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Il diritto di voice del socio di s.p.a. e di s.r.l.

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

IL DIRITTO DI VOICE DEL SOCIO

DI S.P.A. E DI S.R.L.

La Candidata Il Relatore

Pierluisa Chiari Prof. Andrea Bartalena

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INDICE

CAPITOLO 1

IL CONCETTO DI PARTECIPAZIONE ED IL DIRITTO DI VOICE DEL SOCIO

1. Il concetto di partecipazione ……… p. 1 2. Il ruolo del socio nelle società di capitali….……… p. 5 2.1. Nelle s.p.a.……….………p. 5 2.2. Nelle s.r.l.…….………..………. p. 12

CAPITOLO 2

I DIRITTI DI VOICE DEL SOCIO ALL’INTERNO DELLA SOCIETÀ PER AZIONI

1. L’evoluzione normativa delle competenze assembleari ed il relazionarsi della stessa con l’organo amministrativo….… p.15
 1.1. Il codice di commercio del 1882 ……… p. 16
 1.2. Il codice civile del 1942……….…. p. 18
 1.3. L’intervento del legislatore del 1974….………. p. 23
 1.4. Il Testo Unico …..……….……….. p. 27
 1.5. La riforma del 2003 .………….……….………. p. 34 
 1.6. Gli interventi recenti: la Direttiva Azionisti e il Decreto Competitività……….…………..………..….. p. 42

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2. Le forme di controllo sulla gestione esercitabili dalla

minoranza societaria ……….. p. 48 3. Il diritto di recesso come contrappeso al diritto di voice… p. 57 4. Gli istituti che manifestano il diritto di voice del socio: il diritto

di chiedere la convocazione dell’assemblea …….……… p. 60 5. I diritti di informazione nelle s.p.a. non quotate: 


l’avviso di convocazione ……….. p. 65
 5.1. Il momento assembleare:


la legittimazione all’intervento .……… p. 68
 5.2. (segue): Il dibattito ………. p. 71
 5.3. (segue): La votazione ………. p. 72 6. I diritti di informazione nelle s.p.a. quotate: l’avviso di

convocazione e la relazione……….. p. 76
 6.1. (segue): La definizione del tema assembleare:

la richiesta di integrazione dell’ordine del giorno…….… p. 81
 6.2. (segue): Il diritto di porre domande ………..… p. 84
 6.3. Il momento assembleare: 


la legittimazione all’intervento..………. p. 86
 6.4. La votazione ……….….. p. 90


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CAPITOLO 3

L’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI VOICE ALL'INTERNO DI SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA

1. La nascita della s.r.l. come modello flessibile 


ed il ruolo del socio ………p. 97 2. Il rapporto tra assemblea e amministrazione…….……….p. 102 3. Le modalità di decisone………..……..…………. p. 114


3.1. Le decisioni dei soci: il metodo assembleare..………p. 115
 3.2. Le decisioni dei soci: il metodo extra-assembleare….p. 120 4. Le modalità di espressione del diritto di voice del socio…p. 123 4.1. Il diritto di voto………..……….p. 124
 4.2. Diritti informativi e di controllo ……….p. 134
 4.3. Azione di responsabilità e domanda di revoca degli

amministratori ……….……….………. p. 140

5. I particolari diritti attribuibili ai soci di s.r.l. ……… p. 145
 5.1. I particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società ………….……….. p. 150
 5.2. I particolari diritti come categoria? ………..…. p. 151
 5.3. La disciplina dei diritti particolari ………..……p. 155

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CAPITOLO 4

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

1. Il ruolo del socio in società a responsabilità limitata,

per azioni e quotate ……….. p. 162

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CAPITOLO 1

IL CONCETTO DI PARTECIPAZIONE ED IL DIRITTO DI VOICE DEL SOCIO

1. Il concetto di partecipazione

Il legislatore non si preoccupa di dare una definizione dettagliata del concetto di diritto di “partecipazione del socio”, nonostante i numerosi riferimenti all’interno del codice. In ambito societario la locuzione “diritto di partecipazione del socio” identifica l’esercizio di diverse attività che i soggetti legittimati dall’ordinamento potranno porre in essere con l’obiettivo di prendere parte alla vita e alla gestione dell’impresa sociale. 


L’esercizio dei diritti di partecipazione assume una rilevanza differente all’interno dei diversi modelli societari e raggiunge la sua massima espressione all’interno delle società di persone. Qui il socio “illimitatamente responsabile” detiene il potere di amministrare la società (art. 2257 c.c.), ovverosia il potere di compiere tutti gli atti necessari alla gestione dell’impresa che rientrino nell’oggetto sociale. Nella società semplice il diritto di partecipazione del socio raggiunge la vetta dell’amministrazione della società. Ma l’art. 2257 c.c. fa salva una diversa pattuizione ammettendo che l’atto costitutivo stabilisca che l’amministrazione sia riservata solo ad alcuni soci dando così luogo alla contrapposizione fra soci-amministratori e soci-non amministratori. Contrapposizione tipica del modello corporativo che

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caratterizza le società di capitali e la s.p.a. in particolare . Per i soci 1

esclusi dall’amministrazione l’art. 2261 c.c. riconosce poteri di informazione e controllo: quali il diritto di “avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali”; il diritto di “consultare i documenti relativi all’amministrazione”; ed il diritto di ottenere un rendiconto sull’operato degli amministratori . Questi diritti, detti 2

“amministrativi” , rappresentano ciò che residua una volta escluso il 3

socio dal potere di amministrare la società. 


Con riferimento alle società di capitali il legislatore attribuisce particolare rilevo ad un altro diritto che per la società di persone non è espressamente regolato: il diritto di partecipare all’assemblea. La mancata disciplina di questo diritto nella società di persone ha dato

Pisani, p. 24, nell’analizzare la struttura della società semplice di stampo

1

corporativo, rileva come la scelta statutaria di accantonare il regime legale primario di amministrazione disgiuntiva attribuita a tutti i soci illimitatamente responsabili sottende l’inadeguatezza di tale modello davanti ad un elevato numero di soci che potrebbe comportare un rallentamento nell’assunzione delle decisioni e l’incremento dei poteri di veto con “inevitabile pregiudizio dell’interesse alla tempestiva adozione necessaria all’esercizio dell’impresa sociale”. Piscitello, p. 2, parla di società organizzate in forma capitalistica o a struttura aperta indicando un modello tipologico sviluppato nella prassi che si distanzia dal modello familiare classico della società di persone.

Campobasso, [2], p. 96, rileva come tale rendiconto non corrisponda a quello

2

previsto all’art. 2262, c.c. a cui gli amministratori sono tenuti per la distribuzione degli utili. Il rendiconto richiesto dai soci non-amministratori sarebbe equiparabile al rendiconto del mandatario previsto all’art. 1713 c.c. il cui contenuto può limitasi “al prospetto ragionato delle operazioni compiute nel periodo e delle entrate e delle uscite corrispondenti”.

Pisani, p. 26, rileva come il potere di controllo in capo ai soci non amministratori

3

possa incidere fortemente sulla gestione fino ad ostacolarne anche l’effettivo svolgimento.

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adito all’interpretazione che ritiene superfluo ricorrere al 4

procedimento collegiale all’interno di questo tipo sociale, giudicando sufficiente l’accordo dei soci comunque raggiunto. Alla luce delle modifiche intervenute con la riforma del 2003 una lettura 5

maggiormente attenta alla volontà del legislatore è volta a valorizzare il momento assembleare ed il diritto del socio di partecipazione ad

Posizione avallata dalla giurisprudenza della Cassazione con la sentenza 10 gennaio

4

1998, n. 153 in ilcaso.it: “Nella disciplina legale delle società di persone manca la previsione dell'organo e del metodo assembleare, con la conseguenza che, dovendosi adottare la delibera di esclusione di un socio (per la quale è richiesta la maggioranza dei soci non computandosi tra questi quello da escludere), non è necessario che siano consultati tutti i soci, né che essi manifestino contestualmente la propria volontà attraverso una delibera unitaria, essendo sufficiente raccogliere le singole volontà idonee a formare la richiesta”; Cassazione 15 luglio 1996, n. 6394: “La legittimità della delibera di esclusione di un socio di società di persone prescinde non solo dalla convocazione dell'assemblea, ma anche dalla preventiva convocazione del socio, che ha soltanto il diritto di ricevere comunicazione della deliberazione stessa al fine di poter proporre opposizione”. D’altra parte la Cassazione Civ. Sez. I, 8276/02 sostiene che la mancata previsione normativa di un organo assembleare nelle società di persone non comporta che ne sia, per ciò solo, vietata la costituzione, e che sia preclusa ai soci, qualora questi siano chiamati ad esprimere il proprio "consenso", la possibilità di riunirsi in assemblea per deliberare all'unanimità ovvero a maggioranza. Così anche il Tribunale di Roma, Terza Sezione civile con la Sentenza n. 26143, pubblicata il 31 dicembre 2014 in giurisprudenzadelleimprese.it afferma che “non dà luogo ad illegittimità alcuna il fatto che i soci, pur non essendovi tenuti (per essere sufficiente, nella società di persone, che le singole volontà siano raccolte anche separatamente, senza che occorra un particolare procedimento per una deliberazione unitaria in senso formale”, adottino egualmente il metodo assembleare, come nel caso in esame, per le deliberazioni sociali. […] posto che, nelle società di persone, non rileva la formazione della volontà di un soggetto terzo rispetto ai soci, ma l’accordo (unanime o a maggioranza, espresso anche in momenti differenti) dei singoli soci che esprimono la propria volontà in ordine alla gestione della società. Ecco, pertanto, che aspetti quali la convocazione di un’assemblea, l’ordine del giorno della stessa, sede e data di svolgimento, sono profili del tutto superabili nel riflesso patologico che possono avere rispetto al merito della scelta, in quanto è quest’ultima ad essere al centro dell’attenzione come scelta dei singoli soci e non della società”.

Il 3 ottobre 2001 fu emanata la Legge Delega al Governo n. 366 che poneva tra i

5

suoi obiettivi la semplificazione della disciplina delle società di capitali, la volontà di favorire l’accesso ai mercati finanziari e l’introduzione di modelli flessibili caratterizzati dalla valorizzazione dell’autonomia statutaria. A tali obiettivi si è adeguato il legislatore delegato con il decreto legislativo del 17 gennaio 2003 n. 6, destinato a entrare in vigore il 1° gennaio 2004, dal quale scaturisce, dopo sessanta anni, la modifica organica della disciplina delle società di capitali.

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esso . 
6

Il diritto di partecipazione nell’assemblea così individuato, sia esso applicabile alla società di persone o meno, si concretizza effettivamente nella possibilità di intervenire durante lo svolgimento dell’assemblea. Ma che cosa vuol dire intervenire?


Il legislatore non si preoccupa di darne una specifica definizione, ma è possibile affermare che intervenire in assemblea rappresenti qualcosa di diverso rispetto alla semplice attività di “assistere” delineata agli articoli 2405 c.c. nei confronti dei sindaci, 2409-terdecies c.c. nei confronti dei membri del consiglio di sorveglianza, 2418 c.c. per il rappresentante degli obbligazionisti e all’art. 2447-octies c.c. per il rappresentante dei titolari degli strumenti finanziari partecipativi.

Intervenire significa fare qualcosa di più rispetto ad assistere: avere un

ruolo attivo, prendere parola, poter fare domande ed essere parte della discussione sino alla possibilità di esercitare il diritto di voto . 
7

Così il concetto di diritto di partecipazione nelle società di capitali può essere tradotto in una serie di diritti amministrativi che permettono al socio di essere informato riguardo lo svolgimento dell’attività di gestione dell’impresa, di poterne controllare l’andamento, di poter manifestare la propria posizione all’interno dell’adunanza assembleare

A favore di tale opinione Campobasso, [2], p. 105. A sostegno di questa

6

interpretazione è stata data una lettura generale di due principi introdotti nell’ambito della disciplina della s.r.l.: l’adozione del metodo collegiale in mancanza di una diversa previsione (art. 2479, co. 4, cc.) ed il diritto di ciascun socio di partecipare alle decisioni assunte sia con metodo collegiale che extra-collegiale (art. 2479, co. 5, cc.). Attribuendosi una rilevanza generale al contenuto di queste disposizioni pare del tutto anomalo ammettere che nella società di persone valgano regole maggiormente limitative con riferimento alla possibilità di partecipazione del socio di quanto avvenga nella società a responsabilità limitata.

Stella Richter, [1], p. 892, risponde alla domanda cosa significhi “intervenire”,

7

indicando come risposta una partecipazione in grado di orientare lo svolgimento degli esiti assembleari, cosa che la sola presenza non è in grado di fare. Con tale interpretazione il concetto di intervenire si sovrappone a quello di partecipare.

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e di indirizzarne, direttamente o indirettamente , l’esito tramite 8

l’espressione del voto . 
9

2. Il ruolo del socio nelle società di capitali

Vista la posizione fondamentale del socio all’interno della società di persone risulta necessario prendere atto del diverso ruolo assunto dal socio all’interno delle società di capitali, facendosi attenzione all’ulteriore diversificazione che si realizza tra le s.p.a. e le s.r.l.

2.1. Nelle s.p.a

All’interno della s.p.a. il socio incontra forti limitazioni nella possibilità di ingerirsi nell’attività di impresa, acuite dalla nuova disciplina introdotta con la riforma del 2003 che, nell’ottica di favorire una maggiore efficienza e professionalizzazione degli organi, all’art. 2380-bis c.c. prevede l’attribuzione esclusiva dell’amministrazione della società all’organo amministrativo. Il momento assembleare è completamente svuotato delle competenze gestorie e diviene il teatro principale dove i soggetti legittimati, protagonisti indiscussi

Ginevra, p. 289, prevede la possibilità di incidere direttamente sulla vita della

8

società “concorrendo alle scelte in materia di organizzazione dell’attività sociale”, ed indirettamente nei confronti della gestione, attraverso “il concorso nella nomina e nella revoca degli amministratori”. L’azionista è spesso mosso da un interesse “imprenditoriale” volto a indirizzare e controllare l’esercizio dell’attività produttiva economica.

Ferri, [1], p. 309, sostiene che il “socio sia quel finanziatore che partecipa

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direttamente a ciò che contribuisce a finanziare: non anche, e non soltanto, alla sua attività”.

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dell’accadimento assembleare, possono esercitare i residuali diritti partecipativi. 


Tra i diritti mantenuti nelle mani dei soci vi è il diritto di chiedere la convocazione dell’assemblea, qualora sia raggiunta la soglia di capitale sociale richiesta dall’art. 2367 c.c.; i c.d. diritti informativi, che si faranno più penetranti nelle società quotate; il diritto di intervenire nel dibattito assembleare ed il diritto di voto, il quale risulta fortemente ampliato dall’introduzione della possibilità di utilizzare gli strumenti informatici e tecnologici in modo da consentirne l’esercizio anche a distanza. 


Nonostante questi diritti possano assumere un’incidenza rilevante, il socio detiene una posizione marginale nella gestione della società: qualificato come un mero investitore la cui personalità non rileva all’interno dell’organizzazione sociale, diviene un soggetto “anonimo”, riproponendosi così la terminologia che il legislatore del 1882 utilizzava per definire la società di capitali . A corroborare la 10

situazione di irrilevanza della personalità del socio di s.p.a. il legislatore della riforma del 2003 prevede la possibilità che alcuni soggetti estranei alla compagine sociale, pur non qualificabili come meri creditori alla stregua degli obbligazionisti, possano intervenire nella creazione del patrimonio sociale ed essere titolari di diritti

Il codice di commercio del 1882 all’art. 76 distingueva tra società in nome

10

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amministrativi . 
11

Il riferimento è ai soggetti titolari di strumenti finanziari partecipativi 12

previsti all’art. 2346, co. 6, c.c. i quali concorrono con gli azionisti, pur rimanendo esclusi dalla compagine sociale, all’esercizio dei diritti che consentono una partecipazione attiva nella gestione della società

Prima dell’intervento di riforma organica la disciplina societaria presentava una

11

distinzione tra capitale e debito, disciplinando in modo piuttosto rigido le figure attraverso cui la società acquisiva mezzi propri e risorse finanziarie, ovverosia le azioni e le obbligazioni. Il binomio azioni - obbligazioni non rispondeva però alle nuove esigenze che sorgevano incessantemente all’interno dell’ordinamento societario. Inizialmente l’ordinamento cercò di adattarsi alle richieste del mercato ammettendo una graduazione delle caratteristiche dei due modelli previsti quale, ad esempio, la creazione di categorie speciali di azioni come era avvenuto per l’introduzione delle azioni di risparmio con la mini-riforma ad opera della legge n. 216 del 1974. 


Notari, [4], p. 3, fa un elenco delle possibili graduazioni in una sorta di linea che mette “in comunicazione le obbligazioni”: partendo dalle azioni ordinarie, passa poi alle azioni privilegiate, alle azioni privilegiate con voto limitato, le azioni di risparmio e le azioni di risparmio con particolari privilegi volti ad attribuire un rendimento quasi garantito, nonché sull’altro versante, partendo dalle obbligazioni pure e semplici, le obbligazioni indicizzate agli indici di borsa, le obbligazioni con rendimento legato agli utili della società emittente, le obbligazioni c.d. subordinate e le obbligazioni c.d. irredimibili.


La riforma del 2003 amplia la fattispecie attribuendo maggiore elasticità alla disciplina delle azioni ed inserisce una nuova figura: gli strumenti finanziari partecipativi. Il legislatore ne prevede l’emissione all’art. 2346, co. 6, c.c. ma volutamente non ne individua la disciplina di dettaglio con l’obiettivo di lasciare maggiore autonomia alla società emittente. 


Con l’introduzione degli strumenti finanziari partecipativi si realizza la creazione di una sorta di categoria intermedia tra azioni e obbligazioni, che contiene in sé peculiarità di entrambe, una sorta di tertium genus, come definito da Ricciardi, p. 5 e Notari, [4], p. 5.

Lo strumento finanziario è stato definito da Cian, [2], p. 738, come “qualunque

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tecnica di investimento nell’attività dell’ente, e diversa dall’investimento azionario e da quello obbligazionario strettamente inteso”. Questa enunciazione del concetto di strumento finanziario deve essere tenuta distinta dalla definizione di strumento finanziario accolta dal T.U.F. in quanto rispondenti a regimi e finalità differenti. L’art. 1 T.U.F. indica lo strumento finanziario come l’oggetto cui si riferiscono le attività rilevanti dell’impresa finanziaria; ed al comma secondo indica in un elenco dalla lettera a) a j) che cosa debba essere ricompreso sotto il concetto di strumenti finanziari senza però preoccuparsi di darne una definizione.

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tramite l’attribuzione di diritti patrimoniali e anche amministrativi . 13

La posizione dei titolari di strumenti finanziari partecipativi si qualifica così come una sorta di tertium genus tra i titolari di azioni e di obbligazioni. Inoltre l’art. 2351, co. 5, c.c. attribuisce ai titolari di strumenti finanziari partecipativi indicati all’art. 2346, co. 6, c.c. il

Lener, [3], p. 485, sostiene che la disposizione si esprima in modo ambiguo:

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l’inserimento della locuzione “o anche” sembrerebbe richiedere la necessaria presenza di diritti patrimoniali per far sì che possano attribuirsi anche diritti amministrativi, qualificando quindi questi ultimi come accessori rispetto ai diritti patrimoniali. L’Autore esclude tale interpretazione ritenendola incongruente con la volontà del legislatore di lasciare ampio margine di manovra all’autonomia statutaria. Un’interpretazione estensiva che valorizza proprio tale ampiezza fa leva sulla mancanza della definizione esplicita di ciò che è “diritto amministrativo”, deducendone così a contrario gli estesi contorni in modo da far rientrare dentro tale concetto tutto ciò che non risulti classificabile come diritto patrimoniale. La dottrina che aderisce a questa lettura ammette che lo statuto attribuisca a favore dei titolari di strumenti finanziari una vasta gamma di diritti oltre i c.d. “diritti amministrativi minori”. Questi ultimi comprendono i diritti di controllo, i diritti di informazione parificabili a quelli riconosciuti ai soci, il diritto di accesso alla documentazione sociale. Nella lettura estensiva tra i diritti amministrativi attribuibili rientrano il diritto di richiedere ed ottenere una rendicontazione periodica dell’andamento dell’impresa, ed al diritto di intervento in consiglio di amministrazione (ed in comitato esecutivo) a scopo meramente informativo. Oltre questi Cian, [2], p. 746, rileva come il diritto di intervento in assemblea non sia solo di stampo passivo cioè limitato allo scopo meramente informativo, come definito da Tombari, [1], p. 7, ma che assuma anche un rilievo attivo ovverosia preveda la possibilità di intervenire ai lavori ed alla discussione, pur garantendo il regolare andamento del procedimento assembleare tramite una regolamentazione dei lavori dell’organo stesso.

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diritto di voto su argomenti specificamente indicati oltre il diritto di 14

nominare “un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco”.

L’attribuzione del diritto di voto, seppur limitata ad argomenti specificamente

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individuati, prevista all’art. 2351, co. 5, c.c. incontra però il limite dell’art. 2346, co. 6, c.c. dove è sostenuto il divieto di esercizio del voto dei titolari di strumenti finanziari nell’assemblea generale degli azionisti. Le due norme paiono essere tra loro contrastanti: da una parte si ammette l’esercizio del diritto di voto seppur limitatamente a specifici argomenti, dall’altra se ne vieta l’esercizio all’interno dell’assemblea generale degli azionisti. Tale situazione, aggravata da una disciplina legislativa estremamente scarna, che preferisce lasciare ampio margine di manovra all’autonomia statutaria, ha dato adito a numerose interpretazioni. 


Una parte della dottrina sostiene che il divieto di esercizio del diritto di voto nell’assemblea generale rappresenti un divieto di competenza generale in capo ai titolari di strumenti finanziari partecipativi e quindi gli argomenti specificamente indicati devono necessariamente rientrare nelle materie già di competenza dei soci. Da ciò consegue che l’art. 2346, co. 6, c.c. non formulerebbe un vero e proprio divieto di votare nell’assemblea generale, quanto un divieto di attribuire portata generale al voto dei titolari di strumenti finanziari partecipativi, si assisterebbe ad una sorta di metonimia dove il rimando all’organo dell’“assemblea generale” intende in realtà riferirsi alle competenze dello stesso. Tra i sostenitori di questa tesi Lener, [3], 486, il quale afferma che “quando la legge parla di «voto», senza ulteriori specificazioni, necessariamente si riferisce all’assemblea (se vogliamo, generale) dei soci. […] L’art. 2351 contempla l’attribuzione del diritto di voto, che è tipicamente diritto da esprimersi nell’assemblea”.


Altra parte della dottrina invece sostiene che l’apparente dissidio tra l’art. 2351, co. 5, c.c. e l’art. 2346, co. 6, c.c. sia risolvibile ammettendo l’esercizio del diritto di voto su argomenti specificamente indicati solo in un’assemblea separata dall’assemblea degli azionisti. Secondo tale lettura l’assemblea generale sarebbe tenuta ad adeguarsi alle indicazioni recepite dall’assemblea separata riguardo gli argomenti indicati di competenza dei titolari degli strumenti finanziari partecipativi. In questo modo si delineerebbe una sorta di potere di veto in capo a questi ultimi rispetto gli argomenti specificamente individuati. Di tale opinione Tombari, [1], p. 8. L’Autore sostiene che il divieto di votare all’assemblea generale presupponga la richiesta di esercitare il diritto di voto previsto all’art. 2351, co. 5, c.c. in “luogo diverso rispetto all’assemblea generale degli azionisti, anche se questo luogo non dovrà necessariamente identificarsi con l’ “assemblea speciale” di cui all’art. 2376 c.c.


Infine vi è chi sostiene che il divieto dell’art. 2346, co. 6, c.c. rappresenti un limite alla eventualità di assistere ad una potenziale riallocazione del potere di controllo in capo a soggetti diversi dagli azionisti. Il divieto di esercizio del voto nell’assemblea generale rappresenterebbe qualcosa di più pregnante rispetto al semplice divieto di partecipazione fisica alla medesima adunanza assembleare. Visto che i diritti che possono essere attribuiti ai soggetti titolari di strumenti finanziari rientrano nel “ventaglio” di quelli attribuitili ai soci, ad eccezione del potere di nominare un componente del consiglio di gestione, è ipotizzabile che attraverso l’attribuzione dei diritti amministrativi i titolari di strumenti finanziari si trovino in un qual modo a “concorrere con gli azionisti nell’assunzione del ruolo di sovranità sull’ente”. Tale concorso risulta però essere del tutto occasionale ed ancillare e proprio il divieto dell’art. 2346, co. 6, c.c. è l’espressione della volontà di mantenere in capo agli azionisti "una posizione di primazia sull’ente”. Si esprime così Cian, [2], p. 747. L’Autore rileva come la compartecipazione dei possessori di strumenti finanziari partecipativi sia di natura ancillare rispetto la posizione dei soci, ed esclude che possa essere attribuita una portata generale all’esercizio del voto dei titolari di strumenti finanziari in grado di prevalere sull’orientamento dei soci. Notari, [4], p. 25, afferma

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Ad ampliare ulteriormente il novero dei soggetti ammessi alla legittimazione dell’intervento durante l’adunanza assembleare ed all’esercizio di diritti amministrativi si inserisce l’articolo 2352 c.c. che prevede il caso di pegno o usufrutto sulle azioni ed il caso in cui le azioni siano oggetto di misure cautelari ed esecutive. L’art. 2352 c.c. asserisce che il diritto di voto spetti, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario. Nel caso di sequestro delle azioni il diritto di voto è esercitato dal custode. Il diritto di voto è quindi attribuito al soggetto titolare del diritto frazionario, che dovrà esercitarlo in modo da non ledere gli interessi del socio, esponendosi in caso contrario al risarcimento dei danni nei suoi confronti . La norma 15

poi continua e statuisce che “salvo che dal titolo o dal provvedimento risulti diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli presenti nell’articolo spettano nel caso di pegno e usufrutto sia al socio sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario; nel caso di sequestro sono esercitati dal custode” . Pur non essendo stabilito nulla dal legislatore 16

intorno alle modalità con cui tali diritti possano essere esercitati, è da La Cassazione 19 agosto 1996, n. 7614 amplia l’ambito di applicazione anche alle

15

s.r.l. “Il diritto di voto nell'assemblea di società a responsabilità limitata spetta, per le quote concesse in usufrutto, all'usufruttuario, il quale però non deve votare in modo da compromettere il valore economico della partecipazione nella società: in caso contrario, il voto espresso è valido, ma egli risponde dei danni e l'usufrutto può estinguersi per l’abuso”.


A riguardo si è espresso il Consiglio Nazionale del Notariato con lo studio n. 836-2014/I che affronta il tema della possibilità di costituire i diritti di pegno, usufrutto e sequestro solo su parte della partecipazione di s.r.l. Rispetto alle modalità di “esercizio dei diritti connessi alla partecipazione parzialmente soggetta a pegno, usufrutto o sequestro” la dottrina afferma che il “titolare del diritto minore e il socio possano diversamente graduare la spettanza del diritto di voto” ponendo in luce il richiamo contenuto nell’art. 2471-bis, c.c. all’art. 2352 c.c. rispetto la possibilità della “diversa pattuizione” prevista al primo comma della disposizione inerente la s.p.a.

Dall’analisi di questa disposizione si comprende chiaramente come il diritto di

16

voto possa far parte della macro-categoria dei diritti amministrativi ma per la sua particolare rilevanza segua una disciplina a sé. Risulta lecito domandarsi cosa possa essere compreso negli “altri diritti amministrativi” indicati dalla norma. Nuovamente la risposta non è data espressamente dal legislatore; ma attraverso l’interpretazione del concetto di “diritti amministrativi” che abbiamo visto essere accolta dalla dottrina è possibile inserirvi tutti quei diritti inerenti al momento informativo, ad un’attività di controllo che il soggetto, sia esso socio o titolare di diritti frazionari, potrà esercitare.

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ritenersi che l’esercizio dei diritti sociali da parte di uno dei due soggetti legittimati non possa svolgersi in modo contrastante al comportamento dell’altro . 17

Ad oggi, grazie all’ampliamento del novero dei soggetti che possono intervenire in assemblea avuto tramite la modifica dell’art. 2370 c.c. 18

che sostituisce il termine “azionisti” con il pronome “coloro” , è 19

possibile assistere ad un panorama estremamente composito e diversificato: ad azionisti che non partecipano alla vita della società 20

si affiancano soggetti non azionisti titolari di diritti amministrativi. 
 Tale scenario è il frutto dell’opera del legislatore che ha preferito

Ginevra, p. 294.

17

Si assiste a tale modifica con il decreto legislativo del 27 gennaio 1010 n. 27 volto

18

al recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 2007/36/CE relativa all’esercizio di alcuni diritti dei soci nelle s.p.a. quotate. Con tale modifica, che potrebbe sembrare solo terminologica, si realizza un ribaltamento della prospettiva con cui guardare al diritto di intervento: non più quale semplice accessorio a corollario della qualifica di socio (che abbia adempiuto alle richieste dell’ordinamento come richiedeva la modifica del 2003) ma un vero e proprio diritto attribuibile a coloro che detengono il diritto di voto in modo da consentire a soggetti anche non azionisti di essere legittimati ad intervenire nell’adunanza assembleare.

Si interessa della legittimazione inerente il diritto di voto e il diritto di intervento

19

Stella Richter, [2], pp. 939 ss. Eliminato il riferimento a “gli azionisti cui spetta il diritto di voto” e sostituito con “coloro ai quali spetta il diritto di voto” si ottiene la creazione di un collegamento nuovo, oggettivo, che viene a radicarsi tra l’esercizio del diritto di voto e l’esercizio del diritto di intervento. Per poter comprendere chi effettivamente siano i soggetti che potranno intervenire all’assemblea risulta necessario verificare chi siano i soggetti legittimati ad esercitare il diritto di voto. L’art. 2351 c.c. afferma che ogni azione attribuisce il diritto di voto. Da ciò consegue che ogni azionista sarà titolare del diritto di voto e quindi di intervento. Questa conclusione ripropone la situazione sostenuta nella previgente versione dell’art. 2370 c.c. Ma l’articolo 2351 c.c. prosegue ed ai commi successivi prevede la possibilità di graduare l’attribuzione del diritto di voto creando azioni senza diritto di voto, con voto limitato a particolari argomenti, ovvero subordinato al realizzarsi di particolari condizioni. Le limitazioni all’esercizio del diritto di voto escludono così di fatto alcuni azionisti dall’esercizio del diritto di intervento. Diversamente la recente introduzione della possibilità di creare azioni a voto plurimo detiene un peso che non incide sull’esercizio del diritto di intervento.

Il riferimento è alle azioni di risparmio introdotte con la legge n. 216 del 1974, con

20

la quale il legislatore cerca di rispondere all’aumento di soggetti interessati maggiormente ad ottenere un utile dal proprio investimento, piuttosto che alla gestione dell’impresa societaria escludendo difatti l’esercizio del diritto di voto. 
 Lener, [3], p. 483, rileva come l’introduzione di azioni senza diritto di voto esenti da compensazioni economiche scardini l’esigenza da sempre sentita dal legislatore di mantenere in equilibrio le posizioni dei soci.

(18)

valorizzare il momento del finanziamento dell’impresa stessa, ed il risultato ha reso del tutto indifferente per l’ordinamento societario che l’investimento sia qualificabile come conferimento o come mero apporto economico e di conseguenza è altrettanto indifferente che l’investitore sia un azionista o un “creditore” con poteri di voice . Ciò 21

che interessa sono i vantaggi che l’emissione di strumenti finanziari partecipativi comporta, rappresentando una valida alternativa alle fonti di finanziamento classiche per gli emittenti , ed un’opportunità di 22

partecipazione alla gestione dell’impresa per i sottoscrittori.

2.2. Nelle s.r.l.

Nelle s.r.l. la situazione si presenta con caratteristiche diverse. Il titolare della partecipazione sociale è di solito interessato alla gestione dell’impresa e, in ossequio ai principi espressi nella legge delega di riforma del 2003 , assume una posizione rilevante all’interno della 23

società. La natura chiusa della struttura del modello societario mal si

Di tale opinione Lener, [3], p. 484.

21

Cesarini, Gobbi, pp. 403 ss., rilevano la presenza di una stretta “dipendenza delle

22

imprese dalle banche per il finanziamento non solo dell’attività corrente, ma anche degli investimenti a lungo termine”. Tale dipendenza si qualifica come una “caratteristica strutturale che ha accompagnato l’economia italiana lungo tutto il suo percorso, dalla prima rivoluzione industriale a cavallo tra il XIX e il XX secolo all’attuale fase di uscita da una delle sue crisi più profonde”. Ancora oggi si rintraccia un legame estremamente stringente tra l’impresa e il credito bancario, nonostante i numerosi interventi normativi e l’incentivazione economica, i mercati dei capitali non hanno mai raggiunto la soglia critica di attività necessaria per consentire uno sviluppo sostenuto e duraturo di forme di finanziamento diverse dal credito bancario.

La Legge Delega 366 del 2001 all’art. 3 sancisce che la riforma della disciplina

23

della società a responsabilità limitata è ispirata ai princìpi generali di prevedere un “autonomo ed organico complesso di norme, anche suppletive, modellato sul principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci”.

(19)

presta all’ingerenza di soggetti estranei alla compagine sociale tant’è 24

che l’art. 2475 c.c. affida l’amministrazione della società a uno o più soci. Una diversa attribuzione della competenza amministrativa richiede un’espressa disposizione dell'atto costitutivo. Inoltre la previsione all’art. 2476, co. 7, c.c. della responsabilità solidale con gli amministratori “dei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”, conferma il ruolo di rilievo che i soci di s.r.l. assumono nei momenti decisionali. A rafforzare la posizione di rilevanza e centralità del quotista il legislatore prevede la possibilità che lo statuto attribuisca singolarmente particolari diritti riguardanti l’ambito amministrativo o la distribuzione degli utili come indicato all’art. 2468, co. 3, c.c. Anche in questo caso il legislatore non si preoccupa di indicare e definire con precisione cosa possa essere compreso all’interno del novero dei “diritti amministrativi”, lasciando che sia l’autonomia statutaria a definire i contorni. Così i margini dei diritti amministrativi, secondo l’interpretazione prevalente, assumono estrema flessibilità ed ampiezza.

La riforma del 2003 consente alla s.r.l. all’art. 2483 c.c. di emettere "titoli di

24

debito", demandando all'atto costitutivo di individuare l'organo competente all'emissione e di determinare "gli eventuali limiti, le modalità e le maggioranze necessarie per la decisione”, ed al secondo comma la norma stabilisce che “i titoli emessi ai sensi del precedente comma possono essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione dei titoli di debito, chi li trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali ovvero soci della società medesima”. Bartalena, [2], p. 293, pone in rilievo il limite del "divieto di appello diretto al pubblico risparmio" posto dal legislatore. “Lo sbarramento in tal modo posto alla sollecitazione all'investimento da parte della s.r.l. emittente non impedisce, peraltro, né l'appello (sia pure indiretto) al c.d. risparmio inconsapevole, né la creazione di un mercato secondario degli strumenti finanziari emessi. Gli "investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale”, che devono necessariamente intervenire quali sottoscrittori dei titoli di debito emessi da una s.r.l., possono, infatti, a loro volta collocarli fra il pubblico, sia pure assumendo la garanzia della solvibilità dell'emittente nei confronti di tutti i successivi acquirenti (con esclusione soltanto di quei soggetti - altri investitori professionali, soci - che, per la loro qualificazione o per la "vicinanza" all'emittente, non necessitano di una particolare tutela, essendo in grado di apprezzare autonomamente la rischiosità dell’investimento)”.

(20)

Riproponendo la contrapposizione che abbiamo visto realizzarsi anche all’interno delle società di persone (art. 2261 c.c.) al socio di s.r.l. che non partecipa all'amministrazione spetta, oltre l’eventuale esercizio dei particolari diritti riguardanti l’amministrazione che lo statuto potrà indicare e confezionare su misura per ogni singolo socio, i poteri di controllo e di informazione previsti all’art. 2476, co. 2, c.c.


L’attribuzione di tali diritti risponde alla volontà di porre in primo piano la posizione del socio e l’elevato tasso di incisività dei diritti di controllo e di informazione giustificano l’eventuale mancanza dell’organo di controllo all’interno dell’organizzazione strutturale della s.r.l. . 
25

Dall’analisi dei poteri e diritti attribuibili al socio di s.r.l. si evidenzia la centralità e la rilevanza della sua posizione all’interno della struttura organica della società.

Poste le basi per comprendere le differenze intercorrenti tra la posizione del socio di s.p.a. e del socio di s.r.l. risulta necessario analizzare la disciplina di dettaglio inerente le effettive modalità di espressione e di esercizio del diritto di voice nel corso dell’attività sociale.

L’art. 2477 c.c. individua alcuni casi in cui la nomina dell’organo di controllo

25

risulta essere necessaria. Masturzi, p. 766, rileva la diversa natura che l’attività di controllo assume a seconda se posta in essere dal socio ovvero dal collegio sindacale: per il socio costituisce un diritto, per il collegio sindacale, un dovere. L’Autore pone in luce la differenza intercorrente con la s.p.a. dove il controllo organico sulla gestione è sempre necessario, mentre nella s.r.l., “estranea al mercato dei capitali e priva del livello di spersonalizzazione dell'impresa tipico dell'incorporazione delle partecipazioni sociali in titoli, il controllo organico è, invece, unicamente legato al profilo dimensionale dell’impresa”.

(21)

CAPITOLO 2

I DIRITTI DI VOICE DEL SOCIO ALL’INTERNO DELLA SOCIETÀ PER AZIONI

1. L’evoluzione normativa delle competenze assembleari ed il relazionarsi della stessa con l’organo amministrativo

L’esercizio del diritto di voice del socio all’interno di una s.p.a. si manifesta prevalentemente nel momento assembleare. Tale momento è stato teatro di alterne vicende contrassegnate da numerosi interventi legislativi e la disciplina che ne è derivata delinea, ad oggi, un’assemblea estremamente depotenziata rispetto alla sua prima regolamentazione. Ma per poter comprendere a pieno le possibilità e i diritti che il singolo socio detiene per potersi inserire nella vita e nella gestione della società non si può prescindere dall’analisi della relazione intercorrente tra organo assembleare ed organo amministrativo . Tale relazione ha subito numerose modifiche 1

culminate con la riforma del 2003 che ha creato una sorta di monopolio dell’attività gestoria in capo agli amministratori. Le modifiche intervenute inerenti l’attribuzione di competenze tra organo assembleare ed organo amministrativo rispondevano ad obiettivi di maggior efficienza e competenza che il legislatore si poneva. Ripercorrendo l’evoluzione della disciplina riusciamo a enucleare gli interessi del legislatore sottesi ai numerosi cambiamenti di direzione che si sono verificati.

Si occupano della materia inerente la suddivisione di competenze: Abbadessa,

1

Mirone, p. 269; Abbadessa,[1]; Abbadessa,[2], p. 170; Bartalena, [4] p. 1093; Bertolotti, [1]; Campobasso [2], p. 356; Maugeri, [3]; Notari, [1], p. 130; Notari,[2], p. 569; Pavone La Rosa, p 1; Tucci, p. 15.

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1.1. Il codice di commercio del 1882

Il codice di commercio del 1882 attribuiva all’assemblea la veste di “organo supremo deputato a formare la volontà sociale” in grado di 2

rappresentare un esempio di “democrazia azionaria” . A conferma di 3

tale impostazione è sufficiente ricordare alcuni articoli che esprimono questa posizione: l’art. 121 prescriveva che “la società anonima [fosse] amministrata da uno o più mandatari temporanei, rivocabili, socii o non socii”, che, pur non contraendo responsabilità personale per gli affari sociali intrapresi, erano sempre sottoposti alla responsabilità “dell’esecuzione del mandato” ed a quella derivante “dalle obbligazioni che la legge a loro impone”. L’art. 122 disponeva al suo ultimo comma che gli amministratori “non po[tessero] fare altre operazioni che quelle espressamente menzionate nell’atto costituivo” prevedendo per l’eventuale mancato rispetto di tale previsione una responsabilità nei confronti della società e nei confronti dei terzi. A riguardo occorre rammentare anche l’art. 147 che ai nn. 4) e 5) individuava gli amministratori come solidariamente responsabili verso i soci e verso i terzi “dell’esatto adempimento delle deliberazioni delle assemblee generali, e in generale dell’esatta osservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto”. L’atto costitutivo, difatti, doveva indicare “la qualità e la specie degli affari che costituiscono l’oggetto della società” nonché “le facoltà dell’assemblea generale”, cioè le mansioni che le potevano essere attribuite in campo gestorio (art. 89 n. 2) e n. 10) codice di commercio

Maugeri, [3], p. 336, riporta tale definizione, esaltandone la posizione e rilevanza.

2

Galgano, p. 153, evidenzia un interessante parallelismo tra la democratizzazione

3

della società di capitali e l’allargamento del suffragio elettorale che segna l’ascesa della borghesia nel mondo politico del tempo.

(23)

1882) . Le competenze degli amministratori dovevano quindi essere 4

comprese tra gli “affari che costituiscono l’oggetto della società”, mentre le competenze dell’organo assembleare non erano limitate alla sola nomina dei soggetti amministratori, ma implicavano anche l’indirizzare l’attività gestoria tramite direttive vincolanti. Da ciò conseguiva che l’assemblea assumeva la veste di organo “sovrano” e 5

gli amministratori, in quanto mandatari, non tanto della società ma della stessa assemblea , avevano una competenza decisionale limitata e 6

sottoposta al potere decisorio e vincolante di quest’ultima . 
7

La ripartizione di poteri tra assemblea e amministratori permetteva interpretazioni diverse. Un’interpretazione letterale e restrittiva dell’art. 121 avrebbe condizionato l’attività della società alla esplicita individuazione all’interno dell’atto costitutivo delle singole operazioni che gli amministratori avrebbero potuto compiere; ed in caso la singola operazione necessaria per rispondere all’esigenza del momento non fosse stata prevista tra le competenze amministrative, l’esecuzione si sarebbe dovuta sospendere ed avrebbe costretto gli amministratori a richiedere le necessarie autorizzazioni di competenza all’assemblea generale. Da tale lettura consegue un evidente imbrigliamento dell’attività di gestione. Leggermente meno restrittiva era la tesi che considerava il mandato in un’accezione più ampia in grado di attribuire un potere di ordinaria amministrazione commerciale pur nel rispetto Demuro, p. 1, apre il suo testo ripercorrendo quella che è stata la storia

4

dell’attribuzione delle competenze sociali “dall’assemblea sovrana alla sovranità dei soci”.

Qualifica di stampo ottocentesco attribuita da Abbadessa Mirone, p. 269.

5

Tratta della disciplina dell’attribuzione di competenze all’assemblea nel codice di

6

commercio anche Vietti, p.1.

A riguardo Demuro, p. 2, ricorda come tale tesi fosse quella sostenuta nella

7

Relazione al progetto del Codice di Commercio del 1878, dove l’assemblea era riconosciuta come unico organo in grado di esprimere la volontà della società e di esercitare il supremo potere sociale, mentre il mandato degli amministratori era limitato alle sole operazioni che erano autorizzate e menzionate nell’atto costitutivo.

(24)

dell’oggetto della società. Maggiormente estensiva era l’interpretazione che lasciava in capo agli amministratori un margine di autonomia per l’esecuzione delle delibere assembleari. Gli amministratori mantenevano la rappresentanza della società ed erano obbligati ad eseguire le delibere dell’assemblea, salvo che fossero adottate in violazione di legge o dello statuto . Quest’ultima 8

interpretazione, che permetteva uno spiraglio di autonomia all’attività degli amministratori, fu quella che da lì a poco riscontrò maggior fortuna. L’influenza del contesto storico e sociale che andava ad affermarsi spingeva verso il rafforzamento dei poteri del consiglio di amministrazione al fine di consentire una gestione accentrata, unitaria e maggiormente efficiente della società.

1.2. Il codice civile del 1942

Il codice civile del 1942 risponde alle propensioni dell’orientamento prevalente in quel momento : abbandona la posizione di centralità 9

dell’assemblea e ne riduce sensibilmente le prerogative gestorie , a 10

favore della creazione di un organo amministrativo che risultasse Demuro, p. 2, riporta le tesi contrapposte che si erano manifestate in dottrina

8

riguardo la portata della suddivisione dei poteri tra assemblea e amministratori. Demuro, p. 8, riporta i progetti che indirizzano il legislatore del 1942. In particolare

9

il progetto Vivante del 1922, che prevedeva una disposizione legislativa finalizzata ad individuare i singoli atti e gli specifici poteri degli amministratori e consentiva a questi ultimi di porre in essere tutte le operazioni rientranti nell’oggetto sociale, lasciando la possibilità di ampliarne il novero all’atto costitutivo; il progetto D’Amelio del 1925 che si occupava di tutte le società; ed infine il Progetto Asquini del 1940 che ammetteva che gli amministratori avessero il potere di compiere tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale che avrebbe dovuto quindi essere precisamente determinato e rimandava all’istituto del mandato solo con riferimento alla valutazione della responsabilità, in quanto il loro operato doveva ispirarsi alla “diligenza prescritta per il mandato”.

Galgano, p. 153, rileva come la disciplina societaria rispecchi fedelmente la

10

disciplina della politica del momento. Al mutamento della borghesia e all’emergere delle nuove classi lavoratrici corrisponde “il regresso della democrazia assembleare”, a favore di forme di governo accentrate ed autoritarie.

(25)

autonomo, autoritario e dedicato esclusivamente all’attività inerente la gestione della società. Alla base di tale scelta vi era l’esigenza concreta di rispondere alla sempre più elevata richiesta di professionalità e competenza che la crescente complessità organizzativa dell’attività di impresa esigeva . 
11

L’assemblea, d’altra parte, assisteva così ad un ridimensionamento delle sue prerogative, riferibili alla sola approvazione del bilancio, alla distribuzione degli utili e di modifica dello statuto. 


Da questo momento in poi i due organi in esame raggiungono una posizione di autonomia ed indipendenza l’uno dall’altro: al mandato si faceva riferimento solo per indicare lo standard di diligenza a cui gli amministratori dovevano attenersi nell’esercizio dell’attività . 
12

La ripartizione delle competenze nella versione originaria del codice civile delineava la tendenziale competenza degli amministratori in materia gestoria. Tendenziale in quanto l’art. 2384 c.c. disponeva che gli amministratori avessero la rappresentanza della società e attribuiva loro il potere di compiere “tutti gli atti che rientra[va]no nell’oggetto sociale salvo le limitazioni che risulta[va]no dalla legge o dall’atto costitutivo”; e, d’altro lato, l’art. 2364 c.c. prevedeva la possibilità di modificare statutariamente in favore dell’assemblea l’assetto individuato dal legislatore. Infatti il primo comma, nell’attribuire le competenze all’assemblea ordinaria stabiliva, al n. 4), che questa potesse deliberare “sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall'atto costitutivo, o sottoposti al suo esame dagli amministratori, nonché sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci”. 


Demuro, p.10, si occupa nella sua opera dell’evoluzione della disciplina societaria.

11

Il riferimento è contenuto all’art. 2392 c.c. poi venuto meno, in quanto ad oggi si

12

richiede che l’amministratore nell’adempimento dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto debba usare la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.

(26)

In altri termini, il potere gestorio risultava essere, solo potenzialmente e limitatamente alle materie individuate nell’atto costitutivo, condiviso tra organo amministrativo e assemblea .
13

La riserva dell’atto costitutivo doveva essere precisa e doveva individuare esplicitamente le materie e le attività riservate ai soci, in quanto era del tutto escluso che all’assemblea potesse essere attribuita, tramite l'atto costitutivo, la generale competenza amministrativa in modo permanente : l’unica competenza in ambito gestorio riguardava 14

la facoltà deliberativa su atti di gestione espressamente previsti dallo statuto o eventualmente devoluti dagli amministratori. 


Tra le materie usualmente individuate dall’atto costitutivo come di competenza assembleare vi era, secondo un’interpretazione ampia dell’art. 2364, co. 1, n. 4), c.c. la richiesta di coinvolgimento dell’assemblea in presenza di atti amministrativi che avrebbero comportato mutamenti della struttura, delle prospettive di reddito o del rischio di impresa. In tali situazioni gli amministratori, secondo questa interpretazione, sarebbero stati tenuti a richiedere la preventiva Guerrera, [1], p. 181, individua sulle materie a competenza “concorrente”, una

13

possibilità di conflitto di interessi tra soci e amministratori, in quanto questi ultimi risponderebbero all’obbligo di “perseguire l’interesse sociale”, obbligo non configurabile invece in capo al socio, in quanto derivante dal rapporto di gestione che presenta maglie più stringenti rispetto a quello rappresentato dal semplice dovere del socio di "rispettare" l'interesse sociale e di non indirizzare il voto assembleare in senso contrario ad esso. La scelta in materia gestoria presa da parte dell’assemblea doveva, però, essere valutata alla luce del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. L’Autore rileva, infine, una connessione tra le competenze assembleari e le scelte gestorie tale da creare difficoltà nell’individuare il conflitto di interessi prospettato. “Allorquando il socio, attraverso l'espressione del voto in assemblea, dà un contributo determinante alla nomina o alla revoca degli amministratori, all'approvazione o alla disapprovazione del bilancio, all'esercizio o alla rinuncia dell'azione sociale di responsabilità etc., egli partecipa al processo decisionale endo-societario in una posizione di "istituzionale cooperazione" all'espletamento dei compiti (indeclinabili) dell’organo”.

Tale argomento è stato comunque origine di dibattiti all’interno della dottrina.

14

Campobasso, [1], sosteneva che, in assenza di indicazioni da parte della norme riguardo l’esistenza di limiti rispetto la possibilità di attribuire all’assemblea competenze, è da considerarsi del tutto lecita l’attribuzione totale di tali competenze all’organo assembleare. Ma l’opinione prevalente non era concorde: Abbadessa [3], p. 6, superando una stringente interpretazione letterale, interpreta la disposizione con un’ottica di efficienza.

(27)

autorizzazione dell’assemblea per le singole operazioni in virtù del rispetto delle regole di diligenza e del principio di correttezza e buonafede . Secondo altra parte della dottrina la convocazione 15

dell’assemblea era richiesta solo quando le operazioni avrebbero potuto comportare una “sostanziale modifica, diretta o indiretta dell’oggetto sociale” . 
16

Quale che sia il modo in cui si interpreti l’articolo in esame, si assiste ad una sostanziale inversione della disciplina rispetto quanto delineato nel codice di commercio del 1882: l’assemblea, da organo sovrano che era, assume una competenza gestoria limitata, specifica ed eventuale; mentre gli amministratori, da semplici mandatari, detengono una competenza di carattere generale, purché strumentale al raggiungimento dell’oggetto sociale . 
17

Questi ultimi erano titolari di una competenza generale derivante dalla legge, che non necessitava più di alcuna elencazione degli atti che avrebbero potuto compiere, ma, al contempo, era prevista la possibilità di sottoporre all’organo assembleare atti di loro spettanza, sui quali ritenevano opportuno e conveniente conoscere preventivamente l’opinione dei soci, “a scarico della propria responsabilità” . Difatti la 18

devoluzione all’assemblea su deliberazioni inerenti atti di gestione

Pavone La Rosa, p. 1, individua altre ipotesi in cui si sarebbe potuto inserire la

15

richiesta di intervento assembleare, come ad esempio in caso di acquisti che si rivolgono alla partecipazione di società controllate, paragonando tale situazione alla disciplina dell’art. 2357, co. 2, c.c. inerente l’acquisto di proprie azioni; Abbadessa, [3], p. 7, riporta ulteriori casi in cui si concretizzava l’obbligo di devoluzione all’assemblea: i) conferimento dell’intera azienda, trasformandola così in holding; ii) stipula di contratti inerenti la perdita del controllo di iniziativa; iii) operazioni implicanti rischi atipici.

Campobasso G.F., [1], p. 371, indicava la necessità di convocare l’organo

16

assembleare di fronte ad operazioni idonee a comportare un radicale mutamento del tipo di attività d’impresa stabilito nell’atto costitutivo.

Demuro, p. 11, rileva tale inversione di marcia rispetto il codice di commercio del

17

1882.

Così Bertolotti, [1], p. 21.

(28)

permetteva agli amministratori di liberarsi dalla responsabilità verso la

società, pur mantenendo quella nei confronti di creditori e di terzi. In

tale assetto la posizione degli amministratori non era però degradata a quella di meri esecutori, in quanto erano comunque tenuti all’osservanza del dovere di diligenza ed a vagliare la conformità delle operazioni all’interesse della società, sebbene l’assemblea, ove lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto adottare deliberazioni riguardanti singole operazioni indicando anche le relative modalità di attuazione . Agli amministratori residuava ad ogni modo un potere di 19

resistenza, cioè l’obbligo di dare esecuzione alle delibere assunte dall’assemblea si arrestava ove le decisioni dei soci fossero contrastanti con disposizioni legislative, in quanto gli amministratori sarebbero incorsi nell’azione di responsabilità dei terzi ovvero dei creditori qualora fossero stati presenti i presupposti indicati all’art. 2394 ed art. 2395 c.c. .
20

La disciplina inerente l’attribuzione di competenze tra assemblea e amministratori delineata dal codice civile assumeva rigidità, ampiezza e sfaccettature differenti a seconda dell’interpretazione attribuita. L’opinione prevalente era ad ogni modo concorde sull’affermare l’inidoneità della sede assembleare per l’assunzione delle decisioni aziendali, in quanto tali decisioni richiedevano tempestività e rapidità, che il procedimento assembleare non risultava essere in grado di garantire. Le competenze inerenti la c.d. “gestione corrente” erano efficacemente attribuite agli amministratori che avrebbero potuto 21

dedicare professionalità e attenzione costante agli affari della società. Pavone La Rosa, p. 2, non condivide la rigidità della suddivisione di competenze

19

tra assemblea e amministratori.

Abbadessa, [3], p. 9, rileva come il riferimento sia alle norme sulla bancarotta,

20

volte a garantire la corretta amministrazione del patrimonio sociale.

Demuro, p. 16, e Abbadessa, [3], p. 6, parlano di una sfera di competenza minima

21

(29)

1.3. L’intervento del legislatore del 1974

Dopo l’affermazione del modello del codice civile del 1942 si assiste negli anni ’60 e '70 ad una crescita esponenziale dell’interessamento del pubblico nei confronti del sistema societario . Complice lo 22

sviluppo economico, si manifesta un incremento della propensione all’investimento a rischio e si profila di conseguenza per le imprese l’opportunità di coinvolgere ed utilizzare il risparmio delle famiglie attingendo direttamente al mercato della borsa, senza passare dall’intermediazione bancaria. 


Nasce così la figura dell’azionista risparmiatore, disponibile ad investire nelle imprese preferendo la remunerazione aleatoria dell’utile al deposito bancario . La propensione delle famiglie all’investimento 23

a rischio richiedeva però una disciplina dettagliata e settoriale che il codice del 1942 non offriva. Il codice civile non rispondeva ai modelli sociologici che venivano alla luce: ancora limitato ad un panorama societario unitario prevedeva esclusivamente un’unica s.p.a. la cui disciplina sarebbe dovuta valere sia per la piccolissima società che per le società di cui facevano parte una moltitudine di azionisti e che avevano accesso al risparmio anonimo. 


L’accrescersi della pratica societaria caratterizzata da un azionariato diffuso, la forte distinzione interna degli interessi che animano la compagine sociale, la rilevante incidenza dell’assenteismo degli azionisti sono stati tutti elementi che hanno minato la concezione

Si occupa della materia Annunziata, p. 10.

22

Si occupa dell’argomento Vietti, p. 8, all’interno dell’introduzione dedicata

23

all’autonomia privata nelle società di capitali, dove si concentra su un’attenta evoluzione storica della normativa e degli avvenimenti che hanno influenzato la normativa societaria.

(30)

classica di società come “sodalizio” ove si valorizzava l’elemento 24

dell’esercizio in comune di un’attività economica. 


Le esigenze e gli interessi dei nuovi azionisti erano fortemente differenziati rispetto a quelli della figura classica del socio ed inevitabilmente si realizzava un gap tra i modelli societari che si andavano definendo nella prassi e la disciplina presente nel codice civile che non era più in grado di disciplinarli. 


Si assiste così, grazie alla legge n. 216 del 1974, ad un cambiamento dell’intera prospettiva con cui il legislatore si relazionava alla materia. Fino ad allora si aveva infatti una disciplina unica che avrebbe dovuto regolare in modo univoco tutte le società per azioni senza tenere conto delle numerose differenze che esse presentavano . Con la riforma del 25

’74, invece, si pongono le basi per una distinzione della disciplina in relazione alla caratterizzazione delle s.p.a sul piano dimensionale od operativo, con l’obiettivo di regolare e disciplinare i nuovi interessi sorti. 


In particolare necessita di regolamentazione il nuovo atteggiamento del singolo socio nei confronti dell’investimento: accanto all’azionista-imprenditore interessato alla gestione della società e al perseguimento di politiche a lungo termine, che sostanzialmente si identifica nella maggioranza di controllo, viene riconosciuta la presenza dell’azionista-risparmiatore interessato esclusivamente all’aspetto economico del

Definizione data da Spada, [1], p. 1. L’Autore vede lo sgretolarsi della concezione

24

originaria della società descritta quale "sodalizio finalizzato a far profitti e a dividerli, ad iniziativa collettiva speculativa” ed il realizzarsi di una divisione manichea tra “una platea poco organizzata di investitori e [..] dirigenti, prevalentemente esponenti di una minoranza di investitori già organizzati”.

Campobasso M., p. 5 rileva come fino alla riforma del 1974 per la disciplina di

25

s.p.a. quotata ed s.p.a. non quotata si aveva “una sola norma”. “A partire dal 1974 le cose cambiano. Si creano due modelli all’interno dell’unico tipo società per azioni, la disciplina delle società quotate e quella delle società non quotate, che col tempo tenderanno a differenziarsi sempre più, tanto che adesso vi è persino chi dubita che sia opportuno, sul piano conoscitivo, trattare unitariamente le due figure o “sottotipi”.

(31)

proprio investimento (e più precisamente alla percezione degli utili) . 
26

Il legislatore, preso atto della situazione concreta e dalla crisi in cui il modello tradizionale ed unitario di società era caduta, prevede la possibilità che la società emetta azioni di risparmio, ovverosia titoli privi del diritto di voto, ma dotati di particolari diritti a carattere patrimoniale, che, in deroga al principio vigente della nominatività obbligatoria delle azioni, possono circolare al portatore. Questa nuova categoria di azioni è stata introdotta per incentivare l’investimento dei piccoli investitori, ovvero di quegli operatori interessati al solo rendimento e non alla gestione dell’impresa, rispetto i quali la società non ha interesse a conoscere l’identità, qualificandoli semplicemente come meri investitori legittimati ad ottenere le prestazioni patrimoniali tramite la semplice presentazione del titolo. 


Così, l’intervento legislativo del 1974, caratterizzato da un forte pragmatismo, rinuncia definitivamente al desiderio di coinvolgere direttamente tutti gli azionisti nei lavori assembleari. I soci risparmiatori assumono una posizione rilevante solo dal punto di vista patrimoniale, ma d’altra parte il legislatore si impegna perché gli interessi che li muovono siano tutelati. A tal fine è istituita un’autorità amministrativa indipendente volta al controllo dell’efficienza, della trasparenza e dello sviluppo del mercato mobiliare. Tale autorità è conosciuta come Consob (acronimo di Commissione nazionale per le società e la Borsa) e nasce come organo preposto alla vigilanza delle

Spada, [1], p. 2, individua addirittura un antagonismo tra soci imprenditori e soci

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risparmiatori: gli uni interessati a dirigere ed a far accrescere in potenza finanziaria ed in prestigio l'impresa, gli altri a riscuotere qualche dividendo e, soprattutto, a cogliere il momento opportuno per disinvestire lucrando la differenza tra prezzo pagato per entrare e prezzo riscosso per uscire; così anche Campobasso M., p. 6, il quale parla di una “apatia razionale” dei soci risparmiatori in quanto il loro intervento nella vita della società risulterebbe “improduttivo e diseconomico”. Bartalena, [3], p. 157, definisce tali soggetti “cassettisti” in quanto disinteressati alla gestione della società ed attratti solo da prospettive di ritorno economico sul capitale investito. Difatti le azioni di risparmio non attribuiscono nessuna possibilità di intervento, neppure indiretto, nella gestione o nel controllo della società.

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società quotate in borsa . Per rendere effettiva tale attività di controllo 27

assume un ruolo fondamentale il momento dell’informazione sia nei confronti dei piccoli risparmiatori che dell’intero mercato. L’intervento del 1974, oltre a creare specifici obblighi informativi (per esempio, sugli assetti proprietari), garantisce la tutela e la veridicità dei dati immessi sul mercato, affiancando alla Consob, nell’attività di controllo sulla gestione della società, un’altra figura professionale quale il revisore contabile esterno. A quest'ultimo è attribuita la competenza della revisione contabile per le società quotate in borsa resa obbligatoria dall’intervento legislativo della mini-riforma, che introduce anche la richiesta di analiticità del conto economico nelle società di capitali, comportando il conseguente ampliamento della portata dei casi di nullità di bilancio e della disciplina penale riguardo le false comunicazioni sociali a tutela della veridicità delle informazioni. Successivi interventi hanno ulteriormente modificato la 28

disciplina ampliando la normativa inerente gli obblighi informativi e di comunicazione al pubblico: “la trasparenza diviene oggetto di

Gli artt. 1/18 della legge n. 216/1974, modificati dalla legge 77/1983 sottopongono

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ai controlli della Consob tutti coloro “che intendono procedere all’acquisto o alla vendita mediante offerta al pubblico di azioni o di obbligazioni anche convertibili, o di qualsiasi altro valore mobiliare italiano o estero, ivi compresi i titoli emessi da fondi di investimento mobiliari ed immobiliari, italiani o esteri, ovvero sollecitare con altri mezzi il pubblico risparmio”. Dove l’ampliamento della portata dell’ambito di competenze è segnata dal significato lato attribuito al concetto di “valore mobiliare”, definito all’art. 1/18-bis come “ogni documento o certificato che direttamente o indirettamente rappresenti diritti in società, associazioni, imprese o enti di qualsiasi tipo, ivi compresi i fondi di investimento italiani od esteri; ogni documento o certificato rappresentativo di un credito o di un interesse negoziabile e non; ogni documento o certificato rappresentativo di diritti relativi a beni materiali o proprietà immobiliari, nonché ogni documento o certificato idoneo a conferire diritti di acquisto di uno dei valori mobiliari sopraindicati ed ivi compresi i titoli emessi dagli enti di gestione fiduciaria di cui all’art. 45 TU delle leggi sull’esercizio delle assicurazioni private”.

La legge 17 maggio 1991 n. 157 si interessa del fenomeno dell’insider trading,

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