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giugno 2021

Il gesto fenomenologico

Pier Aldo Rovatti Il gesto fenomenologico 3 MATERIALI

Enzo Paci “Il selciato sul quale cammino…”

(8 gennaio 1958) 16

Enzo Paci Epoché (1963) 19

Francesco Stoppa A mani vuote 22

Mario Colucci Camminare sul ghiaccio 37 Beatrice Bonato Inattualità della sospensione 48 Raoul Kirchmayr L’epoché come sovversione

e la torsione del tempo 65

Giovanni Leghissa Dalla scienza rigorosa

al diario 84

Pierangelo Di Vittorio Ciò che è ovvio

troviamolo strano. Percorsi fenomenologici 96 Nicola Gaiarin Il gesto che non finisce 112 Damiano Cantone Sospensione e suspense 127 Graziella Berto Il segreto della responsabilità 136 Alessandro Di Grazia L’esercizio dell’attenzione 146 Antonello Sciacchitano Husserl e il soggetto

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Dalla scienza rigorosa al diario

GIOVANNI LEGHISSA

L

e fenomenologia, in quanto tradizione fi-losofica, non gode di buona salute. Non si può dire che sia morta, ma sembra vivere solo nella forma del commento scolastico. Il che non si addice a un discorso filosofico che si pone, sin dai suoi esordi, come una pra-tica, un esercizio. Come tale, si presume che possa continuare in una forma che non è solo quella del commento dotto e accademi-co al accademi-corpus dei Maestri. Nella Krisis, Husserl sostiene che l’epoché, che costituisce la sola via di accesso alla fenomenologia, non è un atto puramente intellettuale, ma un atto che comporta una trasfor-mazione del soggetto che si incarica di attuarla.

Ciò che conta innanzitutto per la descrizione dell’epoché è il fatto che essa è un’epoché attiva, abituale, che ha i propri tem-pi e che in questi temtem-pi viene comtem-piuta attivamente, operati-vamente, mentre altri tempi sono dedicati ad altri interessi, al giuoco e ad altri lavori. […] Forse risulterà addirittura che l’at-teggiamento fenomenologico totale e l’epoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasforma-zione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata a una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all’umanità come tale.1

1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), a cura di W. Biemel, trad. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1983, p. 165 sgg.

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La dimensione pragmatica della fenomenologia, insomma, rende quest’ultima una forma di sapere un po’ speciale, perché nel nu-cleo stesso del suo porsi come teoria vi è un elemento che sfugge, per principio, alla presa teorica. In questo senso, si comprendono meglio le radici platoniche della fenomenologia. Melandri – che, al pari di Paci, ha ben mostrato cosa significhi continuare il lavoro di Husserl, anche con altri mezzi, pur restando dentro la fenomeno-logia – afferma che la teoria platonica delle idee non sarà mai una pura teoria. Nella Repubblica, infatti, si fa ricorso alla dialettica per spiegare ciò che non può essere davvero spiegato fino in fondo, con strumenti puramente concettuali, ovvero il rapporto tra ciò che accade nel mondo – i pragmata – e le idee, che, nella loro fissi-tà, non possono avere i tratti dell’evento. Che gli eventi del mon-do, immersi in un’irrimediabile contingenza, siano spiegabili (che possano essere cioè “salvati”) significa che essi in qualche modo non sono del tutto incommensurabili rispetto alle idee. Se gli uma-ni possono imitare le idee, costruendo quegli edifici di senso che sono le teorie, ciò significa che gli eventi del mondo partecipano alle idee. La mimesi presuppone dunque la metessi.2

Ma per mostrare che questa funziona, che ha cioè un valore in sede teorica, si deve aver ammesso preliminarmente che le teorie sono anche immagini di ciò che accade nel mondo dei fenomeni. I nessi che risultano plausibili all’interno della costruzione teori-ca sono supposti avere una qualche relazione con ciò che si osser-va e si esperisce nel mondo. Ma non nel senso di un isomorfismo tra idee e mondo, che sarebbe difficile da sostenere e giustifica-re. Bensì nel senso che quell’immagine del mondo che è la teoria contiene un’eccedenza di significazioni possibili rispetto al mondo – eccedenza che rende l’edificio teorico, per esempio nel caso della scienza post-galileiana, un sistema ipotetico-deduttivo, capace di andare al di là di ciò che si vede davanti agli occhi per poter pro-durre spiegazioni oggettive.3

2. Cfr. E. Melandri, I generi letterari e la loro origine (1980), Quodlibet, Macerata 2014, p. 42 sgg.

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Ciò che la fenomenologia ci aiuta a comprendere è il motivo per cui tali spiegazioni, nella loro eccedenza, nel loro sforzo creativo di incistare la materialità dell’evento nella sfera immateriale delle categorie, siano la risultante di una necessità di ordine pragmati-co, che rimanda al modo in cui il soggetto risponde al bisogno di auto conservarsi nel mondo. A suo modo, Mach riuscì a compren-dere questo aspetto quando introdusse la nozione di economia in riferimento alla funzione delle spiegazioni scientifiche. Scrive in-fatti: “Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di

economiz-zare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti

nel pensiero”.4 Questa economia viene attuata sia mediante la

sim-bolizzazione, sia mediante la costruzione di modelli che riducono la complessità del mondo. Ed è qui, in relazione a tali sforzi di ri-duzione della complessità, che si mostra la funzione pragmatica del conoscere – una funzione indissolubilmente legata alla neces-sità dell’autoconservazione.

Quando Husserl, nei Prolegomena che precedono le Ricerche

logiche, affronta le tesi di Mach, dedica non pochi sforzi per

mo-strare in che senso queste siano erronee in quanto assimilabili a una forma di psicologismo. Se costruire teorie – e, più in genera-le, confrontarsi con il mondo con lo scopo di conoscerlo – è un’at-tività che dipende unicamente da una pulsione autoconservativa, va da sé che dell’idealità che conferisce solidità alla sfera teorica non resta nulla. Tuttavia, ci sono buoni motivi per ritenere che Mach colga nel segno – in fondo, poi lo deve ammettere lo stesso Husserl.5 Ma soprattutto ci sono buone ragioni per sostenere che

una fondazione fenomenologica del sapere ha come scopo prima-rio propprima-rio l’ostensione di come tutti i modi di darsi degli oggetti a un soggetto possibile – dal senso comune alle costruzioni teo-riche delle scienze – riposino sulla contingenza degli incontri tra

4. E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), a cura di A. D’Elia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 470.

5. Parlando dell’uso di simboli nella costruzione delle teorie, Husserl sostiene che la funzione di questi è volta a risparmiare fatiche inutili. Cfr. le lezioni del 1906-1907 raccolte nel volume XXIV dell’Husserliana: E. Husserl, Introduzione alla logica e alla teoria della

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corpi parlanti. Se vista in questa prospettiva, ogni attività conosci-tiva, quindi, si pone anche come espressione di uno sforzo volto a economizzare le energie spese per l’autoconservazione. Un corpo parlante è sì capace di atti di donazione di senso, ma nessuna for-mazione di senso possibile potrà mai risultare del tutto estranea agli atti con i quali un soggetto in carne e ossa indica col dito a un altro soggetto la presenza di ciò che c’è, là fuori nel mondo condi-viso. Ed è proprio questo l’esito ultimo a cui arriva Husserl quan-do fonda l’oggettività dei saperi a partire dall’intersoggettività.6

In virtù di questo legame che la fenomenologia ritiene inelu-dibile tra il corpo del soggetto del sapere e la costruzione di un sapere condiviso si aprono quei percorsi di riflessione che hanno portato un autore come Blumenberg, nel corso del suo lavoro di attraversamento e di ampliamento del discorso fenomenologico, a porre in luce come l’esito ultimo dell’istanza trascendentale fatta valere da Husserl debba risolversi in un’antropologia. Ciò può ap-parire paradossale, ma è appunto su questo paradosso che scom-mette Blumenberg. Se è a partire dall’intersoggettività che va rein-terpretata tutta l’impresa fenomenologica, è chiaro che si apre uno scenario filosofico in cui è necessario partire dal paradossale in-treccio tra l’istanza trascendentale e quella empirica. Blumenberg si muove in questa direzione grazie alla nozione di actio per distans. Quest’ultima ha lo scopo di mostrare come, da un lato, ogni atti-vità umana presupponga quell’empiria del processo evolutivo che fa di Homo sapiens un animale che procede su due zampe e dispo-ne di una potente protesi, che è la sua mano, dotata di un pollice opponibile. Senza tali caratteristiche, non sarebbe possibile quella produzione di artefatti che caratterizza l’azione della nostra specie e ne determina il successo adattativo. D’altra parte, Blumenberg identifica la capacità di prendere distanza dall’immediatezza del

6. Per lungo tempo è parso che il discorso fenomenologico, incentrato sulla funzio-ne del soggetto del conoscere, dovesse restare estrafunzio-neo ai dibattiti sulla fondaziofunzio-ne delle scienze, sia in sede epistemologica che in sede ontologica. In tempi più recenti, si è invece riconosciuta l’assoluta pertinenza dell’approccio fenomenologico quale punto di partenza per un’analisi della prassi scientifica. Su ciò, si veda per esempio H.A. Wiltsche, P. Berg-hofer (a cura di), Phenomenological Approaches to Physics, Springer, Cham 2020.

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mondo con ciò da cui si origina anche il pensiero: riflettere signifi-ca infatti manipolare concetti, ovvero strumenti che servono a ge-stire ciò che c’è anche quando ciò che c’è non è presente davanti a noi. In tal modo non si rende nulla la distinzione tra la fenomeno-logia dell’agire volto a manipolare oggetti o creare artefatti e quel particolare tipo di operazione che consiste nel pensare e nel co-municare i propri pensieri. Significa però poter articolare la diffe-renza tra queste due distinte famiglie di operazioni come un’oscil-lazione, come un passaggio continuo e interminabile tra due poli che si intersecano l’uno nell’altro.7

Sarebbe però riduttivo – se non erroneo – limitare la portata del gesto fenomenologico alle questioni fondative, relative cioè al modo in cui il soggetto della conoscenza dischiude il campo in cui si costituiscono gli oggetti del conoscere, al tempo stesso co-stituendo sé stesso. Va certo riconosciuto che Husserl, dal can-to suo, era ossessionacan-to dall’idea di fondazione, era cioè roso dal desiderio di fare della fenomenologia quella scienza rigorosa che potesse offrire una Begründung di tutti i saperi.8 Ma il fatto che

Husserl stesso, nel trasformare la Begründung in Fundierung, ab-bia impresso alla fenomenologia una direzione diversa rispetto alla tradizionale impresa filosofica che consisteva nel giustificare l’essere attraverso concetti, ci invita a ritenere la fenomenologia come quel sapere che non si può ridurre a un’impresa fondativa di tipo classico.9 Ritengo importante, di conseguenza,

sottolinea-re come il gesto fenomenologico sottolinea-renda possibile anche una psottolinea-resa diretta su come la costruzione di una teoria possa divenire parte integrante di un discorso critico sul modo in cui una forma di sa-pere si mescola a pratiche di potere, a scelte istituzionali che van-no giustificate, legittimate e rese ovvie. Ciò dipende in maniera

es-7. Mi soffermo su questi temi in G. Leghissa, La genesi del trascendentale. Epoché e actio per distans nella ricostruzione blumenberghiana della funzione antropologica della

ra-zionalità, “Dianoia. Rivista di filosofia”, 23, 2018, pp. 81-93.

8. Cfr. E. Husserl, Phänomenologische Methode und phänomenologische Philosophie.

Londoner Vorträge 1922, a cura di B. Goossens, “Husserl Studies”, 16, 2000, pp. 183-254.

9. Sulla nozione husserliana di Fundierung, resta imprescindibile G. Rota, Pensieri

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senziale dal fatto che pensare fenomenologicamente implica una messa a tema del fatto che la costruzione di una teoria – di qua-lunque tipo – rimanda alle relazioni di natura istituzionale nelle quali è convolto chi la produce.

Se nel panorama filosofico contemporaneo non viene accolto molto bene un discorso che insista sul peso che ha il soggetto che compie l’atto del pensare, è però vero che al di fuori della fi-losofia intesa come disciplina accademica non mancano prese di posizione che mirano a mostrare l’inaggirabilità del soggetto che costrui sce teorie. Esemplare, in tal senso, la difesa dei “saperi si-tuati” condotta da Donna Haraway nel suo Simians, Cyborgs, and

Women. The Reinvention of Nature, un libro del 1991 che ormai

si colloca tra i classici sia del pensiero femminista, sia del pensie-ro post umanistico – due ambiti, peraltpensie-ro, ora difficilmente sepa-rabili.10 Lì Haraway si fa promotrice dell’urgenza di articolare

“si-multaneamente una spiegazione di radicale contingenza storica per

tutti i sistemi e soggetti di conoscenza, una pratica critica utile a riconoscere le ‘tecnologie semiotiche’ con le quali creiamo signi-ficati, e anche un impegno rigoroso, volto a ottenere resoconti fe-deli di un mondo ‘reale’, un mondo che può essere parzialmente condiviso, e sia aperto a progetti mondiali di libertà circoscritta e adeguata abbondanza materiale, che portino a un modicodi soffe-renza e un po’ di felicità”.11 Un impegno, questo, che

sintomatica-mente aspira a unire, all’interno del gesto che produce il discorso teorico, rigore nelle spiegazioni e attenzione alle conseguenze che le prime possono avere al di fuori degli ambiti istituzionali che ga-rantiscono la produzione e riproduzione delle teorie. Ciò ha con-seguenze immediate per la concezione dell’oggettività che deve caratterizzare una teoria: essa risulterà tanto più oggettiva, quanto più in essa si metterà in gioco il corpo di chi scrive e firma il

te-10. Su ciò, rimando a G. Leghissa, Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, Mimesis, Milano-Udine 2015 e Id., “Uscire dal Neolitico. Per un uso politico della nozio-ne di postumano”, in A. Bianchi, G. Leghissa (a cura di), Mondi altri. Processi di

sogget-tivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia, Mimesis, Milano-

Udine 2016, pp. 43-58.

11. D. Haraway, Manifesto cyborg (1991), trad. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1999, p. 109 (cito dalla traduzione italiana parziale di Simians, Cyborgs, and Women).

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sto chiamato a veicolare la teoria: “È dai nostri corpi, dotati della visione stereoscopica dei primati, che dobbiamo imparare come collegare ciò che è oggettivo ai nostri scanner teorico-politici […]. Così […] l’oggettività si rivela essere questione di corpo particola-re e specifico, e non di quella falsa visione che promette trascen-denza di ogni limite e responsabilità”.12

Da una posizione come quella di Haraway è derivato non solo l’invito – o, meglio, la prescrizione – a rendere esplicita la posizio-nalità del soggetto della scienza, ma è disceso anche un program-ma di ricerca, volto a identificare le strategie retoriche che, nella costruzione dei discorsi che costituiscono l’archivio di una tradi-zione, hanno avuto la funzione di occultare i tratti specifici, idio-sincratici, locali, del soggetto che di volta in volta è stato autore di quei discorsi. Non è andata a finire come si sperava, purtroppo. I propositi enunciati di Haraway a volte si sono trasformati in una canzone da organetto. Che la conoscenza sia locale, sia cioè lega-ta alla biografia di un corpo sessuato e parlante, viene ripetuto in modo un po’ dogmatico, senza mai interrogare davvero i presup-posti filosofici di tale assunto. Parimenti, le indagini svolte nell’ar-chivio dei saperi, della letteratura e delle arti per mostrare come esso sia pieno dei segni lasciati da un soggetto maschio bianco occidentale imperialista e possidente, che pensava di parlare nel nome dell’umanità mentre in realtà parlava e scriveva per difen-dere i privilegi della casta a cui apparteneva, si sono ridotte a un elenco di denunce, a volte lamentose. Ciò è una conseguenza del fatto che da tempo si è consumata una netta separazione tra la ri-cerca teorica volta a spiegare perché la questione del soggetto sia inaggirabile e le concrete analisi di come nella letteratura, nell’ar-te, nel cinema, oltre che nella filosofia, si siano espressi specifici dispositivi di dominio. Qui suggerisco che ricucire tale separazio-ne sarebbe possibile operando una ripresa del gesto fenomeno-logico, il quale consiste nel mostrare come il soggetto sia sempre imbricato nella produzione del discorso che istituisce – un fatto, questo, che il fenomenologo ritiene essere inerente a tutte le

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duzioni discorsive, sia quelle che circolano nella forma del senso comune, sia quelle che assumono le fattezze della teoria.

Non è qui il caso di chiedersi quali traiettorie – storiche e isti-tuzionali a un tempo, legate al radicarsi delle singole discipline in specifici contesti nazionali – abbiano condotto alla situazione pre-sente. È una situazione in cui coloro che producono testi molto in-teressanti e proficui, per esempio nel campo degli studi di genere o nel campo delle teorie del posthuman, non hanno voluto andare al di là di Derrida o Foucault per risalire fino alla fenomenologia. Ma, come detto in apertura, è l’intera temperie culturale e politica contemporanea ad aver reso obsoleto il gesto fenomenologico, volto a farsi carico di una struttura argomentativa che non può non ospi-tare i paradossi. Questi ultimi complicano anziché semplificare, ed è ragionevole supporre che le complicazioni risultino indigeste.

La fenomenologia ha ragione di esistere solo se si afferma che una parte importante della pratica filosofica consiste nel mettere a tema come si articoli l’intersezione tra il piano trascendentale e quello empirico. Non che la filosofia possa ridursi a questo, benteso. Affinché il discorso filosofico possa produrre conoscenza, in-fatti, è opportuno chiedersi da un lato cosa c’è, e quali proprietà abbia ciò che c’è, e dall’altro chiedersi come funziona la modalità attraverso cui un soggetto qualunque può dire di sapere che c’è qualcosa e può giustificare la propria conoscenza vera degli enti di cui si stabiliscono determinate proprietà. Però alla fenomenolo-gia, da Husserl in avanti, è sempre parso non irrilevante chieder-si come questi due aspetti del fare filosofico possano stare aschieder-sie- assie-me. La verità degli enunciati sul mondo ha vari gradi, a cui cor-rispondono vari gradi di evidenza. Ma a ciascuno di questi gradi di evidenza corrisponde un’esperienza concreta della verità, cor-risponde cioè una datità di cui il soggetto che con essa si incontra deve dar conto.13 Solo se si mette a frutto l’indagine

fenomenolo-13. È nei Prolegomeni per un logica pura, il volume che introduce le Ricerche logiche, che Husserl enuncia un principio a cui si manterrà sempre fedele, ovvero il principio se-condo cui l’evidenza è il vissuto (Erlebnis) della verità – senza che ciò intacchi il carattere ideale della verità stessa. Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche (1900), a cura di G. Piana, il Sag-giatore, Milano 1988, p. 196.

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gica dell’evidenza diviene possibile saldare la critica del presente – l’ontologia dell’attualità, come preferisce chiamarla Foucault – con una critica dei saperi scientifici che permetta un dialogo tra la filosofia e le scienze contemporanee.

Rispetto a quest’ultimo punto, ricordo qui il modo in cui Mer-leau-Ponty seppe dialogare con la fisica del Novecento mostrando come il radicarsi dell’attività conoscitiva nella corporeità del sog-getto è ciò che permette di dar conto tanto delle innovazioni epi-stemologiche quanto di quelle ontologiche apportate dalla nuova fisica. Quest’ultima rende obsoleta la vecchia concezione di una Natura che se ne sta fuori di noi, indipendente dal soggetto che la conosce – una concezione che non sapeva poi dar conto del fatto che tale soggetto è sempre incarnato, situato, anche quando veste i panni del soggetto della scienza. Tale nuovo scenario dipende da due fattori. Da un lato, la fisica si pone in relazione a sistemi osservati e misurati, e il soggetto che li osserva prolunga sé stes-so negli apparecchi di osservazione. Dall’altro, ciò che costituisce l’oggettualità dell’oggetto osservato coincide con certe forme ma-tematiche necessarie per la descrizione dei rapporti del sogget-to con l’oggetsogget-to. Ma tali strutture matematiche sono determina-te dalla determina-teoria nella quale indetermina-tervengono poiché schematizzano le condizioni generali concernenti gli osservatori nei loro rapporti con gli oggetti. Di conseguenza, l’oggettualità degli enti studia-ti dalla fisica è sempre in relazione con la situazione dell’uomo concreto nel mondo.14 Ora, se ciò è plausibile in una sede in cui

si discutono le relazioni tra filosofia e scienze fisiche, come fa ap-punto Merleau-Ponty, a maggior ragione si può far valere il gesto fenomenologico nel campo delle scienze umane, in cui è ancora più urgente che il soggetto della scienza mostri non solo da dove parla e in nome di chi parla, ma anche qual è il desiderio che lo abita nel suo discorso.

14. Cfr. M. Merleau-Ponty, La natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, edizione italiana a cura di M. Carbone, trad. di M. Mazzocut-Mis e F. Sossi, Raffaello Cortina, Mi-lano 1996, pp. 129-147.

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Questa embricazione di critica del presente, capace di farsi anche premessa per un discorso orientato politicamente e dialogo filo-sofico con la prassi delle scienze, fa acquistare un peso diverso alla costruzione di un discorso filosofico fatto in prima persona. Quest’ultimo è centrale, per la fenomenologia, in quanto non è solo una questione di metodo. In gioco è quella portata esisten-ziale dell’epoché di cui parla Husserl. Paci restituì la concretez-za del gesto fenomenologico – nel senso che mostrò come questa concretezza può essere indicata – scrivendo un diario fenomeno-logico, che pubblicò nel 1961.15 Il diario inizia con il porre la

que-stione del soggetto in quanto queque-stione dell’individuo in carne e ossa. “Il fatto primo sono io, il soggetto”, scrive Paci.16 Se non si

capisce questo, non si capisce che senso abbia dire sia che nessun fatto è solo universale, sia che nessun fatto è solo individuale. Ep-pure, il gesto fenomenologico consiste nel tenere assieme tutte e due le affermazioni. Nell’esperienza del singolo individuo, infatti, si dà a vedere una serie di elementi dotati di una specifica tipicità, che rimanda al modo in cui ogni soggetto possibile si confronta con il mondo.

L’universalità, ovvero la tipicità, si fa quindi cogliere solo nell’e-sperienza singolare, ma questa riceve senso, si rende cioè com-prensibile, solo perché traduce, in modi di volta in volta idiosin-cratici, qualcosa che fa parte della mia storia personale – che è sto-ria percettiva, stosto-ria dello stile con cui io percepisco il mondo, ma anche storia personale, biografica, innervata da letture, viaggi, in-contri, sogni, desideri, traumi ecc. Questa identità tra l’universale e l’individuale, rileva Paci, è basata sulla rilettura del trascenden-tale kantiano messa in atto da Husserl, secondo la quale sensibili-tà e intelletto vanno pensate assieme – o, meglio, vanno esposte e analizzate nel loro fondersi.17 Solo che la portata di tutto ciò – che

sicuramente riguarda anche la teoria filosofica, riguarda cioè de-terminate opzioni in sede teoretica – non si fa cogliere davvero se

15. Ma se ne veda la recente ristampa: E. Paci, Diario fenomenologico, nota introdutti-va di P.A. Rointrodutti-vatti, Orthotes, Napoli-Salerno 2021.

16. Ivi, p. 13. 17. Ivi, p. 19 sgg.

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si resta confinati entro il perimetro della teoria. Dopo aver ricor-dato che Kant non può giungere, come fa invece Husserl, a por-re la sensibilità e l’intelletto come identici, Paci annota (la data è quella del 14 giugno 1956):

Di fronte all’infinito del tempo, […] ciò che esiste si pone come permanenza, ritmo, battuta, divenire temporale che di-venta figura. Scansione. Struttura figurativa. Il ritmo rifugge dall’identità mantenendosi nell’analogia. Variazioni graduali. Nascita, durata graduale. Maturazione. Graduale dissolvimen-to. Intersecazione, collegamento, risonanza, armonia. Ciò vale per tutto ciò che percepiamo, per una fenomenologia del darsi delle cose, del loro modo di essere fenomeni. Il ritmo, il ritmo nelle cose, si dispone sia in tempi che in luoghi diversi. Spo-starsi del ritmo. Analisi cinestesiche in Husserl. Figure, figu-re geometriche in movimento. Topologia. Risonanze e analo-gia spaziali. Proporzioni. Pieno e vuoto. Volumi. Masse. Tutto questo sul piano della Lebenswelt e non dell’astrazione teori-ca. Idealizzazione per arrivare alla geometria come scienza, ed anche alla tecnica costruttiva.18

Si potrebbe dire che questi sono solo appunti di lavoro, titoli di possibili indagini fenomenologiche da condurre poi in modo ana-litico, quindi più rigoroso. Eppure, se si pensasse questo, si ridur-rebbe il diario di Paci a una serie di note sparse, buone per fornire spunti che andranno poi elaborati altrove e con un altro stile di scrittura. L’idea che sta alla base del Diario fenomenologico, inve-ce, è che dal ritmo non concettualizzabile della vita – che Husserl mise a tema introducendo la nozione di “precategoriale” – emer-ga il pensiero. Ed è in quest’idea che si trova racchiuso il sen-so ultimo del gesto fenomenologico. Tale gesto non tenta di dire l’even to, la contingenza di ciò che accade, né tenta di dire il flui-re della vita, o di nominaflui-re il ritmo del vivente, la sistole e la dia-stole del battito cardiaco nel caso di un animale dal sangue caldo

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come Homo sapiens; non tenta nemmeno di spiegare cosa signifi-ca che il tempo è, per dirla con Heidegger, autoaffezione pura. Si limita a indicare tutto ciò attraverso un’operazione di traduzione che mira a rendere, in modo indiretto, ciò che sta ai margini della pensabilità. Questo lavoro ai margini non comporta che si pensi meno – anche se un lavoro di sottrazione, di riduzione della pre-tesa che i concetti esauriscano il reale, è qui opportuno. Compor-ta che si pensi altrimenti, cioè in visCompor-ta di una ostensione del fatto che la possibilità di pensare dipende da un soggetto finito, mor-tale, vulnerabile. L’autore di un diario, appunto.

Torno, con ciò, all’inizio. Se i fenomenologi sono coloro che sanno che tutto ciò che scrivono e insegnano è in fondo un’auto-biografia, e se poi confessano apertamente questo fatto, è chiaro che si trovino ai margini della filosofia mainstream. Quest’ultima non può accogliere il gesto fenomenologico, il quale non si con-figura tanto come una metodica universale quanto come un at-teggiamento. Una possibile via d’uscita è data – suggerisco – dal rendersi conto che non si potrà mai fornire una giustificazione definitiva dell’oscillazione tra epistemologia e ontologia. Questa oscillazione va in un certo senso abitata, ed esibita di volta in vol-ta, quando si costruisce il discorso filosofico, senza togliere nulla alla contingenza che la intacca costitutivamente.

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