri) abbiano profondamente cambiato la loro modalità di partecipazione al mercato del lavoro e al procacciamento del reddito, mentre la divisione del lavoro familiare è cambiata solo in parte, perché sono poco cambiati i comportamenti degli uomini in famiglia e i modelli di genere maschili. La ‘rivoluzione incompiuta’ non riguarda tuttavia solo la divisione del lavoro entro la coppia. Riguarda anche l’organizzazione sociale (Gerson 2010). A fronte dei cambiamenti familiari e in particolare femminili, i posti di lavoro, l'organizzazione dei modelli di cura ed educazione dei bambini nonché il modello esistente di welfare, continuano ad assumere il ‘vecchio’ modello di famiglia, un modello che nella maggioranza dei casi non è più né praticabile né desiderato.

Una questione ancora aperta è se e quanto relazioni più eque e paritarie tra uomini e donne abbiano ricadute sulla fecondità. In particolare, il tema del nesso tra numero di figli e occupazione femminile è stato uno dei più dibattuti e anche dei più studiati, perché nei decenni a cavallo del secolo ha cambiato segno, suggerendo come esso sia dipendente dalla corrispondenza tra organizzazione sociale e modelli culturali prevalenti di famiglia e di genere. Fino agli anni Novanta, infatti, i Paesi a bassa partecipazione femminile erano anche quelli a più alta fecondità, e viceversa, suggerendo come la partecipazione ad un mercato del lavoro organizzato nella presunzione di una forte divisione del lavoro e delle responsabilità in base al sesso fosse poco gestibile per chi aveva la responsabilità del lavoro familiare e di cura dei figli. A partire da quella data emerge un chiaro rovesciamento del rapporto tra i due fenomeni: i Paesi Scandinavi, che da più tempo si sono adattati ad alti tassi di occupazione femminile, ora sono diventati anche Paesi con livelli comparativamente elevati di fecondità; i

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femminile, hanno bassa fecondità e bassa partecipazione. Nei Paesi dell’Europa Centro-orientale, che prima del crollo dei regimi comunisti avevano in media tassi sia di fecondità che di occupazione femminile più elevati di quelli dell’Europa occidentale, negli anni immediatamente successivi al mutamento di regime, hanno sperimentato un crollo di entrambi gli indicatori (Saraceno e Naldini 2013).

Come si può osservare dalla figura 4, nel Ventunesimo secolo, la correlazione tra tassi di attività femminile e tassi di fecondità è ancora significativa: sono i Paesi Scandinavi e quelli dell’Europa Centrale ad avere più alta occupazione femminile e più alta fecondità. D’altra parte i Paesi del Sud Europa, a più bassa occupazione femminile, non solo hanno raggiunto tassi più bassi di quelli mai toccati dai primi, ma non sembrano ancora aver arrestato del tutto la caduta. I Paesi dell’Europa Centro-orientale esibiscono un modello che tendenzialmente si avvicina ai Paesi del Sud per bassa fecondità e a quelli dell’Europa occidentale per livelli di occupazione femminile, con l’eccezione dei Paesi dell’area Baltica e della Slovenia in cui i tassi di fecondità sono comparativamente alti.

[Qui inserire Figura N.4 Correlazione tra tassi di attività femminile (25-54) e tasso di fecondità totale in alcuni Paesi in Europa]

Non è possibile addentrarci in questo saggio sulle ragioni dell’inversione di tendenza tra occupazione e fecondità, né le ragioni delle divergenze tra Paesi e/o tra gruppi di Paesi. Nei vari studi si tende a ricondurre il dibattito a due questioni centrali: il modo in cui le diverse società reagiscono all’aumento dell’istruzione e dell’occupazione femminile e il modo in cui i Paesi sostengono il costo dei figli e i cambiamenti nei comportamenti femminili (Saraceno e Naldini 2013). Nella prima direzione rientrano anche le spiegazioni che mettono in relazione i cambiamenti familiari, nel caso specifico i comportamenti riproduttivi, con l’equità di genere. Secondo questa prospettiva, per comprendere sia l’inversione di tendenza, sia la mancata convergenza tra Paesi nel rapporto tra occupazione femminile e tasso di fecondità è rilevante (McDonald 2000) guardare al grado di congruenza tra i cambiamenti che sono avvenuti in alcuni ambiti quali l’istruzione e il mercato del lavoro e i (mancati) cambiamenti in altri ambiti, principalmente, all’interno della famiglia, ma anche nell’organizzazione del mondo del lavoro. Per esempio, laddove le donne istruite entrano nel mercato del lavoro in massa, ma non si sentono sostenute dai mariti-padri nel lavoro familiare né da politiche di

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conciliazione famiglia-lavoro efficaci, possono rispondere riducendo il numero di figli o non facendone affatto.

4. Le politiche sociali e la fecondità

Il modo in cui le diverse società sostengono il costo dei figli, o sostengono la conciliazione tra famiglia e lavoro, sembra particolarmente importante per spiegare parte della mancata convergenza nei modelli di fare famiglia tra Paesi in Europa e soprattutto nello spiegare perché non ci sia in tutti i Paesi un rapporto positivo tra, pur ridotto, tasso di fecondità e tasso di occupazione femminile. Il rapporto tra politiche sociali e comportamenti demografici e riproduttivi è stato un tema oggetto di attenzione almeno negli ultimi 3 decenni, a causa sia delle preoccupazioni legate al fenomeno dell’invecchiamento della popolazione in Europa, sia dell’esempio considerato ‘vincente’ dei Paesi scandinavi il cui welfare sembra essere stato in grado di rispondere ai cambiamenti femminili nel mercato del lavoro con politiche che promuovono la parità di genere e sostengono occupazione e fecondità. In specifico, tuttavia, il rapporto tra politiche sociali e fecondità appare incerto, oltre che complesso (Lappegård 2014).

In effetti, il modo in cui i vari Paesi sostengono le famiglie con figli varia ampiamente (Gornick and Meyer 2009). Come alcuni sociologi mettono in luce, questa diversità è legata agli assetti dei contesti macro, a come funziona ed è regolato il mercato del lavoro, ai modelli culturali prevalenti sui ruoli di genere e sulle obbligazioni intergenerazionali, a come funzionano le politiche sociali. In questo paragrafo, accenneremo brevemente alle diversità alla convergenza o mancata convergenza in questo senso in Europa (Saraceno e Naldini 2013).

In generale, da una prima analisi delle politiche sociali a sostegno delle famiglie con figli è chiara la divisione tra Nord e Occidente e Sud e Est Europa, in quanto le politiche sociali, nei Paesi mediterranei e nei Paesi dell’Est a più bassa fecondità sostengono poco tramite l’offerta di servizi l’occupazione delle donne con figli (con l’eccezione dell’Ungheria). Perciò le donne che desiderano mantenere un’occupazione, particolarmente numerose tra quelle con buona istruzione la cui quota è aumentata progressivamente nel succedersi delle coorti dagli anni Quaranta in poi, tendono a ridurre il numero dei figli. Per quanto riguarda le forme di sostegno al reddito,

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costo dei figli, mentre in molti Paesi dell’Europa Centro-orientale tendono a compensare le famiglie con figli, specialmente nei casi dell’Europa Centrale (Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) (Olàh 2015). Viceversa i Paesi scandinavi sostengono molto l’occupazione femminile tramite l’offerta di servizi e incoraggiano una precoce autonomizzazione economica dei figli tramite il riconoscimento di diritti e benefici individuali. La Francia, anche a motivo di un radicato e condiviso orientamento pro-natalista, non solo ha una buona dotazione di servizi per l’infanzia, ma anche una politica fiscale e di trasferimenti nei confronti dei figli relativamente generosa.

Conclusioni

I modi di fare famiglia sono cambiati negli ultimi 50 anni in tutta Europa. Si osservano tendenze comuni, anche se l’intensità, la portata e la diffusione dei ‘nuovi’ modi di fare famiglia variano. La posticipazione dell’età di uscita dei giovani dalla famiglia è un fenomeno generalizzato, il matrimonio non è più la ragione principale di uscita di casa e la maggior parte dei giovani mette su famiglia andando a convivere invece o prima di sposarsi. La fecondità è scesa ovunque ben al di sotto del livello di sostituzione. Tuttavia, importanti differenze storiche persistono nei ‘modi’ di fare famiglia, rendendo più difficile in alcuni Paesi che in altri il riconoscimento e l’accettazione sociale delle diversità familiari. Tali difficoltà sono più pronunciate nei Paesi cattolici o a prevalenza cristiano-ortodossa. In effetti, anche nei modelli di regolazione della famiglia, nei riconoscimenti dei diversi modi di diventare genitore ed essere figlio, le differenze tra Europa ‘occidentale’ e ‘orientale’ oltre che Meridionale appaiono significative.

Seppure la linea storica tra famiglia ‘occidentale’ e ‘orientale’ di Hajnal sia ancora utile per comprendere le diversità nei tempi di formazione della famiglia (l’età al matrimonio continua ad essere più bassa nei Paesi dell’Europa Centro-orientale), essa appare scompigliata quando si vogliano comprendere la diversificazione nei modelli di fecondità. I Paesi dell’Europa Centro-orientale rappresentano un caso ‘unico’, per la bassa età al matrimonio e al tempo stesso la bassa fecondità. Dipendendo anche da quale indicatore utilizziamo i vari gruppi di Paesi analizzati in questo saggio si allineano diversamente. Con riguardo ai cambiamenti nella divisione di genere all’interno della famiglia e nel mercato del lavoro si osservano divisioni più chiare tra Nord e Sud, in termini sia di partecipazione delle donne al mercato del

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lavoro, sia di divisione di genere del lavoro. Se guardiamo alle politiche a sostegno della parità una tendenza a convergere verso i Paesi del Nord sembra emergere. Invece, se guardiamo alle forme di riconoscimento del costo dei figli, sia sotto forma di trasferimenti monetari che di servizi, le tradizionali divisioni dell’Europa, soprattutto con riguardo alla divisione Nord/Sud perdurano e i governi nel Sud, nonostante i bassi livelli di fecondità non danno segnali di cambiamento.

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