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Strategie didattiche del maestro Pomponazzi nella Expositio duoedcimi Metaphysicae (1511-1512)

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(1)

NELLA EXPOSITIO DUODECIMI METAPHYSICAE

(1511-1512)

Vittoria Perrone Compagni

1. Scaramucce esegetiche. Nel corso sul dodicesimo libro della

Metafisica (libro difficillimus et nobilissimus), con il quale Pomponazzi

aveva inaugurato nel 1511 il suo insegnamento a Bologna

1

, il maestro

si imbatte in una questione lungamente discussa dai commentatori a

margine del textus 6: la metafisica ha il compito di dimostrare i

prin-cìpi delle altre scienze? A favore della individuazione della metafisica

come scienza subalternante stanno Aristotele, Alessandro di Afrodisia,

Porfirio, Temistio, Avicenna e Graziadeo Ascolano; sul versante

oppo-sto si schierano Simplicio, Averroè, Tommaso, Duns Scoto ed Egidio

Romano

2

. Pomponazzi introduce la dubitatio facendola precedere da

una dichiarazione di imbarazzo, con la quale sollecita gli allievi a

com-prendere e scusare la sua perplessità esegetica:

1 La reportatio del corso, iniziato tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1511, conserva testimonianza dell’atmosfera di incertezza che in quel travagliato mo-mento storico regnava in città riverberandosi anche sulla vita universitaria: Bologna, da ottobre occupata dai Francesi, attendeva la prevedibile reazione di Giulio II, che infatti di lì a poco (gennaio 1512) la strinse d’assedio con l’appoggio delle truppe spagnole, riu-scendo ad averne ragione in maggio. Da gennaio Pomponazzi sospese le lezioni («propter Hispanos tunc Bononiam machinis infestantes», come si trova annotato nel manoscritto copiato da Gregorio Frediani: P. Pomponazzi, In duodecimum Metaphysicae, Paris, Bi-bliothèque nationale de France, lat. 6537, f. 148r) e si rifugiò a Mantova, dove in seguito lo raggiunsero i ripetuti richiami dello Studio, che aveva ripreso la propria attività didat-tica almeno da aprile. Pomponazzi era di nuovo a Bologna nel maggio del 1512.

2 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima in duodecimum Metaphysicae, Mila-no, Biblioteca Ambrosiana, t. c. 6, ff. 262v-264r. L’Expositio si estende dal textus 1 fino al textus 22; nel ms. Ambrosiano sono andate perdute le sezioni finali (corrispondenti all’ultimo terzo del textus 18 fino al textus 22) a causa di una infelice rifascicolazione. Sui quattro mss. superstiti, cfr. B. nardi, Studi su Pietro Pomponazzi, Le Monnier, Firenze

1965, pp. 68-69. Il confronto tra i mss. consente di individuare nel ms. Ambrosiano il testimone che meno di tutti ha risentito dell’intervento degli studenti che copiarono l’o-riginaria reportatio. L’edizione, di prossima pubblicazione, si basa su questo testimone, supplendo alla perdita degli ultimi fascicoli grazie al ms. Parigino (cfr. nota 1).

(2)

Nella scorsa lezione abbiamo avanzato una questione complessa; ed è di tale difficoltà che non ho il coraggio di dare una soluzione. […] Non stu-pitevi dunque se ho affermato di essere perplesso: non so se io debba imitare Paride o piuttosto Aristippo. Paride infatti, quando gli furono mostrate le tre dee, ne scelse una: per questo suo parere egli fu miserevolmente spento insieme alla sua patria; invece quando le tre donne furono sottoposte al giu-dizio di Aristippo, egli, considerando cosa era accaduto a Paride, le prese tutte e tre. Tuttavia, riflettendoci meglio, ho deciso di imitare Aristippo: non voglio infatti distinguere e giudicare tanti e così importanti autori; invece, ac-cogliendoli tutti, li renderò concordi da discordi che sono. Sappiate tuttavia che quanto dirò lo affermerò come argomentabile [probabilter], attendendo un parere migliore: forse capirete meglio questo argomento da soli, o magari grazie ad altri docenti3.

Di fronte all’autorevolezza dei tot tantique viri Pomponazzi

di-chiara di non poter operare nessuna scelta, ma di voler armonizzare le

posizioni discordanti; la professione di umiltà si rivela però maliziosa

nel momento successivo, quando gli uditori vengono indirizzati ad

«al-tri precettori» che sapranno istruirli meglio: l’allusione è al Nifo e al

suo commento allo stesso libro della Metafisica, stampato a Venezia nel

1505 e più volte criticamente menzionato da Pomponazzi in queste

le-zioni («si vultis cachinnari, videatis menchionerias Monarcae

philoso-phorum, scilicet Suessae, in hoc loco»)

4

.

È abitudine di Pomponazzi interrompere la

vertigi-ne della discussiovertigi-ne teorica con avertigi-neddoti

5

, citazioni lettera-

3 Ivi, t. c. 6, f. 264rv: «Mota fuit in superiori lectione quaestio difficilis; et est tantae difficultatis, ut <non> audeam me ad solvendum ipsam. Est enim valde ambi-gua, habens rationes fortissimas et magnos defensores pro utraque parte […]. Non mi-remini ergo si dixi me esse perplexum: nescio an debeam imitari Paridem an potius Aristippum. Paris enim, praeostensis sibi tribus deabus, unam prae aliis elegit: quare ipse cum patria extinctus miserrime fuit; at Aristippus, sumens quod Paridi accidit, praepositis iudicio suo illis tribus, eas omnes accepit. Sed diligenter considerans, deve-ni potius <ad> imitandum Aristippum: nolo edeve-nim discernere et iudicare tot tantosque viros; sed potius, omnes acceptando, reducemus discordes ad concordiam. Quod dico tamen sciatis <me> probabiliter dicere, expectans meliorem sententiam; fortassis enim vosmet vel ex praeceptoribus aliis melius intelligetis hanc materiam». Nella trascrizio-ne uniformo le particolarità ortografiche e modernizzo punteggiatura e maiuscole; non segnalo gli errori più banali di trascrizione.

4 Ivi, t. c. 18, f. 273v. Cfr. a. nifo, In duodecimum Meta ta physica seu

Me-taphysices Aristotelis et Averrois volumen, Simon de Luere, Venetiis, 1505; la risposta di

Nifo alla questione sollevata nel t. c. 6 è esposta a f. 5v.

5 Ivi, t. c. 4, f. 182v: «Et hoc est hominis docti: procedere per propria – ut in circulis, proposita quaestione naturali, naturaliter arguere debemus et in metaphysica

(3)

rie

6

, apostrofi agli studenti

7

, proverbi popolari

8

, beffarde

latinizzazio-ni di termilatinizzazio-ni volgari

9

. Questa consuetudine espositiva riflette la

per-sonalità ironica di Pomponazzi che Bruno Nardi ha messo bene in

luce nella sua meritoria e simpatetica ricostruzione dell’insegnamento

universitario; ma rappresenta anche l’accorta applicazione di una

tec-nica didattica ed espositiva conforme all’aristotelico dettame del

face-re auditoface-rem benivolum (oltface-re che diligente e attento),

familiarizzan-do con lui e con lui condividenfamiliarizzan-do, almeno in apparenza, le incertezze

della ricerca.

Nel corso del 1511-1512 Pomponazzi rende partecipi gli studenti

della sua ostilità per Averroè, già espressa fin dai tempi

dell’insegna-mento padovano in relazione al problema dell’anima

10

e ora estesa a

tutta l’interpretazione del testo aristotelico: prolisso e confuso

11

, il

Commentator meriterebbe piuttosto l’appellativo di Intricator

12

; la sua

metaphysice et non facere sicut faciebat Nicholetus: respondebat non logice quando quis arguebat in logica et nunquam ibat per propria, sed da gavinello».

6 Giovenale, Orazio, Ovidio, Boccaccio sono gli autori più spesso menzionati in questo corso. Più avanti Pomponazzi mostra di avere letto anche le Facezie di Poggio Bracciolini e del piovano Arlotto.

7 Ivi, t. c. 14, f. 282r: «Aperiatis aures hodie, domini mei; aliis diebus dormite»; nel ms. Parigino, t. c. 18, f. 172r: «Domini mei, si vultis mori in hospitalibus, exercete philosophiam, quae non habet finem: quanto magis scitur, tanto magis dubitatur».

8 Ivi, t. c. 14, f. 283r: «tria dicuntur nihil valere, belleza de putane, forza de

fachi-no, sapientia de pover homo»; t. c. 5, f. 184r: «ut ubi noluntas, ipsa lingua trahat», che nel

ms. Parigino, f. 135r, viene citato in volgare: «et dove il dente dole, la lingua tocha». 9 Ivi, t. c. 2, f. 180v: «Quae menchionaria est ista?»; t. c. 17, f. 286r: «Dices: “Vi-detur haec dicere una menchionaria, quod anima sit composita”; et mihi idem apparet».

10 P. PomPonazzi, Corsi inediti dell’insegnamento padovano, a cura di A. PoPPi, Antenore, Padova, 1966-1970. Cfr. A. Poppi, Saggi sul pensiero inedito di Pietro

Pompo-nazzi, Antenore, Padova 1970.

11 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., t. c. 5, f. 183r: «Haec autem est pars digressiva, in qua quod multis et longioribus verbis dicit, paucis utique dicere po-tuisset. Et nolite criminari alium, sed ipsum Commentatorem, qui fuit homo barbaris-simus. Facit sicut faciunt senes habentes uxorem iuniorem: tantum quaerunt <donec> foramen inveniunt; sic est ipse: tantum involvit, donec aliquid dicit»; t. c. 6, f. 262r: «Commentator videtur facere partum ursae. Scitis enim ursam parere frustrum carnis, quod lambendo ad formam propriam reducit, dans lineamenta. Sic etiam Commentator facit frustrum, quod nos lambendo reducemus ad formam»; t. c. 5, f. 184r: «Et notate quod Averrois multa et confuse dicit; nec hoc imponendum est ipsi traductori, sed ipsi Averroi, qui habuit hunc modum loquendi».

12 Ivi, t. c. 5, f. 185r: «Notate quod Commentator non fuit commentator, sed intricator, praesertim in Metaphysica: si enim legerem vobis alios libros Metaphysicae, ostenderem vobis infinitos errores ipsius».

(4)

esegesi del dodicesimo libro della Metafisica, tanto elogiata dagli

aver-roisti, si sostiene totalmente sulla esposizione di Alessandro di

Afrodi-sia, «ita quod credatis mihi quod ubi Averrois non habuit Alexandrum

apparet una bestia e una frascona»

13

; la sua fedeltà ad Aristotele lo

in-duce a una accettazione acritica dell’auctoritas, che deroga ai princìpi

della filosofia

14

, e all’ingiustificata presunzione di essere l’unico

deten-tore del vero significato del testo, tanto da sentirsi autorizzato a parlare

in luogo del suo maestro come faceva il boccacciano fra’ Cipolla

15

; una

maligna invidia ispira i suoi acrimoniosi giudizi sui grandi interpreti di

Aristotele

16

.

La distanza da Averroè non impedisce però a Pomponazzi di

ri-conoscere la validità della sua lettura in alcuni luoghi specifici. È il caso

13 Ivi, t. c. 1, f. 179r: «Commentator est multum authenticus in hoc libro, scilicet duodecimo. Allegatur autem in hoc duodecimo ab Averroistis et fuit valde utilis hic; in aliis vero libris ipsius Metaphysicae non, dicens circa textum ea quae pueri vix dicerent. De quo tamen non est mirandum, eo quod habuit textum Aristotelis semum et defectuo-sum; in isto vero duodecimo fuit valde elegans et doctus, eo quod habuit Alexandrum, vi-rum doctum, de quo putabatur nullum esse philosophum, nisi Alexandreum; in aliis vero non habuit». Lo stesso Averroè riconosceva nel proemio il suo debito verso Alessandro, averroè, In Metaphysicam, XII, prohem., in Aristotelis Opera cum Averrois

commentari-is, apud Iunctas, Veneticommentari-is, 1562, f. 286A. Questo proemio, assente nella translatio vetus,

era stato stampato apud Leonardum Vegii, Mediolani, 1511, nella traduzione dall’ebraico curata da Paolo Ricci (Paulus Israelita), già allievo di Pomponazzi. Critiche alle incom-prensioni testuali di Averroè erano mosse anche da A. nifo, op. cit., t. c. 1, f. 2ra.

14 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., t. c. 5, f. 184r: «Et notetis quod si-cut Ioannes evangelista noluit unquam relinquere Salvatorem, omnibus aliis fugientibus eumque negantibus, sic nunquam Averrois negavit Aristotelem, aliis omnibus neganti-bus; et sicut candela quae nunquam extinguitur in Siryis, semper fundat se in Aristo-tele. Ecce argumentum maximum, quod semper solet facere: si daretur alia via ad pro-bandum intelligentias abstractas esse quam via motus, Aristoteles posuisset. Valet ergo: “Aristoteles non posuit aliam viam, ergo non datur”. Semper Averrois arguit: “Aristo-teles non fecit, qui fuit regula in natura; ergo etc.”; existimavit Aristotelem non posse decipi».

15 Ivi, t. c. 14, f. 283r: «Dicit Averrois: “[…] Ego vero, qui sum natura ipsius Aristotelis, eliciam sententiam ex eius verbis”»; t. c. 8, f. 267r: «Alias dixi quod Averrois est Aristoteles transpositus, ut dicebat Nicholetus; ego autem dixi quod erat socius Fra-tris Cipollae, qui semper respondebat antequam dominus responderet».

16 Ivi, t. c. 2, f. 180v: «advertatis malignitatem ipsius Averrois: male dicens enim de istis doctoribus, dicit quod Alexander non finivit et quod Themistius nil dixit, nisi quae accepit ab Alexandro; ideo patet: ubi Themistius dimisit Alexandrum, semper er-ravit gravi errore»; t. c. 5, f. 184r: «Convertit se contra Avicennam, qui fuit vir ingenio-sissimus; ideo, quia ‘aquila non capit muscas’, Averrois contra hos magnos disputat, non contra Burlaeum. Et quia famosus erat, odio aliqualiter habebat ipsum».

(5)

della quaestio difficilis e valde ambigua proposta dal testo 6 della

Metafi-sica, nella quale egli si è dichiarato intenzionato a comporre la discordia

degli esegeti. Nell’enumerazione delle diverse posizioni viene

franca-mente riconosciuto che la prima opinio («quod metaphysica demonstret

principia scientiarum omnium et quod aliae scientiae illis utuntur ut

declaratis prius in metaphysica») si fonda sulla testimonianza esplicita

dei testi aristotelici

17

, mentre la seconda desume la tesi opposta dalla

constatazione del procedimento dimostrativo per posteriora, sempre

os-servato da Aristotele («quia Aristoteles quasi omnia principia sua habet

a naturali»)

18

. Pur avendo assunto il compito di accordare le parti

op-poste, Pomponazzi – imperfetto Aristippo – manifesta la sua preferenza

per l’altera pars: «Primo itaque sustineo mentem Commentatoris, quae

in rei veritate sanior esse videtur. […] His stantibus, teneo

Commen-tatorem et sequentes»

19

. Questa opzione si giustifica sulla presa d’atto

del rapporto che l’intelletto umano intrattiene con l’oggetto della sua

conoscenza. Se è infatti vero che secondo l’ordine naturale la metafisica

precede le altre scienze, poiché riguarda il primo ente, e perciò

dovreb-be fissare i princìpi delle altre scienze, tuttavia «respectu defectus

intel-lectus nostri» si verifica la situazione opposta: la metafisica è

subalterna-ta alle altre scienze (alla fisica, in particolare) perché la ragione umana

procede dal sensibile all’intellegibile. Sulla distinzione secundum

natu-ram e quoad nos si fonda la promessa mediazione tra le opposte tesi:

Questa allora è la risposta: l’argomento [di chi sostiene la funzione su-balternante della metafisica] è errato perché non fa distinzione tra ciò che è noto a noi e ciò che è noto per natura: secondo natura la metafisica è sovraor-dinata a tutte le altre scienze; ma rispetto a noi è suborsovraor-dinata a tutte le altre, perché la apprendiamo per ultima20.

«Havemo scaramuzato. An vero ita sit, deus scit»

21

. Queste

sca-17 Ivi, t. c. 6, f. 264r; f. 264v: «Aristoteles, primo Metaphysicae, capitulo 2, dicit quod est regina; et primo Posteriorum, capitulo 8, metaphysica habet probare <princi-pia>».

18 Ivi, f. 264v. 19 Ibidem.

20 Ivi, ff. 264v-265r: «Responsio igitur <stat> in hoc, quod peccat argumentum, quum non faciat differentiam inter notum nobis et notum naturae: metaphysica secun-dum naturam subalternat sibi omnes alias scientias; subalternatur tamen omnibus aliis quoad nos, quia ultimo addiscitur».

21 Ivi, f. 266r: «Faciunt autem disputantes sicut milites; sicut enim aliquando ali-qui milites debellant hostes suos, aliquando autem solum proeliantur non superando, sic accidit disputantibus: quandoque unus debellat alium; quandoque proeliatur solum; sic

(6)

ramucce esegetiche non svolgono affatto la funzione di proporre un

sincretismo pacificatore agli studenti

22

, ma intendono piuttosto

con-durli alla presa di coscienza dell’incertezza in cui si muove la ricerca

filosofica: la metafisica sarebbe scienza subalternante «si procederemus

ut angeli», se cioè la ragione umana non avesse bisogno di muovere

dall’esperienza per cercare di dimostrare i princìpi generali dell’essere;

Averroè e la tradizione latina hanno invece ragione nel riconoscere che

essa è subalternata alle altre scienze rispetto a noi, che procediamo per

posteriora. Non solo la conoscenza di Dio, che è causa di ogni cosa «et

notissimus quantum sit ex natura sui», è per l’uomo estremamente

ar-dua e pressoché impossibile

23

; anche la conoscenza della natura è

sfug-gente, perché la composizione materia/forma introduce infinite

possi-bilità di variazione. La considerazione delle difficoltà in cui la ragione

si sviluppa costituisce la cornice nella quale si muove tutta la riflessione

di Pomponazzi. Il procedere per accumulazione di ipotesi è coerente

con la premessa metodologica della sua indagine fisica: poiché le

po-tenzialità della natura ci sono in gran parte ancora ignote, il tentativo

umano di rintracciare le cause in rebus naturalibus giunge a

formula-re una serie di congettuformula-re verosimili, ma non riesce a organizzarsi in

scienza certa

24

. La caratterizzazione del sapere umano come ricerca

inconclusa, che si muove tra supposizioni, incertezze, ripensamenti

e sviluppi successivi, è dichiarata in più occasioni e trova sistematica

applicazione anche sul piano espressivo: nel De incantationibus, per

esempio, le varie solutiones sono spesso introdotte da una terminologia

est nobis in ista responsione: havemo scharamuzato. An vero ita sit, deus scit; aliter tamen non potest dici».

22 Ibidem: «Pro tertio dixi quod discordes veniunt concordes; et Averrois non potest negare quod, si haberemus verum modum intelligendi, procederemus a metaphysi-ca ad naturalia; et illud argumentum demonstrat: “sicut <res> se habet ad esse, ita se ha-bet in veritate”. Nec video quomodo alii non concedant illud quod Averrois: quis enim diceret quod illa sensibilia possint probari per intelligibilia? Dicit enim Aristoteles: “Su-mantur autem nobis omnia aut aliqua moveri”; et primo Topicorum: “Qui negat nivem esse albam, indiget sensu”. Quare breviter dico quod metaphysica subalternat sibi alias scientias et probat secundum naturam sua principia; subalternatur autem quoad nos».

23 Ivi, f. 265r: «Deus enim est causa omnium istorum et notissimus quantum sit ex natura sui; tamen difficillime cognoscitur et quasi impossibiliter cognoscitur a nobis».

24 P. PomPonazzi, De incantationibus, 4, ed. a cura di V. Perrone ComPagni con la collaborazione codicologica di L. regniColi, Olschki, Firenze 2011, p. 36: «Cer-te multa sunt naturalia, quorum causas nescimus reddere»; 10, p. 97: «Et medici ponunt […] aliqua simplicia esse invicem componibilia et aliqua non; quorum causas ignoramus, sed tantum in eis dicimus quoniam talia».

(7)

‘congetturale’ («non irrationabile est», «verisimile est», «fortasse»); del

resto, l’ultimo scritto che Pomponazzi vide stampato, il De nutritione

et augmentatione (1522), enuncerà il principio in modo esplicito:

Dare un giudizio certo e stabile nell’ambito della natura è tipico dell’uo-mo temerario e ignorante, che non sa dove risieda la difficoltà. Costui assomi-glia a un guerriero inesperto che si getta nella battaassomi-glia senza consapevolezza del pericolo. Perciò io credo che nell’ambito della natura abbiamo a che fare con congetture piuttosto che con una scienza certa25.

2. Metafore didattiche. La consapevolezza degli ostacoli che la

ra-gione umana incontra nel suo percorso di conoscenza trova una

com-pensazione nella pratica di insegnamento. Molto spesso Pomponazzi

adotta una metodologia didattica intessuta di esempi corposi e di

me-tafore antropomorfiche – immagini efficaci (tanto più efficaci, quanto

più lasciate indistinte), che rendono concreta la rarefazione del concetto

e consentono di formulare ipotesi su ciò che resta al di fuori della

por-tata dei sensi. L’apprezzamento per l’uso del loqui rhetorice potrebbe

sembrare in contraddizione con il giudizio di Aristotele sulla metafora

e con il suo rifiuto dello ‘stile’ platonico; ma il criterio dirimente, come

ha rilevato D. Guastini, risiede nella distinzione tra la ‘buona metafora’,

che si fonda sulla analogia tra enti di generi diversi e ne mette in

eviden-za l’uguaglianeviden-za di rapporti (secondo «una capacità di approssimazione

assai più spiccata di quella presente in altri dispositivi teoretici»)

26

, e la

pura invenzione, soggettiva e arbitraria, che persegue scopi non

cono-scitivi, bensì educativi: non per niente il procedere della filosofia

plato-nica è in genere ricondotto da Pomponazzi a fabulae, apologi, parabolae,

termini che egli usa anche in relazione all’insegnamento delle Leges.

«Oportet uti sermone rhetorico in rebus difficillimis»

27

, dichiara

25 P. PomPonazzi, De nutritione et augmentatione, ed. a cura di J.M. garCía valverde, Bompiani, Milano 2013, p. 130vb: «Ad haec dicendum quod in naturalibus firmum et certum iudicium dare est hominis temerarii et ignorantis, qui nescit ubi stat rei difficultas. Et est similis bellatori inexperto, qui se committit pugnae absque periculi cognitione. Quare magis in naturalibus, ut opinor, sunt coniecturae quam certa scientia» (trad. mia).

26 D. guastini, Aristotele e la metafora: ovvero un elogio dell’approssimazione, «Isonomia. Rivista dell’Istituto di Filosofia Arturo Massolo, Università di Urbino», 2004, www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/estetica1.htm, p. 5 (corsivo nel testo).

27 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., t. c. 18, f. 276r; f. 277v: «Notetis: licet non conveniat philosopho uti sermone rhetorico, tamen in re difficili convenit».

(8)

Pomponazzi nel corso sul dodicesimo libro della Metafisica

introdu-cendo gli studenti al problema, sollevato dal textus 18, della

generazio-ne degli enti sublunari e dell’aziogenerazio-ne delle virtutes gignitivae del seme:

è vero che la virtù generativa non conosce e nondimeno opera così mi-rabilmente; ma si deve prestare attenzione: come lo stilo non fa niente da sé, ma in quanto guidato dal pittore, così anche quella virtù generativa non ope-rerebbe mai se non fosse guidata dall’Intelligenza che non erra, cioè da Dio benedetto. Pertanto, anche se essa non conosce, giunge egualmente al fine sta-bilito, perché è diretta come ho detto. Platone pretendeva che questa guida fosse l’idea, che egli chiamava “dio secondo”; Avicenna pretendeva che fosse la colcodea, che egli colloca come ultima delle Intelligenze; Aristotele riteneva che basti Dio benedetto, però corporalmente attraverso il sole28.

All’obiezione (del reportator, si direbbe) che Dio non ha

cono-scernza degli individui sublunari, Pomponazzi risponde che gli enti

inferiori sono pensati da Dio e dalle Intelligenze «in universale e con

assoluta precisione», pensandoli per essentiam; ma poiché l’atto

intel-lettivo e volitivo del divino architetto e di questi artigiani cosmici è

uni-versale e astrae da spazio e tempo, l’azione si incanala nelle stelle, che

sono invece sottoposte a spazio e tempo, e si diffonde nella

particola-rità dei singoli enti, subendo la riduzione all’individualità in rapporto

alla complessione fisico-psichica del soggetto recipiente, causa

materia-le dell’effetto prodotto

29

. Nella sequenza della causalità efficiente sono

i corpi celesti ad assumere il ruolo di agenti esterni che causano la

mol-teplicità della vicenda terrena, producendo negli elementi proporzioni

e virtù diverse, ovvero dosando il calore necessario all’apparire della

vita – proprio come fanno gli abili cuochi:

28 Ivi, f. 273v: «verum est quod non cognoscit et tamen facit tam praeclara ope-ra; sed notandum quod, sicut stilus ex se nihil facit, sed a pictore directus, sic et virtus illa gignitiva nunquam talia operaretur, nisi regularetur ab intelligentia non errante, ut a deo benedicto. Unde, quamvis ipsa non cognoscat, tamen venit in debitum finem, cum gubernetur ut dixi. Istum autem gubernatorem Plato voluit esse ideam, quam nominabat deum secundum; Avicenna voluit esse colchodeam, quam ponit infimam intelligentiarum; Aristoteles voluit quod <sufficiat> deus benedictus, corporaliter tamen mediante Sole».

29 Ibidem: «Sed hic argumentatus sum contra eum, cum enim non cognoscit ista inferiora deus ipse. Respondet quod <cognoscit> ipsa in universali distinctissime, ut in specie. Dato hoc, quomodo operabit generationem Sortis? Dicit quod sufficit cognosce-re Sortem in specie; quae postea, ut cadit in determinatam materiam, singularizatur, si-cut sanctus Thomas: “Femina quandoque facit telam non cogitando eam, sed alia diver-sa considerando; et <hoc> propter usum”; sic et deus cognoscendo univerdiver-saliter potest operari particulariter».

(9)

Presta attenzione al testo: codesto calore non è igneo, ma è come il ca-lore regolato dall’artefice […]. Faccio un esempio noto a tutti: tutti sapete che quando il cuoco cucina, somministra una determinata fiamma e un determina-to calore secondo una determinata modalità, altrimenti il cibo si distruggereb-be; infatti il fuoco non regolato agisce in modo incontrollato30.

L’arte divina presiede allo sviluppo della vita: le virtù regolate

dai corpi celesti agiscono come se si attenessero consapevolmente a un

piano stabilito da una intelligenza che pensa e vuole la vita dei singoli

esseri

31

; è per questo che lo stesso calore può essere distruttivo, se la

sua natura non è regolata, oppure vivificante, se è «regolato dagli enti

sovracelesti», come nel caso del calore necessario alla generazione

32

.

Pomponazzi rammenta ai suoi studenti una celebre pagina della

Ripro-duzione degli animali:

Nel seme di tutti gli animali è presente ciò che rende fecondi i semi: ciò è chiamato caldo. Questo però non è fuoco, né una facoltà simile al fuoco, ma il pneuma racchiuso nel seme e nella schiuma e la natura contenuta nel pneu-ma, che è analoga all’elemento di cui sono costituiti gli astri. Perciò il fuoco non è in grado di generare alcun animale […]. Il calore del sole invece e quello degli animali […] possiede un principio vitale. Si consideri la parte corporea dello sperma nella quale viene trasportato il principio animante che per una parte è dotato di esistenza separata dal corpo in tutti gli animali in cui è pre-sente qualcosa di divino (siffatta è quella che viene chiamata intelligenza), per un’altra parte non è invece separabile33.

Di questo testo gli preme sottolineare il riferimento a quel

30 Ivi, f. 276v: «Pondera verbum: iste calor non est igneus, sed est sicut calor re-gulatus ab artifice […]. Do autem exemplum notum omnibus: scitis omnes quod coquus in coquendo dat ignem et determinatum calorem et sub modo determinato, quia aliter consumeret totum; ignis enim non regulatus sine discretione agit». La metafora culinaria ha almeno un’altra ricorrenza nel corso sull’ottavo libro della Fisica tenuto nel 1518.

31 Ivi, f. 278v: «Diximus quod omnia sunt in deo ut primo motore, quia omnia sunt picta in deo benedicto; et hoc per suam simplicem essentiam, sicut tota pictura est in pictore».

32 Ivi, f. 276v: «Quam bene locum hunc Averrois pertractavit! Diceret quis: “In-tellexi quomodo istae virtutes sunt animae et divinae, intelligentes. Vellem scire an sint qualitates an substantiae an quid”. Dico quod ista virtus seminalis est calor. Sed adver-tas quod, quum calor igni attribuitur secundo De generatione et quarto Metheororum, [quod] <iste calor non est calor ignis, quia> iste calor dat vitam, ille vero consumit; dat lineationes, formam, figuram; ille confuse agit».

33 aristotele, Riproduzione degli animali, II, 3, 737a30b11, trad. it. a cura di D. lanza, Laterza, Bari-Roma 1990, p. 208.

(10)

«qualcosa di divino» («arte divina» la definisce Averroè nel suo

commento)

34

, rappresentabile come una sorta di programma interno

che dirige i processi biologici e ne spiega la regolarità e la perfezione.

Il seme agisce come causa strumentale di una causa agente principale,

che Aristotele ha chiamato ‘arte’, intendendo il termine

preferibilmen-te «come l’arpreferibilmen-te che si trova nella menpreferibilmen-te dell’arpreferibilmen-tefice: chi infatti vuole

costruire una casa, prima si rappresenta nella mente la casa; poi a essa

si adegua per costruirla in atto: e la casa che è nella mente non è casa in

atto, ma lo è virtualmente»

35

.

Come bene espone il Commentatore, Aristotele ha chiamato

‘di-vine’ queste virtù in ragione dell’effetto da loro prodotto, che è datore

di vita: esse infatti danno la vita – effetto che è al massimo grado

pro-prio di Dio. E sono definite ‘intelligenti’ non perché pensino, visto che

sono accidenti, ma perché nelle loro operazioni agiscono in un certo

modo, come se pensassero e conoscessero l’effetto e il fine a cui

ten-dono. È infatti evidente dalle esperienze di anatomia la grande perizia

con cui queste virtù hanno operato costituendo gli organi adeguati alle

funzioni della vita

36

.

Perciò, sebbene l’ordine non possa sussistere senza la causalità

efficiente del Primo Motore immobile, da cui dipende il movimento e

quindi l’essere di tutti gli enti, i concreti artefici dell’ordine e della

va-rietà dell’esistente sono gli astri. La trasmissione di un calore

differen-ziato a seconda delle diverse configurazioni stellari determina infatti la

34 averroè, op. cit., XII, t.c. 18, f. 305D-E.

35 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., t. c. 18, f. 276v: «Quapropter Ari-stoteles eam assimilavit artificio, quod dupliciter potest intelligi: uno modo artificio, ut puta stilo, quo pictor operatur ad faciendum tam pulchram figuram; alio modo et me-lius artificio, id est arti in mente artificis existenti; quis enim, volens domum fabricare, constituit eam prius in mente sua; qua postea regulatur ad faciendum eam in actu; quae domus in mente non <est> actu domus, sed virtualiter. Similiter dico de virtute seminali, quae est anima in potentia, producens animam in actu <tanquam> inmediatum instru-mentum, etsi ipsa non sit anima actualiter, sed potentialiter».

36 Ibidem: «Ut habeatur perfecta notitia istarum virtutum, ideo Averrois vult multa dicere de istis virtutibus, quas Aristoteles divinas appellavit; quod recte ab Aver-roi exponitur, autem male <a> Iandono in primo De anima, ut videbitur ibi. Dicit ergo Averrois quod dicuntur “divinae” ratione sui effectus, <qui est dare vitam: dant enim ipsae vitam, qui est maxime effectus> dei. “Intelligentes” vero dicuntur non quia intel-ligant, quum sint accidentia, sed solum sic dicuntur quia in suis operationibus sic ope-rantur ac si cognoscerent effectum et finem ad quem tendunt. Patet enim ex anathomia quanto artificio sint operatae virtutes ipsae in faciendo organa proportionata operationi-bus vitae».

(11)

diversità delle generazioni:

Sciocchi, credete che così tante stelle siano state poste soltanto per bel-lezza? Ho detto prima che necessariamente c’è una così perfetta armonia nei corpi celesti; e se appena appena si modificassero, tutta la macchina del mondo rovinerebbe. Perciò così tante stelle sono state disposte in questo modo perché era necessario per regolare questi enti inferiori: l’opposizione determina un ef-fetto, la quadratura un altro. Gli astrologi dovrebbero saper trarre predizioni corrette. E non tutto nasce dappertutto a causa della diversità delle stelle e dei circoli celesti che dominano i singoli luoghi37.

Certo, la causa prima e universale del tutto è Dio («dico che

que-sto buon Dio sa quale e quanto calore è sufficiente per il bue,

quan-to per la rana, quanquan-to per la pulce»)

38

e le Intelligenze agiscono come

suoi ‘ministri’; ma l’immutabilità dell’uno e delle altre non permette di

concepirli come agenti diretti della comunicazione della vita, perché

neppure pensano determinatamente ‘questo bue’ e ‘questa rana’: sono

invece gli astri a portare ad attuazione l’organizzazione del mondo e

la varietà delle specie e degli individui. L’impiego di immagini

antro-pomorfiche (il Dio architetto, le Intelligenze artigiani, le stelle cuochi)

riveste funzione meramente didattica ed esplicativa; sul piano

concet-tuale, tuttavia, le metafore non comportano nessuna personalizzazione

degli enti superiori, nessun platonice loqui

39

: Dio conosce tutto in

uni-versali come causa prima di tutto; ma è causa di tutto solo perché è

causa del movimento.

La causalità efficiente esercitata da Dio deve essere intesa in

37 Ivi, f. 277r: «“Ista est una fatuitas, dicere scilicet quod calor generet omnia: solum enim generabit unam speciem animalis, quia est unum agens”. Et, videns ad hoc, Averrois respondet, dicens quod alius calor est pro uno et alius pro alio et aliae stelle co-niunguntur pro uno et pro alio. O stulti, creditis quod tot stellae positae sint ad ornatum tantum? Dixi[t] supra quod necessario, quia tantum concentum est in corporibus cele-stibus, ut, si parum moverentur, tota machina mundialis rueret, quia tot et taliter ordina-ta sunt propter necessiordina-tatem ad gubernandum isordina-ta inferiora: unus effectus fit oppositione [fuit oppositio ms.], alius effectus quadratura, sicut deberent bene scire iudicare astro-logi; et non omnia nascuntur in quolibet loco ex diversitate stellarum et orbium diversis locis applicatorum».

38 Ivi, ff. 277rv: «Dicetis: “Maior scrupulus ortus est. Quis dedit istam propor-tionem et istam mensuram ipsis corporibus caelestibus? Et quis cognoscit eam?”. Et ideo Averrois dicit: Nota quod fuit deus, qui omnia cognovit et omnia creavit, a quo om-nia dependent, qui omom-nia ab aeterno ordinavit secundum Aristotelem. Dico: iste bonus deus scivit quantum caloris sufficit pro bove, quantum pro rana, quantum pro lendine».

(12)

senso ampio; più precisamente essa dovrebbe essere chiamata

causa-lità conservante, in quanto riferita a una causa eterna che precede per

natura e non per tempo il suo effetto eterno. L’esigenza di attuare la

distinzione del duplice significato della nozione di efficiens (o agens)

è costante nella riflessione pomponazziana; anche la reportatio sulla

Metafisica registra che il maestro ha interrotto l’esposizione per

chia-rire l’equivalenza concettuale della nozione di “azione produttiva” con

quella di “azione conservante” quando riferita a Dio:

Pietro ha spiegato a uno studente come può essere che Dio abbia fatto tutto dall’eternità: è evidente dal movimento che esiste dall’eternità. […] <Il maestro> risponde che, come sostiene Agostino, se immaginassimo l’orma di un piede presente dall’eternità nella polvere, il piede non avrebbe preceduto l’orma. E afferma che codesta creazione dall’eternità è una sorta di azione con-servante40.

Con questa immagine Pomponazzi accorda l’eternità del mondo

con la causalità efficiente divina (intesa in senso omonimo); e riafferma

l’inadeguatezza dell’interpretazione che individua in Dio la sola

causa-lità finale per riservare quella efficiente al dator formarum di Avicenna:

«attenendomi ai Peripatetici, sono di questa opinione, cioè che Dio è il

fattore e che continuamente agisce».

41

Il continue facere, garanzia della perpetuità di processi naturali

attivi ab aeterno, diventerà nel De incantationibus il presupposto

me-todologico che assicura la pensabilità del divenire cosmico come

l’e-splicarsi di una provvidenza naturale e impersonale, interamente

de-mandata nella sua realizzazione alla mediazione delle stelle. Il De fato

mostrerà che è l’esigenza di dare una fondazione metafisica alla

conce-zione astrologica del reale a richiedere la formulaconce-zione dell’ipotesi di

un Dio sommo architetto:

Vediamo anche che gli enti sublunari sono governati dai corpi superiori, talché essi danno la vita e la morte. Ora, ciò che presenta queste caratteristiche

40 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., t. c. 11, f. 269v: «Declarabat autem ipse Petrus cuidam scolari quomodo potest esse quod deus fecerit omnia ab aeterno: sic patet de motu, qui ab aeterno factus est. […] Dicit quod, sicut dicit Augustinus, si ima-ginaremur vestigium pedis in pulvere ab aeterno, illud tale non praecessisset ipse pes. Et dicit quod ista creatio ab aeterno est quaedam conservatio».

41 Ivi, f. 269v: «Primo quidem nolo disputare an deus sit factor. Quidam enim tenent quod non, sed quod datur intelligentia ista; ipse autem solus est finis et forma. Ego vero iuxta Peripateticos sum huius opinionis quod sit factor et continue [cuncta

(13)

noi lo chiamiamo Dio: crediamo infatti che Dio sia il dispensatore di tutto. Sia un corpo o non lo sia, una cosa sappiamo con certezza oggettiva, cioè che gli enti inferiori sono governati da quelli superiori. Dunque negare l’esistenza di Dio è del tutto assurdo: infatti essere Dio significa essere il motore dell’univer-so. Ma che esistano uno o più enti di questo genere è del tutto palese, anche se è molto difficile stabilire quanti e come siano42.

La generazione delle forme può quindi essere ricondotta (per

metafora) a Dio, in quanto principio di movimento; tuttavia la sua

azione presuppone sempre la mediazione dei corpi celesti, come

Pom-ponazzi precisa già nel corso sulla Metafisica:

Stando ai Peripatetici bisogna ritenere che niente è generato senza Dio; ma c’è questa differenza: le Leggi, o meglio i Maomettani, […] dicono che Dio tutto produce senza un intermediario. Perciò essi affermano che Dio produce qui questo calore immediatamente e che egli è stato causa della deflorazione di tua figlia ecc. I Peripatetici ammettono sì che, se il legno riscalda, brucia que-sto viene fatto da Dio; ma non immediatamente, perché sarebbe assurdo, bensì mediatamente, perché Dio muove il primo cielo e questo movimento conferi-sce virtù a tutti gli altri agenti43.

Il modello pomponazziano di comprensione scientifica del reale

è costituito da princìpi generali della filosofia aristotelica. Mettere in

luce le insufficienze dell’aristotelismo significa per Pomponazzi

pren-dere atto di uno sviluppo errato o incompleto dell’argomentazione di

Aristotele, che in quel particolare luogo è venuto meno al rigore dei

princìpi della sua filosofia – per limitatezza di esperienza, per

uma-na debolezza o per scelta pedagogico-politica; resta però il fatto che,

quando Pomponazzi parla di princìpi della ragione naturale, intende

esattamente i princìpi della filosofia di Aristotele. La registrazione

de-gli errori e delle contraddizioni non deve essere perciò

drammatizza-ta, quasi fosse una dichiarazione di sfiducia e una dismissione

dell’in-tero quadro concettuale; per lui il luogo comune di origine medievale

dell’umana fallibilità di Aristotele è prima di tutto il motivo

qualifican-42 P. PomPonazzi, Il fato, cit., II, 2, 8-10, p. 327.

43 P. PomPonazzi, Expositio fidelissima, cit., 18, ff. 277v-278r: «secundum Peri-pateticos tenendum est nihil fieri sine deo; sed in hoc differunt, quia Leges seu Maume-tani <dicunt quod> deus facit [fecit ms.] omnia sine medio. […] Unde ipsi tenent quod deus facit istum calorem hic immediate, quod deus fuit causa futuitionis tue filie etc.; at Peripatetici volunt quidem quod, si lignum calefiat, comburit et quod a deo hoc fit, licet non immediate, quia hoc est impossibile; sed bene mediate, quia deus movet primum orbem <et talis motus dat virtutem omnibus aliis agentibus>».

(14)

te di una concezione della ricerca che egli vedeva applicata proprio in

quell’autore

44

: l’idea di una impresa collettiva nell’acquisizione della

verità da un lato mette al riparo dall’accettazione servile, dall’altro

co-stituisce valida terapia contro lo scetticismo.

La valutazione pomponazziana dell’aristotelismo tiene

sem-pre sem-presenti due criteri: la consapevolezza “storica” che l’accumulo

di esperienza e l’ampliamento delle conoscenze pongono questioni

che Aristotele non ha affrontato; e la consapevolezza “critica” che il

pensiero di Aristotele ha uno sviluppo interno – o meglio una

inter-na modularità. Il compito dell’interprete è quello di stabilire i raccordi

tra le parti del tutto, cogliendo le intenzioni diverse che soggiacciono

ai diversi contesti e ricercando l’intima coerenza del pensiero, se c’è;

oppure, se questa strada non è praticabile, prendendo atto della

con-traddizione, rinvenendone le motivazioni e decidendo quale delle due

alternative costituisca principio irrinunciabile del sistema

45

. Su questa

base si sviluppa tutta la ricerca pomponazziana; in questo senso la

ri-scoperta del vero Aristotele – vero da un punto di vista teoretico, più

che filologico, sebbene non manchino sporadici accenni alla necessità

di consultare i testi in greco – può essere avvertita come impresa di

expositor; ma è anche impresa di interpres, che saggia le potenzialità

esplicative dei princìpi generali della Fisica e della Metafisica in

rela-zione ai problemi nuovi introdotti dall’avvento delle credenze cristiane

e dalla loro traduzione in un sistema di teologia razionale. La risposta

rimane sempre coerente con la ricostruzione del reale proposta da

Ari-stotele, per quanto su molti aspetti essa vada molto oltre Aristotele.

44 L. BianChi, Saggi sull’aristotelismo del Rinascimento, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 101-124.

45 È il caso dell’antinomia riscontrata tra l’ottavo libro della Fisica, che dichiara l’eternità del movimento, e l’Etica Nicomachea, che sostiene la libertà dell’uomo: nel De

fato Pomponazzi non si limita a constatare l’incoerenza e a riconoscere la possibilità che

Aristotele si sia contraddetto; ma porta avanti l’esegesi, esplora le vie lasciate aperte dai testi e cerca una spiegazione (la difesa della libertà corrisponde a una intenzione etica e politica).

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