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Il Web 2.0 nelle biblioteche delle università

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea

magistrale

in Storia e gestione del

patrimonio archivistico

e bibliografico

Tesi di Laurea

Il Web 2.0 nelle

biblioteche delle

università

Relatore

Prof. Riccardo Ridi

Laureando

Gabriele Conte Matricola 865868

Anno Accademico

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Indice

Introduzione ... 1

1. Le biblioteche delle università ... 9

1.1. Le tre funzioni dell‟Università ... 9

1.2. Cenni storici sulle biblioteche delle università italiane ... 14

1.3. Cosa sono le biblioteche delle università? ... 29

2. Il Web 2.0 ... 37

2.1. Origini e caratteristiche generali del Web 2.0 ... 37

2.2. Criticità e punti di forza del Web 2.0 ... 46

2.3. Gli strumenti del Web 2.0 ... 58

2.3.1. I Blog ... 58

2.3.2. I Wiki ... 63

2.3.3. Le Folksonomie ... 66

2.3.4. I Social Network ... 69

2.3.5. I siti di Media Sharing ... 71

2.3.6. I feed RSS ... 72

3. Gli strumenti del Web 2.0 nelle biblioteche delle università ... 73

3.1. L‟impiego di strumenti del Web 2.0 all‟interno delle biblioteche delle università .. 73

3.1.1. I Blog nelle biblioteche delle università ... 75

3.1.2. I Wiki nelle biblioteche delle università ... 88

3.1.3. I Social Network nelle biblioteche delle università ... 93

3.1.4. Altri strumenti del Web 2.0 nelle biblioteche delle università ... 105

3.2. L‟integrazione tra strumenti Web 2.0 e “1.0” ... 110

4. Come stanno cambiando le biblioteche delle università? ... 123

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Indice delle figure

Grafico 1 - Blog raggiungibili - non raggiungibili ... 77

Grafico 2 - Blog raggiungibili: "attivi" - "non attivi" ... 78

Grafico 3 - Frequenza di pubblicazione media annuale dei 10 Blog "Attivi" ... 79

Grafico 4 - Frequenza di pubblicazione media annuale dei 22 Blog "Non attivi" ... 81

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Introduzione

All‟interno di questo elaborato ho indagato in che modo vengono impiegati gli strumenti del Web 2.0 all‟interno delle biblioteche delle università, con particolare attenzione per quelle italiane. Per poter affrontare esaurientemente l‟argomento, si è reso necessario partire dalla definizione dei due argomenti principali, presi in considerazione singolarmente, ovvero le biblioteche delle università prima e il Web 2.0 in un secondo momento.

Le biblioteche delle università italiane sono organi dipendenti in tutto e per tutto dalle università di cui fanno parte, in quanto nate e cresciute all‟interno di esse; dovrebbero pertanto essere regolate dagli statuti delle università. Esse non devono essere confuse con le biblioteche universitarie, che sono biblioteche pubbliche statali, dipendenti dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. La funzione fondante delle biblioteche delle università è quella di offrire il proprio supporto all‟istituzione universitaria nel perseguimento delle sue tre missioni, ovvero quella della didattica, della ricerca e la terza missione, quella socio-culturale. Le biblioteche forniscono il loro supporto a ciascuna di queste missioni universitarie e ne aggiungono una quarta, indispensabile all‟adempimento delle altre. Trattasi della cosiddetta quarta missione, ovvero la fornitura allo staff bibliotecario e agli organi amministrativi dell‟istituzione universitaria degli strumenti necessari all‟esercizio delle proprie attività e al proprio aggiornamento professionale.

Il Web 2.0 è invece il modo in cui è stata denominata l‟evoluzione in chiave sociale del Web. Tale evoluzione è stata possibile grazie all‟aumento esponenziale della partecipazione degli utenti. In questo modo le dinamiche sociali venutesi ad instaurare tra gli utenti all‟interno del Web hanno assunto sempre maggior rilevanza a discapito degli aspetti tecnologici. Dalla nascita del Web 2.0 è scaturito un forte dibattito, molto polarizzato su due posizioni: chi riteneva l‟evoluzione del Web in Web 2.0 una rivoluzione e chi una trovata di puro marketing. Da un punto di vista tecnologico parlare di rivoluzione non ha molto senso, infatti la maggioranza dei programmi e delle funzioni che hanno fatto la loro fortuna sotto l‟egida del Web 2.0 esisteva già prima dell‟invenzione di esso. Ma è innegabile che un cambiamento, anche da questo punto di vista, ci sia stato. Sono state infatti alcune migliorie, anche tecnologiche, ad aver permesso una sempre maggior

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partecipazione degli utenti alla vita sul Web, mettendoli nelle condizioni di poter creare contenuti facilmente, senza la necessità di conoscenze informatiche avanzate e soprattutto abbattendo per loro gli elevati costi relativi all‟acquisto di software, dato che le risorse vengono dislocate direttamente sul Web. In questo modo non si parla più di programmi, ma di piattaforme, la cui gestione della parte tecnologica rimane nelle mani del produttore stesso della risorsa (la cosiddetta modalità di lavoro in cloud computing), mentre all‟utente non resta che creare i propri contenuti all‟interno di esse (gli user generated content, UGC). Gli utenti e il traffico di dati da loro generati divengono in questo modo centrali per il Web 2.0, contribuendo alla sua crescita e rappresentando in fondo il vero cambiamento e la vera ricchezza dei suoi strumenti.

Anche l‟avanzamento tecnologico viene condizionato dagli utenti, poiché i software resi disponibili direttamente sul Web, non hanno bisogno delle tradizionali fasi di produzione (fase alpha, fase beta e release), ma vengono rilasciati ancora parzialmente incompiuti, in uno stato di “beta perpetuo”. La direzione nello sviluppo di tali applicativi pertanto viene intrapresa in relazione all‟utilizzo che ne fa l‟utenza.

Ciò che viene spacciato come rivoluzionario (e che invece è probabilmente la fonte dei maggiori problemi legati al Web 2.0) è il nuovo modo in cui viene stabilito quali sono le cose importanti all‟interno del Web. Questo processo è definito “la saggezza delle folle” (wisdom of crowds) o “intelligenza collettiva” (swarm intelligence) e il vero problema si presenta quando questo metodo di valutazione viene applicato all‟universo informativo, in contrapposizione ai tradizionali meccanismi di validazione dell‟informazione perpetrati dai vecchi media considerati “calati dall‟alto”, elitari e perciò da rifiutare. La swarm intelligence, grazie a specifici strumenti come i link reciproci e le folksonomie, dovrebbe garantire che tutto ciò che è importante nel Web emerga e, al contrario, che ciò che non lo è si perda nei meandri più remoti della rete. Con l‟eliminazione degli intermediari dell‟informazione però e a causa della mancanza di capacità di valutare e utilizzare correttamente le fonti sia on che off line (la cosiddetta information literacy) tra la popolazione, il rischio è che i cittadini non sappiano più riconoscere ciò che è vero da ciò che è falso, dando spazio alla nascita di estremismi e alla circolazione di fake news (cosa che sta effettivamente accadendo ai giorni nostri). La swarm intelligence è anche ciò che sta alla base del funzionamento della blogosfera, con i problemi che ne derivano, mentre altri strumenti del Web 2.0 sono dominati da altre dinamiche, con meccanismi di validazione e valutazione delle informazioni e degli Ugc più affidabili (come i Wiki).

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Tra gli strumenti più diffusi del Web 2.0 ci sono i Blog, i Wiki, i Social Network, le Folksonomie e i Siti di Media Sharing. Tutti questi strumenti traggono la loro ragion d‟essere dalla partecipazione degli utenti, sia diretta, attraverso gli Ugc da loro prodotti e le informazioni che spontaneamente e più o meno consapevolmente condividono sulle piattaforme, sia indiretta, attraverso i dati che forniscono ai gestori delle piattaforme attraverso il loro comportamento online (a partire dai dispositivi attraverso i quali accedono ad Internet e dal luogo da cui effettuano la connessione). Senza gli utenti o in presenza di una loro partecipazione insufficiente, tali strumenti del Web 2.0 perdono di potenzialità, dal momento che sono stati creati proprio per permettere la connessione tra le persone e aggregare così grandi quantità di dati. Senza utenti né dati essi risultano pressoché privi di scopo.

Dopo aver trattato i due elementi coinvolti sono passato ad analizzare il cuore della questione, ovvero l‟impiego che viene fatto degli strumenti del Web 2.0 all‟interno delle biblioteche delle università. In queste ultime l‟utenza è divenuta sempre più remota a causa della maggior diffusione dei servizi digitali e alla possibilità di accedere ad un numero crescente di risorse elettroniche direttamente da casa o in mobilità. Il problema principale non è solo che le biblioteche, intese come luogo fisico, vengono disertate, ma anche che si è sempre più diffusa sul Web la tendenza ad effettuare ricerche bibliografiche senza l‟ausilio degli strumenti classici della biblioteca accademica, direttamente a partire da motori di ricerca non specializzati come Google e altri. In questo modo la disintermediazione dell‟informazione è diventata un problema sentito anche per le biblioteche delle università. La loro reazione si è realizzata attraverso l‟incremento dell‟offerta di corsi di formazione riguardanti l‟information literacy e l‟utilizzo massiccio dei vari strumenti di comunicazione offerti dalla rete, tra cui quelli del Web 2.0. Nello specifico, gli strumenti del Web 2.0 più diffusi tra le biblioteche delle università sono i Blog, i Wiki e i Social Network.

I Blog vengono utilizzati soprattutto per la promozione dei servizi e delle nuove acquisizioni, meno invece per l‟istruzione dell‟utenza. Non viene però sfruttato a pieno il potenziale di questo strumento, ovvero quello di coinvolgere gli utenti nella “conversazione” (punto cardine della filosofia del Web 2.0) con la biblioteca stessa, attraverso l‟utilizzo dei commenti, per creare attorno all‟istituzione una vera e propria community. La partecipazione infatti risulta molto scarsa stando alle indagini riportate nella letteratura (e quella condotta da noi stessi ce ne ha dato conferma). Ciò potrebbe

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essere causato dalla mancata riflessione e progettazione preventiva all‟apertura di un blog, che essendo semplice e gratuita, viene intrapresa più per inseguire la moda del momento che per un ben definito scopo. In presenza di una partecipazione scarsa o addirittura inesistente da parte degli utenti, il blog rischia di essere solamente una replica del sito web della biblioteca accademica, ovvero un normale strumento di comunicazione monodirezionale, “dall‟alto verso il basso”.

I Wiki sono gli strumenti che meglio si prestano alla libera circolazione delle idee e pertanto a favorire la conversazione delle biblioteche con gli utenti. In linea con il Web 2.0, si tratta di strumenti molto semplici da utilizzare. Naturalmente, essendo il wiki uno strumento aperto al contributo di tutti, è necessario studiare una strategia per la validazione e la valutazione dei contenuti pubblicati al suo interno. In alcune biblioteche accademiche italiane si è optato per lo sfruttamento del wiki più famoso al mondo, ovvero Wikipedia. Su questa scelta si è aperto un dibattito tra gli addetti ai lavori, cristallizzato su due posizioni: Wikipedia deve essere utilizzato per promuovere la biblioteca, il suo patrimonio e i suoi servizi (e quindi per “portare la biblioteca su Wikipedia”) oppure come strumento per migliorare le competenze informative degli studenti (e quindi “portare Wikipedia in biblioteca”)? Questa seconda posizione, la più interessante ai fini del nostro discorso, è quella che permette di sfruttare al meglio le potenzialità del Web 2.0. Un wiki può essere utilizzato infatti per creare un ambiente di apprendimento, un ambiente in cui gli utenti stessi possano creare un circolo virtuoso di conoscenza grazie alla loro interazione.

Il Social Network è lo strumento più adatto per stabilire delle relazioni con gli utenti. È importante per altro, che la relazione iniziata tramite il profilo social della biblioteca, continui su quel canale, evitando di indirizzare l‟utente verso altri strumenti. Così facendo infatti, si rischierebbe di allontanare l‟utente che, dal canto suo, ha fatto uno sforzo di avvicinamento nei confronti dell‟istituzione bibliotecaria. Oltre a stabilire relazioni, il profilo social può essere utilizzato per diversi altri scopi, tra cui la promozione dei servizi, il servizio di reference a distanza, per fornire la possibilità agli utenti di pubblicare sul profilo della biblioteca contenuti che ritengono di interesse per la comunità. In generale l‟utilità principale dei social network – che si cela in realtà dietro a tutti gli strumenti del Web 2.0 – è la possibilità di creare una community intorno alla biblioteca accademica (come già accennato per i blog).

Più in generale si può dire che è fondamentale che qualsiasi strumento le biblioteche delle università decidano di adoperare, tale scelta non dev‟essere il frutto dell‟iniziativa

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personale di un singolo bibliotecario (come spesso accade, invece). È necessario al contrario stabilire con anticipo un progetto ben chiaro e strutturato, in cui coinvolgere tutto il personale della biblioteca, in modo che tale esperienza non cada nel “nulla di fatto” dopo un goffo tentativo andato a vuoto. Un altro aspetto fondamentale è che la comunicazione e quindi il genere di interazione che si instaura con gli utenti sia diversa rispetto a quella ottenuta attraverso il sito istituzionale della biblioteca. Sarebbe infatti inutile avere due strumenti differenti per una stessa funzione. Si dovrà pertanto instaurare un dialogo con gli utenti, cercando di ascoltarne le necessità per poter rispondere al meglio ai loro bisogni.

Altri strumenti del Web 2.0 meno diffusi, ma comunque presenti nelle biblioteche delle università italiane, sono il servizio di Social Bookmarking, il servizio di Instant Messaging, i Siti di Media Sharing, le Folksonomie (il più delle volte integrate con altri strumenti), i mondi virtuali, ecc.

Si è verificata inoltre, all‟interno delle biblioteche accademiche, l‟integrazione tra alcuni strumenti del Web 2.0 e altri del Web “1.0” (strumenti cioè con una storia più longeva e non caratterizzati dalle dinamiche di partecipazione tipiche del Web sociale). Naturalmente la stessa cosa è accaduta tra i diversi strumenti del Web 2.0. Collegare uno strumento come il sito web della biblioteca accademica – strumento non 2.0 e percepito come “ufficiale” – agli strumenti del Web 2.0 della medesima, non fa altro che infondere ufficialità anche nei secondi. Come abbiamo già affermato inoltre, è importante che ogni strumento venga sfruttato per le sue specificità (e quindi per perseguire obiettivi differenti) e non in maniera alternativa. Il sito web potrebbe infatti essere utilizzato per le comunicazioni ufficiali e più “stabili”, mentre altri strumenti come per esempio il blog potrebbe essere utilizzato per intavolare delle discussioni con gli utenti su determinati argomenti, mentre un profilo social, come abbiamo detto in precedenza, può essere utile per curare le relazioni con gli utenti e accrescere così la community della biblioteca. Spesso quello che accade invece è che strumenti diversi tra loro vengano impiegati per il medesimo scopo, ovvero quello di fornire comunicazioni all‟utenza, per lo più in maniera unilaterale.

Oltre al sito web della biblioteca accademica, un altro strumento “1.0” che è stato integrato con elementi partecipativi è il catalogo online, l’Opac. Innanzitutto si è semplificata molto l‟interfaccia di ricerca, in ottica 2.0; inoltre è stata inserita la possibilità di passare direttamente da una risorsa all‟altra anche da dentro a fuori al catalogo, grazie all‟utilizzo delle API . L‟integrazione con maggiori elementi di socialità potrebbe portare

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ad un incremento dell‟interazione da parte degli utenti, arrivando a concretizzare la trasformazione degli Opac in Social Opac (o Sopac), cosa che in Italia sembra lontana dall‟essere realizzata. Quello che possiamo osservare invece, oltra alla “portalizzazione” degli Opac che abbiamo descritto, è la loro integrazione all‟interno dei profili social delle biblioteche accademiche, in piattaforme come Facebook e aNobii.

Mi sono infine concentrato sui cambiamenti che hanno interessato le biblioteche delle università italiane conseguentemente all‟evoluzione dell‟universo informativo e all‟introduzione degli strumenti del Web 2.0 e dell‟ideologia open.

Tra questi cambiamenti possiamo enumerare senz‟altro il mutato ruolo dell‟utente all‟interno della biblioteca, divenuto centrale (lo user centered change). Con quest‟ultimo la biblioteca dovrà instaurare un dialogo, soprattutto attraverso gli strumenti del Web 2.0, per comprenderne appieno i bisogni e cercare pertanto di intercettarli. Questo nuovo metodo di intendere il rapporto con gli utenti è denominato “approccio partecipativo”.

Anche il modo di concepire gli spazi fisici della biblioteca accademica ha subito un cambiamento. Considerati sempre meno fondamentali difatti, a causa dell‟utenza sempre più remota, vengono rimodellati per favorire l‟affiancamento tra spazi dedicati allo studio individuale e silenzioso e spazi dedicati alla socialità, al lavoro collaborativo e alla “lettura digitale”. Anche gli spazi quindi, un tempo costruiti al servizio delle collezioni, ora che queste ultime sono sempre più de-materializzate, vengono pensati in funzione dell‟utente (cambiamento inquadrabile ancora nello user centered change). Gli spazi delle biblioteche delle università divengono inoltre centrali anche per l‟apertura al territorio della biblioteca, realizzata per perseguire il sostegno alla terza missione dell‟Università; trattasi dell‟ennesima conseguenza dell‟utenza istituzionale fattasi più remota: la biblioteca accademica infatti cerca in questo modo di mantenere un ruolo rilevante all‟interno della società.

Tutto ciò implica anche la parziale metamorfosi della funzione della biblioteca accademica, che diventa “facilitatrice dei processi di creazione della conoscenza”, attraverso l‟agevolazione delle conversazioni.

Un‟altra delle strade percorse dalle biblioteche delle università italiane per far fronte all‟evoluzione dell‟universo informativo e all‟allontanamento degli utenti dalle proprie strutture è stata quella dell‟aumento dell‟offerta di risorse elettroniche. Questa risposta però, potrebbe risultare poco vincente, per quanto riguarda il mantenimento di un ruolo rilevante della biblioteca accademica. Infatti l‟utenza, sempre più remota e disintermediata,

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fatica a percepire tali risorse come facenti parte dell‟offerta della biblioteca. Sarebbe invece più opportuno che le biblioteche e i bibliotecari accademici venissero coinvolti maggiormente all‟interno dei processi della formazione, in modo da poter elargire agli studenti (e non solo a loro) l‟information literacy.

Grazie all‟evoluzione tecnologica avvenuta nel nuovo millennio, sono state rese possibili anche iniziative di cooperazione tra diverse biblioteche accademiche e con altre istituzioni. Tali iniziative hanno avuto come obiettivo soprattutto quello di creare dei “portali di accesso unificato ai patrimoni dei diversi attori partecipanti al progetto.

Concludendo, penso di poter dire che le biblioteche delle università italiane sono diventate istituzioni molto più complesse rispetto al passato. Si tratta del resto, di un‟evoluzione che va di pari passo con quella della società. La loro identità è pertanto mutata, divenendo “plurale”.

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1. Le biblioteche delle università

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. Le tre funzioni dell’Università

Ci sembra opportuno iniziare questa trattazione con una frase del filosofo e saggista spagnolo, Ortega y Gasset (Madrid 1883 – ivi 1955), che ha dedicato una monografia alla missione dell‟Università: “Un‟istituzione è una macchina, e tutta la sua struttura e il suo funzionamento devono essere prefissate in vista dello scopo che ci si aspetta da essa” (Ortega y Gasset, 1936).

L‟Università quindi, in quanto istituzione è stata concepita con alcune funzioni ben precise, che adesso andremo ad analizzare brevemente.

In questo lavoro (e in particolare in questo capitolo) ci limiteremo a descrivere le tre missioni dell‟Università attualmente conclamate e riconosciute dai più (Scuttari, 2016, pp. 57-58; De Bortoli, 2012, pp. 261-263):

1. La missione della didattica o della formazione (Moratto, 1982, p. 18; Boffo & Moscati, 2015)

2. La missione della ricerca (Porciani, 1994, pp. 135-136)

3. La terza missione (la più recente; vedremo in seguito di cosa si tratta) (Corò & Scroccaro, 2016, pp. 363-364)

La prima fonte normativa organica che riguarda l‟università italiana risale agli anni appena antecedenti l‟unificazione del Regno d‟Italia (1959), ed è pertanto questo il primo documento ufficiale nel quale vengono dichiarate le funzioni dell‟università nell‟Italia unitaria:

L’Istruzione superiore ha per fine di indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studii speciali, e di mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Stato la cultura scientifica e letteraria (GP, 1859).

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Da quanto statuito nell‟articolo 47 della Legge Casati del 1859 dunque, la didattica implicava l‟indirizzo degli studenti verso una professione specializzata attraverso l‟“Istruzione superiore”, che aveva come presupposto l‟istruzione secondaria ricevuta in precedenza, la quale avrebbe dovuto a sua volta rifornire gli studenti delle “necessarie cognizioni generali” per affrontare il percorso universitario e la vita in generale. In realtà ridurre la formazione universitaria all‟“indirizzo degli studenti verso una professione specializzata” è riduttivo (e questo vale oggi e valeva nel 1859), ma approfondiremo questo aspetto in seguito; l‟art. 47 della Riforma Casati ci interessa più che altro per evidenziare come le due funzioni di didattica e ricerca fossero già centrali nell‟università del neonato Stato italiano. Infatti analizzando la seconda parte dell‟articolo troviamo il riferimento alla ricerca scientifica: “mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Stato la cultura scientifica e letteraria” (GP, 1859).

Questi stessi principi, li ritroviamo enunciati nel testo della più recente riforma del sistema universitario italiano (Riforma Gelmini: Floriani, 2010; Genovesi, 2010): “Le università sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell‟ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze” (Guri, 2010).

Un‟altra fonte recente in cui vengono presentate le funzioni dell‟Università è il Rapporto ANVUR1 del 2013 che ci servirà in seguito per individuare una definizione della terza missione. Esse vengono chiamate in causa proprio in modo da affiancarle a quest‟ultima: “le missioni tradizionali di insegnamento (prima missione […]) e di ricerca (seconda missione […])” (ANVUR, 2013).

È bene precisare che quando ci si riferisce alla funzione della didattica, e quindi alla formazione che l‟università impartisce agli studenti, quel che si vuole intendere non è esclusivamente un avviamento professionale2, ma più che altro una formazione generale,

1 “L‟Agenzia [per la valutazione del sistema Universitario e della ricerca (ANVUR)] sovraintende al sistema

pubblico nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca e, sulla base di un programma almeno annuale approvato dal Ministero, cura, ai sensi dell‟articolo 3, la valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici; indirizza le attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca; valuta l‟efficacia e l‟efficienza dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e innovazione” (GURI, 2010a).

2 “Troppo spesso infatti si è portati a vedere nell‟Università una macchina il cui scopo principale è quello di

preparare i giovani o addirittura ad abilitarli all‟esercizio di un certo numero di professioni” (Martinoli, 1967, p. 7).

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che dev‟essere tesa a preparare gli studenti ad assolvere le funzioni “di guida dei vari gruppi sociali in cui si articola la collettività” (Martinoli, 1967, p. 7).

Didattica e ricerca scientifica sono comunque legate indissolubilmente tra loro, in quanto una implica l‟altra. Parafrasando Martinoli (1967): come si può pensare di portare avanti la ricerca, senza impegnarsi allo stesso tempo a trasmettere il bagaglio culturale (nel quale è compreso anche quello scientifico) alle generazioni future? È evidente che un sistema di questo tipo non sarebbe sostenibile. Pertanto didattica e ricerca devono andare di pari passo, e non dev‟essere trascurata una per privilegiare l‟altra.

Passiamo ora a dedicarci alla terza missione dell‟Università. Essa è stata teorizzata da Clark Kerr, rettore dell‟Università di California, nel 1963, durante una lezione tenuta ad Harvard (Balsamo, 2014). In realtà il termine coniato era Multiversity, che si riferiva al ruolo e all‟occhio di riguardo che la “comunità universitaria” doveva avere nei confronti della società in cui era calata – senza per questo trascurare il suo sguardo verso il futuro – in modo da fornire le risposte necessarie per incidere su di essa. In Europa la terza missione venne riconosciuta formalmente per la prima volta a livello istituzionale nel 2000, “grazie alla Comunicazione della Commissione3 L’innovazione in un’economia fondata sulla conoscenza” (Balsamo, 2014).

Vedremo ora che cosa si intende per terza missione, riferendoci in particolare al sistema italiano. Cassella (2014) sostiene che nel modello della società odierna (detta “della conoscenza”4), alla duplice funzione di didattica e ricerca si affianca una terza missione, quella socio-culturale (p. 12). Questa nuova missione si esplicita attraverso “la disseminazione della scienza, la sua trasmissione alla società” (Cassella, 2014, p. 12). Tale “trasmissione” deve avvenire con modalità diverse rispetto alle tradizionali pubblicazioni accademiche, tipiche della seconda missione (quella della ricerca scientifica), poiché diversi sono i destinatari e gli obiettivi. Non si tratta infatti, di dover comunicare i risultati delle ricerche scientifiche alla propria comunità di riferimento, ma all‟esterno di essa, alla società nella sua interezza, che è il committente principe del lavoro dei ricercatori (De Bortoli, 2012, pp. 261-263). Inoltre è anche il tipo di risultati richiesti ad essere differente,

3 Si fa riferimento alla Commissione europea, ovvero “il braccio esecutivo politicamente indipendente

dell‟UE. È l‟unico organo cui compete redigere le proposte di nuovi atti legislativi europei. Inoltre, attua le decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio dell‟UE” (UE, 2019).

4 Knowledge society: locuz. sost. ingl., usata in it. al femm. – Società nella quale il ruolo della conoscenza

assume, dal punto di vista economico, sociale e politico, una centralità fondamentale nei processi di vita, e che fonda quindi la propria crescita e competitività sul sapere, la ricerca e l‟innovazione (Treccani, 2012).

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essendo la società a richiederli per motivi di crescita economica e sociale (Cassella, 2010); essa ne necessita in tempi più brevi rispetto a quelli medio-lunghi della ricerca scientifica pura, “che procede […] in varie direzioni, senza essere in grado di garantire risultati o conclusioni in tempi prevedibili” (Boffo, 2015, p 252).

La terza missione insomma, si differenzia dalle altre due, poiché non rivolta esclusivamente all‟interno del sistema accademico, ma anche e soprattutto all‟esterno, alla società in cui l‟università è inserita; essa “rappresenta la responsabilità di cittadinanza delle università e la loro capacità di incidere direttamente e in breve nel territorio” (Padoan, 2016, p. 39) attraverso l‟impegno in diverse attività di cooperazione con imprese e istituzioni e di diffusione della conoscenza.

Il già citato Rapporto ANVUR del 2013, definisce la terza missione come la “propensione delle strutture [universitarie] all‟apertura verso il contesto socio-economico, esercitato mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze” (ANVUR, 2013, p. 559); e ne distingue due tipologie: (1) quella di valorizzazione economica della conoscenza, e (2) quella culturale e sociale. Nel caso della prima tipologia si riferisce all‟“obiettivo di favorire la crescita economica, attraverso la trasformazione della conoscenza prodotta dalla ricerca in conoscenza utile a fini produttivi” (ANVUR, 2013, p. 559); l‟Università svolge questa attività attraverso la condivisione di dati con le aziende o la concessione di brevetti; progetti che sono rivolti insomma alla parte produttiva della società, volti a cercare di facilitare il processo di crescita economica e di sviluppo tecnologico. Fa parte delle attività di questo genere anche tutto ciò che riguarda l‟agevolazione (o il tentativo di agevolazione) dell‟inserimento degli studenti nel mondo del lavoro, ovvero tutte le attività di stage promosse dall‟Università, quelle di placement, ecc.

La seconda tipologia invece, si riferisce ai progetti intrapresi allo scopo di creare “beni pubblici” (ANVUR, 2013, p. 559) che possano aumentare il benessere della società, a livello sociale e culturale, appunto:

Tali beni possono avere contenuto culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali, scavi archeologici, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio della comunità, consulenze tecnico/professionali fornite in équipe), educativo (educazione degli adulti, lifelong learning,

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formazione continua) o di consapevolezza civile (dibattiti e controversie pubbliche, expertise scientifica) (ANVUR, 2013, p. 559).

Tra le attività di terza missione dell‟Università c‟è anche quella di apertura degli spazi dell‟Università stessa all‟intera cittadinanza. Tra questi spazi che possono essere aperti al pubblico, si trova anche la biblioteca universitaria (o biblioteca accademica), che quindi rientra – tra le altre cose – a pieno titolo, tra le “attività di terza missione”; anzi – per meglio dire – è la terza missione che diventa uno dei principali obiettivi che la Biblioteca accademica deve perseguire (Cassella, 2014).

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1.2. Cenni storici sulle biblioteche delle università italiane

La storia delle biblioteche delle università italiane non ha avuto grande fortuna nella letteratura scientifica che la riguarda o almeno non è stato così fino agli anni Settanta del XX secolo (Ruffini, 2002; Capaccioni, 2018, pp. 12-15). Ci sono diversi motivi che possono spiegare questo fenomeno, ma due sono i principali: il primo è lo sviluppo dell‟università di massa proprio a partire dagli anni Settanta (Ruffini, 2002), che causò quindi un interesse inedito per l‟università in tutti i suoi aspetti (anche se la produzione in tal ambito rimane modesta). Il secondo motivo è la mancanza della figura del bibliotecario professionale nelle università fino al 1961 (anno in cui venne istituito come ruolo organico con la legge 3 novembre 1961, n. 1255), almeno ufficialmente (come vedremo infatti non si può affermare che prima di tale data non esistessero bibliotecari all‟interno delle università, né che dopo di essa la figura del bibliotecario nelle università iniziasse a spopolare: Ruffini, 2003; Ruffini, 2002); questa assenza dei bibliotecari nelle strutture delle università causò un ritardo nella riflessione che questa comunità professionale, una volta costituita, avrebbe iniziato a maturare su sé stessa e sulle proprie specificità (Ruffini, 2002, p. 433; Ruffini, 2003, p. 145; Capaccioni, 2018)

Nelle università degli albori (XII-XIII secolo5), intese ancora come forme associative di studenti e docenti (Pellegrini, 2003, pp. 55-56), non esistevano strutture bibliotecarie come le intendiamo oggi. Questo perché non esisteva nemmeno una struttura universitaria ben organizzata che potesse inglobarle. All‟epoca gli studenti non si procuravano i testi per le lezioni, poiché un manoscritto era molto costoso e non era ancora possibile una produzione su larga scala come quella introdotta dall‟invenzione della stampa in poi. “la circolazione dei libri all‟interno delle università era assicurata dai docenti e dai loro volumi personali” (Capaccioni, 2018, p. 6). Durante le lezioni, che consistevano nella lettura e nel commento dei testi da parte dei docenti, gli studenti prendevano appunti, andando così a formare delle dispense che potevano anche essere distribuite tra gli studenti, qualora fossero state approvate dal maestro (Cacciabue & Cimmino, 2001).

Delle biblioteche universitarie – intese come raccolte “di libri e di attività al servizio dei docenti e degli studenti, cominci[a]no a manifestarsi tra il XVIII e il XIX secolo”

5 “La genesi dell‟Universitas è indiscutibilmente collegata a quell‟esigenza di associarsi che caratterizza la

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(Capaccioni, 2018, p. 5). Esse nacquero all‟interno degli istituti delle università: questi istituti cominciavano a disporre di modeste dotazioni in denaro e con quelle acquistavano alcuni libri considerati indispensabili per lo svolgimento dei corsi e qualche repertorio per assicurare una prima informazione bibliografica (Sapori, 1985, pp. 1154-1155). Queste biblioteche, inizialmente di piccole dimensioni, iniziarono a crescere e nelle università di nuova istituzione si formarono biblioteche centrali di varia grandezza (Sapori, 1985, pp. 1154-1155).

Prima di tutto però, occorre chiarire una distinzione fondamentale per il panorama delle biblioteche delle università italiane, che ha afflitto quest‟ultimo nel passato recente e che continua ad affliggerlo ancora oggi.

Per spiegare tale distinzione ci sembra opportuno iniziare con una frase di Alfredo Serrai, così come fece del resto Graziano Ruffini, nel suo articolo “Le biblioteche delle università fra cooperazione e polverizzazione”, uscito su Economia della cultura, nel 2003 (2003a, pp. 313-320):

le biblioteche universitarie, in quanto organismi strutturati nei modi che sono loro propri e specifici, in Italia non esistono […]. Ci sono delle biblioteche nelle università […] (Serrai, 1980, p. 70).

In Italia infatti coesistono (all‟epoca di Serrai come adesso: Capaccioni, 2018, p. 6) due diversi tipi di istituzioni bibliotecarie che potrebbero essere definite “universitarie”, in quanto hanno entrambe a che fare con l‟università (o perlomeno dovrebbero): esistono infatti delle biblioteche universitarie propriamente dette, che rientrano tra le biblioteche pubbliche statali e rispondono pertanto al Regolamento organico sancito con il D.P.R. del 5 settembre 1967, n. 1501 (Macchiarola, 1990, pp. 29-34); da quando il Ministero per i beni culturali e ambientali (MiBCA) è stato istituito, nel 1975 (Vinay, 1984), le biblioteche universitarie sono state sottratte dalla dipendenza dal Ministero della pubblica istruzione (MiPI) e sottoposte al neonato MiBCA (Ruffini, 2002). In questo modo, le biblioteche universitarie sono state sottratte anche al controllo delle università (il MiPI è infatti “titolare dei doveri dell‟educazione”, Serrai, 1981, p. 49), e pertanto, al loro compito istituzionale, “in quanto adibite a servire l‟università” (Ruffini, 2003a, p. 314). Permangono invece sotto il controllo delle istituzioni universitarie le “biblioteche delle università” (cosiddette per distinguerle dalle universitarie); con biblioteche delle università

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si intende quelle biblioteche nate e cresciute all‟interno degli istituti universitari, di cui si è detto sopra, e che sono “organismi propri delle università” (Macchiarola, 1990, pp. 29-34).

A dire il vero le biblioteche universitarie e quelle delle università, già prima dell‟istituzione del MiBCA, dipendevano da due Direzioni generali differenti del MiPI (Sapori, 1985, p. 1157): le universitarie dalla Direzione generale Accademie e biblioteche; le biblioteche delle università invece dalla Direzione generale Istruzione universitaria (Sapori, 1979, pp. 136-140). Già con l‟Unità d‟Italia le biblioteche universitarie furono inserite tra le biblioteche pubbliche dello Stato, dal momento che erano state aperte all‟uso pubblico (prevalentemente durante il Settecento: Traniello, 2005), e poiché “si trattava quasi sempre di biblioteche di notevoli dimensioni” (Solimine, 1990, p. 78). Nonostante venissero e vengano tuttora considerate e regolate come biblioteche pubbliche statali, mantengono delle caratteristiche speciali, ovvero offrire sussidio nello studio agli studenti delle università e ai docenti gli strumenti di ricerca propri della loro disciplina, con attenzione particolare alle opere generali e di consultazione6 (Sapori, 1979, pp. 133-136).

Un‟altra caratteristica delle biblioteche universitarie pubbliche statali, esplicitata al comma c dell‟art. 6 del Regolamento del 1967, è quella di “promuovere, mediante opportuni accordi, un coordinamento con le biblioteche di facoltà e di istituto” (Guri, 1967, art. 6, comma c; Macchiarola, 1990, p. 33, nota 6). Nell‟art. 7 poi, del medesimo Regolamento, viene chiarito che le biblioteche universitarie devono “fare le veci” delle pubbliche statali quando esse non siano presenti sul territorio e non vi sia nemmeno una biblioteca pubblica non statale che possa sostituirle nel perseguimento dei loro obiettivi. Per poter raggiungere questi scopi è stata istituita una Commissione presieduta dal Rettore; essa si deve riunire una volta l‟anno per deliberare sugli acquisti delle pubblicazioni e sull‟orario di apertura al pubblico; per quanto riguarda gli acquisti però, la Commissione delibera solamente per quanto concerne la metà dei fondi stanziati dal Ministero; per di più, nelle città nelle quali la universitaria si ritrova ad essere l‟unica biblioteca pubblica statale, la Commissione suddetta delibera solamente sui quattro decimi dell‟intera somma (Guri, 1967, art. 41-43; Sapori, 1979, pp. 133-134).

La commissione “permanente” però si riunì regolarmente solo in un primo momento, per poi cessare ogni attività. Questo avvenne perché le modalità di esercizio del proprio “potere” erano insufficienti: non è pensabile infatti di deliberare gli acquisti di tutte le opere occorrenti attraverso un‟unica riunione con cadenza annuale; il potere decisionale

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della Commissione inoltre, anche in materia di acquisti, era alquanto dimensionato dalla scarsa disponibilità di fondi stanziati dal Ministero per tali incombenze (Adversi, 1967).

Per quanto riguarda le biblioteche delle università invece, all‟epoca in cui Serrai scriveva (vd. citazione a p. 15), erano

esercizi adibiti al procacciamento o semplicemente alla fornitura di pubblicazioni scelte dal docente responsabile o, dietro sua conferma, da altri docenti, e talvolta anche alla lettura e allo studio delle pubblicazioni possedute (Serrai, 1980, p. 70).

Il problema più grande che ravvisava Serrai, è che alle biblioteche delle università, per diventare ciò che dovrebbe essere una “biblioteca universitaria” (intesa come parte integrante e centrale dell‟università, tesa a coadiuvarla nelle sue principali funzioni della didattica e della ricerca: Macchiarola, 1990, pp. 31-33; Capaccioni, 2018, pp. 10-11; Ruffini, 2003a, p. 314),

mancano quei collegamenti, sia pure rudimentali e casalinghi, perché essi divengano le membra di una biblioteca universitaria, e appunto insieme costituiscano la biblioteca universitaria, quale configurazione di incontro e di soddisfazione delle esigenze documentarie degli studenti, dei professori e dei ricercatori, e quale specchio culturale-bibliografico delle necessità, correnti e future, della vita intellettuale universitaria (Serrai, 1980, p. 70).

Serrai sosteneva che non esistessero biblioteche universitarie perché né le universitarie propriamente dette, né le biblioteche sorte spontaneamente all‟interno delle università, con le caratteristiche che avevano a quel tempo (e che ancora hanno, per certi versi, come vedremo), erano idonee al compito strumentale nei confronti dell‟università di cui abbiamo detto in precedenza. Anche Ruffini nell‟articolo già menzionato rafforza la tesi di Serrai sottolineando le problematiche che affliggevano le biblioteche delle università, che nella pratica, erano chiamate a svolgere il ruolo di supporto a didattica e ricerca (anche se non potevano svolgerlo in maniera adatta):

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la mancanza di personale tecnico adeguato, l’assenza di normativa aggiornata, gli orari spesso assai ridotti, la mancanza di una politica coordinata degli acquisti, che produceva il proliferare delle duplicazioni […], l’assenza di integrazione tra le varie e numerose realtà bibliotecarie presenti nello stesso Ateneo (Ruffini, 2003a, p. 215).

L‟unica soluzione che Serrai proponeva per porre rimedio a questa situazione e creare così una struttura che fosse adeguata ai compiti che le erano propri, era che venisse realizzato un sistema bibliotecario integrato tra le due istituzioni (Ruffini, 2003, p. 166), “costruito intorno al fine di dare a tutta la comunità universitaria il servizio librario più competente, più efficiente, e […] più economico7” (Serrai, 1980, pp. 71-72).

Un altro ostacolo al buon funzionamento delle biblioteche delle università era (ed è) la mancanza di un regolamento a loro riferito. In realtà un regolamento che poteva essere preso in considerazione a livello nazionale ci sarebbe stato, ed era il “Regolamento delle biblioteche speciali governative non aperte al pubblico” del 1909 (Guri, 1909; Sapori, 1985); oltre ad essere vetusto, esso era riferito a “le biblioteche scolastiche, le raccolte specializzate di musei e accademie e quelle destinate alla ricerca e all‟insegnamento superiore, appunto, delle Università” (Sapori, 1985, p. 1156); esso non era quindi rivolto specificamente alle biblioteche delle università e l‟intestazione del medesimo (“biblioteche speciali […] non aperte al pubblico”) lo faceva apparire come obsoleto già all‟inizio degli anni Ottanta, in un contesto in cui si iniziava a ragionare di cooperazione tra le biblioteche e con il territorio (Sapori, 1985, p. 1156).

Qualcosa cominciò a modificarsi proprio a partire dagli anni Ottanta (Ruffini, 2003a): come prima cosa, in quegli anni iniziò ad essere più marcata la presenza dei bibliotecari negli atenei italiani. Sebbene la legge che aveva istituito il ruolo del bibliotecario all‟interno delle università risalisse al 1961 (Guri, 1961; Macchiarola, 1990), era difficile pensare che all‟indomani della sua entrata in vigore le università si sarebbero riempite di bibliotecari. Ci vollero parecchi anni infatti, affinché la loro presenza diventasse più ingente (Ruffini, 2002), e forse ancora oggi non si può dire che si sia pienamente compiuto questo processo, come vedremo.

Negli anni in cui la scarsa rappresentanza bibliotecaria all‟interno delle università persisteva, essa causò diversi problemi, oltre a quello che abbiamo già menzionato della

7 Doveva essere economico non per fini “aziendalistici”, di efficienza, ma perché fosse permesso a tutti gli

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limitata capacità a riflettere sulla propria categoria da parte dei bibliotecari stessi. La situazione delle strutture bibliotecarie degli atenei era frammentaria e chi lavora all‟interno di esse il più delle volte non aveva ricevuto una formazione professionale adeguata al suo compito (Innocenti, 1990; Ruffini, 2002). Inoltre c‟era un cattivo rapporto tra il numero di personale e il numero di strutture presenti sul territorio e ugualmente negativo era quello tra numero di strutture e patrimonio bibliografico (Ruffini, 2003a, p.. 313-314). La prima indagine svolta dal MiPI sulle università e gli istituti di istruzione superiore venne effettuata nel 1978 (viene riportata da Ruffini nel da noi più volte menzionato articolo: Ruffini, 2003a, p. 314) e portò a galla diverse mancanze del panorama delle biblioteche delle università; in particolare nella “nota di lettura”, preposta all‟analisi dei dati, evidenziava

Il problema strutturale rappresentato dalla frammentazione, dispersione e disomogeneità delle strutture e una netta prevalenza di strutture con dimensioni definite «sub-ottimali» sotto il profilo degli spazi, orari di apertura, personale, eccetera. A questo si accompagnava la sottolineatura della scarsa diffusione di strutture accorpate, che avrebbero potuto ovviare a tali inconvenienti (Ruffini, 2003a, p. 317).

C‟è da dire che anche se negli anni Ottanta i bibliotecari iniziarono davvero ad entrare nelle biblioteche delle università, non lo fecero in posizioni dirigenziali e questo per due motivi: da una parte la normativa era poco chiara e passibile di interpretazioni diverse (Sapori, 1979, pp. 143-144; Sapori, 1985, p. 1163, nota 24); dall‟altra, la vecchia tradizione che ha visto i docenti posti a dirigere le biblioteche degli istituti e delle facoltà per molti anni, era dura a venire meno (Sapori, 1979, p. 144). La situazione era talmente confusa che il MiPI provò a metterci una pezza con una Circolare (la Circolare Misasi8: Sapori, 1979, p. 144), consigliando attraverso essa, in sostanza, “di affidare la direzione della biblioteca ad un bibliotecario” (Serrai, 1980, p. 63). Ma nonostante la circolare, molte università continuarono ad affidare la direzione delle biblioteche a dei docenti, “in analogia a quanto avveniva precedentemente all‟emanazione della legge [1255/19619]” (Sapori, 1979, p. 144).

8 La Circolare n. 7474 del 28 novembre 1970 (dato ricavato da Serrai, 1980, p. 63). 9 Guri (1961).

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In una situazione così confusa, le università si regolarono ognuna a suo modo, venendo a creare così una disomogeneità marcata tra una istituzione e l‟altra (Sapori, 1979).

Un altro elemento che contribuì a smuovere la situazione nel panorama delle biblioteche delle università italiane, fu la promulgazione della legge n. 312 dell‟11 luglio 1980, che ha introdotto il concetto di “qualifica funzionale”10, con la quale si “intendeva superare i vecchi criteri di rigido verticalismo a favore di un sistema orizzontale”11 (Macchiarola, 1990, p. 43). Si trattava di un tentativo di modernizzazione che mirava a conseguire miglioramenti in termini di produttività del lavoro e del rendimento delle singole strutture operative. Per questo “furono introdotte le aree e per ciascuna di esse furono individuati i profili, attribuendo al singolo impiegato una qualifica dal contenuto ben preciso e, quindi, «funzionale»” (Macchiarola, 1990, p. 43). Tuttavia la legge, per quanto testimoniasse un significativo passo avanti per la gestione del personale nelle biblioteche delle università, contiene delle lacune: per esempio le mansioni di distribuzione, di esecuzione dattilografica delle schede e di etichettatura sono state escluse dall‟area delle biblioteche e affiancate a un “coacervo di altri compiti” pratici (Macchiarola, 1990, p. 46). Inoltre nell‟VIII qualifica, ovvero il livello più alto, quella di funzionario di biblioteca, la parola direttore è scomparsa, ed è stata sostituita dalla locuzione “responsabile di biblioteca di notevoli dimensioni” (Sapori, 1985, p. 1167). Viene da chiedersi se “responsabile equivale a direttore o [se] è ancora aperta la strada all‟annoso dibattito direttore-professore/direttore-funzionario?” (Sapori, 1985, p. 1167). Infine, viene da chiedersi “quali [siano] i parametri per decidere se una biblioteca è di «notevoli dimensioni»” oppure no (Sapori, 1985, p. 1168).

Una tappa importante cha contribuì ad arrivare alla situazione odierna è senz‟altro l‟introduzione del concetto di coordinamento all‟interno della pubblica amministrazione e quindi delle università, a partire dalla legge n. 23 del 29 gennaio 198612, che istituì le figure di coordinatore di biblioteca13 e di coordinatore generale14 (Ruffini, 2002). L‟istituzione di queste due nuove figure nasce dall‟esigenza di porre un freno alla

10 Per spiegare a cosa ci si riferisce con la locuzione “qualifica funzionale” “Occorre […] differenziare fra

“qualifica funzionale “ e “profilo professionale”[:] mentre il profilo professionale si riferisce alla singola concreta attività, al contrario la qualifica funzionale è una definizione generale ed astratta dell‟attività, dal che ne consegue che la qualifica funzionale contiene vari profili professionali” (Sabetta, 2017).

11 Guri (1980). 12 Guri (1986).

13 “responsabile di servizi bibliotecari di aree omogenee e altamente specializzate” (Traniello, 2005, p. 37). 14 “responsabile della gestione tecnica dell‟intero comparto di biblioteche di ateneo” (Traniello, 2005, p. 37).

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“polverizzazione delle strutture bibliotecarie degli atenei” italiani (Ruffini, 2003a, p. 315). La maggioranza delle biblioteche periferiche delle università infatti, alla fine degli anni Ottanta, era essenzialmente configurata come una replica delle biblioteche centrali della medesima istituzione (Caproni, 1989, p. 41) e solo raramente ci si trovava davanti a

vere e proprie organizzazioni bibliografiche […] con un loro specifico funzionamento e una loro particolare autonomia e con intenti rivolti a costituire e a rappresentare un valido sussidio nell’esercizio […] degli studi e nell’espletamento della ricerca scientifica (Caproni, 1989, p. 41).

La dispersione del patrimonio bibliografico in diversi punti del sistema bibliotecario, da un lato è utile alla distribuzione della documentazione necessaria alla ricerca scientifica, dall‟altro contrasta con l‟idea dell‟unità della biblioteca universitaria (Caproni, 1989). Ci torna utile ricordare come Serrai sostenesse che in un contesto unitario quale era (ed è) quello dell‟università, l‟integrazione e il coordinamento tra le biblioteche, fosse un‟operazione necessaria (Serrai, 1980, p. 68), altrimenti si sarebbe corso il rischio di smarrire la funzione fondante di quegli istituti, ovvero il supporto offerto all‟istituzione universitaria negli ambiti della didattica e della ricerca15 (come abbiamo già avuto modo di sottolineare precedentemente). L‟unica soluzione, quindi, davanti al conflitto tra biblioteca centrale e biblioteche periferiche delle università, era la cooperazione interbibliotecaria (Caproni, 1989). Iniziava a farsi strada pertanto, a fine anni Ottanta, un‟istanza sistemica (di coordinamento funzionale, organizzativo, non fisico: Ruffini, 2002, p. 449) che andrà poi a sfociare nella riflessione e nella realizzazione dei Sistemi bibliotecari di ateneo16 (SBA) tra gli anni Novanta e i primi Duemila, su cui torneremo tra poco.

Un tema cruciale ai fini del coordinamento era l‟automazione delle biblioteche. Essa ha creato nuove prospettive rispetto allo scambio di informazioni tra una struttura

15 “il frazionamento delle responsabilità amministrative, la confusione dei ruoli, la scarsa definizione delle

competenze, unitamente agli ingranaggi di una macchina burocratica inefficiente (ma paradossalmente inesorabile) alimentata da regolamenti assurdi e obsoleti, determinano lo smarrimento dei compiti tradizionalmente assegnati a questi istituti (Serrai, 1980, p. 65; cit. da Amoruso et Al., 1979, p. 168).

16 “«sistemi bibliotecari di Ateneo», vale a dire […] un organismo gestionale centrale, presieduto dal rettore o

da un suo delegato, dotato di un consiglio rappresentativo delle diverse aree e affidato alla responsabilità tecnica del coordinatore generale. Si tratta di una struttura che non tutte le università italiane hanno di fatto introdotto, che ha conosciuto, quando è stata attuata, modalità di realizzazione anche notevolmente diverse, ma che è in se stessa capace di superare la frammentazione delle diverse biblioteche (di facoltà, di dipartimenti, di istituti) che ha storicamente caratterizzato il mondo universitario nel nostro paese introducendo una funzione effettiva di coordinamento centrale in alcuni settori di importanza fondamentale e strategica (Traniello, 2005, p. 37). Vd. anche Ruffini (2008).

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bibliotecaria e l‟altra, con velocità e modalità che prima erano impensabili e che permettono di “conoscere i fondi comuni, razionalizzare gli acquisti, eliminando duplicati e lacune, avviare servizi del tutto nuovi di diffusione dell‟informazione” (Tammaro, 1990, p. 167). In questo modo alle biblioteche viene dato un ruolo in parte diverso; sempre di sostegno alla didattica e alla ricerca nell‟università, ma in maniera più attiva, soprattutto per quanto riguarda la ricerca scientifica, “non più […] limitato alla risposta, negativa o positiva, a richieste precise, ma di impulso e stimolo al miglior uso delle risorse bibliografiche” (Tammaro, 1990, p. 167).

La schedatura era cosa fondamentale per poter permettere un‟automazione efficiente, poiché

se le schede sono errate, sommarie, redatte senza seguire alcuna regola, o se non esistono affatto, se tutte le unità grandi e piccole non collaborano, se in molte di esse non c’è personale qualificato si rischia di trarre in errore il ricercatore facendogli credere che ciò che non trova non sia posseduto dalle biblioteche, mentre probabilmente c’è, ma chissà come catalogato (Sapori, 1979, p. 149).

Per questo era necessario che tutte le biblioteche seguissero le stesse regole di schedatura, cosa che con un‟organizzazione centralizzata sarebbe stata più agevole. Ecco perché “solo biblioteche centrali ben organizzate per quanto riguarda gli uffici poss[o]no essere utili strumenti di ricerca e pronte per l‟automazione” (Sapori, 1984, p. 78).

Allo scadere del decennio, nel 1989, venne istituito il Ministero dell‟università e della ricerca scientifica e tecnologica (MiURST), avvenimento nel quale i bibliotecari riposero le proprie speranze perché venisse portata un‟attenzione maggiore alle biblioteche (Ruffini, 2002). La stessa legge istitutiva del MiURST17, “aveva riaffermato il principio che gli atenei venissero disciplinati da propri e autonomi statuti” (Ruffini, 2008, p. 340). In questo modo venne riaffermata l‟autonomia delle università, sancita già dalla Costituzione del ‟48 che si estese anche alle sue biblioteche18 (Ruffini, 2002; Traniello, 2005; Macchiarola,

17 Guri (1989). 18 Guri (1947), art. 33.

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1990)19. La redazione degli statuti veniva vista in quel momento, dai bibliotecari, come l‟occasione per formalizzare l‟esistenza degli SBA (Ruffini, 2008). A questo proposito, nel 1991, il Ministro dell‟università Ruberti, istituì la Commissione nazionale Biblioteche e documentazione, anche come organo di coordinamento tra le università nel settore delle biblioteche. L‟anno successivo venne diffuso il testo, redatto dalla Commissione, Per una politica di rinnovamento e potenziamento dei servizi di biblioteca e di documentazione nelle università e negli enti di ricerca (Ruffini, 2008). Gli obiettivi puntualizzati attraverso questo testo, erano essenzialmente l‟accorpamento e la riorganizzazione delle biblioteche degli atenei; la costituzione degli SBA; l‟introduzione negli statuti universitari di norme che potessero facilitare il coordinamento tra le biblioteche (Ruffini, 2002; Ruffini, 2008).

Il vero punto di svolta per il coordinamento tra le biblioteche delle università e quindi per l‟evoluzione del panorama italiano in quest‟ambito, è la creazione degli SBA (a cui abbiamo già accennato) da parte delle università stesse.

Al principio degli anni Novanta, la situazione non era ancora delle più rosee ed era molto composita. A tal proposito

va […] ricordato che all’interno delle università italiane troviamo di tutto: biblioteche denominate come centrali, ma che invece finiscono con l’essere completamente espropriate di ogni funzione o che acquistano la fisionomia di biblioteca di una singola facoltà; biblioteche di facoltà, di dipartimento, di istituto che insistono, anche se a livelli diversi, su un’area disciplinare concentrica e che […] non differenziano assolutamente la loro politica degli acquisti e di servizio pubblico per livelli di specializzazione; biblioteche che sorgono e si sviluppano spontaneamente e che finiscono col privare di un ruolo quelle che invece sono ufficialmente costituite (Solimine, 1990, p. 77).

Solimine continua la sua descrizione della situazione italiana asserendo che laddove erano stati costituiti degli organi centrali col compito di occuparsi delle biblioteche, erano anche stati diversi i modi di interpretare quello stesso ruolo:

19 Si tratta “di una autonomia normativa di ampiezza tale da concretarsi nel diritto di formare veri e propri

ordinamenti, cioè complessi sistematici di norme dirette a disciplinare la vita dell‟istituzione” (Macchiarola, 1990, p. 31).

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troviamo in alcuni casi pletoriche commissioni che hanno il solo fine di studiare la situazione e formulare proposte, oppure uffici privi del potere decisionale e dell’autorità necessaria per ottenere l’esecuzione di quanto deliberato (1990, p. 81-82).

In un SBA invece, le biblioteche che compongono la struttura dell‟ateneo, non sono più pensate e gestite come entità isolate le une dalle altre, ma come un‟unità di servizio del sistema stesso; esse dovrebbero perciò assicurare la disponibilità del materiale a tutta l‟utenza, anche quella proveniente dalle altre unità. A tale scopo dovranno mettere “in comune le proprie risorse e [adottare] procedure e normative standardizzate” (Solimine, 1990, p. 83).

Per realizzare questa nuova struttura, Solimine suggeriva di utilizzare le vecchie “impalcature” bibliotecarie, senza il bisogno di sconvolgere tutto l‟apparato, riorganizzandole in un contesto cooperativo: centralizzando quindi servizi e procedure di carattere amministrativo e gestionale, decentrando invece l‟erogazione del servizio pubblico (1990). In questo modo si sarebbe potuto raggiungere dei livelli di omogeneità fino a quel momento insperati, con metodi uniformi di catalogazione e descrizione e scelte congiunte nel campo delle tecnologie informatiche; tutto questo evitando di sovrapporre le diverse funzionalità fra le varie strutture, realizzando così notevoli economie di gestione (Solimine, 1990). Grazie alla centralizzazione e al coordinamento assieme, si sarebbero potute avere raccolte sempre più fornite e meglio sviluppate20, cosa “necessaria ad un sistema di biblioteche di alto contenuto scientifico” (Caproni, 1989, p. 32).

Da non sottovalutare, per il buon funzionamento degli SBA, l‟importanza delle scelte in materia di automazione, che avrebbero dovuto essere necessariamente coordinate tra le strutture bibliotecarie degli atenei italiani. Infatti fu proprio l‟automazione a dare impulso alla creazione degli SBA; in particolare un ruolo fondamentale giocò la scelta del programma informatico da utilizzare (Ruffini, 2002). Per molti anni però, si continuò a effettuare scelte differenti da una biblioteca all‟altra (a volte anche all‟interno dello stesso ateneo); ciò era un ostacolo a ogni tipo di coordinamento, in un momento storico in cui

20 “Un sistema bibliotecario integrato all‟interno di ogni università non rappresenta soltanto una

imprescindibile condizione da soddisfare ai fini della migliore utilizzazione delle risorse economiche e della più efficiente prestazione di servizi bibliografici e documentari, ma il requisito necessario perché si possa delineare con precisione la fisionomia delle raccolte della biblioteca e il profilo delle sue esigenze librarie presenti e future. Una costruzione organica delle raccolte librarie non può avere luogo se non si conoscono i fondi nel loro complesso, e non si è in grado di tracciarne un programma di ampliamento e di sviluppo secondo le linee degli interessi scientifici e didattici dell‟università (Serrai, 1980, p. 72).

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ancora non erano diffusi standard condivisi per lo scambio di informazioni (Ruffini, 2002). Il rischio, per quanto riguarda il coordinamento tra biblioteche, era anche che l‟automazione diventasse l‟unico focus attorno al quale sviluppare dei progetti in merito (Ruffini, 2002).

Nel 199521 Morlicchio e Macchiarola pubblicarono una raccolta di tutti i testi degli statuti universitari approvati fino a quella data; ciò che venne alla luce era che solo 22 università italiane avevano approvato un proprio statuto; per di più, i senati accademici integrati (ai quali era affidato il compito della stesura e approvazione degli statuti) di solo quattro atenei avevano inserito nel documento la menzione esplicita dell‟esistenza di un SBA (Ruffini, 2002, pp. 438-439). E il dato era forse ancora più negativo di quanto potesse sembrare, dato che una menzione nello statuto non bastava certo ad assicurare l‟esistenza reale di un SBA; e ancora, anche se fosse stato realmente costituito, la presenza di un SBA non garantiva che esso fosse in funzione (Ruffini, 2002, pp. 438-439).

Prendendo in considerazione i risultati delle indagini svolte dal Gruppo interuniversitario per il monitoraggio dei sistemi bibliotecari di ateneo (GIM) nel 2002, nel 2010 e nel 2019, si può notare che l‟incremento delle università, che si sono dotate di un regolamento specifico per il proprio SBA, è lento ma costante nel tempo (da 40 atenei su 74 nel 2002, a 50 su 80 nel 2019: Deana, 2019, p. 16). Il dato più significativo rilevato invece, è che ancora nel 2019, 54 atenei su 80, hanno previsto, negli statuti o nei regolamenti, un organo di indirizzo per l‟SBA, presieduto da un docente (Deana, 2019, pp. 22-23). Ciò dimostra come tuttora, i problemi sollevati già negli anni Sessanta/Settanta, con il dibattito attorno alla citata legge 1501/1961 (Guri, 1961) e alla Circolare n. 7474, Misasi, sulla direzione delle biblioteche delle università, non siano stati risolti.

Anche l‟indagine sviluppata nel contesto del convegno di Roma dell‟8 maggio 1998, “Il sistema bibliotecario delle università. L‟organizzazione, i progetti”, organizzato dal “Gruppo di lavoro sui sistemi bibliotecari delle università”, ha rilevato delle mancanze importanti all‟interno degli SBA italiani: laddove era presente un organo di coordinamento centrale per l‟SBA, esso non aveva realmente un ruolo gestionale, ma semplici poteri consultivi (Ruffini, 2002). Inoltre, si evince che non solo i posti dirigenziali il più delle volte erano affidati ancora a docenti, ma anche che la maggioranza del personale delle biblioteche in generale, a qualsiasi livello, era formato da impiegati di formazione non

21Da segnalare anche il Regolamento promulgato in quell‟anno (Guri, 1995, art. 1.), riguardante le

biblioteche pubbliche statali, che riconferma l‟appartenenza delle biblioteche universitarie a questa categoria (Ruffini, 2003a, pp. 313-314).

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bibliotecaria. Inoltre l‟indagine sottolinea la persistente frammentazione delle strutture, causata anche dal numero elevato di quest‟ultime sul suolo italiano; tutto ciò non può che penalizzare la qualità dei servizi offerti all‟utenza e causare un malfunzionamento nella complessa macchina universitaria (Ruffini, 2002).

Nel maggio del 2000 ci fu un convegno organizzato dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), dal titolo “Le biblioteche accademiche del futuro. Idee, progetti, risorse”, svoltosi a Roma, nel quale venne ribadita la necessità della cooperazione tra le biblioteche delle università:

cooperare con gli altri sistemi bibliotecari presenti sul territorio nazionale per estendere a tutti gli interessati le conoscenze prodotte dalla ricerca consentendo di avvalersi dei patrimoni librari presenti nelle biblioteche e sistemi informativi di enti terzi e dei loro servizi (Ruffini, 2003a, p. 317).

Su questo fronte i bibliotecari delle università avevano a suo tempo risposto con la realizzazione di “iniziative cooperative basate, essenzialmente, sulla affinità delle aree disciplinari” (Ruffini, 2003a, p. 317). Il Coordinamento Nazionale Biblioteche di Architettura (CNBA) sorse proprio all‟interno di una di queste iniziative di cooperazione, nel 1991, e nacque

quale associazione delle biblioteche e dei centri di documentazione di architettura con lo scopo dichiarato di favorire il coordinamento fra biblioteche e centri italiani che predispongono documentazione nel campo dell’architettura (Ruffini, 2003a, p. 317).

Non si tratta però di un collegamento tra biblioteche di uno stesso ateneo – punto di partenza potenziale per l‟organizzazione di un SBA –, ma di uno “tra biblioteche di università diverse, […] di eguale settore di studi” (Sapori, 1984, p. 75).

Naturalmente il CNBA non fu l‟unica esperienza di questo tipo, ma fu la più significativa. Ruffini, a titolo esemplificativo, menziona anche ESSPER, iniziativa che coinvolge biblioteche di economia e scienze sociali (Ruffini, 2003a, p. 317).

Altre iniziative cooperative furono orientate su un altro fronte: quello dei software di gestione delle biblioteche: un‟esperienza di questo tipo, per esempio, riunisce ben 17

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Atenei italiani, oltre all‟Unione romana biblioteche ecclesiastiche e a undici centri di ricerca, accademie, consorzi; tutte queste istituzioni utilizzano, per la gestione delle proprie biblioteche e sistemi bibliotecari, il software Aleph (Ruffini, 2002).

Il quadro del nuovo millennio, per quanto riguarda le biblioteche delle università italiane, è dunque parzialmente mutato, e anche grazie alle realtà consortili può dirsi introdotto in Italia un indirizzo generale di natura cooperativa (Ruffini, 2002). Rimangono tuttavia delle criticità all‟interno di questa realtà, che sono principalmente relative alle risorse umane (ancora in numero non sufficiente e poco specializzate) e agli spazi non adeguati, poiché non appositamente pensati e costruiti per ospitare le università con tutte le strutture ad essa funzionali, tra cui le biblioteche (Ruffini, 2002, pp. 454-455).

Da rilevare per quanto riguarda l‟ultimo decennio, l‟attività del CRUI e lo sviluppo della cooperazione intrasistemica (Ruffini, 2008). Il CRUI infatti, comprende ben 5 gruppi di lavoro attivi al suo interno; Il Gruppo di lavoro “Linee guida per le politiche bibliotecarie del sistema universitario” ha prodotto una bozza delle Linee guida di politica bibliotecaria del sistema universitario (novembre 2007). Nella Presentazione (punto 0 del documento) si legge che l‟organizzazione sistemica delle biblioteche, sebbene non risulti ancora completata in tutte le sedi universitarie italiane, appare avviata “in modo irreversibile in quanto condizione indispensabile allo sviluppo di servizi avanzati” (Ruffini, 2008, p. 344, cit. da CRUI, 2007).

La novità più interessante è la proposta di creare il Sistema bibliotecario universitario nazionale, quale insieme dei sistemi bibliotecari degli atenei. All‟interno della Commissione dei delegati rettorali per le biblioteche istituita nell‟ambito del CRUI però, manca del tutto una rappresentanza dei professionisti che si occupano di gestire quei sistemi bibliotecari di ateneo e manca perciò una loro partecipazione alle scelte politiche sul Sistema bibliotecario.

L‟organizzazione intrasistemica sta ricevendo un grande impulso dalla necessità di unirsi in gruppi per l‟acquisizione di materiali indispensabili al fine di soddisfare i bisogni informativi dell‟utenza; per lo più si tratta di risorse in formato elettronico, come basi di dati e periodici elettronici.

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