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Guarda Saperi degli operatori e dei contesti nei percorsi di uscita dagli sprar | Argomenti

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Academic year: 2021

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Saperi degli operatori e dei contesti nei percorsi

di uscita dagli sprar

di Tiziana Tarsia

*

Sommario

L’articolo intende contribuire a mettere in luce alcune strategie di lavoro dei servizi Sprar in relazione alle rappresentazioni che gli operatori costruiscono sul sé professionale e sui cosiddetti beneficiari. L’oggetto di analisi è uno sprar osservato nel momento in cui implementa i percorsi in uscita dalla seconda accoglienza a partire dai tirocini formativi: circostanza densa di incidenti critici euristicamente fecondi in quanto mette in gioco la capacità del servizio di riformulare i propri saperi professionali a contatto con le risorse immateriali dei territori.

Parole chiave: seconda accoglienza, rifugiati e richiedenti asilo, operatori sociali,

reputazione del servizio sociale

Classificazione JEL: I3; I31; I380.

Social workers’ and contexts’ knowledges in the exit paths from

refugees’ second reception

Abstract

The article aims to highlight some working strategies of Sprar services in relation to the representations that social workers build on the professional self and on the so-called beneficiaries. The analysed Sprar service is observed while implementing exit routes from the second reception through training internships: a topic dense of heuristically fruitful critical accidents as it brings into play the ability of the service to reformulate its professional knowledge in contact with local immaterial resources.

Key words: second reception, asylum seekers and refugees, social workers, social service

reputation.

JEL Classification: I3; I31; I380.

* Ricercatrice a tempo determinato in Sociologia generale (Sps/07) presso il Department of

Cognitive Sciences, Psychology, Education and Cultural Studies (Cospecs) dell’Università di Messina, via Concezione, 6 (Messina). Indirizzo email: tarsiat@unime.it. Si occupa di sociologia dei conflitti e di metodologia della ricerca nel lavoro sociale.

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1. Come si accoglie in Italia: modalità e obiettivi

Dal 2015 in adeguamento alle direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE in materia di protezione internazionale (Sistema Europeo Comune di Asilo - CEAS), le procedure governative di accoglienza in Italia si articolano su due traiettorie principali:

1) da un lato è stata ampliata la filiera ordinaria di ricezione dei migranti forzati, strutturata su tre livelli tra di loro concatenati: uno di primo soccorso, il secondo di prima accoglienza e infine un ultimo di seconda accoglienza (artt. 8-14 del D.L. 142/2015) rivolta perlopiù ad un target di migranti forzati che arrivano tramite le rotte del Mediterraneo. Di recente il decreto legge n°13/2017 ha apportato ulteriori modifiche in merito alle procedure di controllo dei migranti, lasciando invariata la struttura del sistema di accoglienza;

2) dall’altro lato sono state attivate le nuove procedure di reinsediamento (resettlement) che prevedono la possibilità di accesso protetto e diretto ai migranti, sfollati o che risiedono in campi profughi in Paesi europei ma anche in Paesi Terzi dove, nonostante siano stati accolti, si siano verificate eventi xenofobi o di razzismo diffuso. Queste persone solitamente arrivano direttamente nei servizi territoriali Sprar (Sistema di protezione e accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo), quindi in seconda accoglienza.

È utile ricordare che solo coloro che fanno richiesta di protezione internazionale e che dichiarano di non potersi autosostenere vengono ospitati presso le strutture di accoglienza (art 14, comma 1, l. 142/2015): il

target di riferimento sono quindi quegli stranieri che aspettano di essere

autorizzati a soggiornare in Italia, che nel paese di origine vivono situazioni di pericolo e che, inoltre, durante il viaggio hanno subito situazioni di violenza. Nel caso del resettlement la procedura di attribuzione dello status è invece già conclusa: i destinatari arrivano in aereo per gruppi e passano direttamente alla seconda accoglienza. Queste distinzioni di massima su chi sono i destinatari di questi servizi – al netto delle varie combinazioni che poi sono concretamente determinate dai percorsi biografici e dalle dinamiche normative e amministrative – sono necessarie per inquadrare il lavoro che si trovano a svolgere gli operatori di queste strutture che sono investiti contemporaneamente di un mandato (sia istituzionale che sociale) di aiuto e di controllo: in questa cornice assume significato il retroterra culturale e professionale del singolo social worker ma ancora di più la cultura organizzativa dell’ente titolare e dell’ente gestore in cui essi

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operano, nonché i valori e l’habitus professionale a cui sono stati socializzati.

Dal varo del sistema Sprar (L. 30 luglio 2002, n. 189) sono seguite numerose modifiche e adattamenti, e nei manuali operativi e nei rapporti annuali del Ministero dell’Interno possiamo trovarne traccia (Servizio centrale, 2015; 2017; Anci et al. 2017). Questo processo, già molto sfaccettato nel suo intersecare implicazioni politiche e amministrative, moventi socio economici, dinamiche collettive e percorsi biografici individuali, ha un impatto ingente sull’ambito dei servizi sociali, degli schemi operativi e delle culture professionali dei soggetti che vi sono coinvolti. L’angolatura visuale che questo elaborato propone, intende contribuire a mettere in luce le modalità di lavoro dei servizi in relazione alle rappresentazioni che gli operatori costruiscono sul sé professionale e sui cosiddetti beneficiari. L’oggetto di analisi è la fase in cui uno sprar, ritenuto fra gli addetti ai lavori – come vedremo meglio poi – rappresentativo di un buon livello qualitativo di servizio, prepara i percorsi in uscita dalla seconda accoglienza attraverso i tirocini formativi. L’ipotesi è che, mettendo in gioco la propria capacità di relazione con il territorio in termini selettivi (nel rapporto con i potenziali datori di lavoro) ed erga

omnes (mi riferisco al capitale di reputazione e credibilità degli operatori

costruito in un paese di media montagna nell’Appennino calabrese), queste circostanze lascino emergere incidenti critici euristicamente fecondi perché maggiormente rivelatori degli assunti impliciti dei diversi attori di fronte agli esiti meno prevedibili e protetti di questi percorsi di inserimento lavorativo.

Come è noto (Zanfrini, 2016), le politiche di accoglienza, così come sono pensate dal Legislatore e implementate dalla macchina amministrativa e dai suoi interlocutori, rispecchiano una rappresentazione sociale dello straniero come di un soggetto che allo stesso tempo infonde paura ma che, comunque, va aiutato (Simmel, 1989): si proietta così sulle procedure sia di prima che di seconda accoglienza e sulla relazione di aiuto che ne consegue la necessità di contenere (Melchionda, 2016; Omizzolo, 2014; Triulzi, 2014) una minaccia e sostenere soggetti non del tutto autosufficienti.

Nonostante le diverse strutture rispondano allo stesso mandato sociale di controllo e aiuto di fatto i centri governativi della prima accoglienza e quelli di seconda sono organizzati differentemente e sono costruiti su tutt’altra immagine della relazione fra istituzione, operatori e destinatari del servizio.

I centri di prima accoglienza sono descritti dall’art. 9 della legge 142 come luoghi in cui «il richiedente è accolto per il tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate

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precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all’avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell’ingresso nelle strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilità». Per quanto riguarda invece la seconda accoglienza il manuale operativo ne chiarisce la finalità centrale: «Lo SPRAR ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti/titolari di protezione internazionale e umanitaria accolti, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza».

Per tutto il tempo della valutazione della richiesta di protezione il migrante ha quindi diritto a rimanere sul territorio italiano e ad essere accolto se necessario nelle strutture di ricezione territoriale1.

La legge 142 del 2015 prevede la possibilità di investire risorse nell’accompagnamento all’integrazione dei migranti (nei manuali operativi e nei rapporti del Servizio centrale si parla di accoglienza integrata ed emancipante). In questa prospettiva la strutturazione degli spazi della prima e della seconda accoglienza e gli strumenti messi a disposizione degli operatori sono stati fino ad ora differenti: nei primi più residuali e nei secondi maggiormente proiettati verso percorsi di inclusione. È per questo che nell’immaginario degli operatori, che ho ascoltato nel tempo, i centri di seconda accoglienza vorrebbero differenziarsi da quelli di prima accoglienza non solo per gli obiettivi che si pongono ma anche per le modalità e le procedure di intervento: i secondi vengono etichettati come

1 «Le misure di accoglienza sono assicurate per la durata del procedimento di esame

della domanda da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l’impugnazione della decisione» art 14, comma 4, l.142/2015; «Il prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, invia il richiedente nelle strutture di cui al comma 1. Il richiedente è accolto per il tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all’avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell’ingresso nelle strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilità ai fini di cui all’articolo 17, comma 3»; «Espletate le operazioni e gli adempimenti di cui al comma 4, il richiedente che ne faccia richiesta, anche in pendenza dell’esame della domanda, in presenza dei presupposti di cui all’articolo 15, è trasferito nelle strutture di cui all’articolo 14, individuate anche tenendo conto delle particolari esigenze del richiedente di cui all’articolo 17. In caso di temporanea indisponibilità di posti nelle strutture di cui all’articolo 14, il richiedente rimane nei centri di cui al presente articolo, per il tempo strettamente necessario al trasferimento. Il richiedente portatore delle particolari esigenze di cui all’articolo 17 è trasferito in via prioritaria nelle strutture di cui all’articolo 14» art. 10, commi 4 e 5, l. 142/2015.

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«non-luoghi» e i primi, al contrario, come potenziali «luoghi» (Augé, 2009; Quarta, 2006) di accoglienza in cui il beneficiario può trovare uno spazio identitario propedeutico al proprio percorso di adattamento culturale (Bennett, 2015). Non è stato raro, in questi ultimi anni, essermi trovata ad ascoltare operatori che avevano scelto di lavorare nella seconda accoglienza, piuttosto che nella prima, proprio perché questi servizi, quantomeno, offrivano uno terreno di negoziazione dell’autonomia e di riconoscimento della macht del beneficiario (Weber, 1980, pp. 51-52). Il mandato istituzionale dell’autonomia e dell’emancipazione permette agli operatori sociali degli enti gestori di provare a progettare con i beneficiari percorsi di inserimento attivo e partecipato. Chi, durante le interviste, dichiarava di fare questa scelta non nascondeva il bisogno di sentirsi più soddisfatto del proprio lavoro e con la coscienza a posto: infatti riuscire ad avere riscontro anche di piccoli successi di inclusione sul territorio con le famiglie e con i singoli sviluppa negli operatori l’ottica progettuale e le strategie operative ad essa connesse, facendo percepire anche una maggiore corrispondenza tra ciò che si fa e un mandato sociale a cui gli operatori si sentono chiamati in quanto social worker: quello di essere di aiuto, di produrre benessere anche a terzi e di mitigare le situazioni di disagio.

I numeri della ricezione della prima accoglienza rimangono, in molti casi, troppo elevati. Questo determina una reale difficoltà a pensare di prospettare percorsi individualizzati all’interno di queste strutture. Il numero di migranti accolti sembra fare la differenza rispetto, non solo alla possibilità di successo dei percorsi di inclusione, ma anche rispetto alla valutazione della fattibilità degli stessi.

La seconda accoglienza, se rimane tale nella sua struttura essenziale (piccoli numeri e beneficiari distribuiti in appartamenti) sembra poter essere lo spazio sociale in cui sia possibile intravedere i percorsi di integrazione di migranti e intercettare le dinamiche complesse proprie dell’accoglienza in Italia che di fatto traducono le politiche migratorie (livello macro) in pratiche quotidiane (livello micro) più o meno socializzate a tutti gli attori coinvolti (direttamente e indirettamente). Sembra infatti essere lo spazio in cui gli operatori del privato sociale ritengono di poter investire sulla concreta fattibilità di processi di inclusione sul territorio e in cui gli abitanti dei luoghi interessati possano essere maggiormente coinvolti. Ricordiamo infatti che mentre la prima accoglienza è gestita direttamente dal ministero dell’Interno e quindi dalle prefetture con una prospettiva che è per lo più di gestione dell’emergenza, nella seconda accoglienza sono presenti i Comuni (enti titolari dei progetti) che attraverso l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) provano a muoversi in maniera coordinata e convergente nelle diverse regioni e

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perlopiù in un’ottica di inclusione territoriale e di promozione delle comunità locali. Se i pregi dell’accoglienza diffusa, che destina risorse a centri demograficamente meno attrattivi, sono stati ampiamente evidenziati tanto da farne una caratteristica virtuosa dell’esperienza italiana, non sono però da sottovalutare le mancanze di risorse del territorio al momento in cui si riverberano sui servizi di accoglienza limitandone le potenzialità (Barberis e Boccagni, 2017; Elia, 2013, pp. 11-43). Gli operatori da me intervistati, attivi in Sicilia e in Calabria, segnalano ad esempio la difficoltà di proporre percorsi di autonomia di fronte a un mercato del lavoro già asfittico, la carenza di infrastrutture e servizi (ad esempio di trasporto), e l’incidenza delle barriere linguistiche nei rapporti con i servizi territoriali.

1.1 I percorsi di accoglienza integrata ovvero la seconda accoglienza

Questo contributo intende focalizzare la propria attenzione sui percorsi di seconda accoglienza in cui è possibile, nel caso in cui la filiera governativa funzioni, superare l’obiettivo del soddisfacimento dei bisogni primari (cibo, vestiario, alloggio ma anche produzione della documentazione necessaria per definire il proprio status giuridico) per occuparsi così di costruire percorsi di inclusione dei migranti che si vorrebbero orientati all’autodeterminazione e alla consapevolezza, da parte dei social workers e dei beneficiari, delle strategie e degli strumenti utili a tale percorso.

Sebbene lo sguardo assunto in questo lavoro sia quello del ruolo che gli operatori ricoprono nell’ambito dell’istituzionalizzazione dell’accoglienza dei migranti considerati irregolari, la loro funzione e le strategie che mettono in campo verranno ricondotte alla complessità (Viel, 2015) intrinseca nella relazione di aiuto che si traduce, in molti casi, nella difficoltà a gestire e contenere il proprio potere e nelle derive che possono risultare dalla doppia valenza che questa assume, quello del sostegno e quello del controllo.

Il sistema di seconda accoglienza interessa direttamente diversi attori sociali (Ministero dell’Interno, Anci, Terzo settore, cittadini e aziende delle comunità locali) con compiti e funzioni diversificate che dovrebbero intervenire ognuno per la propria competenza, convergendo però sulla possibilità concreta di offrire opportunità, strumenti e istruzioni di inclusione per i beneficiari anche se ognuno da una prospettiva e con un interesse differente.

Oggetto di questo studio sono le azioni di supporto attorno al beneficiario degli Sprar e sulle strategie di empowerment messe in atto

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dagli operatori e dai migranti per tessere percorsi di autonomia e di emancipazione dal sistema di protezione. Lo scenario che fa da sfondo è quello della presa in carico di persone che vivono una condizione di marginalità, provenienti con mezzi di fortuna da un paese estero e che vivendo una situazione di svantaggio economico e socio-politico richiedono, attraverso la compilazione del modulo C/32, di essere ascoltati

dalla Commissione territoriale per ottenere lo status di rifugiato o altro tipo di protezione.

Viene registrata dal sistema una fragilità che deriva non solo e necessariamente da qualità personali e da vissuti soggettivi, ma anche da fattori strutturali, e che, di fatto, è presa in carico dagli operatori sociali. Questa fragilità può essere veicolo di visioni stereotipate del migrante: «lo straniero come povero e debole» o al contrario «il migrante come necessariamente forte e resiliente».

La rappresentazione che le organizzazioni e i social worker possiedono interessa e influenza la capacità di agency degli operatori sia nell’accompagnamento dei beneficiari all’interno dei servizi, sia nella possibilità reale di riuscire a costruire complementarietà, ove possibile, con le nuove reti etniche che si stanno strutturando, a volte anche in seguito alla nascita di un progetto sprar in un luogo: «In realtà, nonostante questa rappresentazione potrebbe far figurare alcuni territori, in virtù di un più evoluto sistema di welfare, più predisposti a realizzare forme avanzate di accoglienza territoriale, la «(ri)conquista» dell’autonomia del beneficiario è il risultato di un lavoro complesso di accompagnamento che, come riporta il Rapporto SPRAR 2011/12, supera la dimensione del mercato del lavoro locale, in quanto deve incidere necessariamente su forme consolidate di marginalità sociale» (Elia, 2013, p. 122)

È comprensibile come questa cornice contribuisca a costruire un quadro di significati in cui viene inscritta la relazione di aiuto.

Il presupposto è che non esistano procedure sempre funzionanti per fronteggiare tale complessità ma lo studio e lo scambio delle buone pratiche può servire a limitare situazioni di impasse e attivare processi di partecipazione e attivazione di operatori e migranti ai percorsi di uscita dal sistema Sprar: è per questo che verrà dedicato uno spazio alla presentazione delle modalità operative dell’équipe del progetto sprar di Sant’Alessio in

2 Il modulo C/3 o altrimenti «verbale delle dichiarazioni degli stranieri che chiedono in

Italia il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951».

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Aspromonte3 in relazione al tirocinio formativo. Si considera infatti che

questa esperienza, in un contesto socio economico non particolarmente favorevole, offra alcuni spunti interessanti sull’inclusione lavorativa. Si è ritenuto utile, inoltre, intrecciare le riflessioni sullo sprar di sant’Alessio con l’esperienza di Villa San Giovanni.

Si vedrà come, nella rielaborazione del proprio progetto di vita in funzione anche della ricerca di un impiego, la combinazione tra

l’imprinting della missione dell’ente gestore (Moro, 2014; Nonnis, 2007;

De La Torre, 2006), la «cultura locale delle politiche sociali» (Prandini, 2002), la storia professionale dei singoli operatori e la storia di vita dei beneficiari si incroceranno nel «mondo-della-vita» (Schutz, 1974) di questi ultimi, per poi contribuire a costruire i passaggi necessari all’uscita dal progetto.

I servizi di seconda accoglienza sono qui pensati come spazio di osservazione utile a capire come la compartecipazione ai progetti di vita dei beneficiari e le pratiche del lavoro sociale siano il risultato anche di passaggi interpretativi e di ricostruzione individuale e collettiva degli attori sociali in campo, di azioni quindi di «sensemaking and enactment» (Weick,1997;1993) che vengono messe in atto in uno «spazio sociale giocato» (Bourdieu, 2009, pp. 26 e 45) producendo e riproducendo alcune delle pratiche sociali che si strutturano nell’ambito del progetto Sprar territoriale e che sono più o meno funzionali ai percorsi di adattamento del migrante.

La convergenza degli operatori verso un’idea di accoglienza integrata, intesa come adattamento ai contesti e alle sensibilità diverse messe in campo, permette di avviare percorsi di valutazione verificabili anche nel breve periodo al contrario di quelli di integrazione che richiedono una valutazione di lungo termine.

Quando in questo contributo si parlerà di adattamento si farà riferimento al Modello dinamico di sensibilità interculturale (MDSI) di Milton J. Bennett che, da una prospettiva costruttivista4, posiziona l’adattamento

come la fase precedente all’integrazione in un percorso evolutivo che dalla negazione della differenza arriva al suo riconoscimento e alla

3 Il riferimento è al progetto territoriale il cui ente titolare è il Comune di Sant’Alessio in

Aspromonte (RC) e l’ente gestore è la cooperativa Coopisa. Questo servizio ha la disponibilità di 21 posti ordinari ed è strutturato su appartamenti dislocati nel territorio. I progetti Sprar ordinari, nell’area della provincia di Reggio Calabria, sono in tutto in tutto 26.

4 Berger, P.L. e Luckmann, T. (1997). La realtà come costruzione sociale. Bologna. Il

Mulino; Santambrogio, A. (2006). Il senso comune. Appartenenze e rappresentazioni

sociali. Roma-Bari, Laterza; Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Milano.

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consapevolezza che adattarsi ad un nuovo contesto, non significa incorporarne integralmente e acriticamente le nuove abitudini e le nuove regole, bensì acquisire un atteggiamento che porta ad orientarsi in un contesto culturale sconosciuto attraverso la continua rielaborazione di significati e lo spiazzamento (Bennett, 2015; Sclavi, 2003). Il ruolo degli operatori sarà così quello di fornire uno spazio cuscinetto, protetto, in cui il beneficiario possa sperimentare il disorientamento come fase fisiologica e creativa dell’adattamento ad un territorio altro, riuscendo però, allo stesso tempo, ad acquisire gli strumenti conoscitivi ed emotivi necessari per proseguire la propria strada in autonomia.

Il ruolo degli operatori è solitamente quello di facilitatori della comunicazione e mediatori culturali, strictu sensu, tra i migranti e il contesto che li ospiterà: Amartya Sen quando parla di «capability approach» (Sen, 2000) chiarisce come non sia sufficiente che i servizi esistano ma è necessario che le persone siano in grado di accedervi autonomamente. Per riuscire in questo i migranti devono sapere cosa chiedere e dove chiederlo, e quindi riuscire a scegliere ed agire quella che Sen chiama «libertà di conseguimento» (Busilacchi, 2011). Di fatto gli operatori che ho conosciuto si offrono di supportare, ove necessario, i migranti nella conoscenza del nuovo contesto nell’ambito di un servizio creato ad hoc e che rientra in una cornice più ampia che è quella del sistema di welfare residuale italiano in cui anche il ruolo degli operatori è spesso stato segnato da un immaginario fondativo del lavoro sociale, fatto di passione e di investimento totalizzante nella relazione di aiuto ma da cui potrebbe essere utile «congedarsi» (Camarlinghi e D’Angela, 2007, p. 22).

Da quello che ho avuto modo di osservare e ascoltare negli sprar di cui racconto l’esperienza la maggior parte degli operatori che vi lavorano stanno iniziando a narrare il loro fare come un agire che può raggiungere solo obiettivi parziali e che deve necessariamente tenere la persona al centro della relazione mettendo a disposizione informazioni, mezzi e frame di comprensione e non impacchettando soluzioni: «lo sprar offre degli strumenti e non trova lavoro» mi raccontano ad esempio.

Dalle interviste in profondità sembra emergere, da parte degli operatori sprar, una maggiore facilità a rendere autonomi i migranti sul fronte dell’accesso ai servizi socio-assistenziali, piuttosto che su quello dell’inclusione lavorativa nonostante l’auto-narrazione sia sempre la medesima: quella dell’importanza della delega di potere al beneficiario e di emancipazione dello stesso dal sistema di accoglienza.

Questi processi di attivazione reciproca e circolare (gli operatori sollecitano i beneficiari ma a loro volto vengono stimolati da questi) imbastiscono relazioni che possono sostenere i percorsi personalizzati di

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inclusione dei richiedenti protezione: «La reciprocità comporta un protagonismo attivo dei singoli beneficiari, i quali non devono mai – qualunque siano le loro condizioni fisiche e mentali – essere considerati come meri destinatari di servizi e interventi. Infatti, se da un lato gli operatori sono tenuti a realizzare attività e servizi, gli stessi beneficiari devono poter partecipare all’attuazione delle misure di accoglienza, a partire dal proprio progetto personalizzato, rispetto al quale devono poter attivarsi a partire dalle risorse individuali, da riconoscere e valorizzare» (Servizio centrale, 2015, pp. 23-24).

C’è da dire, come già evidenziato, che spesso la decisione di costruire canali autonomi di comunicazione tra beneficiari e gli operatori dei servizi territoriali si scontra con la possibilità reale di accesso ai servizi: «in alcuni casi» dicono gli operatori «succede che siano gli stessi operatori dei servizi, dell’ospedale o il medico, che ci chiama e ci chiede: come mai è [parlando del beneficiario] venuto solo?»

In questa prospettiva si focalizzerà l’attenzione sulla rilevanza che assume, nei percorsi di inserimento sociale dei migranti, la reputazione (Barnett, Jermier e Lafferty, 2006) nei processi di riconoscimento con il contesto altro, degli enti gestori, degli operatori ma anche dei richiedenti.

I principali strumenti di ricerca utilizzati sono stati le interviste in profondità ad operatori sociali, coordinatori dello sprar locale (inteso come nome comune: sta per “servizio Sprar”) e beneficiari in uscita o usciti dal sistema di protezione, i focus group con assistenti sociali e operatori dell’accoglienza realizzati in Calabria e in Sicilia e infine un periodo di osservazione diretta in uno sprar della provincia di Reggio Calabria, quello di Sant’Alessio in Aspromonte, che esiste dal 2013 e che ancora oggi, nonostante sia cambiato l’ente gestore, è considerato una buona prassi dalla fondazione Cittalia Anci ricerche5.

5 Dall’inizio della ricerca (2014) sono stati realizzati sei focus group cui hanno

partecipato 45 operatori sociali e sono stati intervistati 20 operatori della seconda accoglienza appartenenti ad organizzazioni del Terzo settore nei territori siciliano e calabrese (province di Messina, Catania, Ragusa, Siracusa, Reggio Calabria). I nomi dei testimoni privilegiati sono fittizi. Ringrazio tutti gli operatori e i coordinatori dei servizi Sprar per la generosa collaborazione. Alcune utili intuizioni sono maturate nei focus group didattici organizzati con gli studenti di Servizio sociale dell’Università di Messina, sede di Modica-Noto, e dell’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria. Grazie a Maria Carmela Albano e Arlene Tuzza per aver condiviso la conduzione di alcuni focus e la riflessione sui risultati.

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2. Il lavoro sul campo: come costruire la credibilità tra il bisogno

di aiuto e quello di controllo

Nel lavoro di ricerca è stata fondamentale la fase esplorativa, durata quasi un anno, in cui si è iniziato a realizzare i primissimi focus group e le prime interviste agli operatori sociali: la determinazione con cui tutti coloro che sono stati intervistati sottolineavano la necessità di andare oltre il soddisfacimento dei bisogni primari e proiettavano, invece, il proprio lavoro verso la necessità di guardare il migrante in una prospettiva futura mi ha portato ad osservare come i diversi modi e la diversa misura di investimento nell’accreditamento con l’ambiente esterno da parte dei Comuni (ente titolare del progetto territoriale di accoglienza) e soprattutto dei soggetti del privato sociale (enti gestori del progetto territoriale di accoglienza) abbiano una ricaduta significativa e reale sui percorsi di autonomia dei migranti e sulla loro possibilità di percepirsi e quindi agirsi come soggetti attivi e realmente liberi di scegliere o al contrario come soggetti assistiti, e quindi passivi.

L’immagine che gli operatori sociali impiegati negli sprar hanno dei migranti può restringere o ampliare lo spazio dell’ «arte di ascoltare e mondi possibili» (Sclavi, 2003), a seconda che li si pensi come soggetti capaci di «agency» (Folgheraiter, 2011) o piuttosto solo soggetti deboli e impotenti che devono essere “salvati”: è fondamentale quindi che i social

worker che lavorano in questo settore, ma in realtà anche negli altri,

investano tempo ed energie nella rielaborazione dei propri pregiudizi, spesso radicati e inconsapevoli, per poter riuscire a limitare i condizionamenti che provengono non solo dalle parole usate, ma anche da quello che viene chiamato «leakage channel» ovvero canale di trapelamento (Ekman, Friesen, 1969) e che di fatto incide anche sull’autopercezione che il soggetto ha di se stesso. Lavorare sulle parole da usare e sui comportamenti da comunicare è una scelta di campo, che rientra nell’idea che gli operatori possano essere considerati policy maker (Tarsia, 2010) e che può anche voler dire riuscire a prendere le distanze da un fare improntato sulle soluzioni e sull’emergenza piuttosto che sceglierne uno basato sulla esplorazione della domanda e su un ascolto attivo: «Se è vero che l’appiattimento della “capacità di aspirare” è uno degli esiti peggiori della deprivazione materiale […] è importante nel contatto con persone straniere […] cercare di capire quanto questa capacità sia presente; come sia stata influenzata dalla migrazione; verso dove sia orientata; quali conseguenze essa abbia sulla loro vita […] il grado di resilienza nel coltivare progetti personali e familiari per il futuro, a medio e lungo raggio,

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meriterebbe più attenzione da parte degli operatori sociali […] un messaggio che è importante ripetere, per non minare l’orientamento promozionale del servizio sociale, è che l’essere stranieri non costituisce una debolezza in sé». (Barberis e Boccagni, 2017, pp.63-65)

Rilevando la complessità che sottostà alla relazione di aiuto, ci sarebbe da chiedersi quanto gli operatori sono effettivamente formati a sostare al margine della relazione di aiuto con i migranti permettendo loro di agire la propria «libertà di conseguimento». Insegnando nei corsi in Scienze del servizio sociale e lavorando sul campo con gli assistenti sociali mi rendo conto di come sia difficile per chi si forma a questa professione, ma anche per chi la esercita da anni, riuscire ad accettare di sostare nella relazione di aiuto e scegliere di accompagnare gli utenti senza sostituirsi nelle scelte e nelle azioni (Tarsia, 2010, 2009; Di Lernia, 2008).

Richard Sennett a tal proposito sottolinea come riuscire a mantenere un atteggiamento di rispetto nei confronti della persona da aiutare sia difficile quanto necessario per evitare di avviare percorsi di infantilizzazione e quindi di dipendenza (Sennett, 2004). Rispettare una persona che vive una situazione di marginalità e di difficoltà significa, per l’autore, riuscire ad aiutarla non solo permettendole di scegliere e negoziare il tipo di aiuto di cui ha bisogno, ma anche permettendole di capire perché qualcuno dovrebbe aiutarlo: questo significato di rispetto mi sembra strettamente collegato con la possibilità, per migranti e operatori, di avviare un rapporto di fiducia e di stima reciproca che può portare poi alla generazione di una credibilità con l’esterno. In questo contributo infatti si presupporrà che il tipo di relazione di aiuto che si costruisce sia più o meno funzionale a generare valore aggiunto utile all’inserimento socio-lavorativo dei beneficiari. Il clima di fiducia che si produce, funziona da attivatore e trasformatore di capitale sociale creando i presupposti per «una rete di relazioni dalla quale si origina una relazione-del-Noi (We-relation). Questa relazione-del-Noi è il BR[bene relazionale], per esempio […] il clima lavorativo di un’azienda, il senso di appartenenza ad un’associazione di volontariato, la relazione fondante di una cooperativa sociale» (Donati e Solci, 2015, p. 15).Tutto questo, secondo me, contribuisce alla costruzione di una buona reputazione dell’ente gestore che diventa rassicurante con l’esterno e che in questo modo fluidifica la nascita di relazioni che permettono l’accoglienza dei beneficiari, generando, nelle esperienze di successo, un benessere che Donati così come Folgheraiter definiscono generalizzato/pubblico (Donati, 2011; Folgheraiter, 2000) quindi che, pur partendo dalla relazione di aiuto, si trasfonda al contesto e a persone terze.

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Le pratiche sociali e le strategie messe in atto in termini di intenzionalità da parte dei social worker e dei migranti, e la loro possibilità, in potenza, di spendere il proprio capitale umano e sociale, sono osservabili, per mia esperienza, maggiormente nella fase del tirocinio formativo e di orientamento al lavoro6 e nei percorsi di uscita dei migranti dal sistema di

protezione: di fatto spesso questi due step del percorso di accoglienza sono tra di loro connessi.

Un beneficiario può allontanarsi dal progetto territoriale per diversi motivi: per cessazione del tempo di permanenza, per inclusione socio- lavorativa, per decisione unilaterale sua o dell’ente gestore7. Ciò che ci

interessa analizzare in questo contributo sono le strategie di fronteggiamento (Folgheraiter, 2011; 2006) e le pratiche sociali messe in atto nel caso delle uscite classificate nel database del Servizio centrale come di «integrazione» (Servizio centrale, 2017): ciò che è di rilievo è che per il successo di questo tipo di uscita si è verificato, nei casi ascoltati, un investimento e un coinvolgimento diretto da parte del migrante, degli operatori sociali e di altre persone esterne al servizio come i potenziali datori di lavoro e i residenti dei luoghi in cui lo sprar territoriale si è insediato. La prospettiva è quella per cui per un percorso di adattamento funzionale sia importante costruire un terreno comune in cui è possibile negoziare saperi, motivazioni e interessi reciproci e prospettive future riuscendo a mantenere in equilibrio il rapporto tra aiuto e controllo e riuscendo anche ad accogliere, da parte degli operatori, scelte considerate da loro impensabili e inaccettabili come ad esempio la decisione di prostituirsi, o di abbandonare improvvisamente il progetto per seguire un gruppo di connazionali, o di ricercare occupazione nel mercato informale (Ambrosini, 2001).

6 «Il tirocinio formativo e di orientamento è finalizzato ad agevolare le scelte

professionali attraverso la conoscenza diretta del mondo del lavoro. Non si configura in alcun caso come rapporto di lavoro, ma è un’esperienza formativa, sebbene realizzata in azienda, e per questo motivo vi possono accedere anche i richiedenti protezione internazionale», in Servizio centrale (a cura di), Manuale…, 2015, p. 64.

7 «Motivi di uscita. Abbandono: persone che lasciano il progetto spontaneamente prima

della scadenza dei termini, talvolta anche senza aver acquisito strumenti per l’integrazione. Integrazione: persone che lasciano il progetto avendo già individuato o avviato concreti percorsi lavorativi e alloggiativi. Dimissione per scadenza termini: persone che lasciano il progetto per scadenza dei tempi previsti, avendo acquisito gli strumenti utili al percorso di integrazione, ma senza aver ancora individuato un’eventuale offerta lavorativa stabile. Allontanamento: persone che sono state allontanate dal progetto per aver commesso gravi o reiterate infrazioni al regolamento del progetto e del centro» (Tavolo di coordinamento nazionale, 2016, p. 25).

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2.1 Migrante, beneficiario e infine straniero legalizzato

Il «migrante forzato» o meglio la persona in «dislocazione involontaria» (Papadopoulos, 2015) usando una terminologia che mi sembra meno classificatoria e più ampia, diventa nello Sprar beneficiario di servizi. Anche se il termine beneficiario evoca un’accezione passivizzante di soggetto di assistenza è importante chiarire che, secondo il manuale operativo: «diventa, pertanto, essenziale collocare al centro del Sistema di Protezione le persone accolte, le quali non devono essere meri beneficiari passivi di interventi predisposti in loro favore, ma protagonisti attivi del proprio percorso di accoglienza e di inclusione sociale (Servizio centrale, 2015, p. 6)».

I servizi offerti in tutti gli Sprar sono l’insegnamento della lingua (che può essere erogato direttamente o delegandolo agli istituti comprensivi che insistono sul territorio), la mediazione e l’interpretariato linguistico, l’assistenza legale, l’assistenza socio-sanitaria e l’accompagnamento all’esperienza di inclusione lavorativa (alcuni di questi sono presenti in tutti progetti mentre altri sono variazioni sul tema pensati dai coordinatori e dai presidenti degli enti del privato sociale insieme con i Comuni). Ogni progetto può organizzare queste attività come ritiene più opportuno, oltre a poter ampliare l’offerta a disposizione dei migranti con laboratori o qualunque altra attività di interesse.

La presa in carico del migrante è globale e complessiva e si concretizza in un progetto individualizzato: in questo paragrafo si farà così riferimento alle risorse materiali e immateriali messe in campo dagli enti del Terzo settore ma anche all’investimento del capitale sociale (Bourdieu, 1986) e umano di operatori e di comuni cittadini (personal network) all’interno di un processo di responsabilizzazione condiviso.

Negli sprar di sant’Alessio in Aspromonte così come in quello di Villa San Giovanni8, ad esempio, le principali tappe funzionali all’inclusione

socio-lavorativa sono l’accoglienza inziale, la produzione della documentazione, le attività di socializzazione e apprendimento della lingua, i colloqui di orientamento, la definizione dell’azienda in cui svolgere il tirocinio, la realizzazione dell’attività di tirocinio.

8 Il riferimento è al progetto territoriale il cui ente titolare è il Comune di Villa San

Giovanni (RC) e l’ente gestore è la sezione provinciale dell’Arci di Reggio Calabria. Questo servizio ha la disponibilità di 44 posti ordinari ed è strutturato su appartamenti dislocati nel territorio.

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Proviamo ora a descriverle un pò più nel dettaglio in modo da coglierne la coerenza e la congruenza in direzione dell’obiettivo condiviso del raggiungimento dell’autonomia del beneficiario.

Nella fase di ricezione del beneficiario, da parte della struttura, è facile che sia sempre presente il mediatore o l’interprete mentre varia la modalità di accoglienza del migrante da sprar a sprar. In alcuni casi il beneficiario viene accolto dal coordinatore, o ancora dall’operatore dell’accoglienza o in altri casi dall’intera équipe al completo, in altri ancora è anche presente il sindaco.

Subito dopo l’operatore dell’accoglienza e quello socio-sanitario si occuperanno di supportare il migrante nella produzione di tutta la documentazione necessaria a rendersi «visibile» sul territorio in cui vivrà almeno per i successivi sei mesi (spesso anche per più tempo)9. Non

appena, nella riunione settimanale di équipe, l’operatore che gestisce i tirocini è informato che il nuovo entrato è in possesso dei documenti (permesso temporaneo di soggiorno, iscrizione al SSN) utili all’avvio dell’esperienza di training sul campo o comunque di formazione (a seconda della proposta che si prospetta e si condivide con il beneficiario) viene concordato un appuntamento per un colloquio di orientamento.

Questi colloqui solitamente durano circa un’ora e richiedono la presenza dell’assistente sociale, dell’operatore di inclusione lavorativa e del mediatore culturale/interprete. Gli operatori costruiscono un setting circolare e prestano attenzione affinché nel tempo del colloquio nessuno possa intromettersi o disturbare. Durante questo tempo, totalmente dedicato al beneficiario, si ascolterà la persona con l’intento di costruire il suo bilancio di competenze: mi sembra interessante sottolineare come a fronte di quelli suggeriti dal manuale operativo i diversi sprar territoriali possano modificare e adattare gli strumenti di lavoro con i beneficiari. A questo proposito l’équipe del progetto di Sant’Alessio, ad esempio, ha costruito, nel tempo, un format personalizzato del bilancio di competenze che utilizza per tutti i propri beneficiari. Nei giorni a seguire l’operatore incaricato ai tirocini formativi proverà a individuare un ente o una impresa che possa avvicinarsi ai bisogni e alle aspettative del beneficiario, prenderà i contatti con il potenziale datore di lavoro, con cui concorderà la fattibilità del tirocinio e ne definirà le regole.

Rispetto alle aspettative Iride operatrice sociale dello sprar di Sant’Alessio, sottolinea come: «se ci sono delle aziende di Sant’Alessio,

9 Questo è il percorso nel caso in cui i migranti arrivino senza alcun documento. Gli

operatori che ho intervistato mi hanno raccontato che nella loro esperienza sono molti i beneficiari che arrivano senza documenti di soggiorno e senza registrazione ai servizi.

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Laganadi e dintorni prediligiamo quelle, perché comunque è più importante dare un contatto con il territorio in cui abitano però è vero anche che sono realtà piccole quindi le possibilità lavorative sono già poche […] quindi poi si finisce per appoggiarsi al mercato lavorativo di Reggio. Prima di arrivare all’attivazione del tirocinio in sé il percorso prevede un bilancio di competenze […] per capire poi con il beneficiario qual è il percorso migliore per arrivare eventualmente alla realizzazione di questi sogni che molto spesso, nella mia esperienza, si tramutano in una stabilità economica. Quindi è più importante la stabilità nel lavoro che il lavoro in sé, però quello che cerchiamo di fare noi è di farli entrare in una mentalità di possibilità future e speranze maggiori di lavori che non siano meramente zappare, pitturare, mettere i chiodi che sono un po’ quello che si aspettano»

Subito dopo, l’operatore farà la sua proposta nella riunione di équipe settimanale mettendo al corrente i colleghi del percorso previsto per il beneficiario. Seguirà un appuntamento per un successivo colloquio per definire la destinazione scelta, i tempi e il percorso di tirocinio. Nei tre o quattro mesi che seguiranno l’operatore di tirocinio monitorerà tutto il tempo del training fino alla conclusione. A questo punto, di nuovo, tutta

l’équipe ragionerà con il beneficiario sulla ormai imminente uscita dal

progetto.

Punto di partenza di tutto questo processo è l’intenzionalità mostrata dal beneficiario e la sua motivazione ad agire per conseguire l’obiettivo che lo interessa: solitamente quello di poter lavorare, sopravvivere e mandare, se possibile, i risparmi ai suoi parenti rimasti a casa. È in questo spazio potenzialmente conflittuale che si incontrano e scontrano interessi differenti e modi di intendere la propria vita e il proprio futuro così come le abitudini o la diversa gestione del proprio tempo e delle proprie relazioni interpersonali. È in questo terreno che gli operatori dovranno destreggiarsi in modo tale da bilanciare il potere di cui sono investiti in relazione al ruolo che ricoprono e le posture accuditive che in alcuni casi hanno introiettato: fino a quanto dovranno insistere gli operatori con beneficiari che non vogliono seguire le lezioni di italiano o che non vogliono partecipare alle attività? Quanto è giusto perseverare con loro e quanto è invece è opportuno lasciare che decidano autonomamente? Queste sono domande che provengono dall’ascolto di operatori che lavorano da anni negli sprar e che continuamente si trovano a vivere situazioni conflittuali nelle relazioni di aiuto con i beneficiari e a cui non è possibile trovare risposte standard ma è piuttosto utile considerarle come domande che interpellano in continuazione il senso profondo e la mission dell’organizzazione e del proprio essere operatori.

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Nel costruire con il migrante il suo progetto di inclusione sociale l’operatore è direttamente coinvolto nella comprensione di sé, dell’altro e dei terzi implicati nella relazione di aiuto. Da un lato dovrà prendere consapevolezza dei propri bias cognitivi, i propri pregiudizi e i propri valori in relazione al migrante e dall’altro dovrà fare di tutto per mettere, con lui, a fuoco le aspettative del contesto di inserimento sociale. In questo caso particolare trova conferma quello che Giddens chiama «doppio processo ermeneutico» (1979, p. 110): se da un lato il professionista dovrà tenere presente e partire dalle conoscenze del migrante e considerarle vere e legittime, su un altro fronte sarà necessario rinviarle ad un contesto più ampio, quello del contesto culturale locale, dei saperi tecnici e delle concrete possibilità di intervento.

È in questo doppio processo ermeneutico che l’operatore ricopre un ruolo di garante: nella relazione fra servizio e beneficiario si configura un dentro, percepito perlopiù come protetto, quello delle relazioni sociali che si imbastiscono tra operatori e beneficiari e un fuori, più impegnativo in cui il beneficiario, per essere riconosciuto, deve acquisire i documenti (tessera sanitaria, registrazione nelle liste di collocamento, codice fiscale, carta prepagata, abbonamento dei mezzi di trasporto), deve riuscire a vivere da solo in un appartamento e quindi relazionarsi con il contesto (vicini di casa, altri condomini, altri beneficiari), deve poter acquistare, in autonomia, beni primari da esercizi commerciali, deve muoversi da solo sui mezzi di trasporto, deve rapportarsi con un datore di lavoro, un tutor e dei colleghi con cui costruire una relazione professionale. Il tempo che in media si ha per realizzare tutto questo è di 9 mesi, che corrisponde al tempo di permanenza di cui i beneficiari usufruiscono della seconda accoglienza (Tavolo di coordinamento nazionale, 2016).

L’elaborazione del progetto di vita/inclusione del migrante riguarda diversi aspetti: regole di vita quotidiana, norme di comportamento con abitanti del luogo e datori di lavoro, orientamento nello spazio dello sprar ma anche del nuovo contesto culturale e territoriale. Consapevole quindi della complessità del processo di adattamento qui mi concentrerò solo sulla fase del tirocinio formativo mettendola in relazione all’uscita del beneficiario dal progetto territoriale.

Mi sembra utile ricordare come gli operatori di questi sprar considerino il tirocinio formativo come lo strumento di collegamento tra un prima, quello dell’accoglienza, e un dopo quello dell’emancipazione e dell’autonomia. Se nel caso del rapporto con i servizi (medico di base, ospedale, centro per l’impiego…) gli operatori che ho ascoltato sembrano maggiormente disponibili a delegare potere ai beneficiari, nel caso del lavoro sembra avvertano la necessità di accompagnare maggiormente il

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migrante. In altre situazioni che però ho avuto modo di conoscere, la struttura organizzativa dell’ente gestore invece spingeva gli operatori sprar a demandare maggiormente la scelta del luogo in cui svolgere il tirocinio formativo e preferivano inserirsi solo in una fase successiva della contrattazione con gli esercenti commerciali.

2.2 Pratiche intorno al tirocinio formativo nello sprar di sant’Alessio in

Aspromonte

Nel caso studio che presento dopo un primo momento di accoglienza del beneficiario (circa due/tre settimane), inizia il percorso di adattamento che viene proposto dall’équipe del progetto territoriale: ogni operatore ha in carico il beneficiario per un frammento di questo percorso. Nello sprar di Sant’Alessio tutta l’équipe per intero darà un benvenuto ufficiale al beneficiario e gli spiegherà chi lo accompagnerà, in particolare, nelle varie fasi del suo percorso di adattamento al nuovo contesto. Ci sarà l’operatore che supporterà e faciliterà il migrante nei rapporti con le istituzioni e i servizi (Azienda sanitaria, Centro per l’impiego, medico di base, Prefettura, ufficio postale o banca), quello che lo sosterrà nella gestione dell’appartamento e tutto ciò che ad esso sarà inerente, colui che lo accompagnerà nell’apprendimento della lingua italiana, colui che se necessario lo supporterà nella presentazione in Commissione territoriale, colui che lo orienterà nella definizione di un percorso di inclusione lavorativa. In tutte queste fasi è presente (almeno in un primo momento e poi quando richiesto) il mediatore interculturale. L’équipe di sant’Alessio in Aspromonte, al momento dell’accoglienza, presenta al beneficiario un documento che viene chiamato induction, che potremmo tradurre con “investitura”, «in cui – spiega Iride – viene specificato ogni operatore con la competenza relativa e questa induction viene firmata dall’operatore e dal beneficiario, in presenza del mediatore, che spiega il ruolo di ognuno, in modo che se succede qualcosa, o c’è bisogno di una informazione i beneficiari sappiano a chi rivolgersi».

L’obiettivo comune di tutti questi operatori sarà quello di responsabilizzare non solo il migrante ma anche gli interlocutori istituzionali verso una relazione di aiuto che sia il più possibile autonoma: dopo la fase iniziale il beneficiario dovrà potersi muovere nei luoghi di accoglienza e in questi rapporti senza l’ausilio dell’operatore. L’apprendistato all’autonomia varrà anche per i medici, gli impiegati degli uffici, gli esercenti commerciali e i cittadini che dovranno gradualmente acquisire una propria modalità di relazione con il singolo beneficiario. Il

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patto, più o meno implicito, che lega tutti questi attori prevede che, qualunque cosa succeda, gli operatori dello sprar sono disponibili ad entrare nella relazione di aiuto, supportandola con azioni di negoziazione, regolamentazione e interlocuzione individuale o collettiva.

Nel caso dei tirocini nelle aziende o negli esercizi commerciali ciò che è importante ricordare è che, almeno negli sprar di Sant’Alessio e di Villa San Giovanni, tutto questo accade sempre per ogni beneficiario e comunque contemporaneamente con tutti i migranti presenti in un tempo determinato nel servizio. Infatti dopo un primo momento in cui l’ente titolare, l’ente gestore ma anche l’operatore stesso fanno da garanti per il migrante, la relazione formativa e di lavoro è in mano al tutor aziendale e al beneficiario; anche se, questo è importante ricordarlo, la supervisione dell’operatore/tutor dello sprar si mantiene costante per tutto il tempo dell’attività di apprendistato.

Il loro compito è così quello di monitorare costantemente i rapporti tra datore di lavoro e beneficiario; essi investono molte energie a motivarlo perché impegni il massimo delle risorse «per mostrarsi un lavoratore capace e professionale» spiega una operatrice dell’orientamento al lavoro in uno sprar della provincia di Reggio Calabria. «Da questa occasione potrebbe infatti avere origine un futuro contratto di lavoro nell’azienda che lo ha ospitato come apprendista». «Noi preferiamo che ci sia un percorso che poi venga finalizzato. Comunque ci sia la minima possibilità che il ragazzo si possa giocare la conferma sul lavoro».

In tutti gli sprar, specialmente dove i numeri sono maggiori (ad esempio con 70 posti di disponibilità) e dove il territorio, a detta degli operatori intervistati, offre minori possibilità di inserimento socio-lavorativo, gli enti gestori tentano di attingere da altre fonti di finanziamento che hanno l’obiettivo comune di proporre percorsi di ricerca attiva del lavoro (proposte di tirocinio o borse lavoro su programmi come Youth Guarantee, con Italia Lavoro o On the Road onlus ad esempio) per permettere a più utenti possibile di concretizzare l’esperienza di apprendistato o di formazione essendo il budget a disposizione quasi mai sufficiente per tutti i beneficiari.

2.3 Aiuto e controllo nell’inclusione sociale

Si capisce come la costruzione della reputazione (Emler, 1994) per l’ente gestore e per gli operatori diventi un processo essenziale del percorso di inclusione sociale e passi attraverso il desiderio/bisogno di controllo da

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parte di chi è esterno al gruppo di lavoro (esercenti, imprenditori, cittadini, vicini di casa).

Gli operatori sono figure presenti sul territorio, punto di riferimento per qualunque lamentela: i residenti dei luoghi in cui si insediano gli sprar sanno di poter, in ogni momento, riferire un evento, comunicare un allontanamento dalle regole, segnalare un comportamento incomprensibile ai loro occhi. Il controllo sociale dei beneficiari avviene così tramite gli operatori a cui viene richiesto di far proprie le regole dei luoghi e di socializzare i beneficiari. Nel lavoro e nella formazione, così come nelle attività in cui si apprende a stare nel contesto di accoglienza, gli operatori educano e controllano il processo di adattamento di colui che è straniero a questi mondi sociali.

È anche qui che possiamo trovare traccia delle dinamiche di aiuto e controllo proprie del sistema di accoglienza. Ciò che emerge in maniera chiara dalle osservazioni realizzate sul campo è che l’impegno da parte dell’équipe degli operatori per rappresentarsi socialmente come soggetti credibili facilita, di fatto, i percorsi di inclusione dei migranti. Il lavoro non è quindi quello del singolo operatore che si accredita ma del gruppo di professionisti che si costruisce lentamente e con attenzione una reputazione tale che permette di mantenere alto il livello di dialettica (Galtung, 2010, 2000) tra il servizio e gli altri attori sociali. Una dialettica che è necessario rimanga in un percorso, quello dell’integrazione, intrinsecamente conflittuale proprio perché segnato da continue tensioni di sistema che è opportuno considerare come fisiologiche e necessarie alla trasformazione del servizio stesso e alla ridefinizione della relazione di aiuto (Tarsia, 2015, 2010).

Paradossalmente la concreta possibilità che hanno gli operatori di uno sprar di attivare percorsi di inclusione sociale ad ampio raggio, è direttamente proporzionale alla loro capacità di garantire il controllo dei beneficiari: più lo sprar viene percepito come servizio in grado di controllare e monitorare comportamenti e azioni dei beneficiari più sarà possibile implementare il clima di fiducia necessario a costruire un tessuto sociale accogliente per i migranti. «Il fatto che noi facciamo da garanti è fondamentale», dicono gli operatori dei diversi sprar. E questo vale non solo per l’attivazione dei tirocini ma anche per la possibilità di avviare il beneficiario a forme di sociabilità autonoma all’esterno.

Il processo di costruzione della reputazione sembra qui essere circolare: se da un lato il progetto deve guadagnarsi la fiducia del contesto, allo stesso tempo i residenti devono riconoscere agli operatori il potere di tenere sotto controllo i beneficiari; d’altro canto i beneficiari decidono per lo più di investire nella relazione con gli operatori perché sono l’unico tramite con i

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residenti e con un apparato di regole non solo giuridiche ma anche culturali a loro sconosciute.

Molti operatori della seconda accoglienza mi hanno raccontato che, superato il tempo «prevedibile e inevitabile», della paura e della preoccupazione per l’arrivo dei migranti nel paese in cui è collocato il servizio, si è riusciti ad impostare, con le persone residenti, un rapporto di reciprocità e di fiducia funzionale a definire e determinare quei nodi della rete personale di ogni beneficiario che fossero chiari e utilizzabili anche in seguito al momento dell’uscita dal sistema di protezione.

Negli sprar di Sant’Alessio in Aspromonte e di Villa san Giovanni gli operatori, ogni settimana, si confrontano su ogni beneficiario e si scambiano le informazioni utili sul suo percorso: questi operatori, facendo leva su un lavoro di équipe a buon livello di funzionamento (Raineri, 2001), riescono così a mantenere desta l’attenzione sulle relazioni più significative che connettono anche gruppi di 30 beneficiari che hanno bisogni diversi, vivono momenti del processo di accoglienza differenti e che intrattengono rapporti di vicinato o di apprendistato con aziende diverse.

Una riflessione a questo punto mi sembra utile: quanto gli operatori riescono a modificare il proprio programma di intervento (ad esempio il numero di incontri in un determinato tempo con il beneficiario o con il datore di lavoro) in quelle situazioni in cui le condizioni permettono di dilatare i tempi del monitoraggio e quindi di verifica/controllo? E quanto invece rimangono imbrigliati in una procedura che “solitamente funziona”? Quanto riescono a mantenere la giusta distanza dalla paura di perdere il controllo della situazione o di non riuscire a offrire tutte le opportunità al beneficiario con il rischio di fallire nell’intervento?

2.4 Il tirocinio come pratica di inclusione sociale: «non me lo mandare

troppo nero»

Armida lavora negli sprar di Laganadi e Sant’Alessio d’Aspromonte (RC) dal 2015 e si occupa dell’inserimento socio-lavorativo che della fase dell’uscita del beneficiario dal progetto territoriale di accoglienza: «Questo è un lavoro che pian piano mi sono costruita […] io mi appoggio ai centri per l’impiego: compilazione della scheda anagrafica e della scheda Did (dichiarazione di immediata disponibilità). […] Noi facciamo tirocini formativi che non devono essere fini a se stessi perché quello che vogliamo è renderli autonomi. […] Io non sono nessuno per trovare un lavoro. Quello

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che posso fare è spiegare come si fa un colloquio di lavoro, quali documenti devono essere presentati ad un datore di lavoro, ad esempio il curriculum o una relazione dettagliata sulle mansioni che hai svolto. […] È un lavoro da inventarsi, devi entrare in sintonia con loro e anche con il titolare. Noi cerchiamo di accontentare i beneficiari perché il tirocinio nasce proprio dal bilancio di competenze, però dobbiamo anche vedere le difficoltà che incontriamo noi: se ad esempio il beneficiario ci dice che per tredici anni ha svolto le mansioni di autista, noi vorremmo che continuasse con quel percorso però per esempio in questo caso, prendersi la patente vuol dire avere un italiano almeno sufficiente, devi studiare. […] Noi individuiamo l’azienda che risponde alle esigenze del beneficiario, a volte conosciamo il titolare e a volte no, mi appoggio ai Cpi, ad agenzie di lavoro, faccio ricerche su internet, allora presentiamo il progetto e soprattutto le esperienze che abbiamo fatto con altre aziende. Anzitutto ti presenti a partire dal lavoro che fai. Poi presentiamo il beneficiario, il suo curriculum. Chiediamo che l’azienda possa far fare una esperienza sul campo in modo che poi il beneficiario possa sfruttare questa esperienza. Cerchiamo di trovare aziende sensibili al tema. Che magari hanno delle idee che vanno di pari passo con le nostre. Dopodiché ogni settimana, ogni quindici giorni facciamo degli incontri per vedere come va: ci mettiamo a tavolino io, il titolare, il tutor aziendale e il beneficiario, [facilitando le relazioni in modo tale che il migrante] in quei tre mesi sia al top».

Anche Romeo (sprar di Villa san Giovanni) sottolinea l’importanza di riuscire a trovare aziende con cui condividere un backgroud in termini di valori ma anche di processi: «Siccome noi veniamo da esperienze molto forti, non so: basate sull’antimafia o sulla legalità, ci piace che il nostro percorso sia improntato su queste regole. E siccome abbiamo un territorio molto difficile, stiamo molto attenti a non mandare i beneficiari in ambienti che poi possono essere deleteri per loro e per noi che predichiamo determinate cose e rischiamo di razzolare male. Certe volte abbiamo mandato qualche ragazzo nel campo edile e lì proprio stai attentissimo. Spesso se non conosciamo non li mandiamo proprio, anche se abbiamo un minino dubbio. Ci sono arrivate proposte di aziende che non ci piacevano e le abbiamo scartate subito. Dobbiamo mantenere la barra dritta anche perché rischiamo che poi possano essere utilizzati i ragazzi per altre situazioni che anche dopo possano essere deleterie per loro».

Quindi il lavoro di questi operatori va ben oltre la semplice proposta di un tirocinio come ci spiega Armida: «dopo il tirocinio formativo si fa un nuovo colloquio con il titolare dell’azienda e si capisce se c’è la possibilità di un contratto però non più con lo sprar, ma autonomamente. Se magari

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sappiamo già che ci sono degli incentivi per l’azienda, ci informiamo prima e andiamo là con qualche mezzo in mano per convincerlo a trattenere il beneficiario». Durante l’intervista in profondità Armida racconta di una esperienza di successo con un beneficiario che dopo il tirocinio in una azienda agricola è rimasto a lavorare a Sant’Alessio in Aspromonte e il datore di lavoro gli ha anche dato una casa in comodato d’uso, con giardino in cui il migrante coltiva prodotti con cui si autosostiene. «e quindi è ancora qui e dopo tre anni è riuscito a tornare in Africa a riabbracciare la sua famiglia e adesso è ritornato. Sono molto contenta per lui! Lì capisci che abbiamo lavorato bene».

La definizione dell’azienda che può accogliere i beneficiari non è frutto solo della messa in relazione della domanda con l’offerta ma anche il risultato di una mediazione in termini di congruenza di valori: sia nello sprar di Villa San Giovanni che in quello di Sant’Alessio in Aspromonte mi viene chiarito che le imprese o gli esercizi commerciali devono rispondere a requisiti di legalità ma anche accettare di accompagnare veramente il migrante nel suo percorso di adattamento. Si chiede ai tutor aziendali e ai datori di lavoro, non di essere accomodanti o «buoni», ma piuttosto di avere una sensibilità interculturale che permetta al migrante di orientarsi, di apprendere e acquisire informazioni sui comportamenti, sulle regole e sulle modalità operative. L’importanza di costruire una relazione di fiducia tra azienda e sprar è di aiuto anche nelle situazioni di imbarazzo che a volte si possono creare quando ad esempio l’esperienza di apprendistato si interrompe improvvisamente o quando il beneficiario, per varie vicissitudini personali, non rispetta le regole del contratto (orari di lavoro, tempi di consegna…).

Durante l’osservazione dei colloqui in cui veniva redatto il bilancio di competenza dall’équipe di Sant’Alessio in Aspromonte è stato interessante, a tal proposito, sentire con quanta attenzione l’operatore di inclusione lavorativa spiegava al migrante che lo sprar garantiva solo per le esperienze di lavoro e di formazione proposte nell’ambito del progetto e che non avrebbe risposto di ulteriori accordi assunti per proprio conto dal lavoratore. In questo senso è importante che i social worker riescano a bilanciare la necessità/responsabilità di offrire tutte le opportunità che possono veicolare al beneficiario (mandato istituzionale) con il rispetto per la libertà di scelta del migrante che potrebbe decidere di prendere contatti autonomamente anche attraverso canali di lavoro informale e attraverso il contatto con le reti etniche locali o nazionali.

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2.5 «Si sono accorti di quello che volevo fare e me lo hanno fatto fare»

La sensazione di essere accolti dentro una rete è comune anche ai beneficiari che ho intervistato: tutti mi hanno rimandato l’idea di essere stati inseriti in un percorso che, sebbene con tempi diversi, abbia tenuto conto delle loro particolarità caratteriali e di capitale umano (Arrighetti, 2017).

Interessante da questo punto di vista la storia di Arthur: è una storia di rivalsa, di capacità di ascolto, pazienza e fiducia nelle proprie capacità e intelligenza, e negli operatori che hanno ricambiato con un notevole investimento in termini relazionali e professionali.

Sudanese, Arthur ha 29 anni e un progetto chiaro: quello di andare in una grande città dell’Inghilterra o della Danimarca per trovare un lavoro. Oggi gode di protezione sussidiaria, è uscito dal sistema di accoglienza come beneficiario e vi è rientrato come mediatore culturale e interprete. Subito dopo lo sbarco, con sua grande delusione, si è ritrovato per sei mesi in un centro di accoglienza dell’entroterra jonico reggino. Nessuna possibilità di trovare un lavoro, di rimettersi in gioco: «quando eravamo lì vedevamo il futuro buio», era un luogo quasi di campagna, «non c’erano enti». Il suo sguardo ritrova luce quando, guardandomi fisso negli occhi, ricorda il suo nuovo inizio allo sprar di Villa San Giovanni. Ha fatto il tirocinio presso un ristorante: «andare a lavoro era come andare a casa mia, come fossi in famiglia»; lì si è fermato a lavorare altri sei mesi. Poi il responsabile dell’ente gestore dello sprar, dove Arthur si è fatto notare per le sue capacità di mediazione, gli ha proposto un contratto come operatore sociale: «Ti faremo un contratto, mi ha detto, tu lavorerai con noi. Io stavo aspettando questo momento. Io volevo farla questa cosa. Quindi ho detto al proprietario del ristorante che tra un pò avrei lavorato come mediatore e quindi dovevo migliorare il mio italiano. Lui mi ha detto: “Se tu hai trovato quello che stavi aspettando anche io sono contento!”. Io ho lasciato il ristorante e ho continuato a studiare. Ho preso la terza media e poi ho avuto un contratto come mediatore nel progetto. […] Quando ho finito il progetto ero solo, ho firmato il foglio e non sapevo dove andare. R. [un operatore sociale] mi ha detto: «Non ti preoccupare» e mi ha portato a casa sua. Mi ha dato un appartamento. Ho trovato una seconda famiglia a Villa San Giovanni. Più o meno conosco tutta Villa San Giovanni».

Arthur si aspettava con grande consapevolezza di sé e delle proprie capacità che gli operatori si accorgessero della sua capacità di mediazione perché aveva imparato da suo padre a gestire conflitti e ad ascoltare le persone più varie e diverse: «Da noi abbiamo tanti gruppi etnici, e ogni gruppo etnico ha una persona come l’imam della moschea e se c’è un

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