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Innovazioni farmacologiche nel trattamento della malattia di Alzheimer: dai meccanismi molecolari all'applicazione clinica

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

INNOVAZIONI FARMACOLOGICHE NEL

TRATTAMENTO DELLA MALATTIA DI

ALZHEIMER: DAI MECCANISMI MOLECOLARI

ALL’APPLICAZIONE CLINICA

Relatore

Maria Cristina Breschi

Candidato

Alessandro Bruschi

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1

Indice

Abstract. ... 3

Introduzione. ... 6

Sintomatologia. ... 10

Epidemiologia e Fattori di Rischio. ... 13

Genetica. ... 15

Basi molecolari della malattia. ... 17

Stato attuale delle terapie. ... 23

Strategie terapeutiche dirette contro la proteina β-amiloide ... 28

Immunoterapia attiva ... 29 AN1792 ... 29 CAD106 ... 31 Immunoterapia passiva ... 33 Bapineuzumab ... 36 Solanezumab ... 37 Gantenerumab ... 39 Aducanumab ... 39

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Farmaci agenti sul metabolismo della proteina

β-amiloide: inibitori di β e γ secretasi. ... 42

Inibitori delle γ – secretasi ... 44

Semagacestat ... 44

Tarenflurbil ... 48

Inibitori delle β – secretasi ... 51

Verubecestat ... 55

Elenbecestat ... 58

AZD3239 ... 59

Strategie terapeutiche dirette contro la proteina Tau ... 62

GSK-3 Inibitori ... 64

Tideglusib ... 64

Stabilizzanti dei Microtubuli ... 66

Immunoterapia anti-tau ... 68

Inibitori di aggregazione ... 71

Conclusioni ... 75

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3

Abstract.

La Malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer’s Disease) è una patologia neurodegenerativa del sistema nervoso centrale caratterizzata da

demenza progressivamente invalidante. Colpisce

prevalentemente in età presenile ma può manifestarsi anche precocemente, e costituisce la principale forma di demenza nell’anziano. La causa ed i meccanismi di progressione della malattia non sono stati ancora esattamente chiariti, ma si evidenzia un danno neuronale con conseguente morte cellulare e diminuzione della massa cerebrale, che clinicamente si manifesta inizialmente con la perdita della memoria a breve termine e disorientamento, per poi progredire verso un’incapacità di eseguire le normali attività quotidiane in autosufficienza.

Sebbene la causa scatenante sia tuttora ignota, si rilevano nel cervello patologico delle anomalie a livello biochimico nel metabolismo di alcune proteine che porta ad un loro accumulo sia a livello intracellulare (proteina tau in ammassi neurofibrillari) che extracellulare (placche β-amiloidi) del neurone, innescando

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un danno cellulare che eventualmente conduce il neurone alla perdita di funzionalità e alla morte.

Attualmente non esiste una cura risolutiva, i trattamenti approvati sono sintomatici nella fase iniziale dell’AD e non arrestano la progressione della patologia. I farmaci approvati sono indirizzati al ripristino dei normali livelli di neurotrasmettitori (specificatamente l’acetilcolina ed il glutammato) rivelatisi alterati nella malattia. Con il progredire della ricerca e con i nuovi strumenti della medicina moderna sono stati individuati molteplici bersagli farmacologici nuovi e più specifici sui quali intervenire e molti farmaci sono attualmente in sperimentazione clinica. Questo elaborato vuole fornire una panoramica di questi nuovi approcci con particolare focus sulle strategie terapeutiche di immunoterapia attiva e passiva dirette verso la β-amiloide e la proteina tau, i farmaci diretti sulle secretasi, gli inibitori della Glicogeno-Sintetasi-Chinasi 3 (GSK3) e gli inibitori di aggregazione (TAIs).

Sebbene molti di essi abbiano fallito nell’uomo l’obiettivo clinico di arrestare o invertire il decorso della patologia conclamata, hanno dato indicazioni positive negli studi in vitro, su modello animale e

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5

negli stadi più precoci della malattia, contribuendo anche con i fallimenti ad una più profonda conoscenza della patologia, piccoli passi verso una sempre più impellente cura per questa terribile malattia.

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Introduzione.

La malattia di Alzheimer (AD) è una patologia neurodegenerativa progressivamente invalidante, con esordio tipico in età avanzata (>65 anni) e causa attualmente sconosciuta, a cui sono riconducibili il 60-80% di tutte le forme di demenza. Negli Stati Uniti è la 6° causa di morte, conta 26 milioni di malati nel mondo ad oggi ed una stima per il 2050 di 1 persona su 86 affetta dalla malattia, complice anche l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’aspettativa di vita media. (Brookmeyer et al, 2007) Il numero dei decessi riconducibili all’AD è maggiore di quello per cancro della mammella e cancro prostatico combinati, e si stima che ogni 66 secondi un paziente negli US sviluppi la malattia. (Alz.org 3)

La patologia, che prende il nome dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer che la descrisse per la prima volta nel 1906, è caratterizzata da una progressiva diminuzione delle abilità cognitive che porta infine il malato a non essere più in grado di eseguire anche le più basilari attività

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quotidiane. Il sintomo d’esordio più frequente della malattia è una difficoltà a ricordare eventi recenti, che può essere subdolamente confuso con il normale deterioramento cognitivo tipico dell’età avanzata. La malattia progredisce verso una perdita progressiva delle funzioni cognitive, disorientamento, depressione, diminuzione e perdita totale dell’autosufficienza, incapacità di ricordare nomi di oggetti, di persone, di riconoscere i familiari: questo porta il paziente ad isolarsi dal lavoro, dalla società, dalla famiglia. L’aspettativa di vita dalla diagnosi, seppur variabile ed influenzata dalla velocità del procedere della malattia, si aggira tra i 3 e i 9 anni (Querfurth et al, 2010)

La patologia è caratterizzata da una perdita di neuroni e di sinapsi nella corteccia cerebrale e in alcune regioni subcorticali, in particolare nell’ippocampo, implicate nella formazione dei ricordi (da qui il danneggiamento della memoria a breve termine), nella regolazione del tono dell’umore e del comportamento e nelle vie della gratificazione. (Alz.org 2)

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A livello biochimico la malattia è associata ad un alterato metabolismo di alcune proteine, che porta ad un accumulo patologico di placche β-amiloidi nello spazio intra-neuronale e di agglomerati (tangles) neurofibrillari di un’altra proteina, la proteina tau, all’interno dei neuroni. La presenza di questi corpi, oltre a danneggiare direttamente la cellula, innesca fenomeni

1 - Cambiamenti di volume e struttura cerebrale nello stadio avanzato della malattia.

(www.nia.nih.gov/alzheimers/publication/alzheimers-disease-fact-sheet )

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infiammatori ed è sospettata di essere la principale causa di morte neuronale (Alz.org 1,2). Questa ipotesi di meccanismo riconducibile al “misfolding proteico” ha una certa assonanza con altre forme di demenza e di neurodegenerazione come il Parkinson, la demenza da Corpi di Lewy o le malattie prioniche.

2 – Rappresentazione delle lesioni tipiche dell’Alzheimer: Placche di β-amiloide e grovigli neurofibrillari

(http://www.brightfocus.org/alzheimers/infographic/amyloid-plaques-and-neurofibrillary-tangles )

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Sintomatologia.

I sintomi di esordio della malattia sono dati da una perdita di connessioni neuronali nella zona dell’ippocampo, deputata alla formazione di nuovi ricordi. Si ha quindi una episodica ma crescente incapacità di ricordare fatti e nozioni avvenuti o appresi di recente. Questa fase è subdola perché la progressione iniziale è generalmente lenta ed i sintomi possono essere confusi con il normale deficit cognitivo tipico dell’invecchiamento. Man mano che la patologia si evolve e la funzionalità neuronale viene compromessa, compaiono disorientamento, cambiamenti del tono dell’umore, profonda confusione riguardo a eventi, luoghi e date, aggressività, ansia e/o depressione (Alz.org 1).

Generalmente la progressione della malattia viene suddivisa in 3 fasi: fase d’esordio, fase intermedia e fase terminale.

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• Fase d’esordio (early stage; Mild AD). Le problematiche più comuni possono includere: difficoltà a ricordare nomi quando introdotti a nuove persone, problemi nel trovare la parola o il nome adatto, difficoltà ad eseguire compiti o pianificazioni in contesti lavorativi o sociali, diminuzione della capacità di assimilare concetti appena appresi. La persona mantiene una certa autosufficienza, potendo continuare il lavoro e portando avanti attività sociali. Nonostante questo è consapevole della difficoltà e questa condizione può provocare sensazione di inadeguatezza e depressione. (Alz.org 1)

• Fase intermedia (middle stage, Moderate AD). E’ la fase più longeva della malattia e può durare diversi anni. Man mano che la patologia avanza, la persona ha bisogno di livelli sempre crescenti di assistenza. In questa fase il paziente manifesta incapacità di ricordare eventi della propria vita anche passati, confusione spazio-temporale (incapacità di riconoscere dove si trova o che giorno sia) che può portare la persona a vagare e perdersi, difficoltà nello scegliere

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l’abbigliamento adeguato al clima o alle circostanze, cambio dei ritmi sonno veglia (come dormire di giorno e non riuscire a riposare di notte), cambiamenti della personalità e dell’umore, con comportamenti compulsivi e ripetitivi e un crescente sospetto verso gli altri, episodi di rabbia e frustrazione. (Alz.org 1)

• Fase terminale (late stage, Severe AD). L’individuo perde completamente la capacità di relazionarsi all’ambiente e alle persone, esprimere frasi di senso compiuto o comunicare i propri bisogni ed il dolore, per arrivare all’incapacità di compiere movimenti fisici come camminare, sedersi o deglutire. Il paziente deve essere assistito durante l’arco di tutta la giornata anche per i bisogni primari. La morte sopraggiunge normalmente per patologie correlate all’immobilizzazione o a infezioni, come la polmonite, a cui il malato diventa più suscettibile. (Alz.org 1)

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Epidemiologia e Fattori di Rischio.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al 2005 la prevalenza era dello 0,379% tra la popolazione mondiale, mentre è previsto un aumento fino allo 0,556% nel 2030. (WHO, 2006). Negli Stati Uniti le stime degli esperti indicano che più di 5 milioni di persone potrebbero essere affette dalla patologia. (NIH, 2016) In Italia i malati sono circa 492000 secondo uno studio del 2005, quindi il dato è probabilmente da considerarsi al ribasso visto l’aumento dell’incidenza e l’invecchiamento della popolazione. (Vanacore N. et al, 2005)

Il principale fattore di rischio di sviluppare la malattia è rappresentato dall’età: tranne una percentuale di circa il 5% dei malati, che sviluppa la malattia precocemente (EOAD = Early Onset Alzheimer Disease), la maggioranza dei casi della forma classica (LOAD = Late Onset Alzheimer Disease) è distribuito nella popolazione di età maggiore di 65 anni, nella quale circa una persona su 9 presenta la malattia. Il rischio cresce con l’età: circa 1/3 della popolazione con età maggiore di 85 anni è affetta da

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AD. (Alz.org 1) Nonostante l’età sia quindi il maggior fattore di rischio, esistono altri fattori sia influenzabili che non; il sesso è un fattore di rischio, è infatti osservata una maggiore incidenza nella donna rispetto all’uomo. (Andersen et al, 1999) Ulteriori fattori di rischio sono rappresentati dal basso livello di istruzione (pare che un’ottima istruzione e la costante stimolazione intellettuale costituisca un fattore preventivo); dalla storia di traumi cranici: traumi severi e ripetuti, specie con perdita di conoscenza, sono associati con un maggior rischio di sviluppo della malattia in età avanzata; patologie vascolari e cardiache: una buona performance cardiocircolatoria è necessaria al corretto apporto di ossigeno e nutrienti al cervello, quindi la connessione appare logica. Il rischio di sviluppare la malattia aumenta in presenza di

patologie cardiovascolari, diabete, ipertensione,

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Genetica.

La malattia è generalmente multifattoriale e complessa, ad eziologia tuttora sconosciuta. Solo una piccola parte dei casi (inferiore al 5%) presenta mutazioni in geni specifici con trasmissione ereditaria. La maggioranza dei casi è invece imputabile all’interazione di fattori ambientali e genetici.

La forma familiare ha generalmente esordio precoce ed è imputabile a precise mutazioni di geni codificanti per tre proteine: APP (Amyloid Precursor Protein), PS-1 (Presenilina-1) e PS-2 (Presenilina-2). Queste proteine sono coinvolte direttamente nei processi di sintesi della β-amiloide e mutazioni a carico dei geni codificanti per esse costituiscono da sole la causa dell’insorgere della patologia.

In particolare, la APP è una proteina integrale di membrana normalmente presente nei neuroni, sebbene la sua funzione primaria non sia nota. Mutazioni a carico del gene codificante questa proteina, specialmente a carico dei siti di taglio da parte delle secretasi, portano ad un aumento di β-amiloide. Le

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preseniline invece fanno parte degli enzimi detti γ-secretasi, proteasi coinvolte nel taglio della APP. Anche anomalie a questo livello portano ad un accumulo anomalo di Aβ a livello neuronale. (Karch et al, 2014)

La forma sporadica ha invece esordio per lo più tardivo, sopra i 65 anni (LOAD) ed è il frutto dell’interazione di fattori genetici, epigenetici ed ambientali. In questa forma più comune della malattia le mutazioni genetiche sono uno dei fattori di rischio. Il primo - e quello con evidenze più chiare – gene collegato all’insorgenza dell’AD è quello codificante l’apolipoproteina E-e4 (APOE-e4). Di questo gene esistono diverse forme (polimorfismo), tra le quali APOE-e2 e APOE-e3. La variante APOE-e4 è associata con lo sviluppo della malattia (persone con due copie del gene hanno maggiore probabilità di contrarre la malattia rispetto a individui eterozigoti o a coloro che non portano la variante APOE-e4) e con l’insorgenza in età precoce. (Karch et al, 2014) Il polimorfismo della APOE sembra essere collegato anche alla velocità di progressione della malattia (Cohen et al, 2015).

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Basi molecolari della malattia.

Gli effetti clinici della malattia di Alzheimer sono dovuti ad una diffusa perdita di funzionalità e numero di neuroni, in particolare quelli colinergici. I processi biochimici che portano a questa perdita neuronale non sono perfettamente chiariti, tuttavia esami istologici evidenziano nel cervello dei pazienti affetti da AD la presenza di “placche senili” e di “grovigli neurofibrillari”. Queste formazioni sono costituite rispettivamente da agglomerati extracellulari di proteina β-amiloide e da aggregati intracellulari di proteina Tau (“tangles” neurofibrillari). Nella malattia in fase avanzata la presenza di queste anomalie è specialmente concentrata nell’ippocampo e nelle aree associative della corteccia, una distribuzione coerente con quelli che sono i sintomi clinici. (Goodman and Gilman's Manual of Pharmacology and Therapeutics, 2007) (Katzung B et al, Basic and Clinical Pharmacology 12th Edition, 2012)

La β-amiloide è un prodotto del taglio proteolitico della APP (Amyloid Precursor Protein), una proteina integrale di membrana

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comunemente espressa nei neuroni; sebbene la funzione primaria di APP rimanga ancora incerta, studi indicano una sua implicazione nella formazione delle sinapsi, nella plasticità neuronale e nell’omeostasi del Ferro (Priller et al, 2006) (Turner et al, 2003) (Duce et al, 2010).

Il taglio di questa proteina precursore, da parte delle secretasi, conduce a molecole più piccole, tra cui le forme di β-amiloide collegate alla neurodegenerazione tipica dell’AD. Le secretasi sono enzimi proteolitici, e si differenziano in α, β e γ secretasi. In condizioni fisiologiche, l’APP viene inizialmente degradata da parte delle α-secretasi in due possibili frammenti: α-APP e C-83. Quest’ultimo a sua volta può essere metabolizzato da parte della γ-secretasi, producendo un frammento atossico. La via metabolica può prevedere anche una degradazione da parte delle β-secretasi, che conduce al frammento β-APP, anch’esso non tossico.

Se la APP viene invece processata in serie dalle β e dalle γ-secretasi si attiva quello che è definito pathway amiloidogenetico, che conduce alla formazione di peptide β-amiloide (Aβ), responsabile a vari livelli della tossicità neuronale. Tra i numerosi

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frammenti amiloidi generati quelli prevalenti sono Aβ-40 ed Aβ-42, con quest’ultimo che dimostra una più potente azione neurotossica. Questi peptidi possono esistere come oligomeri oppure, a concentrazioni elevate, aggregarsi a livello extracellulare in placche (le placche senili), una lesione istopatologica tipica della malattia di Alzheimer. Sebbene per lungo tempo si pensasse che proprio queste placche fossero responsabili della neurotossicità, studi più recenti hanno messo in luce il ruolo cruciale degli oligomeri, mentre le placche sarebbero il risultato dell’accumulo di questi peptidi in uno stadio successivo della patologia.

La tossicità degli oligomeri amiloidi è dovuta allo stress ossidativo che sono in grado di indurre, attraverso un meccanismo a cascata: quando la concentrazione intracellulare di oligomeri supera una certa soglia, questi vengono espulsi dal neurone e possono interagire con specifici recettori sugli astrociti, inducendo la liberazione di glutammato.

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Il glutammato è il principale mediatore eccitatorio del SNC, e attraverso l’interazione con i propri recettori extrasinaptici induce la liberazione di Ca++ che promuove la generazione di ROS (specie

reattive dell’ossigeno) causando il danno da stress ossidativo,

3 – Pathway fisiologico e patologico di APP. A. Kumar et al. / Pharmacological Reports 67 (2015) 195–203

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attivazione delle caspasi (una famiglia di proteasi coinvolte nei processi di morte cellulare programmata) e iperfosforilazione della proteina tau, che costituisce l’altra anomalia tipica della malattia. Inoltre, la formazione delle placche senili, ovvero “corpi estranei” rispetto alla normale attività fisiologica del SNC, provoca l’attivazione del sistema immunitario (in particolare della microglia) con conseguente rilascio di mediatori proinfiammatori che, in una patologica reazione a catena, spostano ulteriormente la via metabolica di APP verso il pathway amiloidogenetico. (Kumar et al, 2015)

Come detto, l’altra anomalia fisiopatologica caratterizzante l’AD è la presenza di tangles neurofibrillari costituiti da proteina tau iperfosforilata. Le proteine tau sono una famiglia di peptidi presenti in abbondanza nei neuroni; se ne conoscono 6 isoforme, e la loro funzione primaria è quella di stabilizzanti dei microtubuli, componenti primari del citoscheletro cellulare. Anomalie, specie iperfosforilazione, sono rilevate in diverse patologie neurodegenerative tra cui l’Alzheimer, a carico sia di tutte le isoforme che di alcune in particolare.

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Un’eccessiva o anomala fosforilazione induce un cambiamento di solubilità della tau che, dalla forma estremamente solubile in cui si trova fisiologicamente, si aggrega spontaneamente in dei filamenti ad elica, chiamati grovigli neurofibrillari (NFTs,

neurofibrillary tangles), all’interno del neurone (Alonso et al, 2001).

La struttura del microtubulo viene quindi compromessa, alterando la funzionalità del citoscheletro e di conseguenza i meccanismi di trasporto del neurone, che perde funzionalità e va incontro a morte cellulare. (Iqbal et al, 2005)

4 – Microtubulo nel neurone sano a confronto con il neurone affetto dalla patologia. Courtesy of ADEAR: "Alzheimer's Disease Education and

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Stato attuale delle terapie.

Sfortunatamente, ad oggi una cura efficace in grado di invertire, arrestare o anche solo rallentare significativamente la progressione della malattia non esiste. I farmaci approvati per il trattamento dell’AD sono quindi sintomatici e permettono di mascherare la progressione della patologia per un periodo di tempo variabile ma comunque limitato.

Nello studio dei processi patologici della malattia si è visto come ad essere colpiti e resi non funzionali sono specialmente i neuroni colinergici del sistema nervoso centrale (l’ipotesi colinergica è stata il primo tentativo di spiegazione della malattia) e vi è inoltre una stimolazione anomala dei recettori glutamatergici NMDA. Si usano quindi in terapia principi attivi che vanno a correggere queste anomalie, potenziando la trasmissione colinergica e inibendo la sovrastimolazione glutamatergica.

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I farmaci approvati sono:

• Inibitori dell’acetilcolinesterasi.

Il neurotrasmettitore acetilcolina (ACH) viene fisiologicamente degradata ad acetato e colina, a livello del vallo sinaptico, da esterasi specifiche che prendono il nome di acetilcolinesterasi. Inibendo questo enzima, aumenta la permanenza nel vallo sinaptico dell’ACH e dunque la sua possibilità di interagire con il recettore postsinaptico, esplicando la sua funzione di neurotrasmettitore. In commercio si trovano diversi principi attivi inibitori dell’ACH-esterasi, utilizzabili generalmente nei primi stadi della patologia (mild to moderate AD). Essi sono: donepezil (Aricept©), rivastigmina (Exelon©), galantamina (Reminyl©),

tacrina (Cognex©). Quest’ultimo è oggi raramente prescritto, in

quanto sono riportati gravi effetti collaterali. (Alz.org 1)

• Antagonisti dei recettori NMDA

Il glutammato è il principale neurotrasmettitore eccitatorio del SNC. Tra i suoi recettori postsinaptici, vi sono quelli per l’N-Metil-D-Aspartato (NMDA), coinvolti nei processi di memorizzazione.

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Abbiamo precedentemente visto che nell’AD si verifica un’ipersecrezione di glutammato, che induce iperstimolazione dei recettori provocando un anomalo ingresso di calcio nel neurone, innescando così il processo di morte neuronale (eccitotossicità). La Memantina (Ebixa©) è un antagonista non competitivo per questo recettore. La particolarità di questo principio attivo consiste nel riuscire a mantenere inalterata la capacità del recettore NMDA di essere attivato in seguito a uno stimolo fisiologico (cioè dal glutammato rilasciato a livello presinaptico in seguito a depolarizzazione del neurone), preservando così la funzionalità

fisiologica della sinapsi ma bloccando il meccanismo patologico.

(Xia P. et al, 2010). È approvato in pazienti per i quali è controindicato l’uso degli inibitori dell’ach-esterasi per il trattamento dei primi stadi della malattia (mild to moderate AD), sebbene vi siano studi contrastanti sulla reale efficacia in questo contesto (Schneider et al, 2011) e in pazienti nella fase avanzata (moderate to severe AD).

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5 - Struttura chimica della Rivastigmina

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In conclusione, le attuali terapie sono frutto di un approccio sintomatico, che può correggere alcuni deficit per un periodo limitato di tempo, ma non arrestare o invertire la progressione della malattia. Con l’avanzare della conoscenza della patologia a livello biochimico, resa possibile anche da migliori mezzi tecnologici e modelli animali più attendibili, sono stati individuati due principali approcci basati sulle ipotesi più attendibili per lo sviluppo patogenetico dell’AD: la amyloid hypothesis, che sostiene che il fattore principale che dà inizio alla neurodegenerazione sia da individuare nella anomala proteina amiloide, e la tau-hypothesis, la quale invece prevede che sia la tau la principale responsabile dell’incipit della malattia.

Partendo da queste ipotesi, sono state studiate varie strategie terapeutiche aventi come bersaglio rispettivamente la beta amiloide e la tau, sia in forma di immunoterapia contro le proteine anomale già formate, che agendo in vari punti del loro metabolismo. (Panza F. et al, 2009)

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Strategie terapeutiche dirette contro la proteina β-amiloide

Vista la notevole importanza che le anomalie della proteina amiloide rivestono nell’Alzheimer, sono molti gli approcci studiati verso questo specifico “lato” della malattia. L’obiettivo di una terapia rivolta verso la β-amiloide è duplice: aumentarne la

clearance dal cervello, diminuendo i livelli di oligomeri neurotossici

e di placche senili attraverso immunizzazione, e spostare il

pathway verso le molecole non tossiche agendo

opportunamente sulle secretasi che processano la APP.

L’immunizzazione può essere ottenuta attraverso due tecniche: una “vaccinazione” attiva attraverso la somministrazione di antigeni β-amiloidi e un’immunizzazione passiva attraverso l’uso di anticorpi monoclonali anti Aβ.

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Immunoterapia attiva

La vaccinazione attiva è stata la prima via seguita nella ricerca. Come nelle classiche vaccinazioni, la somministrazione di un opportuno antigene determina una stimolazione del sistema immunitario, che diventa quindi efficace nel promuovere una clearance degli aggregati β-amiloidi nel cervello, teoricamente portando un miglioramento del deficit cognitivo.

• AN1792

Il primo vaccino anti Aβ è stato AN1792, costituito dall’intera catena Aβ1-42 ed un adiuvante, per aumentare la risposta

immunitaria all’antigene stesso. Nel primo trial di fase I (Schenk D, 2002), seppur svolto su solo 24 pazienti, dimostrò buona tollerabilità, non presentando significative differenze di effetti collaterali rispetto al placebo. In un successivo trial di fase IIa svolto su 372 soggetti con mild to moderate AD, invece, il 6% degli individui trattati sviluppò meningoencefalite asettica ed il trial fu sospeso (Orgogozo JM et al, 2003). Va considerato il fatto che, se si fossero esclusi dal conteggio i pazienti che non mostrarono una

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risposta immunitaria all’antigene, la percentuale di meningoencefalite sarebbe stata molto più alta e, dunque, intollerabile.

L’evento avverso è stato imputato ad una risposta Th-1 mediata eccessiva; infatti, una risposta del sistema immunitario a seguito dell’esposizione ad un antigene può presentare due diversi tipi di cellule linfocitarie T-helper preferenzialmente coinvolte, 1 e Th-2 (Panza F. et al., Th-2014); sebbene non sia noto il modo in cui un agente infettivo determini una risposta di un tipo piuttosto che dell’altro, è generalmente accettato che una risposta mediata dai linfociti Th-1 sia più efficace nella neutralizzazione di agenti

intracellulari, mentre una risposta di tipo Th-2 risulti migliore contro

patogeni extracellulari. (Janeway et al, Immunobiology 5th ed.) Comunque, l’analisi post mortem del cervello di alcuni pazienti coinvolti nel trial dimostrò una diminuzione delle placche senili, confermando la capacità di una vaccinazione nell’indurre la clearance della Aβ, sebbene in un trial di fase I (Bayer et al, 2005) che coinvolse 80 pazienti non siano stati rilevati effetti sulla progressione o sulla sopravvivenza alla malattia. I trial per AN1792 sono dunque stati sospesi a causa delle reazioni avverse e della

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scarsa trasposizione clinica del miglioramento dei parametri biochimici.

• CAD106

Prendendo spunto dalle criticità emerse durante i trial di AN1792, è stata sviluppata una seconda generazione di vaccini attivi contro la Aβ, mirando ad una risposta prevalentemente di tipo Th-2 mediata, per scongiurare il grave effetto collaterale mostrato dal farmaco di prima generazione (Panza et al, 2014).

CAD106 è infatti composto da un frammento più piccolo di Aβ, (Aβ1-6), ed ha mostrato un’ottima sicurezza in uno studio clinico di

fase I, (Winblad et al, 2012) in cui sono stati riscontrati alcuni effetti collaterali minori, ma non meningoencefalite. In questo studio, l’82% dei pazienti trattati con 150 μg hanno mostrato un’ottimale risposta anticorpale. Su modello animale, CAD106 ha mostrato un’efficace riduzione fino all’80% dell’area delle placche senili rispetto al gruppo di controllo. (Wiessner et al, 2011)

In un successivo studio di fase II (Farlow MR. et al, 2015) su pazienti con moderate AD, CAD106 si è dimostrato efficace nel

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promuovere una rilevante risposta anticorpale anche in una popolazione più ampia, nell’arco di 7 iniezioni e nella dose di 150 μg, e privo di significativi effetti collaterali tipici dell’immunizzazione di prima generazione. Purtroppo, anche questo farmaco si è rivelato attualmente incapace di produrre significativi miglioramenti clinici o di rallentare il declino cognitivo. Questi dati vanno interpretati con cautela, a causa della piccola popolazione interessata dallo studio.

Il farmaco comunque, vista la buona tollerabilità e l’assenza di reazioni avverse gravi, e considerando l’elevata capacità di indurre risposta anticorpale, non è stato abbandonato e sono attualmente in corso studi di fase II/III in pazienti omozigoti per APO-E4 cognitivamente normali, per verificare se la somministrazione del farmaco possa posticipare la diagnosi della malattia conclamata. (Alzforum.org, 1)

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Immunoterapia passiva

Un altro approccio alla vaccinazione anti-Aβ è quello dell’immunoterapia passiva. Al contrario di quella attiva, dove il sistema immunitario del paziente produce una risposta anticorpale in seguito allo stimolo di un antigene da noi introdotto, nella vaccinazione passiva si utilizzano anticorpi preformati diretti verso la molecola bersaglio.

Gli anticorpi monoclonali (mAbs) sono anticorpi formati da linee cellulari cloni di un’unica cellula progenitrice, dunque identici. Un anticorpo monoclonale riconosce uno specifico epitopo, ossia una piccola parte dell’antigene che si lega a quell’anticorpo specifico: uno stesso antigene può contenere infatti più epitopi diversi; l’anticorpo monoclonale è quindi altamente selettivo per una regione specifica dell’antigene. Per la produzione di queste molecole occorre generare una risposta immunitaria all’antigene specifico. Il Linfocita B specifico, quello che ha reagito con l’antigene, viene quindi isolato e coltivato in vitro, per essere fuso

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con una cellula di mieloma, immortale, in modo da creare una cellula ibrida (ibridoma), immortale e che esprime quell’anticorpo. Normalmente le cellule utilizzate per la produzione di mABs sono estratte dalla milza del topo immunizzato, e fusi alle cellule mielomatose attraverso un promotore di fusione di membrana, come il PEG. I risultanti ibridomi sono selezionati mediante un apposito terreno di coltura, HAT (Hypoxantine-Aminopterin-Thymidine) che permette solo la sopravvivenza dei corretti ibridi mieloma-linfocita, analizzati mediante test (come per esempio ELISA) per individuare quelli che effettivamente esprimono in quantità adeguate l’anticorpo monoclonale desiderato, ed in seguito gli anticorpi vengono purificati.

Questi mABs così prodotti sono murini, e presentano delle piccole seppur importanti differenze con un anticorpo umano, pertanto possono indurre reazioni immunitarie indesiderate al momento dell’iniezione nell’uomo. Per questo a partire dagli anticorpi murini sono stati sintetizzati progressivamente anticorpi monoclonali chimerici (“umanizzati”) e infine anticorpi umani, attraverso la tecnica del DNA ricombinante.

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8 – Schema di produzione di un anticorpo monoclonale. (Overview of hybridoma technology and monoclonal antibody creation by Adenosine, licensed under Creative Commons

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Nella malattia di Alzheimer è stato ipotizzato l’utilizzo di anticorpi monoclonali anti-amiloide, che per loro natura non sono in grado di evocare una risposta Th-1 mediata e dunque sono privi del connesso rischio di meningoencefalite asettica. Nei modelli animali, numerosi anticorpi con differenti siti di legame per la β-amiloide hanno dimostrato di essere efficaci nel ridurre i livelli di Aβ sia libera sia nella forma delle placche senili, e sono stati osservati benefici cognitivi. (Panza F. et al, 2014)

• Bapineuzumab

Bapineuzumab (AAB-001) è stato il primo anticorpo monoclonale ad essere testato, nella seconda metà degli anni 2000, tra quelli emersi dalle ricerche precliniche. È un anticorpo interamente umanizzato, diretto contro la regione N-terminale della β-amiloide; in particolare riconosce il segmento Aβ1-6. Questo anticorpo ha

indotto un importante ed inatteso effetto collaterale durante uno studio di fase II (Sperling et al, 2011), ovvero delle anomalie correlate alla terapia anti amiloide visualizzabili con tecniche di imaging, in inglese ARIAs (amiloyd-related imaging abnormalities). Queste anomalie sono tipiche anche di altri anticorpi anti Aβ, ma

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sono state rilevate per la prima volta durante il trial di Bapineuzumab. (Panza F. et al, 2014)

Dal punto di vista dell’efficacia, il farmaco ha dato risultati non totalmente chiari, con alcuni studi che sembrano confermarne la capacità di ridurre i livelli di agglomerati β-amiloidi, mentre in altri non sembra essere efficace. In tutti gli studi clinici umani, bapineuzumab ha fallito nell’obiettivo primario di produrre un miglioramento cognitivo, e quindi i trial di fase III sono stati sospesi. (Alzforum.org 2)

• Solanezumab

L’altro promettente anticorpo inizialmente individuato come candidato per la terapia dell’Alzheimer è Solanezumab. Anche questo è un anticorpo umanizzato, diretto contro la regione centrale della proteina, ed in particolare lega la sezione Aβ13-28. A

differenza del precedente bapineuzumab, più affine alle placche senili, solanezumab lega selettivamente la β amiloide solubile, gli oligomeri, che sono ritenuti avere maggiore attività neurotossica (Seubert P. et al, 2008). In un primo studio di fase II l’anticorpo ha dimostrato di riuscire ad aumentare la clearance di β-amiloide dal

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cervello, senza provocare meningoencefalite o le ARIAs individuate con bapineuzumab (Farlow et al, 2012) (Siemers et al, 2010); questi risultati incoraggianti hanno portato al lancio di due grandi studi randomizzati di fase III, chiamati EXPEDITION1 e EXPEDITION2. Il 3 settembre 2012 Eli Lilly (la multinazionale farmaceutica che ha sviluppato l’anticorpo) annunciò il fallimento degli obiettivi terapeutici primari dei due studi. Dall’analisi dei risultati di EXPEDITION1, però, si è visto come solanezumab abbia

effettivamente prodotto un rallentamento significativo del declino

cognitivo (del 34%) in un sottogruppo di pazienti in fase inziale della malattia (mild AD) mentre gli obiettivi terapeutici sono falliti sulla popolazione generale e specificatamente nel sottogruppo con la malattia in fase più avanzata (moderate). (Tayeb et al, 2013)

Questi risultati, insieme ad altri studi (riguardanti farmaci diretti sulle secretasi, coinvolti nel processamento di APP e dunque nella formazione della β-amiloide, successivamente trattati in questo elaborato), suggeriscono che la via dell’immunizzazione passiva possa essere una via percorribile in ottica di prevenzione, piuttosto che di trattamento, in quanto è ormai noto che alcuni biomarkers come la deposizione di Aβ nel cervello precedono anche di 20

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anni i sintomi clinici della malattia e diventa quindi sempre più possibile, con il progredire delle tecniche diagnostiche, agire nella fase latente della stessa nella quale alcuni farmaci, come questo, hanno dimostrato una certa efficacia. (Panza F. et al, 2014)

• Gantenerumab

Gantenerumab è stato il primo anticorpo monoclonale umano sviluppato per legarsi alle fibrille β-amiloidi. Sebbene nei primi studi avesse dimostrato possibile efficacia su modelli murini (Bohrmann et al, 2012), i seguenti studi hanno evidenziato preoccupazione per il tipico effetto avverso delle ARIAs, e come i precedenti anticorpi non è riuscito a produrre significativi benefici clinici a livello cognitivo, per cui Roche ha sospeso il trial di fase II/III (denominato SCarlet RoAD) di questo farmaco. (Alzforum.org 3)

• Aducanumab

Un ulteriore anticorpo, per il quale i test di fase III sono tuttora in corso e i primi studi lasciano aperta una porta per un esito diverso dai predecessori, è Aducanumab. Si tratta di un anticorpo umano,

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diretto contro un epitopo conformazionale riscontrato nella proteina β-amiloide, derivato da cellule di donatori anziani e cognitivamente normali; il loro sistema immunitario è quindi stato in grado di combattere la malattia di Alzheimer, e la speranza è che questi anticorpi siano in grado di essere utilizzati in terapia, in quella che viene definita “medicina traslazionale inversa” (reverse

translational medicine).

Dopo i primi positivi studi su modello murino, Biogen (titolare del farmaco) ha iniziato il trial clinico di fase I, volto alla sicurezza e alla farmacocinetica/farmacodinamica della molecola. Questa ha dimostrato coerenza con gli studi animali e, sulla spinta dei primi dati positivi annunciati da Biogen, sono iniziati (e sono tuttora in corso) gli studi di fase II e di fase III. (Alzforum.org 4)

Nel corso di questi preliminari trial, effettuati con aducanumab nella dose di 6 mg/kg in pazienti con AD lieve o in fase di pre-demenza, i dati sembrano supportare l’efficacia del farmaco nel ridurre i livelli di β-amiloide cerebrale in maniera dose-dipendente e, fatto molto importante alla luce dei precedenti insuccessi, nel produrre un rallentamento del declino cognitivo. Le ARIAs riportate sono state per lo più asintomatiche e comunque risolte.

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Nonostante la cautela d’obbligo, se questi risultati incoraggianti dovessero essere confermati anche dagli studi di fase III, aducanumab potrebbe diventare effettivamente un credibile candidato nel trattamento della malattia, e inoltre confermerebbe la bontà della amyloid hypothesis, messa forzatamente in discussione dai precedenti fallimenti clinici di vaccini e anticorpi. (Alzforum.org 4) (Sevigny et al, 2016)

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Farmaci agenti sul metabolismo della proteina β-amiloide: inibitori di β e γ secretasi.

In precedenza abbiamo visto come in condizione patologica la β-amiloide venga prodotta a partire dalla proteina precursore APP, attraverso il processamento consecutivo da parte delle due proteasi β e γ secretasi; è stato dunque ipotizzato che un’inibizione di tali enzimi potesse essere una potenziale via terapeutica per la malattia di Alzheimer.

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9 - Pathway fisiologico e patologico di APP. A. Kumar et al. / Pharmacological Reports 67 (2015) 195–203

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Inibitori delle γ – secretasi

• Semagacestat

Per quanto riguarda le γ-secretasi, sono stati sintetizzati molti composti in grado di inibire l’enzima in vitro, e la prima molecola ad approdare a studi clinici più avanzati è stata Semagacestat.

Durante gli studi preliminari, ha dimostrato nell’uomo una capacità di ridurre la sintesi della β-amiloide del 25% nell’arco delle 24h (Bateman et al, 2009) e, nel modello murino, una

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riduzione dei livelli di Aβ nel cervello. Studi di fase II hanno marcato la comparsa di effetti collaterali specialmente a carico dell’epidermide e del tessuto sottocutaneo, un prolungamento del tempo di protrombina e una ridotta percentuale di Linfociti B CD19. (Doody et al, 2013)

Eli Lilly comunque, vista la potenzialità teorica di questo farmaco di essere una “disease modifying drug”, cioè una molecola con capacità di modificare la malattia, ha lanciato due trial multinazionali di fase III denominati IDENTITY-1 e IDENTITY-2, che avrebbero dovuto seguire i pazienti fino a 21 mesi di trattamento. Nell’aprile 2011 la sperimentazione è stata interrotta sia per motivi di efficacia che di sicurezza: infatti in IDENTITY-1 si è verificato un aumento dell’incidenza di cancro della pelle e infezioni; inoltre la somministrazione del farmaco, non solo non ha indotto miglioramenti cognitivi o un rallentamento della progressione neurodegenerativa, ma è stata accompagnata da un peggioramento, sebbene i parametri biochimici indicassero una riduzione dose-dipendente dei livelli di Aβ40 e Aβ42. (Doody et al,

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Una possibile spiegazione del fallimento di semagacestat è da ricercarsi nell’interferenza con i processi fisiologici che un’inibizione non selettiva della γ-secretasi comporta (Alzforum.org 5): ulteriori studi hanno infatti evidenziato come la γ-secretasi, oltre ad essere coinvolta nel processamento della APP, agisce su numerosi (oltre 40) altri substrati, tra cui riveste particolare importanza Notch. (Doody et al, 2013) Le Notch sono una famiglia di proteine transmembrana con funzione recettoriale, coinvolte in quello che è chiamato Notch signaling pathway, una via di segnalazione cellulare altamente conservata presente in molti organismi pluricellulari (Artavanis et al, 1999), (coinvolta nella proliferazione neuronale (Gaiano et al, 2002), nella regolazione dello sviluppo embrionale, nell’ematopoiesi, nell’adesione cellulare e in ulteriori interazioni cellula-cellula (Doody et al, 2013).

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Per questo, è all’ordine del giorno la ricerca di inibitori selettivi per il processamento della APP, in modo da diminuire o possibilmente annullare gli effetti collaterali imputabili all’interferenza della terapia con gli altri substrati della γ-secretasi ed in particolare con la via di segnalazione Notch.

11 - Interazione della γ- secretasi con il pathway Notch (N. Gertsik et al, 2015 – Complex regulation of γ-secretase: from obligatory to modulatory subunits)

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• Tarenflurbil

Un’altra molecola ipotizzata come trattamento dell’AD è stata Tarenflurbil (Flurizan™). Contrariamente a semagacestat, frutto di una ricerca di sintesi mirata, questa è una molecola già conosciuta ed in uso clinico consolidato: è infatti l’enantiomero R del Flurbiprofene, noto farmaco antinfiammatorio non steroideo (utilizzato come racemo).

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Alcuni studi statistici (Stewart et al, 1997)

(in t’ Veld et al, 2001) (Haag et al, 2006) (Vlad et al, 2008) hanno evidenziato come l’utilizzo prolungato di FANS sembri correlato ad una minore incidenza della malattia di Alzheimer, dunque è stato ipotizzato di verificare se fosse possibile utilizzare una molecola di quella classe in terapia.

Tarenflurbil, a differenza del flurbiprofene racemo, non provoca inibizione delle ciclossigenasi (effetto imputabile all’altro enantiomero) e dunque non si porta dietro tutti gli effetti collaterali tipici dei FANS riconducibili a tale attività, in primis quelli gastrointestinali. Nei test in vitro e su animali, la molecola si è dimostrata capace di abbassare i livelli di Aβ42 (Weggen et al,

2003) (Eriksen et al, 2003), probabilmente tramite un’azione diretta sulla γ-secretasi ed in particolare sulle preseniline, due delle proteine facenti parte del complesso enzimatico. (Beher et al, 2004)

I successivi test sull’uomo (Green et al, 2009) hanno però evidenziato un’incapacità del farmaco di migliorare sia parametri funzionali che cognitivi, anche prendendo in considerazione solo il sottogruppo di individui in fase precoce della malattia (mild AD).

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Questo fallimento è probabilmente imputabile alla

farmacodinamica della molecola, incapace di oltrepassare la Barriera Ematoencefalica in quantità significativa, e dunque di svolgere la sua attività sul bersaglio in maniera clinicamente rilevante. Myriad Genetics, la compagnia che effettuava la sperimentazione sul farmaco, ne decise quindi la sospensione dello sviluppo nel 2008.

Ulteriori studi, come il trial ADAPT, hanno rimesso in discussione l’utilità dei FANS nel trattamento della malattia di Alzheimer, suggerendo come essi possano produrre un beneficio (ovvero una diminuzione del rischio di sviluppare la malattia) in un cervello sano se somministrati molti anni prima dell’esordio patologico, ma indurre persino un peggioramento più rapido quando utilizzati nella malattia conclamata. (Adapt Research Group, 2008)

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Inibitori delle β – secretasi

L’altro enzima coinvolto nel processamento patologico della APP, indicato generalmente come β–secretasi, è una aspartil-proteasi associata alla membrana (membrane-bound aspartyl protease) denominata BACE1 (Beta-site Amyloid-precursor-protein Cleaving Enzyme 1). È coinvolto nel primo stadio del metabolismo di APP, che è quello “limitante” per quanto riguarda la velocità di formazione della proteina amiloide: una deficienza di BACE1 nel modello murino quasi annulla la produzione di Aβ; per questo la ricerca di inibitori di BACE1 è uno dei percorsi terapeutici più studiati per la malattia di Alzheimer.

È comunque da considerare il fatto che BACE1 presenta un sito proteolitico in gran parte analogo a quello di molte altre aspartil-proteasi umane, e dunque in fase di sperimentazione, oltre agli effetti secondari legati intrinsecamente al blocco di BACE1, va posta molta attenzione alla probabile inibizione incrociata di altre proteasi coinvolte in processi fisiologici (come ad esempio BACE2

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52

e Cathepsin-D), utilizzando saggi in vitro per isolare le molecole più BACE1 selettive. (Yan R, 2016)

La prima generazione di inibitori BACE1 era composta da analoghi peptidici dello stato di transizione, disegnati sulla base della sequenza amminoacidica della porzione di APP normalmente tagliata dall’enzima (Vassar R., 2014). Questi si sono dimostrati

13 – Struttura cristallina di BACE1 By Emw (Own work) [CC BY-SA 3.0

(http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) or GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], via Wikimedia

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inibitori molto potenti in vitro, ma non efficaci in vivo a causa della ridotta emivita, della scarsa biodisponibilità e soprattutto dell’incapacità di superare la barriera ematoencefalica (BEE). La ricerca si è dunque spostata su molecole non proteiche, sufficientemente grandi da legarsi al sito attivo dell’enzima ma contemporaneamente abbastanza piccole e lipofile da superare le membrane e la BEE.

La scoperta della struttura cristallina del complesso BACE1+inibitore, ottenuta attraverso i raggi X (Hong et al, 2000), ha aperto la porta ad una seconda generazione di molecole, più piccole e con migliori proprietà farmacologiche; purtroppo, la maggior parte di queste si è rivelata un substrato della Glicoproteina P (PGP), la proteina di membrana ATP-dipendente deputata alla clearance di xenobiotici a livello della BEE, e dunque non in grado di raggiungere sufficienti concentrazioni nel SNC. (Marques et al, 2013)

Recentemente sono state sviluppate molte molecole di terza generazione, che hanno raggiunto livelli soddisfacenti di penetrazione encefalica e un’importante riduzione dei livelli di Aβ negli studi preclinici su modello animale. (Vassar R., 2014)

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Una delle prime aziende farmaceutiche a sviluppare e testare questa generazione di BACE1 inibitori è stata Eli Lilly, inizialmente con la molecola LY2811376; questa, sebbene avesse mostrato discrete proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche in modelli animali (May PC. et al, 2011), ha mostrato una tossicità a

14 - Alcuni candidati BACE1 inibitori in sperimentazione clinica (Vassar R, 2014)

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lungo termine a carico di retina e cervello nel ratto e i test clinici sono stati sospesi. Il candidato successivo, LY2886721, analogamente alla precedente molecola, ha mostrato ottimi risultati nei test in vivo su modelli animali per quanto riguarda la riduzione dei livelli di Aβ, senza però instaurare la suddetta tossicità a lungo termine; l’azienda ha dunque dato il via ai trial di fase I, il cui esito positivo (sia in termini di sicurezza e tollerabilità, che di efficacia nel diminuire Aβ) (May et al, 2013) ha portato ad un trial di fase II su 128 pazienti con mild-cognitive impairment e mild-AD, iniziato nel 2012 e terminato volontariamente dall’azienda nel giugno 2013, dopo che sono state riscontrate anomalie nei valori metabolici del fegato in alcuni pazienti trattati (Alzforum.org 6) (Vassar R., 2014).

• Verubecestat

MK-8931, anche denominato Verubecestat, è un BACE1 inibitore sviluppato dall’azienda Merck. Ha superato gli studi di sicurezza di fase I su volontari sani (Forman et al, 2012) e un successivo studio di fase Ib su pazienti con mild-to-moderate AD, oltre a confermarne la tollerabilità, ha evidenziato un miglioramento dei

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parametri biochimici della malattia, e specificatamente una notevole diminuzione dose-dipendente dei livelli di Aβ40 e Aβ42.

(Vassar R., 2014) (Forman et al, 2013)

Sull’onda di questi risultati incoraggianti, nel novembre 2012 è partito lo studio di fase 2/3 EPOCH, avente come obiettivo primario la valutazione dell’effetto del farmaco sul declino cognitivo in più fasi della malattia: i partecipanti allo studio presentavano infatti la malattia sia in fase iniziale che più tardiva (mild-to-moderate), situazione clinica in cui i BACE1 inibitori non erano mai stati precedentemente testati (Alzforum.org 7). Nonostante le

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premesse, il 14 febbraio 2017 Merck ha annunciato lo stop del trial EPOCH, poiché dai dati preliminari risulta “virtualmente impossibile trovare un effetto positivo” (Merck, 2017)

Contemporaneamente ad EPOCH è stato lanciato un ulteriore studio clinico denominato APECS, questa volta in pazienti nella primissima fase della malattia (mild-cognitive impairment); questo studio non è stato bloccato dopo lo stop di EPOCH, ed i risultati sono attesi nel 2019 (Alzforum.org 7).

I ricercatori, sebbene ovviamente delusi dalla mancanza di efficacia rivelata da EPOCH, non sono totalmente sorpresi: la fase intermedia della malattia (moderate AD) è considerata già troppo avanzata per essere efficacemente trattata con un BACE1 inibitore, perché in quello stadio la neurodegenerazione è già significativa. A tale proposito Robert Vassar, co-scopritore di BACE, propone un interessante paragone con le statine evidenziando come occorrano trial di prevenzione in individui asintomatici: “somministrare una statina a un paziente infartuato non lo salverà, e al momento della diagnosi dell’Alzheimer abbiamo praticamente un organo già compromesso.” L’idea di fondo è che, come una terapia con statine previene la malattia

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cardiovascolare abbassando il colesterolo, analogamente una diminuzione nella produzione di beta amiloide effettuata in tempo possa prevenire i processi neurodegenerativi che portano all’Alzheimer conclamato. (Alzforum.org 8)

Diviene così fondamentale attendere i risultati di APECS, per verificare se i BACE1 inibitori possono realmente essere una strategia di prevenzione a lungo termine.

• Elenbecestat

Ovviamente vista l’importanza clinica ed economica che avrebbe un trattamento preventivo per la malattia di Alzheimer, molte aziende stanno sperimentando molecole alla ricerca di un BACE1 inibitore efficace: tra di esse, Eisai ha sviluppato Elenbecestat, o E2609. Come i precedenti, è una piccola molecola che ha mostrato una discreta riduzione dei livelli di beta-amiloide negli studi preclinici e clinici (Vassar et al, 2014).

Dopo i primi buoni risultati in termini di sicurezza e tollerabilità in fase I (Lai R. et al, 2012) (Lai R. et al, 2013), Eisai ha iniziato un ampio trial di fase II su 700 pazienti con mild-cognitive impairment o AD in fase

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prodromica. Il trial confronterà diversi dosaggi del farmaco in confronto al placebo in un periodo di 18 mesi, con l’obiettivo di verificare se il farmaco comporti cambiamenti del livello cognitivo e dei biomarkers patologici (ovvero se possa essere una prevenzione efficace, rallentando la progressione della malattia); la fine di questo trial era prevista per gennaio 2017, e ad oggi si attende la divulgazione dei risultati. Nell’ottobre 2016 Eisai ha annunciato di aver iniziato a reclutare pazienti per un primo studio di fase III. (Alzforum.org 9)

• AZD3239

Il candidato BACE1 inibitore dell’azienda AstraZeneca prende invece il nome di AZD3293, o Lanabecestat. Primi positivi studi in vitro e in vivo sono stati divulgati nel 2016 ed evidenziano che la molecola induce una riduzione tempo e dose-dipendente di Aβ40

cerebrale nel topo, nella cavia (porcellino d’india, Cavia

porcellus) e nel cane, oltre che in vitro; il farmaco presenta anche

un’ottima biodisponibilità orale e un’ottima permeabilità della barriera ematoencefalica. (Eketjall et al, 2016)

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Nel 2012 sono partiti i consueti studi di fase I volti alla determinazione della sicurezza e dei parametri farmacodinamici e farmacocinetici, e quelli per i quali i risultati sono disponibili (ad ottobre 2016 due degli studi risultano pubblicati e peer-reviewed) indicano che la molecola è ben tollerata e induce una prolungata riduzione di Aβ nel plasma e nel cervello. (Cebers et al, 2016) Da fine 2014 il farmaco è sviluppato congiuntamente con Eli Lilly ed è stato avviato il reclutamento per un imponente studio di fase 2/3 della durata di 2 anni, AMARANTH, volto a valutare l’utilità clinica sulla capacità cognitiva di AZD3239, in pazienti con

mild-cognitive impairment o mild-AD. Lo studio dovrebbe terminare nel

2019. Nel 2016 è iniziato un ulteriore trial di fase III chiamato

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DAYBREAK-ALZ, effettuato su pazienti con mild-AD, e dovrebbe concludersi nel 2021. Nel frattempo, sono stati avviati ulteriori trial di fase I atti a valutare sia diverse formulazioni (compresse), sia le possibili interazioni di questo BACE1 inibitore con alcuni tra i farmaci più utilizzati nella popolazione anziana, tra cui warfarin, simvastatina e donepezil. (Alzforum.org 10)

Il 22 agosto 2016, AZD3293 ha ricevuto lo status di “Fast Track” dalla Food and Drug Administration (FDA). (Reuters, 2016) “Fast Track” è uno status indicato dalla FDA e sviluppato per permettere a nuovi farmaci di essere disponibili nel più breve tempo possibile: ove sussistano specifiche condizioni di efficacia e sicurezza, viene incoraggiato un frequente dialogo tra ente regolatore e l’azienda farmaceutica, volto ad accelerare la risoluzione dei problemi e in ultima istanza snellire la procedura burocratica di approvazione.

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Strategie terapeutiche dirette contro la proteina Tau

I citati fallimenti (o parziali fallimenti) di alcune molecole con attività anti-amiloide misero comprensibilmente in dubbio la correttezza della amyloid hypothesis, ovvero il fatto che siano gli oligomeri di proteina amiloide anomala a iniziare il processo neurodegenerativo; è stata dunque presa in considerazione anche l’altra ipotesi patogenetica della malattia di Alzheimer, la

tau hypothesis: secondo questa teoria, nonostante la presenza di

oligomeri di proteina amiloide (che sono riscontrabili anche nei soggetti sani) sia parte integrante del processo patologico, ad innescare la neurodegenerazione sarebbe principalmente la proteina tau.

Come abbiamo visto precedentemente, anomale modifiche post-traslazionali delle proteine tau (specialmente iperfosforilazione) provocano un cambiamento di solubilità delle stesse, e la conseguente formazione di grovigli neurofibrillari (NFTs,

neurofibrillary tangles) composti da proteina tau iperfosforilata; le

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in grado di svolgere la loro funzione di stabilizzanti dei microtubuli, che dunque collassano innescando il processo che conduce alla perdita di trasmissione neuronale e, in ultima istanza alla morte della cellula. Inoltre, oligomeri di proteina tau anomala possono propagarsi tra i neuroni con meccanismi analoghi a quelli riscontrati nelle malattie prioniche, amplificando il danno cerebrale. (Panza F. et al, 2016)

Analogamente a quanto avvenuto per la proteina amiloide, anche per la tau sono stati individuati differenti approcci a vari livelli della progressione dell’anomalia: i GSK-3 inibitori agiscono nel processo di formazione della tau iperfosforilata, le molecole stabilizzanti dei microtubuli sono studiate per verificarne un impiego clinico nell’AD, inoltre sono stati creati anticorpi in grado di evocare una risposta immunitaria verso la tau iperfosforilata; infine, sono stati individuati composti derivati dal blu di metilene con la capacità di inibire l’aggregazione della tau in NFTs.

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GSK-3 Inibitori

Studi biochimici hanno individuato alcune proteina-chinasi (enzimi che catalizzano la fosforilazione) con un ruolo chiave nella fosforilazione della tau; tra queste, la Glicogeno-Sintetasi Chinasi 3β (GSK-3β) pare avere un ruolo chiave sia in condizioni fisiologiche che patologiche. Appare razionale dunque ipotizzare che un’inibizione di questa chinasi possa diminuire la fosforilazione anomala della proteina tau. (Panza F. et al, 2016)

• Tideglusib

Tideglusib è un inibitore selettivo e irreversibile della GSK-3β (Dominiguez et al, 2012) appartenente alla classe chimica dei tiadiazolidindinoni. Negli studi preclinici la molecola ha dimostrato di essere capace di ridurre i livelli di tau fosforilata e di perdita neuronale (Serenò et al, 2009).

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Un primo studio di fase IIa, condotto con dosi crescenti in pazienti con mild to moderate AD, ha evidenziato buona tollerabilità eccetto delle anomalie transitorie nei valori delle transaminasi plasmatiche, riportando anche un possibile beneficio cognitivo (del Ser et al, 2012). Sfortunatamente, un seguente trial di fase 2b condotto dal 2011 al 2012, chiamato ARGO, ha fallito gli obiettivi primari, non mostrando alcun beneficio statisticamente significativo nell’utilizzo del farmaco. Ad oggi, non sono in corso ulteriori trial approvati per Tideglusib nel trattamento dell’Alzheimer. (Panza F. et al, 2016)

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Stabilizzanti dei Microtubuli

I tassani sono molecole ampiamente studiate ed utilizzate in terapia antineoplastica per la capacità di inibire la mitosi. Agiscono interagendo con la tubulina dei microtubuli formando delle strutture tubulari molto stabili, incapaci di formare correttamente il fuso mitotico ed arrestando così la divisione cellulare al livello della metafase. Il razionale dietro all’utilizzo di una molecola stabilizzante dei microtubuli nell’Alzheimer è quindi che essa possa contrastare la fragilità microtubulare derivata dall’assenza dell’effetto stabilizzante normalmente dato dalla proteina tau “corretta”.

Paclitaxel, una molecola appartenente alla classe dei tassani ampiamente usata in chemioterapia, è però un substrato della Glicoproteina P (PGP) e dunque non è in grado di raggiungere concentrazioni efficaci nel Sistema Nervoso Centrale. La ricerca si è dunque indirizzata verso degli analoghi dei tassani, con migliori proprietà farmacocinetiche, come Epothilone D. (Brunden et al, 2011)

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Epothilone D ha dimostrato in studi animali di prevenire la distruzione dei microtubuli e consequenzialmente i deficit cognitivi ad essa associati, e di invertire questi deficit se la progressione della malattia era già in corso. È stato quindi lanciato nel 2012 un trial di fase I per valutare tollerabilità e farmacologia della molecola; lo studio è terminato nel 2013 ma lo sviluppo di Epothilone D nella malattia di Alzheimer è stato terminato. (Panza F. et al, 2016)

Altri composti stabilizzanti dei microtubuli, derivati sintetici dei tassani, sono in fase di sperimentazione; tra questi, TPI 287 è in corso di sperimentazione di fase I per AD ed altre taupatie, oltre ad essere un candidato per il trattamento di diversi tipi di tumori cerebrali. (Alzforum.org 11)

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Immunoterapia anti-tau

Analogamente a quanto visto riguardo alla proteina β – amiloide, anche per la proteina tau sono in sperimentazione diverse forme di immunoterapia attiva e passiva con l’obiettivo, rispettivamente, di indurre una risposta da parte del sistema immunitario o di somministrare anticorpi anti-tau già formati.

Il primo vaccino a giungere in un trial clinico è stato AADvac1 (Axon Peptide 108 conjugated to KLH), un peptide sintetico derivato dalla porzione amminoacidica 294-305 della proteina tau (Panza F. et al, 2016) che ha dimostrato, nel ratto, di essere efficace nella riduzione della taupatia e dei deficit cognitivi associati. (Kontsekova E. et al, 2014)

Un primo studio di fase 1 è stato condotto in Austria, su 30 persone con mild-to-moderate AD, si è concluso nel 2015 ed ha visto una generale buona tollerabilità (Alzforum.org 12), sebbene due persone abbiano abbandonato il trial a causa di effetti collaterali (di cui uno, un’infezione virale, probabilmente ricollegabile all’immunizzazione) e dei parametri cognitivi rimasti stabili per i sei

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mesi di trattamento e follow-up. Nella maggior parte dei partecipanti, il vaccino ha indotto un aumento del titolo anticorpale dopo iniezioni ripetute. Un trial di fase 2 è in corso, a partire dal 2016 e fino al 2019, ancora su pazienti con

mild-to-moderate AD ed avente come obiettivi primari e secondari

rispettivamente la sicurezza e la misurazione dell’immunogenicità e degli effetti cognitivi. (Alzforum.org 12)

ACI-35 è un vaccino basato su liposomi, ingegnerizzato per evocare una risposta immunitaria solo verso delle particolari conformazioni patologiche della proteina tau iperfosforilata, senza indurre una risposta verso la tau fisiologica. (Alzforum.org 13). Nel modello murino dimostra di indurre correttamente la risposta anticorpale desiderata, selettiva verso la tau fosforilata, oltre a manifestare un buon profilo di sicurezza. (Theunis et al, 2013) Nel 2015 è stato dunque registrato il primo trial umano, di fase 1b, tutt’ora in corso. (Alzforum.org 13)

Analogamente a quanto riportato in precedenza al riguardo della proteina amiloide, l’opzione dell’immunoterapia passiva, ovvero

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la somministrazione di anticorpi già formati, è stata presa in considerazione anche per la tau. C2N 8E12 è un anticorpo umanizzato sviluppato per il trattamento delle taupatie, ed in particolare riconosce una forma aggregata, extracellulare della proteina tau, implicata nella propagazione inter-neuronale della taupatia (meccanismo analogo alle malattie da prioni). Per la malattia di Alzheimer, il farmaco è in corso di sperimentazione di fase 2 in un trial che proseguirà fino al 2020 (Alzforum.org 14); inoltre è attiva la sperimentazione anche per la paralisi sopranucleare progressiva (PSP) - malattia neurodegenerativa rara collegata anch’essa con anomalie della fosforilazione della proteina tau – per la quale l’anticorpo ha ricevuto lo status di farmaco orfano (orphan drug designation). (Company Press Release, 2015)

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Inibitori di aggregazione

Tra i diversi composti che in vitro sono capaci di inibire l’aggregazione della proteina tau iperfosforilata in filamenti (che poi costituiranno i NFTs) ci sono i derivati del blu di metilene.

Il blu di metilene (methylthioninium chloride, MTC) è un composto eterociclico aromatico, colorante blu, che tra le numerose applicazioni annovera quella di indicatore per le ossidoriduzioni in chimica analitica ed un utilizzo nel trattamento della metaemoglobinemia. In vitro, inibisce l’aggregazione dei frammenti di proteina tau iperfosforilata ossidando due residui di cisteina in una porzione chiave del sito di dimerizzazione tau-tau, originando così un monomero refrattario all’aggregazione (Crowe et al, 2013); inoltre pare essere in grado di ridurre i livelli di β-amiloide aumentando l’attività proteasomica. (Medina et al, 2011)

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Sfortunatamente, le proprietà antiaggreganti sono evidenziabili a dosaggi troppo elevati per garantirne la necessaria sicurezza: ne sono stati perciò sviluppati dei derivati, più stabili e capaci di agire a dosaggi inferiori.

Rember™ è una formulazione proprietaria del MTC sviluppata da TauRx Therapeutics Ltd. Uno studio di fase 2 ha valutato diversi dosaggi del farmaco in pazienti con mild-to-moderate AD, stabilendo la minima dose efficace (138mg) ed evidenziando un beneficio cognitivo sia nei pazienti in fase precoce (mild) che in fase intermedia, dopo un trattamento di 50 settimane. (Wischik et al, 2015)

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