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La flotta di Classe

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Academic year: 2021

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La flotta di Classe

* Tommaso Gnoli

Docente di Storia romana e di Storia greca presso la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna, con sede in Ravenna

Signore e Signori, buona sera,

sono molto contento e onorato per l’invito che mi è stato fatto dal caro amico, il Colonnello Ermanno Calderone, e da Gianni Morelli, a parlarvi questa sera su un tema, la flotta di Classe, che è stato alla base di un periodo di eccezionale grandezza, sviluppo ed importanza per la vostra — e ormai, posso ben dirlo, la nostra — splendida Ravenna. Non c’è infatti bisogno di dilungarci sul fatto, altamente intuitivo, che, senza la presenza della base permanente della flotta, la storia di Ravenna sarebbe stata molto diversa e, anche se non è con i ‘se’ che si fa la storia, è probabile che Onorio non avrebbe scelto questa città come sede della corte imperiale, nel 402, e non sarebbero stati costruiti i meravigliosi, stupefacenti, ‘tappeti di pietra’ che abbiamo qui accanto, segno tangibile del lusso e della magnificenza di ‘Ravenna regia civitas’.

Un aspetto colpisce immediatamente chi, come me, da nuovo trapiantato in questa città, si accosta allo studio della gloriosa storia di Ravenna, che non è solo, ovviamente, storia antica e tardo-antica, ma anche storia medievale e moderna, con le peculiarità fortissime delle sua realtà produttive rurali ed operaie, e delle sue realtà sociali nobili e borghesi che hanno dato alla città il suo aspetto così nobilmente altero e distaccato, così fortemente diverso dal resto della Romagna. Questo aspetto è senza dubbio la passione di un dibattito sempre vivacissimo e perennemente attuale circa la storia della città, coltivato anche al di fuori degli ambienti degli storici di professione, in cerchie, se non amplissime, comunque dicilmente immaginabili altrove. E questo approccio alla storia di Ravenna, motivato da appassionato interesse e da mero diletto, è certamente un patrimonio positivo per chi, come me, opera in una Facoltà di Conservazione di Beni Culturali. Perché è assolutamente ovvio che non può esserci vera conservazione senza l’appassionato interesse di cui sopra, condiviso il più ampiamente possibile al di fuori della comunità accademica.

La storia di Ravenna romana, di Ravenna antica e tardoantica, ore un quadro eccezionalmente ricco, non solo di opere di studiosi moderni, eruditi locali o scienziati di rilevanza mondiale, ma anche, e direi soprattutto, di fonti. Alla straordinaria abbondanza di epigrafi, che pongono Ravenna e il suo territorio ai vertici assoluti per abbondanza documentaria in tutto l’occidente latino, fa riscontro un gran numero di fonti storiche letterarie, anche precedenti, è il caso di sottolineare, la scelta di Ravenna regia civitas.

A questa abbondanza di fonti — non ho suciente competenza per parlarvi di quelle archeologiche, altri lo faranno molto meglio di me — non corrisponde, tuttavia, una pari quantità di dati certi sulla storia della città prima del 402. Mi sia consentito presentare qui molto rapidamente i più evidenti ‘buchi’ della attuale ricerca storica su Ravenna, prima di intraprendere più specificamente la

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trattazione del tema della flotta.

1) Nonostante la pluralità di fonti sulle ‘origini della città’ non possiamo esprimerci in maniera definitiva sulle opinioni di Strabone, Dionigi di Alicarnasso, Plinio, Iordanes, disposti ad accreditare Ravenna di un’origine rispettivamente Tessala, Tirrena, Sabina o Veneta (lascio stare qui il discorso che meriterebbe un noto passo di Zosimo, che, complicando il problema delle origini con delle paraetimologie sul nome della città ci porterebbe molto lontano).

2) Nonostante la data certamente epocale per Ravenna del 132 a.C., con la costruzione da parte del console di quell’anno, Publio Popilio Lenate, della via che da lui prese il nome e che avrebbe collegato, tramite Ravenna appunto, Rimini con Adria, non possiamo dire quale fu l’anno dell’ingresso della città di Ravenna nello stato romano. Non a caso un grande studioso di antichità romagnole, Giancarlo Susini, ha potuto scrivere, nel I volume della monumentale Storia di Ravenna, che «quei cinque quarti di secolo che vanno dal 295 al 170 a.C. segnano indubbiamente l’ingresso di Ravenna, cioè della nozione dell’esistenza di quel villaggio e di quell’approdo [...], nella consapevolezza e fors’anche nell’immaginario di alcuni tra i ceti dirigenti dei romani» (p. 126), formulazione senz’altro condivisibile nella sua prudenza, ma che presenta una forchetta cronologica troppo ampia per poter essere eettivamente utile alla ricerca.

3) Non si conosce né la data precisa della concessione della cittadinanza romana ai cittadini di Ravenna (la data del 49 a.C., coincidente alla concessione della cittadinanza romana da parte di Giulio Cesare alla Gallia Cisalpina è solo una deduzione, probabile ma non certa, dell’inclusione del territorio ravennate nella tribus Camilia), né, cosa ben più grave, lo statuto giuridico che legava Ravenna a Roma (municipium ?, civitas foederata ?, colonia ?).

Questi sono senz’altro i maggiori interrogativi che la ricerca storica su Ravenna antica si è posta, e continua a porsi senza riuscire a pervenire a risultati fermi.

Le cose non vanno molto meglio per l’oggetto specifico di questa conferenza: la flotta. L’approccio che si è normalmente tenuto nei riguardi di questo argomento è singolare. Anziché considerare la flotta come un elemento per così dire ‘normale’ dell’esercito romano, inquadrando così il suo studio nel quadro più ampio degli ordinamenti militari e delle unità militari dell’impero, la gran parte delle ricerche sulle flotte pretorie scorporano queste unità militari dal loro più ampio contesto istituzionale, ricominciando così ab ovo indagini e discussioni che, avvalendosi degli studi condotti su altre realtà militari dell’impero, non avrebbero motivo di esser più condotti.

È così ancora possibile leggere sporadiche ricostruzioni che farebbero di Ravenna base di disordinate, multietniche e variopinte ciurme schiamazzanti, addirittura reimpieghi di pirati sconfitti in non meglio precisate guerre etc. Ricostruzioni senza dubbio aascinanti, ma di assoluta fantasia, figlie di una concezione della ‘vita di caserma’ di chi, come me, ha servito lo Stato in un servizio militare obbligatorio e imbelle, in una breve e quasi onirica esperienza nell’ambito di una vita completamente dierente. La leva militare al servizio dello stato romano era cosa diversa, ché diverso, ed anzi opposto, era il rapporto tra esercito e società civile, tra un esercito dove l’uso della scrittura era diuso in maniera capillare e una società civile per la massima parte analfabeta, tanto per

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capirci.

«Bisogna evitare il più possibile di guardare al mondo antico con occhi moderni». È una raccomandazione che mi porto dietro dall’ultima lezione del mio Maestro, Santo Mazzarino, uno dei maggiori conoscitori di sempre del Mondo Antico.

Il problema storico costituito dalla flotta di Ravenna non è tanto capire gli aspetti concreti, i Realien, della vita di ogni giorno dei marinai o dei carpentieri, né ricostruire il numero esatto delle navi, la loro forma, il loro impiego. Tutti questi aspetti sono senz’altro importanti e degni di indagini diremmo oggi ‘interdisciplinari’ che possono produrre risultati tramite la cooperazione, strettissima, tra archeologi, storici e storici dell’arte. Per questi aspetti noi storici siamo sempre e comunque debitori e dipendenti dagli archeologi, che soli hanno la possibilità di fare avanzare decisamente la ricerca, come testimoniano splendidamente le fortunatissime e recentissime scoperte avvenute a Pisa, in occasione di uno sterro eettuato, se non erro, per l’Alta Velocità, che ha portato alla luce l’antico porto della città, con relitti di navi ancora ormeggiate alla banchina, ivi compresa — fatto unico nella storia dell’archeologia navale — il relitto di una nave da guerra! Di questi aspetti non parlerò perché, appunto, non ho, né potrei avere, dati nuovi da sottoporre alla vostra attenzione. Se gli scavi di Classe condotti dall’amico e collega Andrea Augenti daranno risultati apprezzabili ci rivedremo, statene certi!

È a mio avviso più urgente cercare di chiarire prima i termini generali nei quali inquadrare la flotta di Classe nella storia di Ravenna. Perché è fuori discussione il nesso esistente tra presenza della flotta e ascesa del centro urbano, ma questo nesso è solo apparentemente logico e ovvio. In realtà, confrontando il caso di Ravenna con quello di altre città o regioni sedi permanenti di unità militari romane, le dierenze sono cospicue e sostanziali, tali da richiedere comunque qualche considerazione.

La dinamica consueta delle canabae (è questo il nome degli insediamenti legionari di confine, lungo il limes renano-danubiano), si tratti dei casi di Treviri o di Colonia, di Singidunum oppure di al-Lejjun, in Giordania, è sempre stata quella di favorire un grande processo insediativo in regioni a bassissima, se non inesistente, densità urbana. In progresso di tempo queste aggregazioni hanno ottenuto, per lo più in età tardoantica — e comunque mai prima della fine del II secolo d.C. —, uno statuto municipale di qualche tipo. Lo sviluppo economico della regione e delle nuove città ha risentito positivamente della presenza delle unità militari solo molto lentamente, mano a mano che la crescita del centro urbano cominciava a comportare una crescita del livello di autonomia e di importanza di questi nuovi centri nelle province imperiali.

È evidente quanto fosse diversa la situazione di Ravenna, città situata in Italia e non in provincia, in un territorio ricco, densamente urbanizzato e ancor più fittamente abitato e coltivato. In linea di principio un migliore termine di paragone per Ravenna può essere costituito da una regione fortemente urbanizzata, ricca e popolosa ma allo stesso tempo pesantemente guarnita di truppe permanenti: la Giudea.

Costituita sotto Augusto come provincia procuratoria (e cioè una piccola ‘quasi-provincia’ priva di truppe permanenti, di fatto dipendente dalla grande provincia imperiale di Siria [è l’età di Ponzio Pilato, il più noto dei procuratores di

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Giudea]), dopo la Grande Rivolta giudaica scoppiata negli ultimi anni del regno di Nerone e dopo la durissima repressione dei moti irredentisti attuata da Vespasiano e da suo figlio Tito, la Giudea vide cambiare il suo statuto in quello di provincia imperiale di rango pretorio, e cioè di una provincia retta da un senatore scelto tra gli ex-pretori, che aveva alle sue dipendenze una intera legione stanziata permanentemente nel territorio della provincia. Dopo la Seconda Rivolta giudaica, quella che, scoppiata negli ultimi anni di Traiano e poi di nuovo durante il regno di Adriano prese il nome dal suo maggior condottiero Bar Kochba ‘il Figlio della Stella’, la Giudea vide di nuovo cambiare il suo rango da quello di provincia imperiale di rango pretorio a quello di provincia imperiale di rango consolare: dal 134 il governatore romano che risiedeva a Cesarea, non lontano da Tel Aviv, veniva scelto tra gli ex-consoli e poteva contare sull’appoggio diretto di due legioni, ciascuna comandata da legati imperiali di rango pretorio e su un numero di unità ausiliarie che sembrerebbe aggirarsi in quel periodo su un rapporto di 2,5:1. L’incrocio di questi dati con quelli del Talmud palestinese mostra quello che è del resto facilmente preventivabile: lungi dal rappresentare un fatto positivo, un ‘volano’ per la economia e lo sviluppo sociale della provincia, la sempre più massiccia ed invadente presenza delle truppe romane in Giudea ha rappresentato il momento più critico nella storia di quell’infelice regione, che poté conoscere una nuova età di rigogliosa prosperità solo in età tardoantica, quando le grandi riforme dioclezianee-costantiniane ebbero sovvertito completamente il dispositivo militare della provincia di Syria Palaestina — come si sarebbe chiamata la provincia a partire da Settimio Severo —, e avviato il grandioso processo, religioso ma anche economico, del pellegrinaggio in Terra Santa, significativamente iniziato dalla madre di Costantino, l’imperatrice Elena.

Ora, i calcoli più recenti (Safrai e Isaac) hanno calcolato l’ammontare delle truppe romane che, con la loro presenza, avrebbero messo in ginocchio tutto il sistema economico della provincia di Giudea, a circa 25.000 uomini, tra legionari

e ausiliari.

I calcoli per Ravenna eettuati da Starr e ripresi da Bollini, che non so valutare nel merito, porterebbero ad un eettivo di membri della flotta a circa 9 -10.000 uomini, con un rapporto tra militari e territorio quasi doppio, a quanto è possibile giudicare, rispetto al caso giudaico. E tuttavia, come si è potuto constatare, gli esiti di questa massiccia, pervasiva presenza militare nel territorio sono stati diversissimi e contrapposti: in Giudea si è avuto il sostanziale annichilimento economico di quella società, a Ravenna invece la crescita di una società ricca, colta e ranata, come ci testimoniano soprattutto le innumerevoli iscrizioni alle quali ho accennato. Curiosamente, al di là di quanto avverrà, ma in un periodo successivo, in altre località sedi permanenti dell’esercito, la crescita antropica dell’insediamento ravennate non è mai stata particolarmente significativa. Ravenna non è mai diventata propriamente una metropoli.

La dierenza di questi esiti va a mio avviso spiegata con una molteplicità di fattori, primo fra tutti la caratteristica saliente che dierenziava nettamente uno stanziamento di una flotta da uno stanziamento legionario: il costo enormemente superiore comportato dall'insediamento navale. Cicerone ci informa infatti (Pro Flacco, 30), in un'orazione da lui pronunciata in difesa di un ex consolare d’Asia (62 a.C.), Lucio Flacco, molto complicata dalle implicazioni politiche che il processo assunse, nonché da un’infelice vicenda ‘editoriale’ dell’orazione, che

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molto ha aaticato generazioni di filologi, che Pompeo, dopo aver liberato il Mediterraneo dai pirati, grazie all’imperium maius che gli era stato conferito nel 67 a.C. dalla lex Gabinia, avrebbe chiesto comunque che il senato costituisse nel 62 a.C. (Silano et Murena consulibus) una flotta ut in Italia navigaret, e che il senatus consultum che ne risultò erogò la bella somma di 4.300.000 sesterzi. Anche se è vero che la somma andò divisa in mare superum et inferum, cioè per l’Adriatico e per il Mediterraneo, è evidente la grandiosità del provvedimento. Cicerone, l’unica nostra fonte su questo episodio, nulla ci dice di quanto vorremmo sapere: se cioè la somma venne spesa solamente per la costruzione delle navi oppure, come sono più propenso a credere, per la creazione di infrastrutture permanenti; soprattutto, non dice nulla su dove questa consistente

somma di denaro venne spesa.

Io credo, ma questa è solamente un’ipotesi che andrebbe altrimenti corroborata, che con il provvedimento pompeiano-senatorio del 62 a.C. siamo

eettivamente alle origini della grande realtà militare di Classe.

Mi sembra infatti che sia da postulare la preesistenza della realtà classense rispetto al provvedimento augusteo, che pure ebbe certamente valore istituzionale e formativo. Può darsi, e sottolineo quanto di ipotetico vi è in queste mie considerazioni, che il provvedimento tardo-repubblicano abbia prodotto un consistente investimento in infrastrutture nell’alto Adriatico, anche, ma non solo, a Ravenna (ché altrimenti ci saremmo potuti aspettare qualche indicazione a riguardo). Può darsi che la comunità ravennate fosse in grado di contribuire in maniera significativa alla febbrile attività necessaria a costruire una flotta con i suoi annessi, forse per la ricchezza di legname, forse per la presenza di carpentieri particolarmente qualificati dei quali però non è facilmente provabile l'esistenza in situ prima dell'età augustea; forse per la straordinaria eccellenza di un sito, insuperabile porto naturale. Chissà! certo che queste ipotesi si scontrano con la nostra ignoranza del paleoambiente ravennate: ancora una volta

l’archeologia.

Comunque sia, che attribuiamo o meno valore alla testimonianza di Cicerone per la preistoria della flotta di Classe, sta di fatto che questa testimonianza ci mette di fronte ad una realtà inconfutabile: la creazione di una grande flotta, e soprattutto di una grande base navale permamenente, comportava investimenti molto consistenti, enormemente superiori a quelli necessari per un acquartieramento legionario. Se è vero che la vita media di una imbarcazione variava tra i cinque e i dieci anni (i calcoli sono di Torr, Casson e, da ultimo, Montevecchi tra gli altri, tutti basati invero sui dati disponibili per Atene), è facile immaginare il continuo lavorio che doveva caratterizzare i cantieri ravennati, perennemente alle prese con lo svecchiamento e la manutenzione delle delicate imbarcazioni; il costante auire nei luoghi di lavorazione delle materie prime in grandissima quantità: legname, pece per calafatare, canapa per il sartiame, tele per la confezione delle vele. Ed è facile immaginare come queste funzioni comportassero la presenza di personale altamente qualificato, solo in parte, come risulta dalle iscrizioni, irregimentato tra i classiari. Certo è, però, che la specificità dei mestieri che ruotavano attorno alla flotta deve aver creato, nel giro di poche generazioni, la nascita di un folto gruppo di artigiani che, fuoriusciti dalle fila della flotta, si erano radicati nel territorio ravennate, pronti a trasmettere il loro sapere ai figli, fatto abbastanza consueto nel mondo antico, in presenza di

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professioni specifiche e remunerative. L’analisi delle iscrizioni classiarie rivela infatti una tendenza significativa: i classiari, anche in tarda età, tendono a morire a Ravenna, a dierenza di quanto avviene per i legionari, che tendono invece a tornare, dopo il congedo, la honesta missio, a morire a casa loro, in località

distanti talvolta migliaia di chilometri dal luogo dove hanno prestato servizio.

A questo punto si intravede il perché di quel diverso esito che la concentrazione militare a Ravenna ha avuto se confrontato alle altre realtà legionarie: perché le attività legate al funzionamento della flotta comportavano una quantità di investimenti pubblici molto superiore a quella di qualsiasi altra realtà e, a dierenza di quanto avveniva nelle altre unità militari dell'impero, questi investimenti venivano in massima parte spesi in loco, ad esempio per l'approvvigionamento di materie prime e di manodopera specializzata, piuttosto

che finire quasi esclusivamente nelle cinture dei militari.

Checché ne sia stato del provvedimento ricordato da Cicerone, è certo che la creazione di una flotta permanente a Classe si deve ad Augusto. Quanto ho sopra accennato, la spesa dei 4.300.000 sesterzi per le flotte di Italia nel 62 a.C. non è — ci tengo a sottolinearlo — un maldestro tentativo di togliere ad Augusto quanto indubitabilmente gli spetta, è solo un tentativo di spiegare un scelta, quella di Ravenna come sede della flotta, che non sembra adeguatamente

preparata da quel poco che si conosce della storia preaugustea della città. Il toponimo stesso di Classe deriva, come è noto, dalla presenza della flotta, in latino classis, appunto, che vi fu stanziata per la prima volta — e le fonti sono a proposito assolutamente unanimi — quindi, da Augusto (a tutti voi è certamente nota la bella copia della statua loricata di Augusto che campeggia quasi di fronte all’ingresso della basilica di S. Apollinare, copia della statua rinvenuta alla fine dell’ottocento a Prima Porta, vicino Roma) in un periodo dicilmente accertabile con assoluta precisione, ma certamente posteriore alla data della grande battaglia navale avvenuta al largo di Azio, nel 31 a.C., che segnò la definitiva sconfitta di Antonio e l’inizio del lunghissimo principato augusteo. Infatti, benché il passo di Tacito (Ann. IV 5) menzioni l’esistenza delle delle flotte permanenti di Miseno e di Ravenna nell’ambito del quadro da lui oerto dell’esercito romano nel 22 d.C., è comunemente accettato da parte degli studiosi porre l’organizzazione della flotta negli anni subito successivi all’unica grande battaglia navale nel Mediterraneo durante l’età del principato. Del resto la paternità augustea del provvedimento è accertata da un noto passo della Vita di

Augusto di Svetonio (Oct. 49).

La scelta di Augusto di fare di Ravenna la base permanente per la flotta militare destinata alla difesa del mare Superum fu certamente seguita da grandi lavori pubblici, frutto di evidenti, grandiosi investimenti, se è vero che va attribuito ad Augusto lo scavo di un canale, noto a Plinio (NH III 119) con il nome di fossa Augusta, che collegava il binomio Classe-Ravenna con il Po. Non fu certamente questa l’unica grande opera pubblica connessa con quella scelta. È altamente probabile che sia da datare allo stesso periodo la costruzione del faro, che Plinio paragona a quello, celeberrimo nel mondo antico, di Alessandria di Egitto (NH XXXVI 12, 83), così come i castra, dove risiedevano i classiarii. Piacerebbe indubbiamente conoscere le dimensioni della flotta ravennate, ma non è possibile, al momento, in mancanza di nuovi dati archeologici, poiché

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l’indicazione sulla quale si è soliti ragionare, conservata nei Getika di Iordanes (39, 150) che cita Cassio Dione — 250 navi — indica solamente la capienza, forse virtuale, del porto, non l’eettiva consistenza della flotta all’inizio del III secolo

d.C.

A partire dall’inizio del II secolo d.C. la documentazione epigrafica comincia a testimoniarci, nella titolatura delle due flotte italiane di Miseno e di Ravenna, il crescente uso di un aggettivo, praetoria, che incontriamo per la prima volta in un diploma militare del 114 d.C. destinato ad un classiario di Miseno. Il diploma militare è un documento inciso su dittici di bronzo che veniva consegnato ad un militare romano all’atto del congedo, quando, cioè, veniva eettuata la honesta missio. In tali documenti venivano accuratamente indicati i diritti acquisiti dal beneficato in seguito al suo servizio, primo e più importante di tutti il diritto di cittadinanza romana (ma non sono infrequenti, ad esempio, anche alcune

esenzioni fiscali, lo ius connubii con peregrinae, etc.).

La presenza di questa nuova denominazione, classis praetoria, ha a lungo aaticato gli studiosi, che sono soliti spiegarla come un titolo onorifico che sarebbe stato concesso a queste unità militari. Vi è tuttavia discordanza nell’individuare le circostanze che avrebbero prodotto questo riconoscimento, dal momento che alcuni (Fiebiger, Starr) sono propensi ad attribuire il provvedimento a Vespasiano, in considerazione del ruolo che le flotte svolsero nel rivoluzionario longus et unus annus, il 68 d.C., altri (Hirschfeld) vedono con maggiore favore in Traiano l’autore di questa onorificenza. Io non credo che nella denominazione praetoria sia da ravvisare un intento onorifico da parte degli imperatori; o meglio, non credo che all’origine di questa denominazione vi sia stato l’intento di omaggiare queste unità militari. Gli studiosi moderni che ritengono di ravvisare in questa denominazione una onorificenza compiono, a mio avviso, lo stesso errore compiuto, verso la fine del IV secolo d.C., da un altro insigne studioso di ordinamenti militari romani, Flavio Renato Vegezio, la cui opera, la Epitoma rei militaris, non poteva non influenzare pesantemente gli studi sugli ordinamenti militari romani.

Vegezio dedica alla flotta l’ultima parte della sua opera (IV 31-32):

Presso Miseno, dunque, e Ravenna, singole legioni stazionavano colla flotta per non allontanarsi troppo dalla difesa dell’Urbe e, quando ve ne fosse motivo, senza indugio direttamente, giungere per nave in ogni parte del mondo. Infatti la flotta di Miseno aveva sotto controllo la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l’Africa, l’Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta di Ravenna era solita dirigersi direttamente verso l’Epiro, la Macedonia, l’Acaia, la Propontide, il Ponto, l’Oriente, Creta, Cipro, poiché in guerra vale più la velocità che il valore.

Le liburne [sono un tipo di nave da guerra particolarmente diuso in età tardoantica], poi, che stazionavano in Campania erano comandate dal prefetto della flotta di Miseno, quelle invece che stavano nel mar Ionio erano sotto il comando del prefetto della flotta di Ravenna; a costoro erano sottoposti dieci tribuni per ogni coorte. Poi ogni liburna aveva un navarca, cioè, per così dire, un navicularius, il quale, esclusi tutti gli altri doveri dei marinai, doveva quotidianamente con continuo zelo provvedere ad esercitare i timonieri, i rematori e i soldati.

Da molto tempo e ripetute volte sono state mostrate le pecche di questo passo letterario che è il più lungo e dettagliato sull’organizzazione della flotta da guerra romana. È opportuno ricordare che, nonostante qualche incertezza

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cronologica di dettaglio, Vegezio scrive alla fine del IV secolo d.C., in un periodo, cioè, in cui l’ordinamento augusteo dell’esercito, e della flotta, è stato ormai completamente sovvertito dalle riforme dioclezianee-costantiniane, anzi la sua opera si presenta come nostalgica reminiscenza di un glorioso passato militare contrapposto alla triste realtà presente, costituita dal sempre più barbarico

esercito tardoantico.

E così è errata l’indicazione dell’esistenza di legioni presso le flotte, errata è l’attribuzione alle due flotte di sfere d’azione separate, l’occidente mediterraneo a quella di Miseno, l’oriente a quella ravennate, errata, infine, la descrizione dei quadri di comando delle flotte. Quest’ultimo errore merita di essere analizzato, perché è a mio avviso all’origine di una lunga serie di errori. Vegezio aerma che a capo delle flotte vi era — cosa vera — un praefectus classis, che era a capo di un organismo strutturato in dieci coorti comandate ciascuna da un tribunus. Ma le numerosissime iscrizioni di classiarii, è stato ripetutamente notato, non menzionano mai né tribuni classis né coorti, nonostante i classiari frequentemente indichino con scrupolo il loro inquadramento all’interno della flotta. Quest’ultimo, quando è indicato, lo è sempre o tramite la menzione del nome della nave sulla quale si era imbarcati, o tramite la specificazione delle funzioni che si svolgevano a terra, quale ad esempio quella del faber navalis. Non viene mai menzionata una coorte. È evidente quale è stato l’errore di Vegezio: quello di indebitamente avvicinare l’organizzazione della flotta a quella delle coorti pretorie, la guardia imperiale residente a Roma, in questo ovviamente indotto da quell’aggettivo, praetoria, che contraddistingueva le due flotte e

dall’analisi del quale siamo partiti.

Non c’era solo quell’aggettivo a indurre in errore il nostro antico studioso. Vi era anche la circostanza, eccezionale nell’ordinamento militare del principato, di avere queste unità comandate da praefecti cioè da personaggi di diretta nomina imperiale trascelti da rappresentanti dell’ordo equester. Tutti gli altri comandanti dell’esercito, infatti, erano scelti tra i senatori, erano cioè tutti legati Augusti pro praetore, personaggi giunti al penultimo gradino della carriera senatoria, dotati di quell’imperium — che contraddistingueva le somme magistrature repubblicane, pretura, appunto, e consolato — che solo consentiva legalmente il comando di un esercito. Non c’è da stupirsi, dunque, se il comune aggettivo praetorio, e la stessa denominazione, praefectus, che accomunavano cohortes e classes abbiano indotto in errore il nostro storico che, lo ricordo ancora, scriveva oltre un secolo dopo lo scioglimento definitivo delle coorti pretorie e quando i prefetti del pretorio avevano ormai perduto ogni loro funzione militare, trasformandosi in qualcosa di completamente diverso da quello che erano durante il principato. Questo errore è stato evidenziato da tutti gli studiosi della flotta romana, ma ormai il danno era fatto: accostando, seppure indebitamente, i classiarii ai pretoriani Vegezio ha mandato una sorta di messaggio vorrei dire subliminale ai futuri studiosi degli ordinamenti militari romani. Questi ultimi hanno respinto la sostanza delle asserzioni di Vegezio scorgendone l’infondatezza, ma ne hanno accolto, per così dire, lo spirito, avallando l’idea che l’aggettivo praetoria riferito

a classis sia stata una concessione onorifica.

A mio avviso le cose non stanno così. È certamente prassi comune e consolidata che gli imperatori talvolta decidessero di gratificare qualche unità militare a loro particolarmente gradita intervenendo nella sua titolatura, ma in

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questi casi i riferimenti sono sempre a virtutes positive, come nel caso di aggettivi quali Pia, Fidelis etc., oppure assommando alla denominazione dell’unità militare i nomina imperiali, quali Iulia, Flavia, Antonina etc. Non risulterebbe altrimenti attestata la gratificazione di una unità tramite l’accostamento implicito — e solamente nominale — ad un’altra unità militare. Le unità in esame, le coorti pretorie e le flotte pretorie stanno alle due estremità nei ranghi dell’esercito romano. Le coorti pretorie erano un corpo di èlite caratterizzato da requisiti rigidissimi per l’arruolamento (si doveva essere non solo cittadini romani, come per le legioni, ma si doveva essere anche Italici di nascita); dal privilegio di risiedere normalmente a Roma; da una durata della ferma la più breve nell’esercito romano (solo quindici anni); dalla paga più alta all’interno delle forze armate romane. Il comandante delle coorti pretorie, il prefetto del pretorio, era l’uomo più potente nell’impero dopo l’imperatore (e qualche volta, nel III secolo, anche più dello stesso imperatore). Al contrario la flotta era aperta a tutti; la ferma era la più lunga nell’ambito delle forze armate romane (ben ventisei anni, contro i venticinque delle truppe ausialiarie); la paga era più bassa non solo di quella dei pretoriani, ma anche di tutte le altre truppe; il comandante il praefectus classis era un comandante di rango medio-basso. Gli studiosi sono discordi se attribuirgli un livello sessagenario o centenario, secondo la ripartizione gerarchica della burocrazia imperiale, basata sul livello di remunerazione. Fatto sta che anche l’ipotesi più alta, quella di vedere il prefetto della flotta retribuito con una paga annua di centomila sesterzi, centenario, appunto, collocherebbe il nostro personaggio ad un livello di carriera pari a quello della maggior parte dei numerosi personaggi che svolgevano funzioni procuratorie nelle province, in una cerchia quantificabile attorno ai 5-600 individui. Per giungere ai vertici delle carriere equestri il prefetto della flotta doveva ancora sperare di ricoprire quantomento incarici ducenari (con una remunerazione annua, cioè, di duecentomila sesterzi) e tricenari (300.000), prima di poter entrare nel Gotha delle grandi prefetture.

In base a queste considerazioni mi sembra evidente che le analogie tra coorti pretorie e flotte pretorie siano solamente nominali, e che bisogna spiegare altrimenti questo misterioso aggettivo. Spero di poterlo fare prossimamente in un articolo che ho oramai quasi concluso. Qui posso solamente anticiparvi che la soluzione va cercata non in malintesi, e invisibili, onori che sarebbero stati concessi alle flotte, ma tra le pieghe della costituzione romana, e in particolare nel rapporto esistente tra esercito e suolo italico.

Ritornando un passo indietro rispetto al problema rappresentato dall’aggettivazione delle flotte di Miseno e di Ravenna, resta il fatto che negli eventi del 68/69 d.C., il rivoluzionario anno che seguì l’uccisione di Nerone e la fine della dinastia giulio-claudia con l’assunzione del potere della nuova dinastia flavia, vide i classiari impegnati nei duri scontri della guerra civile. Classiari furono impegnati in scontri in Liguria e in Val Padana a fianco di Vitellio contro Otone. Ma fu la decisione presa dal praefectus di entrambe le flotte, Lucilio Basso, che risiedeva significativamente a Ravenna, a giustificare l’ipotesi, che pure abbiamo sopra confutato della concessione della nuova dignitas alle flotte imperiali. Costui, secondo Tacito, si sarebbe schierato da Vitellio a Vespasiano, sotto la sollecitazione dei classiari che provenivano in massima parte dalla Dalmazia e dalla Pannonia, regioni che a loro volta si erano schierate con

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Vespasiano. Questa scelta mise in grave crisi il dispositivo militare difensivo messo in piedi da Vitellio. In seguito alla battaglia di Bedriacum che segnò la fine di quella sanguinosa guerra civile, dal contingente della base di Ravenna venne ricavata una legione, la legio II Adiutrix. Credo che questo episodio possa essere utilizzato a supporto della mia ipotesi sull’appellativo pretoria dato alla flotta. Vespasiano, per premiare i classiari che si erano rivelati decisivi per le sorti della guerra li arruola in una legione, cambia cioè il loro statuto militare personale, non modificando in alcun modo le prerogative generali dell’unità militare, che continuò ad essere di rango inferiore a quello della legione.

Mi sia consentito terminare queste mie considerazioni sulla flotta pretoria di Classe mettendo in luce un aspetto paradossale. La flotta così come fu organizzata e voluta da Augusto continuò a persistere sostanzialmente invariata nei suoi ranghi per circa tre secoli, dagli ultimi decenni del I secolo a.C. agli anni ’70, almeno, del III secolo d.C. Non che la flotta in quanto tale abbia cessato di esistere a Classe, ma è certo che la grande riorganizzazione dell’esercito attuata da Diocleziano e Costantino ristrutturò fortemente la nuova flotta tardoantica. Ora, è curioso constatare come questo formidabile e costoso apparato militare non abbia mai svolto un ruolo militare significativo in mare: non ha partecipato, lo si è visto, alla grande battaglia navale di Azio, precedente alla sua costituzione. Ma, quel che è più strano, è che non ha mai preso parte ad alcuna seria operazione militare, se non come mero supporto logistico. Quando, attorno al 280 d.C. la presenza di una forte flotta militare sarebbe stata auspicabile e necessaria per contrastare le scorrerie di una raccogliticcia flotta di Franchi che infestò il Mediterraneo negli anni dell’imperatore Probo, giungendo perfino ad occupare per qualche tempo Siracusa — e a questo proposito mi sia consentito citare ancora una volta quanto scrisse Mazzarino: «L’occupazione Franca di Siracusa nell’epoca di Probo annuncia, alla considerazione dello storico le incursioni vandaliche in Sicilia nella seconda metà del V secolo. Il crepuscolo del III secolo preannuncua il crepuscolo dell’impero romano» — nessuna classis praetoria si fece loro incontro e costoro poterono liberamente imperversare per oltre un anno, in lungo in largo nel Mediterraneo, prima di dileguarsi, forse doppiando le Colonne d’Ercole. Anche in questo caso non mi sembra di potermi schierare con chi in questo episodio vuol vedere il segno di una smobilitazione dell’unità ravennate. Più semplicemente, credo che questa circostanza debba farci riflettere sulla scarsa utilità della presenza di una flotta permanente per contrastare un nemico nomade, che non aveva alcuna intenzione di accettare lo scontro militare a viso aperto: una grande flotta permanente non era garanzia di protezione contro un pericolo militare ‘a bassa intensità’, per utilizzare una espressione cara a Luttwak.

Quella della fine del III secolo fu solo un’avvisaglia passeggera di quanto sarebbe avvenuto tre secoli più tardi, quando il Mediterraneo si sarebbe trasformato da grande arteria di traco in una frontiera religiosa, etnica e culturale.

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