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La legge elettorale del neoliberismo

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Academic year: 2021

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La legge elettorale del neoliberismo1

Alessandra Algostino

Sommario. 1. Economia, politica e diritto: un modello circolare diseguale; 2. Forza delle

idee e poteri economici nella storia costituzionale italiana; 3. Il parallelismo fra regressione della democrazia politica e liquidazione della democrazia sociale; 4. La torsione oligarchica della legge elettorale: governabilità versus rappresentanza; 5. La morsa dell’egemonia economica sull’eguaglianza del voto

1. Economia, politica e diritto: un modello circolare diseguale

Intento di questo intervento

è leggere il sistema elettorale come tassello del contesto economico, politico e giuridico. Si muove dalla interconnessione, quasi ovvia, fra sistema elettorale, istituzioni e partiti, rilevando la sua incidenza sul modello di democrazia, per esplorare infine il rapporto fra legge elettorale e modello economico.

Si assume come metodo un approccio “fattuale”, che coniuga realtà e teoria, fatti e diritto, muovendo dal presupposto della socialità del diritto, ovvero leggendo il diritto quale fenomeno sociale, non avulso dal contesto storico (Grossi, Azzariti 2010). Passo logico successivo è l’analisi del rapporto fra gli attori economici e/o il modello economico e il diritto, considerati nella loro interrelazione se pur senza perdere di vista la loro distinzione, cui consegue la valenza non solo descrittiva bensì prescrittiva del diritto stesso.

Sistema economico e ordinamento politico-costituzionale, ovvero struttura e sovrastruttura per utilizzare un linguaggio desueto, o competitività e governance per discorrere con termini più à la page, tendono ad unirsi e a tratteggiare un modello coerente, circolarmente funzionale. Si implicano a vicenda, anche se non è una implicazione eguale o una reciprocità paritaria. Se la lettura marxiana è prima facie suscettibile di essere tacciata come “eccessivamente determinista” nel riconoscere il condizionamento dei rapporti di produzione sulla sovrastruttura giuridica e politica, tanto da indurre già Engels ad una precisazione in senso riduttivo, per arrivare quindi al rilievo riconosciuto alle ideologie da Gramsci, non può negarsi come l’esperienza storica mostri la forza dell’influenza dei rapporti economici. Non sono molti i momenti della storia in cui le scelte politiche improntano il funzionamento dell’economia, subordinando l’economico al politico e al diritto. Più spesso accade il contrario, e l’economia tende ad affermare la propria supremazia non solo in fatto ma anche in diritto, plasmando il sistema politico, le istituzioni e la produzione normativa. Accanto ai finanziamenti alla politica, al revolving doors, si possono citare l’azione di lobbying, più o meno esplicita, nell’adozione di opzioni politiche e norme, i finanziamenti condizionati, i governi tecnici. La tendenza, dunque, è alla configurazione di un modello circolare coerente dove l’elemento trainante è rappresentato dalle esigenze del modello economico scelto (ovvero vincente). Si sottolinea l’aggettivo “scelto”, a segnare l’intervento dell’umano arbitrio e la distanza rispetto alla diffusa concezione, e soprattutto presentazione, dell’economia come un quid unico e dato, una Verità incontestabile, una legge di natura incontrovertibile.

Di tendenza comunque pur sempre si discorre, e nemmeno sempre e necessariamente vincente: l’indipendenza del pensiero e della politica si può tradurre, e si traduce, nella creazione di argini giuridici alle pretese egemoniche dell’economia e in progetti autonomi cui il diritto, in primis costituzionale, conferisce forza e resistenza.

1 L’intervento è pubblicato in una versione corredata da più ampi riferimenti bibliografici in Democrazia e

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2. Forza delle idee e poteri economici nella storia costituzionale italiana

La storia costituzionale italiana è in questo senso emblematica, in sé e come esempio di quanto accade con e al costituzionalismo tra XX e XXI secolo. In estrema sintesi, la Costituzione italiana del 1948 rappresenta uno dei momenti in cui la forza delle idee si impone, traducendosi in norme giuridiche, che pretendono di conformare il sistema economico finalizzandolo all’«utilità sociale», alla tutela dei diritti, alla dignità e al libero sviluppo della persona. Ciò si riflette, per citare qualche caso concreto relativo alle scelte politiche e alla loro trasposizione normativa, nelle nazionalizzazioni o partecipazioni statali degli anni Sessanta, nell’adozione dello Statuto dei lavoratori, nell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

La forma di Stato è una democrazia costituzionale e sociale, che sancisce l’evoluzione del costituzionalismo, dalla settecentesca limitazione del potere all’incorporazione delle istanze sociali nel secondo dopoguerra: un costituzionalismo emancipante (Di Giovine, Dogliani) e una democrazia che tenta di coniugare libertà, eguaglianza, solidarietà e giustizia, cercando di costruire un progetto coerente sul piano politico e su quello socio-economico. La democrazia sociale (Mortati 1991, D’Albergo), «fondata sul lavoro» e sul principio di eguaglianza sostanziale, muove dalla premessa che il diritto non può ignorare la presenza di disuguaglianze economiche e sociali, ma deve prenderne atto e adoperarsi per rimuoverle: è una democrazia che si propone come fine di trasformare la società, redistribuendo le risorse, secondo modalità compatibili con una “socialdemocrazia”, con un modello di welfare state, ma anche con una società socialista (Lavagna).

È una democrazia esigente che, nella sua tensione all’effettività, richiede garanzie ed implementazioni con implicazioni dirette sulla forma di governo come sulle opzioni economiche.

Quanto alla prima, i costituenti hanno reputato coerente una forma di governo parlamentare (razionalizzata), che consente l’espressione della dinamica degli interessi differenti, quando non contrapposti, sulla base del riconoscimento del pluralismo e del conflitto. La costruzione del compromesso politico attraverso la discussione trova attuazione nella centralità del Parlamento e il principio di maggioranza è contemperato dalla tutela delle minoranze e dalla presenza di istituzioni di garanzia, come la Corte costituzionale, e di poteri indipendenti, come la magistratura.

In questo quadro si deve inserire – come vedremo – anche il sistema elettorale. Al di là della volontà dei costituenti di non irrigidire nelle forme costituzionali la scelta del sistema elettorale, pur pronunciandosi con ordine del giorno favorevole al sistema proporzionale, è indiscutibile che, se più sistemi possono essere reputati conformi rispetto al modello di democrazia e di rappresentanza disegnato nella Costituzione, il sistema elettorale – come ha chiarito da ultimo la Corte costituzionale con la sent. n. 1 del 2014 – «non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità, quando risulti manifestamente irragionevole». Non si può produrre «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare», ovvero alterare il «circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto».

Ora, è evidente che, se modifiche all’impianto costituzionale sono possibili (in ipotesi talora persino auspicabili), resta che revisioni che stravolgano la parte relativa all’organizzazione dello Stato, ma anche riforme elettorali che di per sé non toccano il testo della Costituzione, indubbiamente possono riverberarsi sulla prima parte di quest’ultima, incidendo dunque sulla

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forma di Stato. Come non ritenere ad esempio che il premierato assoluto della delibera costituzionale del 2006, bocciata da referendum costituzionale, non esponesse la democrazia italiana al rischio di valicare i confini fra democrazia e autocrazia? E, come ormai è argomentato dalla Corte costituzionale, non considerare un sistema elettorale come quello disegnato dalla l. n. 270 del 2005 contrario al principio della sovranità popolare e ai canoni della democrazia?

Relativamente all’economia – si passi la sintesi banalizzante –, come è noto, l’opzione è per un sistema misto, incardinato, come tutto l’impianto costituzionale, attorno all’idea della dignità della persona, sì che l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (art. 41 Cost.).

La tensione del costituzionalismo a limitare il potere, ogni forma di potere, si proietta nella sfera economica, nel solco dell’esigenza di assicurare il libero sviluppo della persona e concretizzare l’eguaglianza sostanziale. Ne risulta una democrazia che assoggetta «l’attività economica privata alla funzione sociale», abbandonando il «mito liberista delle «armonie prestabilite»» (Mortati 1975). La Costituzione – è stato altrimenti osservato – adotta una «decisione di sistema economico» che, nel «confluire di tradizione liberale e solidarismo cattolico e dirigismo socialistico», propone «una sorta di dirigismo totalitario dell’economia», come risulta evidente dalla lettura del terzo comma dell’articolo 41 Cost., «in radicale antitesi» rispetto ad una decisione di sistema che si ispiri al «principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (Irti).

Ciò resta impregiudicato anche se la funzionalizzazione dell’economia, da un lato, può dirsi incompiuta, nel senso che lascia aperta la querelle sulla compatibilità fra democrazia e capitalismo; e, dall’altro, è stata sottoposta ad una azione espansiva e aggressiva del libero mercato che veicola interpretazioni riduttive del significato e del valore delle norme costituzionali.

Restiamo, però, per ora, al disegno costituzionale del 1948. L’ideologia, nella sua accezione di compromesso costituzionale, traina, costruendo un disegno coerente, forma di Stato, forma di governo, opzioni economiche. Certo, anche le idee nascono e vivono nel contesto storico, politico ed economico, per cui tutto si tiene in un ciclo continuo, ma si possono distinguere momenti – come è quello della redazione della Costituzione – nel quale esercitano una funzione performante il contesto da momenti nei quali si appiattiscono su di esso, legittimandolo e/o sponsorizzandolo.

Oggi siamo in un’età nella quale il pensiero (unico) dominante è al servizio degli interessi economici egemonici, mentre le prospettive alternative – emarginate, se del caso espropriate e mistificate laddove è possibile (come è successo, per limitarsi ad un facile esempio, con l’approccio sotteso all’aggettivo “sostenibile”) – faticano ad avere voce, se non ad esistere. Una precisazione è d’obbligo: quando si ragiona di visioni “altre” ci si riferisce anche a proposte che sono spesso coerenti, se non sostanzialmente attuative, rispetto al modello costituzionale, mentre l’ideologia mainstream è tesa ad archiviare quel modello per adottarne uno più confacente alla struttura economica imperante.

In altri termini siamo in un momento di rottura della corrispondenza economia-politica-diritto, segnato dalla volontà della prima – prevalente nei fatti – di conformare a sé politica e diritto. Il procedimento è in corso, in stadio più avanzato sul versante politico, ma la crisi ha fornito un fattore di accelerazione della conformizzazione neoliberista anche sul piano istituzionale e giuridico-normativo. Come a dire: siamo già in un’epoca nella quale la lex mercatoria (Galgano, Ferrarese 2006), per utilizzare un sintagma sintetizzante, domina di fatto;

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Per inciso, ciò apre una riflessione sul ruolo del diritto, sulla sua forza di resistenza, sul rapporto tra la sua forma e le forze materiali che lo sostengono/osteggiano, che coinvolge in primo luogo il senso della costituzione e il rischio dello slittamento da un concetto prescrittivo ad uno meramente descrittivo (Azzariti 2013). Se il potere rompe le barriere di contenimento ed esonda invadendo l’area del diritto, e segnatamente del diritto costituzionale, è evidente l’annichilimento del costituzionalismo, che nei suoi geni costitutivi ha la limitazione del potere.

L’azione performante della lex mercatoria sul diritto è palese nel sovvertimento del sistema delle fonti, liquefatto e flessibilizzato, per cui si ragiona di privatizzazione e contrattualizzazione del diritto, di funzionalizzazione del contenuto, di deregolazione (Zolo, Rossi). Il diritto diviene debole e passivo, per non dire tout court servile, rispetto ai diktat dell’economia neoliberista o, meglio, di coloro (pochi) che la gestiscono (Gallino 2011). La libera concorrenza diviene la grundnorm, da cui discendono le nuove regole dei mercati, spesso frutto del connubio fra multinazionali, organizzazioni internazionali, law firms, e, se del caso, lo smantellamento delle norme esistenti, ovvero la deregolamentazione. Come epifenomeno si può citare lo status, ormai non solo liquido ma evaporato, del fu diritto del lavoro, dissolto nella parcellizzazione di feudi aziendali liberi di derogare anche alla legge e nella precarietà ad libitum di leggi come il Jobs Act (legge n. 78 del 2014).

A livello costituzionale, poi, emblema della sudditanza agli imperativi del neoliberismo è l’inserimento nel testo della Costituzione, italiana e non solo, del principio di pareggio di bilancio (legge cost. n. 1 del 2012). Le modifiche agli articoli 81, 97, 117 e 119, segnano una rottura nella coerenza del disegno costituzionale, peraltro già incrinato dall’azione, non nel testo, ma sempre a livello costituzionale, dell’integrazione economica dell’Unione europea della libera concorrenza e della competitività (ex multis, Bucci).

Il principio di pareggio di bilancio è inoltre paradigmatico per almeno altri due aspetti. Da un lato, è simbolo dell’incidenza sulla produzione di diritto, sulle scelte politiche e sulla sovranità popolare, sia della soft law (il suo inserimento nella Costituzione è richiesto nella ormai nota Lettera della Banca Centrale Europea al Governo italiano del 5 agosto 2011, a firma di J. C. Trichet e M. Draghi) sia del diritto comunitario; dall’altro, è emblema del ruolo assunto dalla crisi, delegittimante rispetto al sistema costituzionale vigente e legittimante rispetto all’assetto economico, ovvero dell’utilizzo dell’emergenza come strumento di potere. Oggi si può ancora ragionare di vulnus arrecato alla Costituzione e argomentare in termini di bilanciamento diseguale, nel senso che a fronte di un ipotetico (ma certo non caso di scuola) scontro fra le esigenze dei diritti sociali e il pareggio di bilancio, occorre muovere considerando l’armonia del quadro disegnato dai principi costituzionali nella quale il pareggio di bilancio costituisce una nota stonata (storica, in questo senso, appare la recentissima sentenza n. 275 del 2016 della Corte costituzionale); ma quanto resisterà la forza prescrittiva dei principi costituzionali? Quali sono le forze che potranno sostenerla? Il principio di pareggio di bilancio può essere il grimaldello per scardinare il progetto costituzionale, nella costruzione sia della democrazia sociale sia di quella politica. Al di là, infatti, della palese collisione con la logica dell’eguaglianza sostanziale e sociale, si è irrigidita una opzione economica, modificando il modello costituzionale nel senso dell’abbandono dell’economia mista a favore del modello neoliberista, e ingessando le scelte politiche, ovvero sottraendo spazi alla sfera della decisione politica e, dunque, alla sovranità popolare. Se poi ciò si coniuga con l’involuzione maggioritaria della rappresentanza politica e della forma di governo – e qui entra in gioco anche il discorso sulla legge elettorale –, la sostituzione della democrazia costituzionale e sociale con un modello oligarchico coerente con il neoliberismo è quasi cosa fatta (Revelli 2013; Canfora, Zagrebelsky).

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Le fonti del diritto si dissolvono nella liquidità della lex mercatoria e della soft law e il governo assume i contorni evanescenti della governance (Arienzo), con i suoi partecipanti eterogenei e indefiniti, la commistione fra pubblico e privato (Rosanvallon 2006, Ferrarese 2010), la mescolanza fra potere di diritto e potere di fatto, i processi duttili e flessibili, il suo essere senza luogo e al contempo ovunque. La governance mistifica, dietro la narrazione del dialogo e la retorica della società civile, una procedura impositiva-concertativa, che mira ad evitare e negare il conflitto, ad abbandonare la logica dell’eguaglianza sostanziale e ad eludere la rappresentanza di interessi “altri” rispetto alla logica neoliberista. La mappa dei «nuovi sovrani globali» (Azzariti 2013) si sovrappone al disegno delle istituzioni fondate sul principio della sovranità popolare e l’eguaglianza politica della democrazia diviene un simulacro dietro cui si cela una oligarchia predatoria. Lo Stato non scompare ma è sussunto nel sistema della governance globale; se non può (ancora) parlarsi di una vera e propria mutazione genetica, si può ragionare di torsione dei suoi fini e dei suoi strumenti (Brown, Burgio). Gli Stati rimangono, ma sotto tutela, sono commissariati, limitati e controllati, stretti tra la funzione di fornitori di servizi ed erogatori di appalti e quella di gestori dell’ordine sociale.

3. Il parallelismo fra regressione della democrazia politica e liquidazione della democrazia

sociale

Esiste un fil rouge che lega l’esautoramento della democrazia politica allo smantellamento della democrazia sociale e fondata sul lavoro, quasi a confermare, in negativo, il nesso democrazia politica-democrazia sociale, che richiama l’inscindibilità del nesso libertà-eguaglianza sostanziale (o giustizia sociale). L’assedio alla democrazia è su due fronti, ma il nemico è uno solo: per ora è già penetrato nella città, ma ancora vi incontra resistenze. Nel percorso circolare fra diritto, economia, politica, tende a dominare l’economia, anche se non è ancora riuscita a costruirsi una circolarità a sua immagine e somiglianza. È un periodo di transizione verso forme di stato e di governo nuove (se pur dal sapore antico), modellate sulla razionalità neoliberista? La grundnorm della competitività si sostituirà al principio di centralità della persona e del suo libero sviluppo? Oppure la rottura sarà ricomposta nel segno del costituzionalismo?

Non si tratta comunque di una frana improvvisa ma dell’accelerazione di una erosione progressiva in atto perlomeno dagli anni Ottanta, segnati dalla doppia affermazione di un modello politico sempre più orientato in senso maggioritario e da una politica economica sempre più marcatamente neoliberista.

Nella prospettiva del parallelismo fra attacco alla democrazia sociale e torsione oligarchica e maggioritaria della forma di governo, si possono ad esempio leggere come strettamente connesse la fine del sistema di Bretton Woods, a seguito della dichiarazione nell’agosto del 1971 di inconvertibilità del dollaro da parte del governo degli Stati Uniti, e le osservazioni della “Trilaterale” sull’«eccesso di democrazia» (M. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki). In Italia, sul versante della democrazia politica, i referendum elettorali del 1993 senza dubbio segnano, o sanzionano, un punto di svolta: il riconoscimento del passaggio ad un modello maggioritario. Per inciso, la riforma elettorale del 1993 è un esempio evidente dell’interconnessione esistente fra struttura economica, forma di governo, sistema elettorale, o, forse, perlomeno in tal caso, del carattere quasi sintetizzante la trasformazione in corso assunto dalla nuova legge elettorale.

I caratteri del modello maggioritario si disveleranno poi compiutamente negli anni successivi: sistema elettorale maggioritario, partiti non politici, bipolarismo centripeto, elitario ed escludente, personalizzazione della politica, esautoramento del Parlamento, concentrazione del potere nell’organo monocratico al vertice dell’esecutivo, emarginazione degli organi di

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garanzia. L’involuzione maggioritaria della democrazia segna la sua torsione, anche negli spazi ancora non espropriati da una governance sempre più pervasiva, in senso oligarchico. Tutto è poi condito con una dose di retorica della paura e dell’emergenza (Agamben), che, a partire dai primi anni del XXI secolo, assume le vesti del terrorismo internazionale o, più latamente, del migrante. Le situazioni di eccezione ed emergenza costituiscono una potente legittimazione per restrizioni delle libertà, spesso prima sperimentate sullo straniero e poi estese al cittadino. A veder ridotti i propri spazi è, in primo luogo, la libertà personale, capostipite del concetto stesso di libertà, tutelata sin dalla Magna Charta Libertatum del 1215 (per citare la fonte più celebre): si dilatano i tempi della detenzione amministrativa per stranieri e, per tutti, i tempi dei fermi di polizia. Analoga sorte colpisce poi la libertà di manifestazione del pensiero, che, oltre i suoi profili individuali, è – come noto – strettamente connessa alla democrazia, ovvero, come ben sintetizzato già nella Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776 in relazione alla libertà di stampa (sez. 12), è «uno dei grandi capisaldi della libertà, e non può mai essere limitata, che da governi dispotici».

Persino uno dei pochi diritti che Bobbio individuava come assoluti: il divieto di tortura, perde la sua assolutezza, scendendo a compromessi con un concetto di sicurezza che – non più concepito come humus per la tutela dei diritti, declinato come sociale – diviene un peso da bilanciare con i diritti, con la conseguenza che ora si ragiona di «grado» di coercizione ammissibile e alla sicurezza dei diritti si sostituisce il diritto alla sicurezza.

L’emergenza, inoltre, si presenta sotto la forma della crisi economica e legittima la liquidazione della democrazia sociale, in fase di progressivo smantellamento ormai da almeno due decenni. La crisi per alcuni è un successo, è una ottima occasione per imporre riforme di stampo neoliberale (Amoroso), quali deregolamentazioni, privatizzazioni, tagli allo stato sociale e austerity. Sono politiche che si possono qualificare di “classe”, recuperando un vocabolo travolto dalla retorica di una fittizia comunanza di intenti e di scelte tecniche e oggettive (Gallino 2012, Holloway, Losurdo 2013). Da un lato, infatti, gli effetti di provvedimenti che riducono, ad esempio, la spesa per la sanità o per la scuola, oppure privatizzano servizi pubblici, intaccano la qualità di vita e ipotecano il futuro in particolare dei ceti sociali con redditi bassi o medio-bassi, che non hanno risorse per rivolgersi ai settori privati (a tacer del fatto che ciò comunque contrasta con la necessaria, ex Costituzione, garanzia pubblica dei diritti alla salute e allo studio). Dall’altro lato, è evidente che privando i lavoratori di tutele si favorisce la classe degli imprenditori. A ciò si aggiunga che, mentre i tagli colpiscono lo stato sociale, le misure adottate per far fronte alla crisi si traducono per lo più in vantaggi per il grande capitale (si pensi, ad esempio, agli sgravi fiscali, al salvataggio delle banche, o allo stanziamento di miliardi per le grandi opere o per gli armamenti). A trarre vantaggio dalla crisi sono, dunque, i soggetti che della crisi sono responsabili, anche se la

vulgata dominante tende ad “incolpare” della crisi le spese sociali (Crouch 2012). Si

ripresenta, nonostante gli sforzi per mistificarlo, il conflitto di classe, affrontato con scelte politiche a senso unico, che segnano la vittoria di una parte (Gallino 2012, Tronti), al di là della retorica del sacrificio che “tutti” sono chiamati a compiere.

La crisi somma ai crismi dell’oggettività e della sacralità della legge divina che la sapiente opera dei think tanks dominanti ha attribuito al modello economico neoliberista, l’indiscutibilità e l’ineluttabilità che la necessità di rispondere all’emergenza veicola con sé. I comandamenti del dio competitività sono incisi nella soft law della Troika e impongono ora la regola dell’austerità ora la recita del salmo della crescita. Non c’è più spazio per la politica, o, meglio, per il pluralismo politico, e allora, quale che sia la formula – governo “tecnico”, di coalizione, di centro destra, o di centro sinistra – l’opzione percorribile è una sola: muta magari lo stile, non il contenuto.

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La contrazione e la predazione degli spazi della politica e l’involuzione maggioritaria della forma di governo si accompagnano alla decostruzione della democrazia sociale; il cittadino regredisce a suddito, la salute riassume il rango di privilegio o grazioso beneficio, il lavoro torna ad essere servile e pura merce. Il modello economico che elegge a propria grundnorm la competitività (ovvero, il profitto per pochi) rifiuta, coerentemente, sia vincoli e meccanismi redistributivi sia rappresentanza a chi questi ultimi vorrebbe mantenere. Si sottolinea l’utilizzo del verbo “mantenere”: è così forte il pensiero unico mainstream, e la sua applicazione, che, se è già quasi utopico (ed eversivo) opporsi alla deriva neoliberista, è ormai considerato non solo irrealistico ma folle immaginare una implementazione nella direzione della giustizia sociale e dell’eguaglianza sostanziale.

Allora, postdemocrazia (Crouch 2003, Mastropaolo), forma di Stato «liberal-pupulista» (Dogliani), democrazia oligarchica, «autocrazia elettiva» (Bovero), democrazia plebiscitaria (Revelli 2010), democrazia dispotica (Ciliberto), democrazia senza democrazia (Salvadori). I nomi sono molti, la sostanza è una. A dominare, in nome del dio competitività, è una classe sociale che impone il suo modello economico e, in coerenza, un conforme sistema politico, un adeguato meccanismo di governo e un diritto prono alle sue esigenze. Le visioni alternative sono espulse dallo spazio politico, in primis istituzionale, e, dunque, dalla rappresentanza. E qui entra in gioco il significato e il ruolo del sistema elettorale.

4. La torsione oligarchica della legge elettorale: governabilità versus rappresentanza

La legge elettorale si pone come cinghia di trasmissione fra sistema politico e forma di governo, fra politica e istituzioni, connota la rappresentanza e, di conseguenza, la democrazia. Essa riflette l’opzione per un modello di rappresentanza e di democrazia e, al contempo, contribuisce alla sua costruzione.

Le «leggi che stabiliscono il diritto di voto», che disciplinano «come, da parte di chi, a chi e su che cosa devono essere dati i suffragi» (Montesquieu), costituiscono da sempre un elemento fondamentale delle teorie sulla democrazia rappresentativa (Kelsen 1929) ed oggi sono un indicatore, ed un fattore, del carattere più o meno maggioritario o d’investitura della democrazia.

Il primo nodo da sciogliere concerne l’alternativa fra sistema elettorale proporzionale e maggioritario, con la precisazione che, a prescindere dalla presenza di sistemi misti, essi devono essere considerati nella loro sostanza, al di là del nomen astratto. Come a dire, storicizzando il discorso: è innegabile che la legge n. 270 del 2005, pur prevedendo l’attribuzione dei seggi «in ragione proporzionale» (art. 1), abbia avuto effetti maggioritari; così come è evidente che il premio di maggioranza previsto nel c.d. Italicum (legge n. 52 del 2015), conduca ad ascrivere il sistema elettorale contemplato fra quelli iper-maggioritari (alla data in cui è in stampa il presente scritto si attende a giorni la pronuncia della Corte costituzionale). Con una sintesi convenzionale ma efficace, si può dire che il sistema proporzionale favorisce l’effetto “specchio della realtà”, ovvero la rappresentanza, mentre il sistema maggioritario facilita la governabilità, o, meglio, per restare alla vulgata imperante, conduce magicamente alla governabilità.

Ora, al di là della ripetizione a mo’ di mantra salvifico (Ferrara 2014), cosa significa “governabilità”? La diffusione del termine e la sua assunzione a dogma non paiono invero direttamente proporzionali alla chiarezza del suo contenuto. È una locuzione allusiva, che sottintende stabilità di governo, efficienza, rapidità di decisione, tutti elementi che per i think

tanks che la sostengono rinviano ad un concetto di “buona democrazia”, perché “ben

funzionante” nel senso dell’efficacia nel decidere. Per inciso: un sintomo del ritorno ad una concezione procedurale della democrazia? Il carattere apparentemente neutrale e tecnico dell’efficienza divora l’attuazione dei principi e delle norme costituzionali, quali elementi

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prescrittivi e/o di indirizzo delle scelte politiche? O, forse, più realisticamente, dietro la prospettiva funzionalista è occultata la sostituzione dell’ontologia costituzionale con la teologia economica?

Innanzitutto, muovendo dalla premessa che la governabilità in sé non è necessariamente democratica, ovvero più o meno democratica, si può rilevare che, nella misura in cui segna il distacco rispetto alla rappresentanza, ovvero, per facilitare l’ascesa di un decisore, sacrifica pluralismo, produce indubbiamente rispetto all’ideale democratico una regressione (Ferrara 2013, Zagrebelsky).

Come ricorda la Corte costituzionale, costituisce «senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo» «agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale» ma, se ciò consente «una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare», diviene «incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali», quali quelle di indirizzo e controllo sul governo e di garanzia della Costituzione (sent. n. 1 del 2014).

La governabilità, quindi, può costituire un obiettivo (costituzionalmente legittimo), ma non può comprimere eccessivamente e alterare la rappresentanza, e, di conseguenza, il sistema elettorale maggioritario, quale suo strumento principe, non potrà produrre effetti (troppo) distorsivi, lesivi della sovranità popolare e dell’eguaglianza del voto. In altri termini, ammesso – e non concesso – che si introduca un bilanciamento fra le esigenze della rappresentanza e quelle della governabilità, il perseguimento della seconda deve condurre a limitazioni il più possibile contenute della prima.

Ammesso e non concesso: la ricerca di un governo stabile ed efficiente, associato per lo più ad un sistema partitico ad omogeneità bipolare, anche ipotizzando che tout court costituisca un obiettivo in grado di aumentare il tasso di democrazia, facilmente (e fatalmente) introduce una omogeneità – e, dunque, una rappresentanza – artificiale. Il governo è stabile, coeso ed efficiente grazie all’esclusione (dalla sfera della rappresentanza e della decisione politica) di una parte dei governati, che, fra l’altro, in presenza di meccanismi elettorali premiali, può non essere minoritaria. Se anche, dunque, si computano stabilità ed efficienza come un fattore positivo nel calcolo del grado di democrazia raggiunta; dall’altro, artificialità ed esclusione comportano una deminutio. In rilievo non è una rappresentanza che tende all’autodeterminazione, che assicura l’espressione dei cittadini, ma la creazione di un meccanismo di governo, di un decisore. Quando la governabilità diviene l’obiettivo unico, o dominante, del sistema elettorale, a discapito del raccordo plurale fra rappresentanti e rappresentati, la rappresentanza muta in rappresentazione (così Revelli 2010).

In senso diverso, peraltro, si situa quella corrente di pensiero, autorevolmente rappresentata – oltre che vincente alla prova della storia –, che muove nella prospettiva schumpeteriana che affida al popolo il compito di “produrre un governo”, per cui la democrazia politica «tende a funzionare sempre più come democrazia d’investitura» (così Elia, ma si veda anche, sulla «inclinazione» verso la «forma cesaristica di selezione dei capi», Weber), donde la valorizzazione della democrazia immediata, ovvero di un governo a diretta derivazione elettorale.

Comunque sia, non è scontato che l’obiettivo governabilità venga raggiunto. I dati relativi ai governi italiani degli ultimi venti anni, da quando cioè sono in funzione sistemi elettorali prevalentemente maggioritari, o con effetti maggioritari, mostrano come non vi sia stata una radicale inversione di tendenza nella stabilità di governo, nel senso della permanenza di un governo per l’intera durata quinquennale della legislatura.

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L’XI legislatura, eletta ancora con il sistema proporzionale, si conclude dopo due anni (23 aprile 1992 - 16 gennaio 1994) e vede la successione dei governi Amato (28 giugno 1992 - 28 aprile 1993) e Ciampi (28 aprile 1993 - 10 maggio 1994). La XII legislatura, che registra il mutamento del sistema elettorale in senso maggioritario (leggi nn. 276 e 277 del 1993), copre i due anni successivi (15 aprile 1994 - 16 febbraio 1996) e vede la sostituzione del governo Dini (17 gennaio 1995 - 17 maggio 1996) a quello Berlusconi (10 maggio 1994 . 17 gennaio 1995), mentre le due successive legislature sono quinquennali: la XIII legislatura copre i cinque anni (9 maggio 1996 - 9 marzo 2001) con un governo Prodi, due D’Alema, uno Amato, la XIV legislatura è di nuovo quinquennale (30 maggio 2001 - 27 aprile 2006), con due governi Berlusconi. La XV legislatura è segnata da un nuovo mutamento di sistema elettorale, la legge n. 270 del 2005, e termina dopo solo due anni (28 aprile 2006 - 6 febbraio 2008), con la caduta del governo Prodi II. Le legislature successive, sempre elette con il sistema di cui alla legge n. 270 del 2005, vedono susseguirsi, durante la XVI legislatura (dal 29 aprile 2008 al 23 dicembre 2012) i governi Berlusconi IV (dall'8 maggio 2008 al 16 novembre 2011) e Monti (dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013), mentre la legislatura attuale (la XVII, dal 15 marzo 2013) registra la sostituzione del governo Letta (dal 28 aprile 2013 al 21 febbraio 2014) con il governo Renzi (dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016), e di questo con il governo Gentiloni (dal 12 dicembre 2016).

Nemmeno sul fronte della tanto declamata “efficienza” si registrano buoni risultati: «i governi del maggioritario hanno dimostrato una grande difficoltà a governare…, anche quando potevano contare su un’ampia maggioranza parlamentare» (Volpi), stante, in specie, il carattere eterogeneo connesso alla coattività delle coalizioni e dei partiti maggiori.

Forse – viene da pensare se si indossano le lenti del comparatista e si ragiona avendo sotto gli occhi altre esperienze – può esistere (fermo restando il vulnus alla democrazia attraverso il

medium rappresentanza) un rapporto incrementale fra governabilità (stabilità ed efficienza) e

formula elettorale maggioritaria, come, peraltro, può crearsi un circolo virtuoso governabilità-sistema proporzionale: sono la struttura dei partiti, la prassi dei rapporti inter-istituzionali, ed anche la qualità della politica, a connotare i caratteri primari di un governo. Con ciò non si vuole misconoscere il ruolo del sistema elettorale, ma semplicemente ribadire come il suo senso e i suoi effetti sono da leggersi nel quadro sociale, politico, ed anche economico. Resta infine impregiudicata, last but not least, la questione “governabilità: di chi e per chi?”, che ci riporta al rapporto fra legge elettorale, sistema partitico, forma di governo e modello economico. In nome di chi efficienza e stabilità? E chi è favorito da un sistema elettorale di tipo maggioritario?

Sin dall’Ottocento, appare chiaro che, se non si può rifiutare il suffragio universale, occorre arginarne gli effetti agendo sul sistema elettorale e optando per collegi uninominali e sistema maggioritario: Bagehot in Inghilterra, Laboulaye in Francia ne sono convinti.

Bagehot sostiene fermamente che l’apertura all’uguaglianza politica, ovvero l’accesso alla sfera di decisione politica delle «classi inferiori», posto che non si possa arginare, debba avvenire gradualmente e in modo controllato. Come è stato osservato, la «situazione può benissimo sopravvivere all’estensione del suffragio, ma a condizione che non venga ad essere turbata da un sistema elettorale come quello proporzionale» (Losurdo 1993). Il presupposto è che «l’unione politica delle classi inferiori, sia di per sé che per i suoi obbiettivi, costituisce un male di prim’ordine», «significherebbe il dominio dell’ignoranza sull’istruzione e della forza dei numeri sulla competenza» (Bagehot). Occorre, dunque, introdurre meccanismi di selezione della rappresentanza, e qui si inserisce la critica del liberale inglese alle proposte di Hare. Le «classi superiori» dovranno agire con «grande saggezza» e «estrema lungimiranza»: «finché avranno il potere di farlo, dovranno rimuovere, non soltanto ogni motivo di rancore, ma anche, dove è possibile, ogni apparente motivo di rancore; dovranno concedere

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prontamente ogni diritto che potranno concedere senza pericolo, per evitare di dover accordare contro la propria volontà qualche diritto che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza del paese» (Bagehot).

I liberali, consci che «una offensiva contro il suffragio universale voleva dire esporsi a una battaglia di retroguardia, fuori dalla realtà», per svuotarne la valenza prorompente e vanificarne l’efficacia, si propongono «di operare “tecnicamente”», «a cominciare – ad

esempio – dalla manipolazione dei sistemi di composizione delle assemblee elettive e, in

particolar modo, dei criteri di traduzione dei voti in seggi» (De Fiores).

Il sistema elettorale maggioritario come strumento, dunque, classista, per riservare il governo ad una oligarchia economica e politica.

Non pare di peccare di presupposizione ideologica, ma di esprimere una semplice constatazione, allora, se oggi si risponde alla domanda “governabilità, di chi e per chi”, con l’affermazione: “governabilità di chi controlla il mercato, per l’implementazione del modello neoliberista”.

Come nell’Ottocento, si avverte l’esigenza di arginare l’accesso alla sfera delle scelte e delle decisioni politiche delle «classi inferiori», che potrebbero sostenere posizioni che, con un ossimoro, si possono definire conservatrici-rivoluzionarie, quali opporsi alla liquidazione del diritto del lavoro e dei lavoratori o al processo di deregolamentazione e privatizzazione, o, chissà, spingersi sino ad immaginare nuove rivendicazioni.

In questa prospettiva, la J. P. Morgan rileva problemi con le Costituzioni dei Paesi del Sud Europa, quali «weak executives, constitutional protection of labor rights», «right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo» (J. P. Morgan, Europe Economic Research, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 May 2013) e, negli ambienti del Fondo Monetario Internazionale, si lamenta la presenza di «structural impediments that have depressed Italian productiviy more broadly», fra i quali, come viene spiegato in nota, labor, product-market rigidities, relatively inefficient and overburdened judicial system (Tiffin, European Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy, International Monetary Fund Working Paper, May 2014).

Ora, tornando alla legge elettorale, è da rilevare, senza volerle attribuire magici potenziali trasformativi (come ormai è d’uso), la sua incidenza sulla rappresentanza e, di conseguenza, sulla decisione politica, nonché la sua corrispondenza con un modello ideologico. Il sistema elettorale maggioritario presenta il duplice vantaggio di veicolare esclusione (inducendo un parallelismo fra esclusione sociale e politica) e di favorire una rappresentanza artificialmente omogenea, in grado di produrre decisioni embedded alle leggi del mercato, rapide ed efficienti. In sintesi, esso è perfettamente coerente con la grundnorm “concorrenza”, con il suo darwinismo oligarchico.

Non è più pensabile – non lo era nemmeno nell’Ottocento – di escludere formalmente taluni dalla rappresentanza, ma si può optare per meccanismi selettivi che supportano un sistema politico centripeto, espellendo dallo spazio politico-istituzionale le visioni alternative sia direttamente, attraverso soglie di sbarramento, premi di maggioranza, etc., sia indirettamente inducendo una astensione “politica”. Non si cercano risposte includenti, che tendano a favorire l’identificazione rappresentato-rappresentante, ad avvicinare i cittadini alla politica e alle istituzioni, ma alla tanta chiaccherata “crisi della politica” si risponde con riforme – come la delibera costituzionale c.d. Renzi-Boschi bocciata nel referendum del 4 dicembre 2016 – sempre più escludenti. Forse che la figura di cittadino-suddito si sposa meglio con la figura del cittadino-consumatore (di «suddito-consumatore-arrampicatore frustrato» ragiona ad esempio Canfora), ovvero dell’ideale umano su cui aspira a governare l’oligarchia economica del neoliberismo?

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La legge elettorale è un tassello della circolarità diseguale economia-politica-diritto con incidenza diretta sulla rappresentanza e sulla forma di governo e, qualora si connoti in senso maggioritario, induce una svolta in senso oligarchico.

L’osservazione del sistema elettorale consente poi di rilevare un ulteriore parallelismo nel processo circolare struttura-sovrastruttura: l’abbandono della prospettiva dell’eguaglianza, ovvero la crescita della diseguaglianza (sul tema, si soffermano, fra gli altri, Stiglitz, Piketty, Rosanvallon 2013; per alcuni dati, si veda il Rapporto Oxfam, An economy for the 1%, How

privilege and power in the economy drive extreme inequality and how this can be stopped, 18

January 2016). Aumenta la diseguaglianza economica e sociale e vengono introdotti meccanismi che producono diseguaglianza politica, a partire dal sistema elettorale per giungere alla torsione oligarchica della democrazia.

5. La morsa dell’egemonia economica sull’eguaglianza del voto

«La democrazia esige che il diritto elettorale sia non soltanto il più universale, ma anche il più eguale possibile. Ciò significa che l’influenza esercitata da ciascun votante sul risultato dell’elezione deve essere la medesima, ossia, in altri termini, che il peso di ogni votante deve essere eguale a quello di ogni altro votante» (Kelsen 1945); ciascuno deve pari opportunità «di avere la propria voce ascoltata e rappresentata» (Urbinati). L’uguaglianza si presenta quale elemento, o precondizione, imprescindibile per ogni associazione che voglia definirsi democratica: «indipendentemente da tutto il resto… nel governo di questa associazione tutti i membri devono essere considerati politicamente uguali» (Dahl).

Le costituzioni delle moderne democrazie rappresentative non mancano di definire eguale il voto, ma con un sistema elettorale maggioritario il principio è rispettato?

I sistemi maggioritari di per sé producono un effetto distorsivo sulla reale consistenza dei vari gruppi politici, incidono sull’uguaglianza del voto e sul rispetto sostanziale del suffragio universale, requisito minimo e imprescindibile di ogni democrazia rappresentativa. «Ogni sistema elettorale maggioritario, a parità di altre condizioni, è meno democratico dei sistemi proporzionali per la essenziale e dirimente ragione che mediante essi la maggioranza politica che governa può essere inferiore, e anche molto inferiore, alla metà + 1 dei votanti…, e pertanto tanto più un sistema è maggioritario (e cioè accresce il divario tra seggi e voti), tanto più esso si allontana dal principio democratico (sarà magari più efficiente, ma meno democratico)» (Rescigno).

La dottrina prevalente, nonchè la giurisprudenza costituzionale, tuttavia, ritengono possibile e costituzionalmente legittima la convivenza fra principio di eguaglianza e meccanismi elettorali di tipo maggioritario, se pur – come chiarisce la Corte costituzionale nella già citata sent. n. 1 del 2014 – entro certi limiti.

L’argomentazione muove dalla distinzione fra inputs e outputs elettorali: l’eguaglianza del voto è richiesta in entrata, con esclusione quindi del voto plurimo o pesato, non in uscita. Ma è sufficiente assicurare la parità astratta di chanches elettorali? Non viene garantito – né in sé né in modo eguale – il diritto ad identificarsi, se pur attraverso la finzione della rappresentanza, con i governanti. Si vanifica il riconoscimento del voto universale ed eguale e si creano nuove categorie di sudditi, se pur non in maniera predeterminata, ma lasciata alla

libera (ammesso e non concesso che lo sia, stanti disuguaglianze economico-sociali, di

accesso alle fonti di informazione e ai mezzi di comunicazione, …) competizione del gioco elettorale. Dal modello democratico si scivola in quello autocratico: «per i gruppi di individui che non saranno stati correttamente (proporzionalmente) rappresentati in parlamento a causa di un sistema elettorale che ha assegnato ai loro voti un peso minore rispetto ad altri (gruppi di) voti, le leggi approvate dal parlamento assumeranno l’aspetto di decisioni che cadono dall’alto: esattamente come quelle di un autocrate» (Bovero).

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La violazione della democrazia appare tanto più evidente se si considera che al principio di eguaglianza formale si è affiancato il principio di eguaglianza sostanziale. La ratio della garanzia dell’effettività sottesa nel passaggio dalla considerazione dell’uomo astratto all’uomo contestualizzato socialmente ed economicamente – ovvero, da un profilo di libertà negativa ad uno di libertà positiva, da una prospettiva liberale ad una sociale – avvalora l’interpretazione dell’eguaglianza del voto in tutti le fasi del processo elettorale, esplicandosi essa, dunque, non solo nella titolarità formale del diritto, ma anche nel peso che il suo esercizio assume. Un’eguaglianza politica sostanziale, detto altrimenti, richiede che si tenda a renderla effettiva e questo, sul piano della traduzione dei voti in seggi, implica la scelta per un sistema che assicuri il più possibile la produzione di eguali effetti del voto.

La Costituzione italiana, ad esempio, quando si riferisce all’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, c. 2), senza dubbio tratta della rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale», ma «partecipazione effettiva» ben può intendersi come una partecipazione che non sia solo formale, il che implica modalità di funzionamento della rappresentanza che assicurino un peso effettivo alla partecipazione di ciascuno.

La Corte costituzionale, peraltro, nel pronunciarsi, nel 1961 (sent. n. 43), accoglie l’interpretazione maggioritaria e relega l’eguaglianza del voto al momento dell’«espressione del voto, nel senso che ad essa i cittadini addivengono in condizioni di perfetta parità, non essendo ammesso né il voto multiplo, né il voto plurimo», contribuendo, quindi, ciascun voto, «potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». Il principio dell'eguaglianza – precisa il giudice costituzionale – «non si estende, altresì, al risultato concreto della manifestazione di volontà dell'elettore. Risultato che dipende, invece, esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari».

La mancata costituzionalizzazione del sistema elettorale viene interpretata come spazio impregiudicato per la discrezionalità del legislatore, senza dedurre né dal principio di eguaglianza né dal principio democratico alcuna indicazione circa la traduzione dei voti in seggi.

In altra occasione, la Corte chiarisce il senso della specificazione del voto come «eguale» (ex art. 48, c. 2, Cost.), in relazione proprio ad un sistema elettorale maggioritario. Pronunciandosi su alcune norme della legge elettorale allora vigente (T.U. n. 570 del 1960) per i Comuni con più di 10.000 abitanti, il giudice costituzionale premette che, riguardo al sistema in questione (maggioritario ma con alcuni correttivi), «dato che a tutti i candidati e a tutti gli elettori la legge riconosce gli stessi diritti con le stesse limitazioni, ogni contrasto con l'art. 48, comma secondo, della Costituzione, che garantisce l'eguaglianza del voto, é da escludere» (sent. n. 6 del 1963).

Nel corso di tale giudizio, fra l’altro, nella memoria depositata dall’Avvocatura dello Stato, si menziona un ulteriore argomento a favore del “disinteresse” costituzionale per il sistema elettorale: se si estendesse il principio di eguaglianza al risultato concreto della manifestazione di volontà dell'elettore, «sarebbero incostituzionali tutti i sistemi elettorali vigenti, anche il sistema proporzionale puro poiché in esso i voti dati a una lista che non raggiunge neanche un quoziente non realizzano alcun effetto e perciò sarebbero disuguali rispetto agli altri».

Si può obiettare che, se pur è indubitabile che nemmeno il più puro sistema proporzionale assicura che non si “perdano” dei voti, ovvero una “perfetta” eguaglianza, questo non significa che non si debba tendere a realizzarla nel più alto grado possibile. Il principio di eguaglianza può considerarsi (anche) come una norma programmatica.

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Esistendo più scelte, la democrazia tollera gradazioni o, meglio, una scelta che non è nella direzione della massima garanzia possibile? Essendo la democrazia un meta-valore, fra diverse opzioni, non occorre privilegiare quella che più realizza l’ideale democratico?

Fra democrazia-uguaglianza-sistema elettorale proporzionale esiste un nesso, che, se non si vuol definire – come si preferisce, non mancando argomentazioni in tal senso – tout court necessario, deve costituire quantomeno l’obiettivo cui tendere. Il carattere in costruzione della democrazia, la considerazione del contesto economico-sociale, l’eventuale presenza di altre esigenze (costituzionali), non devono indurre nell’errore di considerare una norma solo perché programmatica anche non precettiva.

La giurisprudenza della Corte, tuttavia, è costante nell’affermare l’insussistenza di una diretta consequenzialità fra l’eguaglianza del voto e il sistema proporzionale: nel 1996, ad esempio, precisa che la prima non esige «che il risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettorato sia proporzionale al numero dei seggi espressi» (sent. n. 107); nel 2002, ricorda che la scelta del sistema elettorale è «rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario» (ord. n. 260); nel 2008, ritiene non contrastante con l’eguaglianza del voto, l’intento, attraverso referendum abrogativo, di «influire sulla tecnica di attribuzione dei seggi, in modo da favorire la formazione di maggioranze coese…» (sent. n. 15).

Infine, nel 2014, il giudice costituzionale, accogliendo, in relazione al premio di maggioranza di cui alla l. n. 270 del 2005, la questione di legittimità costituzionale, afferma che «il principio fondamentale di eguaglianza del voto», «pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sent. n. 1). Ora, se l’avverbio «potenzialmente» rinvia al voto in entrata, il riferimento alla «pari efficacia» nella formazione degli organi può interpretarsi come relativo al voto in uscita. La Corte, peraltro, precisa che vi sono «sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto», donde, con un sistema proporzionale, anche solo parzialmente – come quello oggetto del rinvio da parte del giudice a quo – si «genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”… che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare». Come a dire: quando si opta per un sistema proporzionale, occorre un’attenzione particolare a non creare eccessivi squilibri fra input e output, mentre la soluzione potrebbe essere – ma non rientra nel petitum alla Corte – parzialmente differente nell’ipotesi di un sistema dichiaratamente maggioritario, ferme restando le asserzioni, ricordate ante, sui parametri della rappresentanza democratica.

In dottrina, nel senso di un rifiuto degli eccessi si muove chi, pur non ritenendo costituzionalmente obbligata la scelta per il sistema proporzionale, considera come ciò «non comporta peraltro che qualunque allontanamento dalla «perfetta» proporzionalità e qualunque sistema maggioritario si possano considerare in armonia con la Costituzione» (Luciani 1991). In questa prospettiva, ad esempio, dovrebbe ritenersi «illegittima quella legge elettorale che prevedesse un premio di maggioranza tale da attribuire alla lista vincitrice un numero di seggi pari ai due terzi dell’Assemblea» (Luciani 1991), in quanto, attraverso la vanificazione delle maggioranze qualificate, si verrebbe ad incidere sulla garanzia dei diritti delle minoranze. Non solo, in tali ipotesi si potrebbe ravvisare una violazione anche del principio di sovranità popolare, che non tollera di essere vanificato «nel senso di una distorsione eccessiva del rapporto tra volontà degli elettori e risultato dell’elezione, o nel senso della sostanziale cancellazione della responsabilità o della responsività degli organi elettivi» (Luciani 2010). Secondo tali tesi eventuali limiti ad un sistema elettorale maggioritario sono da ricercarsi non tanto nel principio di eguaglianza, quanto in altre norme costituzionali, quali, in primis, l’articolo 1, comma 2, ma anche, ad esempio, l’articolo 49, che garantisce il concorso di tutti i

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partiti alla determinazione della politica nazionale, assicurando l’eguaglianza di chanches, ovvero un sistema elettorale neutrale rispetto ai vari competitori elettorali.

Sia che si assumano come parametro di valutazione dei sistemi elettorali principi fondamentali come la sovranità popolare sia che si bilancino eguaglianza ed altre esigenze (costituzionalmente garantite) sia che si intenda il principio di eguaglianza in senso graduale, si apre lo spazio per il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale. La Costituzione – secondo tali interpretazioni (fra gli altri, Paladin), che, con la sent. n. 1 del 2014, sono assurte al rango di giudicato costituzionale – non prescrive tout court l’adozione di un sistema proporzionale, ma non è nemmeno totalmente indifferente rispetto al sistema elettorale adottato. Esistono dei limiti agli effetti distorsivi di un sistema elettorale, che il giudice costituzionale può valutare, ha valutato e valuterà (alla data in cui si scrive, come già detto, è attesa a breve la pronuncia della Consulta sul c.d. Italicum).

In conclusione, dalla giurisprudenza costituzionale non si può dedurre l’obbligatorietà del sistema che implementa nel massimo grado l’eguaglianza, ma solo che quest’ultima non può essere troppo sacrificata, ovvero, la disuguaglianza del sistema elettorale non è ritenuta in sé incostituzionale, lo è – come nell’ipotesi della legge n. 270 del 2005 e, coerentemente, della legge n. 52 del 2015 – se è eccessivamente diseguale.

Per inciso, qui si presenta inevitabilmente la questione del ruolo delle Corti costituzionali e del loro rapporto con la politica, a partire dalla discrezionalità e dall’ampiezza del potere di intervento che il giudizio di ragionevolezza attribuisce al giudice costituzionale. La sent. n. 1 del 2014, da un lato, sana un vulnus alla democrazia (e alla Costituzione) sul fronte della rappresentanza e della sovranità popolare; dall’altro, tuttavia, è indice di un interventismo giudiziario che può giungere ad intaccare, restringendo gli spazi della politica e delle scelte politiche, la stessa sovranità popolare, in favore di un supposto governo dei sapienti o aristocrazia giudiziaria, se pur costituzionalmente ispirati.

Spetta alla Corte o alla politica decidere se, e come, deve esistere una soglia di sbarramento (che è presente, ad esempio, in una democrazia avanzata come quella tedesca), oppure se la legge elettorale deve prevedere le preferenze (che non costituiscono un elemento costante nei sistemi elettorali)?

La questione è delicata: la Corte deve esercitare la sua funzione di garante della Costituzione, ma, intervenendo sul sistema elettorale, conforma la rappresentanza e incide sull’estrinsecazione della sovranità popolare: è un potere borderline proprio in relazione al rispetto della Costituzione, e in specie della sovranità popolare come mediata dalla rappresentanza, che può essere vulnerata sia da leggi elettorali distorsive sia da pronunce che ne vincolano le forme di espressione.

Riprendendo il discorso sulla ratio e i connotati delle formule elettorali, un’evidenza appare indiscutibile in ogni caso: il sistema elettorale maggioritario veicola diseguaglianza.

Certo, in astratto, nulla impedisce che la diseguaglianza politica possa rovesciare la diseguaglianza sociale, nel senso che coloro che sono gli esclusi socialmente ed economicamente possano con la forza del numero espellere politicamente coloro che appartengono ad una oligarchia economica e sfruttare a proprio vantaggio le asimmetrie. Nulla è impossibile, ma la realtà restituisce l’immagine di un circolo vizioso: l’esclusione sociale ed economica rende più difficile l’emancipazione politica, chi è al vertice della piramide della diseguaglianza economico-sociale facilmente si appropria (o, meglio, crea) occasioni di diseguaglianza politica, come quelle delle formule maggioritarie. Basti qui ricordare, fra i molti elementi che concorrono a rendere la diseguaglianza politica uno strumento dell’oligarchia economica: le precondizioni, quali quelle legate al livello di istruzione, consapevolezza e informazione, su cui giocano lo smantellamento qualitativo e quantitativo dell’istruzione pubblica o il controllo dell’informazione, e le condizioni delle

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elezioni, dove ostativi si rivelano i costi sempre più elevati delle campagne elettorali o l’inaccessibilità dei mezzi di comunicazione di massa.

La diseguaglianza del sistema elettorale, dunque, si configura come elemento per la riproduzione e l’incremento della diseguaglianza politica e sociale. L’esclusione dalla redistribuzione della ricchezza (si pensi al progressivo abbandono dello stato sociale, ad imposte sempre meno progressive e, in genere, ad una legislazione “di classe”) ha il suo riflesso nell’espulsione dalla rappresentanza politica. Un solo esempio: la sudditanza di lavoratori assoggettati ad un signoraggio aziendale così pervasivo da potersi ragionare di biopotere si accompagna all’estromissione dalla rappresentanza parlamentare delle forze politiche che ne difendono le istanze (senza misconoscere, peraltro, l’alta capacità autodistruttiva delle stesse), donde, senza opposizione, la delegificazione e deregolamentazione del lavoro di cui all’art. 8 della legge n. 148 del 2011 (manovra finanziaria-bis) o, da ultimo, la santificazione della precarietà con la l. n. 78 del 2014 (Jobs

Act). Predominio sul piano economico, controllo della politica e asservimento del diritto: le

relazioni industriali sono emblematiche della tendenza attuale del processo circolare economia-politica-diritto; si sottolinea tendenza attuale, a marcare sia la non univocità sia la non irreversibilità e intangibilità del processo.

Torniamo, però, per tentare qualche osservazione conclusiva, al piano della legge elettorale. Primo. Di per sé il sistema elettorale maggioritario (o ad effetti maggioritari) è diseguale e produce diseguaglianza. Si può rilevare un contrasto con la Costituzione che sussiste, come sostiene la Corte costituzionale, in presenza di eccessi, ma anche – come si è argomentato – eccependo in ogni caso la maggiore distanza, in relazione ad altre possibilità, rispetto al disegno e alle norme della Costituzione (basti qui ricordare la tensione all’«effettiva partecipazione di tutti» di cui all’art. 3 o il voto eguale dell’art. 48). Si ragiona, dunque, di una diseguaglianza incostituzionale sotto il profilo dell’eguaglianza politica, se pur non ancora di una diseguaglianza dotata di un preciso colore politico e connotazione economica-sociale. Secondo. Se inseriamo tale diseguaglianza in un sistema di (crescente) diseguaglianza economica e sociale dominato da un modello economico intrinsecamente teso – si passi la sintesi riduttiva – al profitto di alcuni costruito sull’espropriazione del lavoro di altri, si verifica la sua sussunzione nella razionalità di tale sistema. Chi governa le asimmetrie economiche, e ne trae beneficio, si appropria della diseguaglianza sul piano politico (ovvero, insiste per l’introduzione di meccanismi che la facilitino): quest’ultima assume colore e connotazione del modello neoliberista, contribuendo alla sua riproduzione e implementazione. La diseguaglianza si rivela funzionale e strumentale ad un disegno politico ed economico oligarchico. Un sistema elettorale diseguale per una società (sempre più) diseguale.

Si abbandona il compito di rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale» e, parallelamente, quello dell’«effettiva partecipazione di tutti». La (possibile) collisione con la Costituzione assume un doppio profilo, con una violazione dell’eguaglianza nella sfera politica e in quella economico-sociale.

Terzo. Ragionamento a contrario: un sistema più eguale consentirebbe alle forze economiche dominanti un pari controllo e assicurerebbe altrettanta efficienza nell’adottare decisioni “classiste”? Premesso che la risposta può variare in relazione al contesto, restando in Italia, si può in primis osservare, con un’altra domanda: perché, vista anche la performance certo non eccellente in termini di governabilità di vent’anni di sistema maggioritario, questa ossessiva ed arrogante insistenza – che giunge sino ad ignorare le indicazioni del garante della Costituzione – per l’opzione maggioritaria? Forse che l’effetto “specchio della realtà” potrebbe dare voce e forma politica organizzata a disagio e rivendicazioni sociali e rappresentare il conflitto sociale? Mostra la sua perdurante validità l’osservazione di Mill: «quando il potere è appannaggio di una sola classe questa lo eserciterà deliberatamente in

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vista dei propri interessi e a repentaglio degli altri interessi in causa»; «senza i loro difensori naturali, gli interessi delle classi escluse corrono sempre il rischio di essere trascurati».

Diseguaglianza economico-sociale chiama diseguaglianza politica, sì da consolidarsi e implementarsi a vicenda, e la razionalità neoliberista non tollera conflitto ed espressione di dissenso, nemmeno quello dell’opposizione parlamentare.

Il modello circolare economia-politica-diritto imperniato sul neoliberismo, allora, ha una sua legge elettorale: una formula maggioritaria, tout court (come è in Paesi tradizionalmente sue patrie elettive, come gli Stati Uniti e il Regno Unito), ma anche proporzionale travestita (metodo proporzionale con premio di maggioranza e/o soglie di sbarramento), come in Italia sia con la legge n. 270 del 2005 sia con la legge n. 52 del 2015, o alterata (attraverso il ritaglio delle circoscrizioni o la tecnica di traduzione dei voti in seggi, come, ad esempio, in Spagna). Il sistema maggioritario, o ad effetti maggioritari, con la sua logica intrinsecamente escludente e diseguale, è la perfetta traduzione politica del principio “competitività”: una competizione elettorale con vincitori (pochi) ed esclusi (molti); non una rappresentanza per tutti come garanzia della libera espressione del pluralismo e del dissenso ma un governo affidato ad una élite come garanzia della tutela degli interessi dell’oligarchia economica. L’«homme compétitif» (Dardot, Laval) domina il mercato mondiale, assurge a modello sociale e irrompe nella politica.

Certo non è la formula elettorale a determinare i destini del mondo o, più prosaicamente, la forma di Stato, ma alcuni sistemi, più di altri, veicolano valori ed effetti particolarmente coerenti con la logica della competitività e della diseguaglianza e contrastanti con la prospettiva della democrazia e dell’eguaglianza.

Il connotato disegualitario e disegualizzante del sistema elettorale maggioritario collide con l’eguaglianza intrinseca della democrazia. Con un parallelo a minori ad maius, “alzando il tiro” ma restando in tema di uguaglianza, piano è il rilievo successivo: non sarà che anche il neoliberismo, alias capitalismo, consacrato alla diseguaglianza, sia strutturalmente incompatibile con la democrazia? Non è che il primo tollera la seconda solo quando non riesce a governare direttamente attraverso una propria oligarchia? Rovesciando i termini della questione: la democrazia politica, per essere effettiva e per garantire la propria esistenza, deve accompagnarsi alla democrazia sociale ed economica ed il costituzionalismo estendere la limitazione del potere al mondo dell’economia.

Il processo circolare economia-politica-diritto è oggi dominato da una aggressiva diseguaglianza, segnata dal predominio della struttura economica: il capitale, per usare un termine novecentesco, con la sua onnivora voracità, fagocita politica e diritto, stritolando le persone ed i loro diritti.

Competitività e diseguaglianza non sono però un destino ineluttabile: come il costituzionalismo insegna, e richiede, la persona ed i suoi bisogni ancora (r)esistono. In questo contesto la legge elettorale è un tassello fra tanti di un puzzle in scala globale, ma (anche) da qui passa la costruzione o la demolizione della democrazia e l’attuazione o la liquidazione della Costituzione e del costituzionalismo.

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Riferimenti

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