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Assistenza linguistica e processo penale.

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Assistenza linguistica e

processo penale

Il Relatore

Prof.ssa Valentina Bonini

Il Candidato

Oriana Califano

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DELLA LINGUA NEL DIRITTO

PARAGRAFO I : LINGUA E DIRITTO

Diritto e lingua, a prima vista, sembrano presentarsi come due concetti sconnessi, come se il primo fosse di interesse esclusivo dei giuristi mentre il secondo proprio degli

studiosi delle scienze glottologiche. Cosi non è. La conoscenza del diritto e il diritto stesso, ha bisogno

della lingua.

Oramai sempre più frequentemente 1 l’ordinamento

giuridico e il “fenomeno linguistico” interagiscono tra di loro come termini di un’unica relazione, articolandosi e sviluppandosi in una molteplicità di rapporti e di prospettive, tali e tante da giustificare un’analisi delle reciproche interferenze che non possono non coinvolgere i giuristi di più varia epoca ed estrazione.

Già Montesquieu aveva sottolineato la correlazione tra sistema politico e legge;2 Cesare Beccaria aveva poi intuito

che la sfasatura tra la lingua del diritto, straniera al

1 Inizialmente ignorata dalla dottrina italiana ,l’analisi giuridica dei problemi linguistici ha suscitato negli ultimi anni l’interesse e l’approfondimento di molti studiosi. In particolare, per ampi contributi allo studio della problematica in esame, v. P.CARROZZA, Lingua, politica,

diritti: una rassegna storico-comparatistica, in

Dir.pubb.comp.eur.,1999,p.1465 ss; A.PIZZORUSSO, L’uso della lingua come oggetto di disciplina giuridica,in Le Regioni,1977,p.1301 ss.

2Nel governo repubblicano la natura della costituzione vuole che i

giudici seguano la lettera della legge. Contro nessun cittadino è lecito interpretare la legge, quando i suoi beni, la sua vita o il suo onore sono in gioco”(Montesquieu,I,VI,3).

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popolo e la lingua reale, era indicatore della qualità che il sistema politico dava al rapporto tra Autorità e cives, tra Stato e cittadini. Un altro maestro del passato, Karl Olivecrona, ha sottolineato come molti problemi possano sorgere dal fatto che il linguaggio giuridico non abbia solo una funzione tecnica ma anche aspetti emotivi, capacità di agire sulla volontà, valenza informativa.3 Ecco che il

problema delle lingue nel processo penale si presenta con una percezione più articolata delle sue reali implicazioni. L’interesse verso le reciproche interferenze tra lingua e diritto si sviluppa e si intensifica perché l’elemento linguistico interagisce con lo ius positum: la lingua assolve infatti al ruolo di qualificare e condizionare il funzionamento di ogni regola normativa ma ne costituisce anche oggetto di disciplina, al pari di ogni altra attività

umana che abbia un interesse collettivo. La capacità della lingua di esplicare funzioni descrittive e

prescrittive attraverso l'uso di segni scritti e orali fa sì che essa diventi lo strumento attraverso il quale la volontà legislativa si manifesta all’esterno, regolando il comportamento umano senza bisogno della continua “coazione materiale”4.

In un saggio memorabile di trent’anni fa, 5 in cui si

proponeva di fare ordine sul problema della scienza del diritto rifacendosi proprio ai principi dell’analisi del

3K.OLIVECRONA, Linguaggio giuridico e realtà, in Diritto e analisi del

linguaggio, a cura di U.Scarpelli, Milano, 1976, p.283 ss.

4Riprendiamo così le osservazioni di F.CARNELUTTI, Diritto e parola, in

Scritti in onore di A.Asquini, vol.I, Padova, 1965, p.188. Sul punto giova ricordare altresì M.CORTELLAZZO, Lingua e Diritto in Italia, in AA.VV.,

La lingua de diritto, Milano,1966,p.36,secondo il quale “il diritto non usa la lingua, ma è fatto di lingua.”

5N.BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Diritto e

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linguaggio, Bobbio sottolinea come ogni scienza abbia inizio con la formazione di un linguaggio scientifico, di quel linguaggio che fa di una conoscenza puramente soggettiva una conoscenza intersoggettiva, come avviene, ad esempio, nelle matematiche.6 .Certo la giurisprudenza non studia

fenomeni e non può quindi usufruire degli statuti epistemologici codificati per le scienze esatte o naturali, essa studia infatti proposizioni normative, ”regole di comportamento futuro e non rappresentazioni di un evento assoluto” che “non hanno una verità empirica ma puramente ideale, cioè la loro verità non consiste nella loro verificabilità ma nella corrispondenza a certi principi etici accolti come criteri regolatori delle azioni in una determinata società7”. Il riferimento a principi etici come

criteri di verità induce quasi a pensare alla esistenza di un quadro di riferimento etico entro il quale il legislatore è legittimato ad esercitare la sua funzione ricevendo una qualche forma di autorizzazione preliminare attraverso la quale si legittima la sua stessa opera.

Tali affermazioni creano le basi per un dibattito che coinvolge la concreta prassi applicativa della norma giuridica. Il diritto infatti non ha a che fare solo con la politica e la morale, ma, come ben sostenuto da Habermas8

con la vita stessa e non sempre questa si riconosce in principi etici fondanti la verità, né sempre si esplica all’interno di una società determinata, né sempre si

6N.BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, cit.,p.301 7N.BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, cit.,p.305

8Ancor di grande interesse J.HABERMAS, Morale, diritto, politica,

Torino, 1992, pp.54-56: ”Insomma Max Weber aveva ragione: solo

tutelando una razionalità intrinseca al diritto in quanto tale si può garantire l’indipendenza del sistema giuridico. Tuttavia, giacchè il diritto è collegato interamente sia alla politica sia alla morale, la razionalità del diritto non sarà mai faccenda esclusiva del diritto”.

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esprime in una lingua su cui sia possibile applicare un’analisi logica…

Nel caso concreto dell’uso delle lingue nel processo penale, il diritto non ha a che fare più con definiti principi etici posti come criteri univoci di comportamento entro una data società, né la lingua con un fenomeno oggettivabile mediante i criteri dell’analisi logica, ci troviamo invece di fronte a vite che si incontrano e scontrano, principi e verità diverse, realtà determinate tra loro lontane e non omologabili sulla base di quei criteri di verità posti all’apice della formulazione del diritto nel momento della legislazione.

• PARAGRAFO II : IL RUOLO DELL’INTERPRETE E LE DIFFICOLTA’ INTRINSECHE DEL TRADURRE

Quando le persone parlano, quello che esse dicono può essere o non essere compreso in modo appropriato da coloro che le ascoltano. L’incomprensione è spesso provocata da una barriera linguistica che impedisce a persone parlanti lingue diverse e provenienti da culture diverse di comunicare tra loro in modo efficace.

La storia racconta che nel 1535 Jacques Cartier 9

rivendicò come francese l’intera area intorno al fiume Saint Lawrence in Canada. Immediatamente si rese conto della necessità di comunicare con la popolazione nativa di quelle terre, gli indiani irochesi, così da poter stabilire con

9Morris R.(1999),The face of Justice: Historical Aspects of Court

interpreting(http//www.ruth-morrisinfo/wp- content/uploads/2010/03/historical-aspects-of-court-interpretingFINAL.pdf)

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essi legami commerciali. Per far fronte a queste necessità, Cartier decise quindi di rapire due indiani, di portarli in Francia affinché imparassero la lingua e tornassero poi in Canada per fungere da interpreti. I Francesi si aspettavano che i due indiani si mostrassero leali verso la Francia, ma così non fu, e alla prima occasione, in cui gli interessi dei due popoli si trovarono in conflitto, i due Irochesi non esitarono a prendere le parti del proprio popolo che comprendano le idee espresse da altri. L’attività interpretativa si snoda quindi simultaneamente tra l’ambito linguistico e quello della comunicazione, all’interno dei quali l’interprete deve sapersi destreggiare con abilità, essendo spesso l’unico canale di comprensione e comunicazione tra due o più interlocutori.

Ogni volta che lo scambio comunicativo viene impedito dalla mancata condivisione della stessa lingua diventa

evidente la necessità di forme di intermediazione. E proprio a seguito dei mutamenti a cui l’intera umanità ha

assistito nel corso degli ultimi decenni e a cui continua ad assistere giorno dopo giorno – mutamenti sul piano economico, ma anche sociale e demografico – il ruolo degli interpreti si è sempre più definito e specializzato tanto che figure nuove si sono affiancate a quelle più tradizionali quali ad esempio l’interprete di trattativa, quello di comunità in tutte le sue varie declinazioni: interprete giuridico, interprete di tribunale, interprete in ambito medico, etc. Nello specifico settore processuale, l’interpretazione in ambito legale assume fondamentale importanza dal momento che ha come obiettivo quello di garantire a tutte le persone il rispetto di un diritto fondamentale quale il diritto di difesa.

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Come sottolinea Roberts-Smith in un suo contributo sull’interpretazione forense 10 :” un’interpretazione

corretta è fondamentale per la giustizia, poiché la mancata correttezza nell’interpretazione nel contesto di un processo può influire negativamente sull’intero

procedimento”. L’interprete legale non va quindi immaginato come un puro

e semplice traduttore, ma come colui/colei che rende possibile la comunicazione tra due soggetti processuali non in grado, da sole, di interagire tra loro. Una metafora che viene utilizzata abbastanza spesso per riferirsi a quanto avviene all’interno delle aule di tribunale nel corso dei processi, è quella di una battaglia in cui l’arma vincente è rappresentata dalla lingua. Il processo diviene quindi una

sorta di battaglia combattuta a suon di parole. Nel momento in cui, però, una battaglia di questo tipo deve

essere combattuta da qualcuno che non parla o non capisce la lingua usata in aula, quel qualcuno si ritrova a

combattere senza armi a disposizione. È in questi casi che la presenza di un interprete diviene

assolutamente fondamentale consentendo a chi non parla o

conosce la lingua di combattere ad armi pari. La responsabilità dell’interprete è quindi notevole, e il suo

compito per nulla semplice. Il suo scopo è teoricamente quello di rendere un’interpretazione il più accurata possibile di quanto viene detto e di quanto si è voluto intendere all’interno di un’aula di tribunale, ciò significa che nelle migliori condizioni, quello che si tenta di ottenere attraverso l’intervento dell’interprete è una “traduzione equivalente” di quanto pronunciato nella lingua di partenza (la lingua parlata in aula).Per equivalenza non

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s’intende una traduzione letterale, bensì –e questo è uno degli aspetti che rende il lavoro dell’interprete piuttosto complesso – una traduzione sia del contenuto generale del messaggio,sia,aspetto ancora più importante , l’intenzione del parlante. Per quanto nella realtà quotidiana, soprattutto nell’ambito legale, vi sia la tendenza a preferire un’interpretazione il più possibile letterale, la corrispondenza esatta tra due lingue diverse è impossibile. Per questo il compito dell’interprete oscilla dall’essere un semplice e meccanico convertitore di messaggi, all’essere un vero e proprio convertitore di intenzioni e di idee. Per quanto una traduzione perfetta sia praticamente irrealizzabile, gli interpreti sono tenuti a garantire il

massimo livello di accuratezza. Non a caso il codice di procedura penale all’articolo 146

definisce l’attività dell’interprete come un servizio da svolgere “bene e fedelmente”, naturalmente nel limite delle possibilità umane e del livello di equivalenza sul piano sia linguistico che culturale. Bisogna infatti tenere in debita considerazione che a volte una traduzione letterale può addirittura rappresentare un ostacolo alla comunicazione tra le parti coinvolte in un procedimento. Se è quindi praticamente impossibile parlare di traduzione letterale perfetta, un importante aspetto da considerare è che, soprattutto in ambito giuridico, omissioni o aggiunte da parte dell’interprete, divengono spesso necessarie alla corretta comprensione di quanto viene detto all’interno di un’aula di tribunale, e quindi fondamentali a garantire la

comunicazione tra le parti. Al tempo stesso, altro elemento di cui gli interpreti

devono tener conto è la particolarità del linguaggio giuridico e averne una buona conoscenza, così come devono

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necessariamente conoscere il funzionamento del sistema

giuridico e giudiziario. Non occorre ricordare quanto un’interpretazione inesatta

possa risultare dannosa per l’intero procedimento, ma vale la pena ribadire che, in quanto unica persona in grado di comprendere le diverse lingue parlate e le diverse culture coinvolte, l’interprete risulta essere la persona con

maggiore potere all’interno di un procedimento. Quanto alla gestione responsabile di questo potere, essa

viene stabilita e regolata all’interno dei codici di etica professionale che gli interpreti, in quanto professionisti della lingua, sono chiamati a rispettare.

• PARAGRAFO III : LA FIGURA DEL LEGISLATORE E IL FENOMENO DEL PLURALISMO LINGUISTICO

Considerato il ruolo dell’interprete e il suo potere, non bisogna dimenticare - richiamando l’espressione di Scarpelli secondo cui:” ogni espressione linguistica è ben lontana dall’essere uno strumento semplice ed onesto, intorno a cui non c’è troppo da discutere”- che importante diventa anche la figura del legislatore che guida l’interprete agevolandone il lavoro. E lo fa richiamando in causa l’articolo 12 comma 1 delle disposizioni preliminari al codice civile in cui si legge :”Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. In sostanza si risolve il tutto recependo le regole del linguaggio all’interno delle regole giuridiche11, tanto

11 Da alcuni le regole interpretative sono considerate “norme di secondo grado”o “metanorme”.Cosi C.LUZZATI, La vaghezza delle norme,p.111 e,

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che si parla di “interpretazione grammaticale” o

“interpretazione letterale”. Avvicinandoci ad un “approccio” processuale penale del

rapporto legislatore/interprete possiamo tener conto anche del fatto che la lingua interessa l’ordinamento giuridico nella misura in cui il suo uso costituisce una delle tante attività umane da dover regolamentare attraverso la legge. Più chiaramente in questo caso il legislatore è chiamato a disciplinare i numerosi conflitti che insorgono nelle comunità statali, sempre meno linguisticamente unitarie, dove il continuo prodursi di atti giuridici, cioè di fatti imputabili alla volontà umana, impone di far collimare l’aspettativa del dichiarante con quella del destinatario. Al legislatore spetta il compito di dirimere il conflitto, ripartendo variamente il rischio dell’incomprensione linguistica. Tale compito richiederà un impegno normativamente minore in società linguisticamente unitarie in cui tutti, in un modo o nell’altro, fanno uso della stessa lingua e all’interno delle quali non sorgerà alcun problema d’incomprensibilità. Ma sempre più spesso tale omogeneità manca o viene meno a causa dei “movimenti

demografici” che si registrano tra uno Stato e l’altro. Di recente si è intensificata tale mobilità territoriale per

l’aumento dei flussi migratori da imputare alla diffusione e al miglioramento delle comunicazioni ed, in particolar modo, all’intensificarsi delle disparità economiche e demografiche. Questo fa sì che la presenza massiccia degli stranieri finisce per avere delle ricadute sul piano della diffusione dei linguaggi diversi da quello nazionale,

più di recente, L’interprete e il legislatore,Milano,1999,p.73 ss. Vedi sul punto, anche le osservazioni di E.BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici,2 edizione Milano,1971,p.238ss;

F.VIOLA-G.ZACCARIA,Diritto e inerpretazione.Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto,Bari,1999,p.109 ss.

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causando un incremento del fenomeno del “pluralismo linguistico” a fronte del quale il legislatore deve adoperarsi sempre più attivamente per la ricerca di soluzioni normative adatte a ciascuna situazione concreta. Va sottolineato comunque che il fenomeno migratorio non è il solo ad aver determinato una regolamentazione giuridica sull’uso delle lingue.

Molte tra le situazioni di pluralismo linguistico in ambito processuale sono da imputare anche al fenomeno di “sovrapposizione ed incrocio dei gruppi etnici” all’interno di

ciascuna comunità statale. Si pensi infatti a quanto sia frequente riscontrare

all’interno dei confini nazionali la presenza di insediamenti minoritari in cui il legame linguistico, religioso, culturale è cosi forte da portare alla formazione di comunità sociali riconosciute ufficialmente dall’ordinamento statale sia

sotto il profilo politico che giuridico. Nel nostro contesto istituzionale, dai caratteri

abbastanza eterogenei, il legislatore è costretto a far fronte alle diverse situazioni linguistiche che si presentano volta per volta, attribuendo loro maggiore o minore rilievo politico e normativo rispetto alla loro incidenza nell’assetto statale attuando ampie forme di tutela linguistica a favore delle minoranze etniche, senza per questo comprimere la regola generale favorevole alla lingua della maggioranza. Le soluzioni normative adottate per fronteggiare il fenomeno del “pluralismo linguistico” non sono sempre state così tolleranti; anzi, prima di estendere le prospettive di tutela linguistica in favore di soggetti appartenenti a culture etniche minoritarie, il legislatore aveva optato per soluzioni più repressive, frutto delle esasperazioni alle quali aveva condotto

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l’ideologia di tipo nazionalistico all’interno di una forma di

Stato prettamente autoritario. Pensiamo al regime fascista ossessionato dal “mito della

purezza linguistica” e agitato dai moti di avversione e di diffidenza verso le diversità culturali dai quali è scaturito l’obbligo di usare la “lingua della Patria” in tutte le attività giuridicamente rilevanti ,senza considerare le differenze linguistiche dei suoi destinatari ed anzi brandendo in tutto

il territorio nazionale l’uso di lingue straniere 12 .

In seguito ai tragici avvenimenti di questo periodo la politica legislativa in materia di impiego della lingua italiana è mutata progressivamente di pari passo con i mutamenti storici, sino all’attuale apertura del sistema politico e normativo verso il riconoscimento di ampie forme di tutela nei confronti delle culture linguistiche diverse da quella nazionale e , non meno importante, di protezione dei soggetti deboli all’interno dei rapporti con la pubblica amministrazione restando ben saldo il principio dell’obbligatorietà della lingua nazionale, che anche in uno Stato fortemente liberale mantiene un valore assoluto ed

incondizionato. Ovviamente la natura di questo obbligo non si riallaccia a

valutazioni legate al mito della ”purezza linguistica” ma il motivo che ha indotto il nostro legislatore a preservare tale regime per il compimento di tutte le attività giuridiche di diritto pubblico, non ha la sua matrice in

12Il concetto di “Nazione” va distinto da quello di “Stato”; entrambe forme di aggregazione umana, il secondo si caratterizza per la combinazione e la compresenza di quattro elementi fondamentali che valgono a distinguerlo da qualsiasi altro gruppo sociale ,vale a dire l’originarietà dell’ordinamento giuridico, la territorialità, la sovranità e la natura dei fini. Per approfondimenti sul tema v. T.MARTINES, Diritto costituzionale,9° ed.,1988,p.170 ss.; nonché F.CUOCOLO, Forme di stato e di governo ,in Dig. disc. pubbl. vol VI, Torino 1991,p.492 ss., PIZZORUSSO ,Sistemi giuridici comparati,2°ed., Milano 1998,p.189 ss.

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considerazioni di tipo repressivo, piuttosto in considerazioni di ordine pubblico dal momento che nei confronti di attività destinate ad esercitare i loro effetti in modo autoritativo (pensiamo alle sentenze, agli atti amministrativi); o comunque ad atti volti a perseguire un interesse di natura collettiva ,come l’esercizio dei culti o l’insegnamento, il legislatore inevitabilmente deve imporre l’uso di un’unica lingua, quella nazionale, per evitare disordini e difficoltà pratiche quali l’incomprensibilità e l’inefficienza degli apparati pubblici. Ed è proprio sulla scena processuale che emergono i diversi modi di interpretare l’ unità nazionale. Per meglio intendere le esigenze e lo spirito che hanno spinto il legislatore a preferire e realizzare gli attuali modelli processuali è bene soffermarsi anche su considerazioni di carattere storico, dalle quali viene fuori che l’interesse del legislatore processuale verso le tradizioni linguistiche diverse da quella nazionale non è un fenomeno di recente acquisizione ma ha origine in contesti storici e normativi molto lontani dal nostro.

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• PARAGRAFO IV : PROFILI STORICI SULLA COMPARSA DELL’INTERPRETE NEL PROCESSO

PENALE

1.4.1 : L’ESPERIENZA FRANCESE

Per trovare regolamentata dalla legge la figura dell’interprete nel processo penale dobbiamo aspettare il sorgere dell’Europa moderna dove i conflitti intra-europei comportano non solo l’intrecciarsi delle spade ma anche quello delle lingue. Dell’esigenza di un interprete/traduttore troviamo traccia già in un’ordinanza del 1510 quando Luigi XII di Francia, disponeva che affinché :”i testimoni intendano le loro disposizioni, ed i processi fatti contro di loro, gli esami in qualunque materia che sia, saranno fatti in volgare linguaggio del paese dove saranno compilati i detti processi criminali ed esami;

altrimenti non saranno di alcun effetto e valore” 13 .

Si trattava sicuramente del problema delle lingue nel processo penale ma non della prescrizione del ricorso all’interprete, tale norma aveva infatti come obiettivo

quello di eliminare il latino come lingua giuridica. Più tardi, nel 1535, Francesco I perfezionava l’ordinanza

disponendo che i processi dovessero svolgersi in francese ”o per lo meno in volgare del paese”ponendo, anche in questo caso il problema della lingua, ma non quello del rapporto con lo straniero. Su questo problema si interverrà solo successivamente, e più precisamente nel

13 Cfr. F.A.MERLIN ,voce Interprete-Interprète,in Dizionario

Universale.Ossia repertorio ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto.Versione italiana sotto la direzione di F.Carillo,tomo VII,Venezia p.316.

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1670,quando il Re Sole Luigi XIV prescriverà il ricorso all’interprete nel caso in cui l’accusato non intendesse la lingua francese. Tale ordinanza rimase in vigore fino alla fine dell’Ancient Régime in assenza dunque di un codice di procedura penale, che arriverà solo nella fase più sanguinosa della Rivoluzione, al termine del Terrore, con il

codice ”Dei delitti e delle pene” del giurista de Douai. Questo testo prescriveva la nomina, da parte del

presidente del tribunale, di un interprete nel caso di discrepanze linguistiche tra le parti. Il Codice de Douai avrà vigenza breve anche se fu punto di riferimento dei codici successivi come quello italiano del Romagnosi 14 redatto durante l’effimero Regno

Italico(1805-1814),proclamato da Napoleone, in cui quattro articoli nella sezione dedicata all’esame dei testimoni trattano della figura e della funzione dell’interprete. Questo codice venne sostituito, per evitare contraddizioni ed incoerenze, da quello che viene considerato storicamente il primo codice di procedura penale a sé stante, il “Code d’Instruction criminelle” del 1811, qui si prescrive per il presidente, nel caso in cui accusa, testimoni o anche uno di essi non parli la stessa lingua o lo stesso idioma,15 l’obbligo di nominare d’ufficio

14 G.D.ROMAGNOSI (1761-1833),vissuto in un periodo di intensa

trasformazione delle istituzioni e della scienza giuridica, diede contributi importanti alla formazione della moderna scienza del diritto costituzionale, del diritto amministrativo e di quello penale; fu docente a Parma e Pavia; fu chiamato a collaborare con il ministro G.Luosi per la formazione di un codice di procedura penale del Regno Italico proclamato nel 1805 da Napoleone; tra il 1812-14 il Romagnosi diresse il Giornale di giurisprudenza univerale; dopo i moti insurrezionali del 1821 subì un processo che lo privò dell’insegnamento, riducendolo in povertà ed in precarie condizioni di salute per cui continuò a lavorare ma dedicandosi soprattutto a studi filosofici e letterari.

15La distinzione tra lingua ed idioma è presente nel codice ma non

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un interprete a pena della nullità. Questi cenni sommari alle vicende francesi, tra secolo

XVII e XIX, sono importanti in quanto esperienze fondamentali per la storia e la coscienza giuridica europea.

1.4.2: L’ESPERIENZA ITALIANA

Il complicato periodo storico conosciuto come Restaurazione, avviatosi nel 1815 con il Congresso di Vienna e finito nel 1830 in Francia, ebbe come obiettivo quello di ridare un nuovo assetto politico e territoriale all’Europa, per eliminare gli influssi residuali della cultura dell’Illuminismo rivoluzionario. E’ in questa cornice che nel 1819 il Regno delle due Sicilie di Ferdinando I di Borbone promulgava un suo codice di procedura penale in cui due articoli riguardavano l’interprete interlinguistico e

l’interprete di linguaggi segnici assegnato a sordomuti. A questo seguirono quello del Granducato di Parma e

Piacenza e il codice di procedura criminale per gli Stati di Sardegna del Re Carlo Alberto, che dedicava al problema dell’interprete diversi articoli. La novità più evidente riguarda qui la possibilità del ricorso ad un “interprete dell’interprete”; novità comprensibile in un regno dove erano presenti linguaggi molto diversi tra loro:il piemontese, il francese, il sardo barbaricino e infine

l’italiano della lingua processuale.

Dopo che le vicende del 1848 indussero Carlo Alberto ad abdicare, non si sono registrati grossi mutamenti nel rito

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di procedura penale con l’unica novità ,per quanto concerne l’interprete, della prescrizione, a pena di nullità, di registrare non solo le generalità dei testimoni e dei periti ma anche quelle dell’eventuale interprete e la dichiarazione del giuramento da lui prestato. Successivamente,con Regio Decreto del 1865, si è ormai compiuta l’unificazione, il codice di procedura penale degli Stati Sardi diviene, con lievi modifiche, il codice di procedura penale del Regno d’Italia.

Nel periodo intercorso tra il 1860 ed il 1919, l‘Italia si presenta come uno degli Stati europei dotati di maggiore unitarietà linguistica;la lingua adottata negli affari giudiziari del Regno d’Italia è quella nazionale, italiana, anche se non si impedisce il rispetto sia delle tradizioni dei piccoli gruppi alloglotti sparsi sui territori dello stato sia delle lingue parlate dagli stranieri che alimentano l’economia italiana. Le disposizioni contenute nei codici di procedura civile e penale del 1865 ripropongono quella realtà, sebbene non facciano esplicito riferimento

all’obbligo di conoscenza ed uso della lingua italiana. Il codice di rito penale del 1865 regolava la questione

dell’interprete agli articoli 91-92 collocati nell’ambito degli atti di istruzione, ponendo particolare enfasi sulla funzione dell’interprete ”indispensabile” al giudice istruttore dovendo interrogare la persona chiamata al suo esame.16Si proponeva di estendere il ricorso all’interprete

a tutti i casi in cui l’imputato o i testimoni non potessero chiaramente manifestare i loro pensieri o non potessero adeguatamente comprendere le parole loro rivolte. Allo stesso modo il codice di procedura civile all’articolo 212

16F.SALUTO ,sub art.91 ,in Commenti al codice di procedura penale per i

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c.p.c., per assicurare sincerità e verità nel compimento degli atti di istruzione e prestando maggiore attenzione alle posizioni dei soggetti pubblici, imponeva l’obbligo di nomina di un interprete. Si avverte così lo spirito liberale con cui i codici del 1865 si muovono nei confronti delle

tradizioni linguistiche diverse da quella nazionale. Il codice di procedura penale del 1913 oltrepassa il limite

dell’oralità, estendendo, art. 228, il diritto di nomina dell’interprete anche ai casi in cui occorra tradurre una “dichiarazione, un atto o un documento, in lingua straniera,

ovvero in un dialetto non facilmente intellegibile”. Inoltre la disciplina si occupa anche di definire in maniera

rigida i tempi di durata delle attività di traduzione, delinea le ipotesi di ricusazione, di incapacità e di incompatibilità dell’interprete e regola in maniera minuziosa le modalità di conferimento dell’incarico. Ma questo assetto liberale trova un arresto con l’avvento del fascismo in cui il mito della “purezza linguistica” non può che generare una lotta all’uso dei forestierismi in ogni settore e attività della vita pubblica con ripercussioni anche nell’amministrazione della giustizia17. La legislazione

fascista viene inaugurata con r.d.l n.179618 il 15 ottobre

1925, dove in maniera esplicita si definisce l’obbligo di ricorrere esclusivamente alla lingua italiana “in tutti gli affari civili e penali che si trattano negli uffici giudiziari del regno e per i verbali ,le perizie, le requisitorie, le

17 “Non è concepibile che alcun pubblico funzionario, tanto meno magistrato o cancelliere, possa trascrivere atti del proprio ufficio in lingua diversa dall’italiano” asserisce U.DI MARTINO, Commento al nuovo codice di procedura penale,Milano,1932.p.272.

18Rubricato “Obbligo dell’uso della lingua italiana in tutti gli uffici giudiziari del Regno, salve le eccezioni stabilite nei trattati internazionali per la città di Fiume”, in G.U. 27 ottobre 1925,n.250.

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decisioni e tutti gli atti e provvedimenti in genere”(art.1 commi 1 e 3).

La novità di questo codice rispetto ai precedenti risiede non nella obbligatorietà dell’uso della lingua italiana, principio già noto, ma nell’aspetto disciplinare che produce esorbitanti restrizioni. Di fatto anche agli studiosi più vicini al regime tale contesto normativo appare subito eccessivo tanto che ben presto si sviluppa un forte scetticismo e da parte della dottrina e della Corte di cassazione che porta a mitigare l’assolutezza letterale del vincolo linguistico espresso dal r.d.l. del 1925 definendo come “non solo lecito ma desiderabile che ,se il testimone o la parte, non conosce perfettamente l’italiano, parli la sua lingua o il suo dialetto e l’intervento dell’interprete è necessario solo in quanto il giudice o le parti non siano in grado di capirlo da sé19. Tale mitezza interpretativa

emerge anche dalle disposizioni normative che il governo italiano ha dovuto adottare per risolvere ed affrontare le incertezze sull’uso della lingua nei processi instaurati nei territori delle cosiddette nuove province in seguito alla loro annessione al Regno, ricordiamo i territori del Sud-Tirolo e della Serbia ma anche Fiume e Dalmazia. Premesso questo, non possiamo certo dire che la politica linguistica del legislatore fascista nell’amministrazione

19In particolare, una maggiore apertura verso l’uso processuale di linguaggi stranieri è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità consentendo l’ammissibilità al procedimento civile dei documenti redatti in un idioma alieno, con conseguente traduzione a mezzo di perito-interprete. V.,in proposito, C.REGNO, 9 giugno 1930,Soc Laborero c. Klockner,in Foro.it.,1930,p.1095 n.72:”L’art. 1 del D.L. 15 ottobre 1925 non vieta al giudice di tener conto di un documento originariamente redatto in lingua straniera, specialmente quando essa sia, come la francese, di comune conoscenza, ma vieta alle parti di presentare al giudice le proprie deduzioni defensionali in atti e scritture che non siano redatte in lingua italiana”.

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della giustizia sia riuscita a realizzare quelle finalità repressive perseguite nel 1925,dal momento che non poteva eludere quelle esigenze peculiari di chi non abbia un’adeguata conoscenza della lingua usata ufficialmente nel processo penale vuoi per l’appartenenza a culture mistilingue vuoi per il possesso di una cittadinanza diversa. Questa accortezza si ritroverà poi nel Codice di procedura penale del 1930 e di quello civile del 1940, in cui gli articolati non possono non preoccuparsi di affrontare la tematica dell’interprete garantendo la nomina dello stesso nelle ipotesi in cui venga sentita un persona che non conosca la lingua italiana(articoli 122 comma 2 c.p.p. e 326 comma 1 c.p.p.)o si renda necessario tradurre uno scritto da una lingua straniera(articoli 123 c.p.c. e 326 comma 1 c.p.p).

E’ necessario però evidenziare come, anche in un contesto cosi liberale , entrambi i codici di procedura finiscano per risentire del clima politico nel quale sono nati perché introducono rispetto al tema dell’interprete soluzioni contenitive, in quanto il ricorso all’interprete è limitato ai soli casi in cui chi non conosce la lingua italiana “debba essere sentito”(articoli 122 comma 2 c.p.c e 326 comma c.p.p) riferendosi all’interrogatorio, al giuramento della parte, alla deposizione del testimone, alla relazione orale del consulente, e a soli atti scritti non facilmente intellegibili precostituiti al processo(artt. 123 c.p,c e 326 comma 1 c.p.p.), con la conseguenza che alla parte non italoglotta si sottrae il diritto all’assistenza

dell’interprete per le normali esigenze di difesa. Accanto poi a queste misure “contenitive” si sommano

misure “repressive” con il fine di italianizzare le minoranze linguistiche annesse allo Stato italiano che nella pratica

(21)

dei codici si traducono nell’assenza di qualsivoglia forma di tutela delle posizioni linguistiche dei soggetti bilingue

appartenenti alle nuove comunità minoritarie. Una tale posizione di chiusura e di rifiuto, già poco

sostenibile in un regime giuridico ispirato da politiche nazionalistiche lo è ancor meno con le politiche liberali giunte con l’avvento della Repubblica in cui legislatore e giudici si muovono a favore del libero sviluppo della personalità etnico-linguistica e cultura del singolo.

Con un rapido accenno ricordiamo l’articolo 6 della Costituzione che impone di dettare una concreta disciplina a tutela delle minoranze linguistiche: ”La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” direttiva che però non ha trovato adeguata attuazione essendo stata realizzata solo parzialmente attraverso le disposizioni contenute nei singoli statuti regionali e nelle loro norme di attuazione a carattere speciale, differenti tra loro a causa dei diversi principi informatori a cui si sono ispirati.

1.4.3: L’EFFETTIVITA’ DELLE GARANZIE LINGUISTICHE A SEGUITO DELLE RIFORME DEL 1988

Attraverso uno sguardo più attento si nota come nel processo penale si accentua la necessità di assicurare un’effettività delle garanzie linguistiche e l’opera di ricodificazione del 1988 si rivolge principalmente alle figure e ai ruoli processuali, ai rapporti tra le fasi del procedimento, alle modalità di assunzione della prova senza dimenticare comunque le regole che il legislatore

(22)

dedica al delicato tema “dell’uso processuale delle lingue”. Non si tratta di dover risolvere un problema di “difficoltà

di comunicazione interpersonale” quanto di tutelare la posizione del soggetto più “debole” nel processo penale, messa in serio pericolo quando costui non abbia adeguata

conoscenza della lingua del processo. Così il legislatore processuale penale del 1989 affronta il

problema introducendo una disciplina innovativa, offrendo un duplice ordine di garanzie, pur non scalfendo il principio del codice del 1930 dell’ obbligatorietà dell’uso della lingua

nazionale. Da un lato il secondo comma dell’articolo 109 c.p.p.

permette l’instaurarsi di un processo bilingue quando ad essere imputato in un processo penale sia un cittadino italiano appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta, anche se in questo caso è l’appartenenza al gruppo e non l’inadeguata conoscenza della lingua ufficiale del processo a fungere da presupposto per l’applicazione del regime linguistico; dall’altro lato, il codice di rito consente l’uso di linguaggi alieni attraverso la predisposizione di un meccanismo processuale idoneo a ristabilire il disequilibrio che l’appartenenza ad una cultura linguistica diversa da quella italiana può apportare tra i

protagonisti della scena processuale. E’ l’interprete o il traduttore il veicolo di tale

adeguamento e come leggiamo all’’articolo 143 c.p.p. è il ”il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa” a garantire l’imputato straniero contro le difficoltà di una conoscenza incompleta e dell’ignoranza

(23)

Con il termine straniero si indica sia il soggetto che non ha, in base alle disposizioni vigenti, la qualità di cittadino italiano, sia il soggetto apolide, cioè colui che attualmente

non gode di alcuno status civitatis. E considerando, alla luce delle ultime statistiche, la

massiccia presenza di stranieri nei processi penali italiani, l’effettività di garanzie linguistiche nel rito penale non riguarda più una tutela episodica da accordare occasionalmente all’imputato straniero ma assume una valenza immanente.

(24)

CAPITOLO II

L’OBBLIGATORIETA’ DELLA LINGUA

ITALIANA.

• PARAGRAFO I: L’APPROCCIO COSTITUZIONALE:

IL LEGAME TRA INTERPRETE E GIUSTO PROCESSO.

La nostra Carta costituzionale riconosce, all’interno delle dinamiche processuali ed in particolare in quelle di natura penale,il ricorso all’uso di una sola lingua permettendo così quegli scontri verbali al fine di persuadere il giudice

attraverso argomenti in fatto e in diritto. La presenza di questo principio all’interno della Carta

sembrerebbe voler sottolineare che la sola legislazione del codice non sarebbe di per sè sufficiente ad annullare in toto ogni disparità tra chi ha una perfetta padronanza della lingua italiana e chi invece ne è sprovvisto, sia sul piano dell’intervento al processo sia della partecipazione

dell’imputato. Ammettendo di poter tradurre al soggetto alloglotta ogni

atto scritto ed ogni dichiarazione orale,il soggetto in questione continuerebbe a soffrire la propria condizione e si minerebbe,inoltre, la realizzazione di quei diritti minimi grazie ai quali nessun processo può dirsi equo,ragionevole e

giusto. Ecco allora come la Costituzione nella nuova formulazione

(25)

dell’articolo 111 a seguito della legge costituzionale del 23 novembre del 1999, ha elevato a norma superiore dell’ordinamento i principi fondamentali del “giusto processo”,contemplando anche “il diritto all’assistenza dell’interprete”.20

Al primo comma la norma prescrive che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” e al terzo comma ,dopo aver elencato le caratteristiche su cui questo si fonda e cioè parità tra le parti,terzietà ed imparzialità del giudice,ragionevole durata dello stesso e il contraddittorio nella formazione della prova,annovera il diritto della persona accusata di essere “assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua

impiegata nel processo”. Il dibattito intorno all’articolo riformato si è sviluppato su

due posizioni dialetticamente contrapposte, fra chi ne ha accentuato la portata innovativa sottointendendo un disegno costituzionale più ampio inteso a ricostruire un nuovo modello di processo penale dal quale non poteva escludersi la garanzia linguistica; e chi invece ha limitato la portata innovativa dei commi aggiunti all’art. 111 cost. ritenendo che le garanzie introdotte fossero ricomprese nelle norme gia` vigenti, in particolare gli artt. 3, 24, 25, 101, 103, 104 Cost. e in quelle soprannazionali, in particolare l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti

dell’uomo. 21

20 Testo e relativi lavori parlamentari in Guida dir. 2000 n.1,p.7ss;

M.CECCHETTI ,Il principio del giusto processo nel nuovo art.111 della Costituzione. Origini e contenuti normativi generali,in AA.VV.,Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova,a cura di P.Tonini,Padova,2001,p.49 ss.

21 G. COSTANTINO, « Giusto processo » e procedure concorsuali, in Foro. it., 2001, I, c. 3451 ss

(26)

Per Camoglio ad esempio è difficile negare che «almeno una gran parte dei contenuti normativi del nuovo art. 111 costituisca nient’altro che la formale esplicitazione di norme già considerate, in modo pressocché incontestato, di livello costituzionale, perché immediatamente connesse

a disposizioni presenti nella Carta del 1948>>. 22

Di conseguenza,osservando che dal 1948 il testo costituzionale si è soffermato solo sui canoni oggettivi di regolarità della giurisdizione, dall’indipendenza ed imparzialità del giudice all’obbligatorietà dell’azione penale, e non sulle garanzie giurisdizionali individuali, a fronte di questo ampliamento, possiamo ritenere la Costituzione il luogo più adatto per enunciazioni di questo

tipo oppure è più confacente il codice di rito? La curiosità nasce perchè in nessuno Stato europeo il

diritto all’interprete,considerato nella sua individualità, è stato inserito nel contesto delle norme costituzionali23,

di conseguenza la previsione nella Carta appare sovrabbondante perchè ripetitiva di un diritto fondamentale già esistente nel nostro panorama normativo in quanto diretta applicazione del principio sancito dall’articolo 6,paragrafo 2,lett e) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; clausola che inoltre presenta, dal punto di vista descrittivo, un contenuto ben specificato che rende superfluo ogni ulteriore intervento di mediazione

normativa da parte del legislatore ordinario. A sottolineare ancora la scarsa innovatività della

22COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Jus, 2000, p. 335 ss.

23Come invece è accaduto in molte Costituzioni del continente asiatico ed africano,vd art 57 cost. Afghanistan;art 25 Cost. Albania,art 20 Cost.Bahamas e altre

(27)

disposizone è la constatazione secondo la quale la garanzia linguistica potrebbe essere già inclusa nel meno recente articolo 24 comma 2 della Costituzione; dopotutto l’interprete svolge un ruolo eminentemente difensivo nel processo penale tramutando in linguaggio comprensibile il contenuto degli atti processuali indirizzati all’imputato alloglotta. Se cosi non fosse, la sua presenza in udienza

sarebbe meramente fisica. Di qui la considerazione che l’uso della lingua madre sia il

tramite necessario ed indispensabile per l’esercizio del diritto di difesa.24

Secondo la sentenza della Corte Costituzionale n.125 del 1979, è dato pacifico che il disposto dell’articolo 24, secondo comma Cost. ”contiene una norma di carattere generale,intesa a garantire indefettibilmente l’esercizio della difesa in ogni stato e grado di qualunque procedimento giurisdizionale”, e la medesima sentenza richiama proprio i lavori all’Assemblea costituente quando affermò tale fondamentale principio in risposta “degli abusi,delle incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato l’istituto della difesa... si volle con una norma chiara, assoluta, garantirne la presenza e l’esperimento attivo in tutti gli stadi del giudizio davanti a qualunque magistratura.” Ancora la Corte l’anno successivo con sentenza n.188/1980 riservò al legislatore ordinario ”considerate le peculiarità strutturali e funzionali ed i diversi interessi in gioco nei vari stati e gradi del procedimento,di dettare le concrete

24Per considerazioni sul ruolo del diritto all’interprete come presupposto di effettività delle garanzie difensive dell’imputato consultare

P.P.RIVELLO,La struttura,la documentazione e la traduzione delgi atti,Milano 1999,p.228 ss.

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modalità per l’esercizio del diritto,alla condizione che esso venga garantito a tutti su un piano di uguaglianza ed in

forme idonee”. Ed è proprio nel processo penale che questo trova la sua

massima esplicazione, dato che in quest’ambito è preordinato a tutelare beni e valori fondamentali dell’uomo nonchè a maggiormente garantire, anche nell’interesse dell’imputato, l’osservanza di principi dell’ordinamento costituzionale che attengono specificamente alla disciplina del processo medesimo;da questo deriva l’irrinunciabilità

del diritto di difesa. Chiaro è che,come tutti i diritti inviolabili,anche quello di

cui all’articolo 24 Cost. deve essere riconosciuto e garantito ad ogni individuo, a prescindere dalla cittadinanza, perchè “lo straniero, anche irregolarmente soggiornante, gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana, fra i quali il diritto di difesa, il cui esercizio effettivo implica che il destinatario di un provvedimento,variamente restrittivo della libertà di autodeterminazione, sia messo in grado di comprenderne il contenuto e il significato”, così commenta la giurisprudenza nella sentenza della Corte costituzionale n. 198 del 2000 Quando si parla di “diritti fondamentali dell’uomo”, e il diritto di difesa ne è una delle espressioni più incisive,non è attuabile nessuna forma di discriminazione soggettiva.Il rispetto dei diritti umani è stabilito a beneficio di ciascun individuo.E’ il singolo ad essere il diretto referente delle

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persona,straniero,cittadino o apolide che sia 25 .

Ad di là comunque delle obiezioni, l‘inserimento del diritto all’assistenza dell’interprete nell’art 111 Cost. rafforza la tutela linguistica dell’imputato alloglotta soprattutto perchè inserito tra le garanzie riguardanti la formula del “giusto processo”. Di fatto ci troviamo di fronte ad un vero e proprio principio costituzionale che si prende la sua rivincita verso chi per lungo tempo ne ha escluso ogni rilievo sovraordinato,dovendosi ora riconoscergli un ruolo imprescindibile di elemento integrante del processo.

• PARAGRAFO II : LA LINGUA COME REQUISITO

FORMALE NEGLI ATTI DEL PROCESSO.

Il nostro codice di rito penale all’articolo 109 sancisce che: ”Gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana” eccezion fatta , si legge al secondo comma, “per gli appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta” prevedendo in chiusura la sanzione della

nullità per le relative inottemperanze. Così si apre il libro II, dedicato alla disciplina degli atti,

introducendo ,rispetto al codice del 1930, non solo una novità sistematica, ma anche terminologica; ci si discosta di fatto dalla vecchia nomenclatura intitolata “Degli interpreti”, offrendo al lettore una prima regola generale riguardante le modalità linguistiche attraverso le quali ogni atto nel procedimento penale si pone in essere

25 In questo senso, F.CAPOTORTI, Incidenza della condizione di straneiro sui diritti dell’uomo internazionalente protetti,in Studi in onore di G. Sperduti,1984.

(30)

validamente. L’intento del legislatore del 1988 era infatti quello di

costruire un complesso di norme in grado di definire una disciplina omogenea; troviamo norme dedicate a regolare le formalità di tempo e di espressione (artt 109-133;172-176), quelle di documentazione (artt 134-142), di notificazione (artt 148-171) e quelle che dettano le condizioni di validità (artt 177-186). L’osservanza di questi requisiti formali permette ad un “puro e semplice accadimento” di tramutarsi in atto giuridico 26 e non

stupisce come mai il legislatore abbia dedicato, in prima analisi, la sua attenzione proprio al requisito linguistico. Ed è sulla base dell’elemento della volontarietà del comportamento che la dottrina è giunta a distinguere l’atto dal fatto giuridico in senso stretto27, definendolo

come un comportamento destinato a vivere fuori del soggetto che lo compie e appunto per questo deve rivestire una certa “ forma espressiva” per manifestarsi

all’esterno. Si richiede allora di soddisfare la condizione del mezzo

espressivo per integrare lo schema formale di ogni accadimento destinato poi a prodursi nella realtà, senza il

26 “Gli atti processuali ,almeno di regola, non si risolvono in un puro e semplice accadimento. Per l’integrazione dei singoli schemi legislativi, si richiede solitamente, che il relativo comportamento, presenti certe modalità di tempo, di luogo o di forma, e sia tenuto da determinati oggetti” puntualizza G.CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale,3° ed.aa.Milano,1969,p.192.

Per un rinvio all’ulteriore dottrina soffermatasi ad analizzare il profilo formale degli atti si vedano, tra gli altri, G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II. Sez .I Napoli,1934,p330 ss;

A.SANTORO, Manuale di diritto processuale penale,Torino,1954,p.382 ss.; G. SABATINI , Principi di diritto processuale penale italiano, Città di Castello ,1931,p.194 ss.

27Per un approfondito esame delle diverse valenze assunte dalla nozione

di “atto giuridico” si rimanda a P.P.RIVELLO,La struttura,la

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quale l’atto non potrebbe esistere ed apparire almeno nelle sue linee essenziali sulle quali andranno poi ad incastrarsi

tutti gli altri elementi formali. Se ne deduce che è la natura stessa dell’atto ad attribuire

all’aspetto linguistico un posto di particolare importanza nell’ordinamento normativo. Questa idea di forma e di formalità da rispettare è presente in tutti i rami del diritto ma probabilmente è più viva nel diritto processuale, considerato che nel suo evolversi in una sequenza ordinata di atti legati tra di loro, in funzione del provvedimento, presuppone un’uniformità ed un ordine che possono essere garantiti solo attraverso l’individuazione di schemi legislativi entro cui l’atto può e

deve essere eseguito. Ecco allora spiegata la propensione del nostro codice verso

un severo rigore formale28 , che non ha però solo finalità

ordinatoria nè tanto meno il culto per la formalità,ma con questa scelta il legislatore del 1988 vuole rispondere sia ad un’esigenza di natura prettamente politica, in quanto il formalismo diventa strumento di controllo e di contenimento del potere giurisdizionale29, sia di garanzia

ed efficienza del processo e di leale svolgimento

28Diversamente da quanto accade nel codice di procedura civile ove aleggia un canone generale improntato alla libertà delle forme. Enfaticamente-forse perché mosso dalla preoccupazione di evitare un eccessivo formalismo- l’art 121 così sancisce:” Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate possono essere compiuti nella forma più idonea a raggiungimento del loro scopo”. Va ricordato ,tuttavia, che tale prescrizione è stata ritenuta ben lontana dal costituire la regola posto che ben pochi sono gli atti per i quali la legge non prevede specifici requisiti di forma .Da ultimo e per tutti, F.P.LUISO, Diritto processuale civile,2°ed.,vol I,Milano,1999,p.387.

29L’osservazione appartiene a A.DALIA-M.FERRAIOLI,Manuale di diritto

processuale penale,p.369 <...la forma ha una indubbia portata di tutel:attraverso la trascrizione diei fatti in atti procediementali si assicura il controllo sul legale esercizio della funziona giurisdizionale >.

(32)

nell’interesse delle parti coinvolte. Ma non per questo se ne deve denunciare l’eccessivo formalismo perchè è la stessa legge delega del 1987 che opta per la massima semplificazione eliminando ogni atto o attività non

essenziale per il suo svolgimento. Va sottolineato come l’uso obbligatorio della lingua italiana

perde la sua valenza assoluta nel momento in cui protagonista delle vicende processuali è un soggetto appartenente alle minoranze linguistiche riconosciute, al quale, per effetto del secondo comma della suddetta norma, è concesso di usare la propria lingua nel corso dell’esame o dell’interrogatorio e di ricevere nella stessa gli atti e i verbali a lui indirizzati. Ma al di fuori di tale eccezione di natura costituzionale (art 6 costituzione)

rimane il vincolo glottologico. Alla luce di ciò sembrerebbe che il mantenimento

nell’attuale codice del principio di obbligatorietà della lingua nazionale sembri voler rispondere ad esigenze di stampo nazionalistico, come se l ‘articolo 109 cpp fosse il frutto di un’impostazione votata al mito della “purezza

linguistica” al pari dell’abrogato articolo 137 cpp del 1930. Ma ricordando quanto detto in precedenza, sul ruolo

primario svolto dalla regola linguistica come primo ed indefettibile elemento costitutivo del modello formale dell’atto, l’obbligo della lingua altro non è invece che il bisogno di ordine e di certezza del processo penale garantendo in questo modo anche il corretto svolgimento dell’iter procedimentale. Dimostrazione ne è il fatto che anche in un contesto politico profondamente diverso, liberale ed aperto ad ampie forme di tutela, l’idioma italico continua ad assumere una portata incondizionata vincolando tutti i

(33)

protagonisti della vicenda giudiziaria a farne uso sempre, in ogni procedimento penale che si celebri sul territorio nazionale, e per tutte le relative attività processuali, a meno che i soggetti alloglotti non conoscano la lingua italiana. In questi casi infatti vengono in soccorso gli articoli 143 ss del cpp , ammettendo l’ausilio di un interprete senza ostacolare il vincolo di esclusività della lingua nazionale.

Nei confronti degli imputati alloglotti si registra l’esigenza di salvaguardare il diritto di difesa giudiziaria che

altrimenti verrebbe compromessa. Quindi l’articolo 109 cpp risponde al bisogno “pratico” che

il rito penale risulti comprensibile tanto all’interno ,in funzione delle esigenze di comprensibilità linguistica di tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria, quanto

all’esterno, stante il carattere della sua pubblicità. Si delinea in questo modo un interesse collettivo all’uso

della lingua ufficiale di cui è titolare l’intera collettività avendo diritto a seguire –intendendone il senso- tutto ciò

che si svolge sulla scena processuale. Visto così, l’impiego comune di una medesima lingua assolve

all’ ulteriore ruolo di valido supporto al principio di

pubblicità processuale. 30

Sull’argomento è intervenuto il Giudice delle Leggi con una sentenza 31 , ormai risalente ma significativa per la

30Sull’argomento v. le puntualizzazioni di M.CHIAVARIO, Garanzie

linguistiche nel processo penale ed escamotages riduttivi, in Riv.it.dir.proc.pen.,1973,p.898,ove “ si delinea un (più che ovvio) interesse collettivo all’uso di una lingua ufficiale, comune ad ogni tipo d processo; in altri termini, all’impiego ,in via di principio obbligatorio i tutti i processi da celebrarsi nel territorio nazionale, di una medesima lingua, la cui conoscenza…valga a dare un solido supporto al principio di pubblicità processuale”

31 Cfr Corte Costituzionale,11 febbraio 1982,n.28, con la quale si dichiarò infondata, in riferimento agli artt. 3 e 6 Cost., la questione di legittimità

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chiarezza concettuale, con cui affronta il tema, nella quale si giudica pienamente conforme ai dettami costituzionali il principio di obbligatorietà del ricorso alla lingua italiana per il compimento degli atti processuali penali, effettuando anche un doveroso contemperamento della regola in favore dei membri dei gruppi etnici minoritari

insediati sul territorio. Contemperamento che è sfociato nella successiva

redazione del secondo comma dell’articolo 109 c.p.p. ma che non attenua il valore cogente della regola generale,anzi riesce a coniugare due opposte esigenze ,nessuna delle quali può dirsi priva di pari dignità: da un lato quella di omogeneità linguistica del processo, dall’altro, quella di protezione dei gruppi minoritari che ad esso prendono parte.

costituzionale dell’art. 137 comma 1 c.p.p. 1930 laddove prescriveva che tutti gli atti del procedimento penale fossero compiuti nella sola lingua italiana, a pena di nullità. Il giudizio di legittimità, sollevato dal tribunale di Trieste, verte sulla presunta disparità di trattamento tra gli appartenenti alla minoranza di lingua slovena della Regione Friuli-Venezia Giulia e gli appartenenti alle minoranze del Trentino Alto Adige e della Valle d’Aosta, ai quali è consentito di fare uso della propria lingua nei procedimenti giudiziari in base a specifiche normative statuarie. Ma la Corte costituzionale ha ricordato che ,sebbene l’italiano sia l’unica lingua ufficiale dello Stato da usarsi obbligatoriamente in ogni processo, devono ammettersi deroghe a tutela di quei processi linguistici minoritari riconosciuti e presenti sul territorio italiano così da dare attuazione all’art.6 Cost. Nel caso specifico, in riferimento alla minoranza di lingua slovena va accordata una deroga al principio di obbligatorietà all’uso processuale della lingua italiana anche per siffatto gruppo linguistico. Pertanto, così interpretata, l’eccezione di incostituzionalità risulta infondata. In dottrina v. S.BARTOLE, Gli sloveni nel processo penale a Trieste, in Giur.cost,1982,I,p.247 ss. PALICI di SUNI, Corte costituzionale e minoranze linguistiche: la sentenza n.28 del 1982 fra tradizione e innovazione, in Giur.cost.,1982,I,p.808 ss.

(35)

• PARARAFO III: L’AMBITO DI OPERATIVITA’ DELL’ARTICOLO 109 C.P.P.

Per poter definire e chiarire la portata normativa del primo comma dell’art 109 cpp sarebbe utile individuare gli estremi temporali entro cui collocare il procedimento penale, dal momento che non si può pensare che si voglia limitare l’inviolabilità dei diritti difensivi dell’imputato alla sola fase dell’attività giurisdizionale e non invece anche

alla fase di espletamento delle indagini preliminari32.

Considerando che il momento finale del procedimento penale è facilmente individuabile perchè coincidente con il

dies ad quem della fase processuale, indipendentemente dalla varie interpretazioni che lo individuano o nel passaggio in giudicato della sentenza o nella fase dell’esecuzione della stessa, l’attenzione si sposta sul momento da cui il procedimento trae origine perchè non coincidente con il dies a quo del processo, in quanto questo trova la sua collocazione in una fase più avanzata quale

quella dell’instaurazione dell’azione penale. Allora quale, tra i tanti atti di indagine, è il primo atto del

procedimento penale su cui il vincolo linguistico comincia

ad esercitare la sua azione cogente? A prima vista, la risposta sembrerebbe condurci sul

momento formalmente più importante di tutta la fase investigativa, ossia l’iscrizione della notizia di reato nel relativo registro, articolo 335 c.p.p., essendo questo il dies

32 Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da G.LOZZI, Lezioni d

procedura penale, cit. p.140 ss e P.P. RIVELLO, La struttura, la documentazione e la traduzione degli atti,cit.,p.18.

(36)

a quo dal quale decorrono i termini per tutta una serie di atti33.

Accogliendo tale risposta si sottrarrebbero al regime formale tutta una serie di atti investigativi che sono invece precedenti al momento dell’iscrizione della notizia di reato, quali quelli compiuti dalla polizia giudiziaria dopo aver assunto la notitia cirminis e prima che il pubblico ministero sia intervenuto ad impartire direttive per lo

svolgimento delle indagini. Basti pensare all’identificazione della persona nei cui

confronti vengono svolte le indagini (art 349 c.p.p.), alle sommarie informazioni dell’indagato (350 c.p.p.) e alle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle investigazioni (art.351 c.p.p.), al sequestro del corpo del

reato e delle cose ad esso pertinenti (art354 c.p.p.)34.

Atti di cui si pretende il compimento in lingua italiana dal momento che finiscono per essere usati spesso in sede processuale come materiale probatorio su cui si va poi a

formare il convincimento giudiziale 35 .

Se, allora, il primo atto del procedimento penale esclude l’attività posta in essere dalla polizia giudiziaria in seguito

33Da questo momento decorrono i termini di durata delle indagini preliminari(art 405.2 cpp),i 15 giorni nei quali deve essere aperto il dibattimento con il rito direttissimo,su confessione dell’interrogato(art 449.5 cpp),i 6 mesi concessi alla richiesta diel decreto penale di condanna (art 459.1 cpp)

34Parliamo, naturalmente, delle funzioni demandate alla polizia giudiziaria successivamente alla comunicazione della notizia di reato e prima che il pubblico ministero abbia impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini secondo il disposto dell’art. 55 c.p.p.; funzioni volte ad impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, a ricercarne gli autori, a compiere gli atti necessari ad assicurare le fonti di prova e quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale.

35È questo il senso fatto proprio dalla Corte Cost.,5 luglio 1968,n.86,in Giur. Cost.,1968,p.1430 ss., con nota di P.MILETTO, Diritto di difesa e preistruttoria penale, chiamata ad affrontare il problema dell’applicabilità del diritto di difesa anche agli atti di indagine della polizia gudiziaria.

(37)

alla ricezione della notizia di reato, e se prima della stessa non è immaginabile alcuna attività processuale, l’identificazione del primo atto del procedimento penale si incentra sulla notitia criminis, o meglio, su quegli atti mediante i quali la stessa viene portata a conoscenza del pubblico ministero o della polizia giudiziaria : ci riferiamo

alla denuncia, al referto, alla querela e all’istanza. Sono questi i primi atti del procedimento e su questi

incombe il vincolo glottologico? La dottrina espressasi sotto la vigenza dell’abrogato

codice, offriva opinioni discordanti che oscillavano a seconda della nozione più o meno ampia che si dava del

concetto di “processualità” dell’atto. Se si definiva processuale ogni atto capace di provocare

effetti giuridici di rilevanza processuale penale allora la

notitia criminis poteva essere inclusa nella categoria degli atti del procedimento penale in quanto generatrice del procedimento; se si richiedeva altresì che l’atto fosse compiuto nel contesto del processo penale e posto in essere solo dai protagonisti -pubblici o privati - dell’accertamento, si giungeva a considerare la denuncia, la querela, il referto e l’istanza, atti estranei alla vicenda

giudiziaria. 36

36In questa prospettiva O.VANNONI-G.COCCIARDI,Manuale di diritto

processuale penale italiano, cit. p.167, differenziano gli atti processuali in senso stretto dagli atti processuali in senso lato. I primi sono posti in essere da un soggetto del rapporto giuridico processuale penale ,i secondi invece sono atti dell’uomo(anche se non rivestente tale qualità) aventi nei riguardi del procedimento penale giuridica rilevanza per essere compiuti per i fini tipici dell’accertamento penale ,v. in argomento,

L.BRESCIANI, voce Denuncia e rapporto, in

Dig.disc.penale.,cit.,vol.III,1989,p.391 ss. Più di recente tale impostazione è stata ripresa da G.P. VOENA,Atti,cit.,pag.155 :” Sul piano soggettivo, sono tali quelli posti in essere dai soggetti del procedimento.Pertanto, anche i soggetti privati-e non solo quelli pubblici-realizzano atti processuali: si pensi alla proposizione di impugnazione

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