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La crisi del settore edilizio

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione………. 1

CAPITOLO I

L’evoluzione del mercato immobiliare nella storia italiana

1.1 La situazione del mercato nel secondo dopoguerra………..

1.2 Il boom dell’edilizia………..

1.3 L’arresto degli anni Settanta……….

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CAPITOLO II

Dalla crisi statunitense alla crisi mondiale

2.1 L’origine del dissesto………

2.2 L’ascesa e la rovina dei mutui sub-prime……….

2.3 La bolla immobiliare spagnola……….………

2.4 Le ripercussioni nel resto dell’Europa………..………

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CAPITOLO III

Le conseguenze nel mercato italiano

3.1 Il settore immobiliare nei primi anni del 2000……….……

3.2 I sette anni di crisi (2008-2014)...………...…….

3.3 I segnali della ripresa... 77 93 101 CAPITOLO IV Il caso pratico 4.1 La storia dell’azienda…………...………...

4.2 L’ascesa dell’azienda nel settore delle costruzioni in Toscana nei primi anni 2000………...

4.3 L’inizio del declino………...………..……….

4.4 Il tracollo del 2014………...

4.5 Stato Patrimoniale e Conto Economico riclassificati degli anni 2012-2014 e relativi indici……….….. 4.6 La richiesta di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161

L.F……….……..…. 111 122 126 135 141 144 Conclusioni………. 154 Bibliografia………. 157

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Introduzione

In questo elaborato ho analizzato l’evoluzione storica del settore edilizio: nella metà del Novecento è stato il volano all’economia nazionale, ma poi seguì la profonda crisi del 2007 ed il caos causato dai mutui sub-prime.

L’elaborato è suddiviso in quattro capitoli.

Nel primo capitolo ho analizzato il mercato edilizio italiano nella seconda del novecento, momento in cui svolse un ruolo fondamentale per l’economia, proprio perché doveva aver il ruolo di ricostruire ciò che era stato distrutto con la guerra. Dalle ricerche effettuate risulta che il settore assume un andamento ciclico. Il primo si manifesta proprio con gli anni della ricostruzione a seguito del secondo conflitto mondiale e finisce a fine anni ’60: è caratterizzato per l’enorme spostamento della popolazione dalle campagne alla città. L’attività, si svolse principalmente nei centri urbani.

Ci fu un vero e proprio proliferare di piccole imprese edili, gran parte delle quali, tuttavia, finirono per fallire alla fine degli anni ’50 quando si esaurirono i contributi.

Infatti poiché il settore doveva fare da traino all’economia furono emanate leggi come la cosiddetta “Piano INA casa”, attraverso la quale si sarebbe incrementato l’occupazione.

Il secondo ciclo invece coincide con la crisi produttiva del ‘63/’64 che si protrae per circa dieci anni. Secondo la dottrina prevalente, non ci fu un vero e proprio arresto dell’attività edilizia quanto piuttosto uno spostamento di esso.

Infatti se nel primo ciclo l’attività di costruzione era incentrata nei grandi centri, in questo secondo, l’attività si spostò nelle campagne e sulle aree del sud dove ancora erano rimaste delle sacche di risparmio. Quelli sono anche gli anni in cui viene dato un indirizzo all’attività di costruzione in quanto prima non c’erano piani regolatori che prevedevano come e dove costruire.

Nel secondo capitolo ho affrontato la crisi del mercato edilizio statunitense e di alcune nazioni Europee a seguito della crisi finanziaria, avvenuta con il boom dei

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mutui sub-prime.

Tutto ha preso le mosse intorno al 2007-2008 negli Stati Uniti, dalla crisi finanziaria dovuta alla bolla immobiliare caratterizzata da mutui concessi a persone con scarsa solvibilità. In questo elaborato ho cercato di trovare delle possibili cause che hanno portato ad una situazione simile. La prima è la politica messa in atto dalla Fed a seguito dell’attacco alle Torri gemelle del 2001. La Greenspan Fee portò il costo del denaro quasi a zero. Quello fu l’innesco letale, insieme ai bassi controlli delle società di rating e all’ingenua richiesta di linee di credito da parte di soggetti, che sicuramente non sarebbero riusciti a restituire le somme a scadenza.

Gli esperti hanno individuato le ragioni che hanno portato alla crescita di questi mutui: in primis, la bolla immobiliare che stava attraversando il mercato edilizio, poi i bassi tassi di interesse, la cartolarizzazione, l’assenza di regole sul leverage. Questo sistema è sembrato reggere efficacemente finché nel 2004 i tassi di interesse non hanno iniziato a risalire.

A quel punto il prezzo delle case si stabilì per poi iniziare a scendere.

Il punto di non ritorno fu la pesante svalutazione dei titoli legati ai mutui subprime, inizialmente circoscritta ai titoli più rischiosi ma che poi si è estesa a titoli che secondo le società di rating erano considerati sicuri.

Il fatto che la crisi sia diventata globale è da ricerca nel meccanismo della cartolarizzazione, un complesso meccanismo finanziario con cui gli istituti di credito rivendevano i mutui ad altri competitors, traslando anche il rischio di credito.

Proprio per questo motivo la crisi si è estesa anche in Europa.

Furono molte le nazioni che attuarono piani di salvataggio per istituiti di credito in difficoltà. Ci sono alcune di queste nazioni in cui default è molto controverso. Uno di questi è quello islandese e quello spagnolo.

Nel prima caso la crisi portò al fallimento delle sue tre più grandi banche che grazie agli elevati tassi di interesse attraevano capitale dall’estero. Per cui per favorire la loro espansione hanno dato prestiti nei mercati dei capitali stranieri,

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acquistando azioni per conto dei clienti e conferendo un eccessivo affidamento ai finanziamenti all’ingrosso.

Il caso spagnolo riguarda indirettamente la crisi finanziaria.

In un primo momento, le banche spagnole non risentirono subito della crisi mondiale grazie alle oculate politiche di supervisione bancaria. La Spagna è cresciuta moltissimo dal 1994 al 2008, e grazie ai bassi tassi di interesse in tutta Europa hanno determinato in grande afflusso di capitale. Ciò ha indotto gli spagnoli a richieder un mutuo per acquistare una casa, realizzando cosi un aumento della domanda di beni immobili.

Dal 2008 si sono presentati tre grandi fattori che hanno individuato il rischio di default del settore finanziario: alti livelli di indebitamento, la “finanziarizzazione” dell’economica, e l’elevata indipendenza delle banche dagli afflussi di capitale estero.

Per cui dopo il tracollo delle più grandi banche di investimento presenti su mercato, le banche spagnole hanno trovato sempre più difficile sfruttare i mercati finanziari internazionali.

Nel terzo capitolo ho analizzato le ripercussioni della crisi economica finanziaria nel mercato edilizio italiano, facendo anche un paragone tra il periodo ante crisi e il periodo successivo ad essa.

Il mercato edilizio, come si è già avuto modo di dire, è un mercato ciclico: nel corso degli ultimi sessanta anni ci sono state diverse crisi ma mai una crisi è durata per così tanto tempo.

Tra le più importanti del settore troviamo quella che è avvenuto in seguito con l’inchiesta “Mani pulite” nel 1992, in cui molte aziende che lavoravano per la pubblica amministrazione si sono travate bloccate perché le gare di appalto e i finanziamenti per gli investimenti in opere subirono un forte arresto finché non fu tutto più chiaro.

Le aziende che non riuscirono a trovare un altro mercato di sbocco fallirono mentre le altre continuarono la loro attività ma videro diminuire di molto i ricavi netti. A seguito di ciò, per dare impulso all’economia, venne emanata la

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cosiddetta Legge Tremonti nel 1994, la quale prevedeva l’esclusione da tassazione del 50% degli investimenti realizzati nel ’94 e nel ’95 in eccedenza rispetto alla media degli investimenti realizzati nei cinque periodi di imposta precedenti.

Negli anni successivi il settore è cresciuto notevolmente ad un buon ritmo fino agli anni 2000 che registrarono un periodo di stallo delle costruzioni finché a distanza di qualche anno non venne emana la Tremonti bis che dette di nuovo una notevole slancio al settore facendolo crescere fino a che non è stato investito dalla crisi.

I primi segnali di crisi sono stati registrati già nel 2007 ma con il 2008 le cose peggiorarono definitivamente e tutt’oggi non si accenna a una ripresa vera propria. I principali indicatori che analizzano la situazione del settore hanno registrato tra il 2008 e il 2013 una diminuzione del 30%, e nel 2014 c’è stato un ulteriore calo del 3,1%.

Dall’inizio della crisi al 2014 il settore ha perso 522.000 posti di lavoro che salgono a 790.000 se si tiene conto anche dei settori collegati alle costruzioni. Il peggioramento colpisce tutti i comparti del settore, ovvero sia la produzione di nuove abitazioni, sia l’edilizia non residenziale privata, sia i lavori pubblici. Per quanto riguarda le problematiche del comparto dell’edilizia non residenziale privata, queste sono da ricercare nel razionamento del credito per il finanziamento degli investimenti: è stato stimato che nel periodo 2007-2013 ci sia stata una contrazione di questi del 73,4%.

Sul finire dell’esercizio 2014 gli indicatori continuano a segnare un segno negativo ma pur sempre minore di quello degli anni precedenti.

Nel 2015 sembra appunto esserci una lieve ripresa soprattutto nel comparto delle ristrutturazioni edili. Questo miglioramento è da imputare anche alla politica fiscale favorevole messa in atto dal Governo.

Infine ho analizzato un’azienda di rilevanti dimensioni e importanza nella regione Toscana. L’azienda è una società di capitali, ma sottendete una proprietà familiare. Essa si è evoluta in basa alla crescita e alla decrescita del mercato. La

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società nasce nel ’73 prima come società di persone e poi trasformata in società di capitali.

Tuttavia la sua origine è ben più datata.

Prima di lei c’era la Poli Carlo che agli inizi degli ani ’70 fu lasciata “morire” e le attività di essa vennero trasferite al questa nuova società che aveva ed ha tutto’oggi come amministratore Poli Alfiero.

Ho effettuato sull’azienda un’analisi di bilancio per indici, sia negli anni in cui l’azienda era al massimo della sua grandezza sia negli anni più recenti in cui risente della particolare congiuntura economica.

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CAPITOLO I

L’evoluzione del mercato immobiliare nella storia italiana

1.1 La situazione del mercato edilizio dopo la seconda guerra mondiale

La maggior parte degli esperti del settore edilizio, ai fini di spiegare le tappe della sua evoluzione, suddivide il mercato in cicli.

Il primo di questi ebbe inizio proprio con gli anni della ricostruzione seguita al secondo conflitto mondiale ed entra in crisi alla fine degli anni ’60.

Avvicinandosi sempre più al pieno impiego, la forza contrattuale della classe operaia aumenta e, parallelamente, aumentano i suoi costi mentre, sull’altro versante, la produttività tende a stagnare1.

Il secondo ciclo viene fatto coincidere con la crisi produttiva del 63/64 che si protrae per circa dieci anni, fino a quando, si giunge al varo della nuova politica abitativa attraverso l’emanazione di tre leggi: in primis, la Legge Bucalossi, sulla edificabilità dei suoli, poi, a seguire, quella dell’”equo canone” e la legge n. 457 del 1978, Piano decennale per l’edilizia2.

Secondo l’opinione prevalente3, quel decennio segnò un periodo nero per l’edilizia, anche se non sono mancati gli studi che hanno cercato di confutare tale assunto cercando di dimostrare che questo secondo ciclo sia, invece, caratterizzato da una notevole attività edilizia seppur collocata diversamente sul territorio.

Infatti, se era vero che, nelle aree del nord, l’edilizia aveva avuto una brusca frenata,ma nei piccoli centri, nelle aree turistiche del nord e nel meridione le

1CRESME, quaderno 6, principali risultati dell’indagine pilota n. 22 sulla struttura economica del mercato edilizio italiano.

2 Scarpini, Storia e struttura del settore edilizio in Italia dal dopoguerra ad oggi, 1979, Clup, pag 142 3 Scarpini, Storia e struttura del settore edilizio in Italia dal dopoguerra ad oggi, 1979, Clup, pag 125

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costruzioni erano notevolmente aumentate.

Un dato comunque che contrasta con quanto risulta dalle rilevazioni ISTAT: ciò è dovuto alla mancata trasmissione dei dati da parte degli uffici tecnici dei piccoli centri, da un lato, ed all’emergere del fenomeno dell’autocostruzione, da un altro lato, specie nei comuni dell’Italia meridionale, dove i mezzi e le attrezzature erano scarse.

La crisi del settore edilizio abitativo nelle aree metropolitane può essere ricondotta, pertanto, al fatto che la casa è considerata come un bene di consumo, così come era stata concepita nel primo ciclo edilizio.

Le abitazioni nelle aree urbane del nord non hanno più mercato a causa dell’esaurimento delle fasce di reddito nonché per effetto di una crisi generale del paese e dall’aumento, superiore all’inflazione, dei costi di produzione dovuto al basso livello tecnologico ed all’incidenza della rendita.

La presenza di sacche di risparmio nel sud e nei centri minori, lo sviluppo delle seconde case nei centri turistici e nel sud, l’incentivazione al miglioramento delle condizioni abitative delle fasce medio alte della popolazione urbana attraverso la loro riallocazione nel riuso urbano, costituiscono il mercato del secondo ciclo edilizio.

La casa, in questa fase, si configura ancora come un bene di lusso o comunque come un bene di investimento per fasce di popolazione il cui reddito è medio alto al nord, mentre nel meridione in questi anni si assiste allo stesso fenomeno che si è vetrificato nel primo ciclo al nord.

La politica abitativa in questo periodo non è molto rilevante ma si articola in molteplici interventi volti a far assumere un ruolo di mediazione tra i contrastanti interessi degli operatori sociali del blocco edilizio e le forze sociali.

Il secondo ciclo è caratterizzato da un processo di trasformazione del settore ottenuto attraverso la divisione del lavoro ma con scarsi investimenti di capitale fisso. Quando parliamo di capitale fisso ci riferiamo non ai macchinari e alle attrezzature, ma anche alla struttura aziendale, il livello di progettazione, di ricerca e di sviluppo di nuovi materiali e tecnologie.

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La fine del secondo ciclo e il passaggio alla terza fase si ha con l’ingresso nel settore proprio di quel capitale fisso in grado di provocare cambiamenti significativi sia nelle tecnologie sia nell’organizzazione del lavoro.

Lo scenario su cui verte il terzo ciclo edilizio è del tutto diverso dai precedenti in quanto, a partire dal 1972-1973, il settore come evidenzia il grafico entra in crisi4:

Si noterà che ogni fase tende ad espandersi per durata rispetto alla precedente con il trascorrere del tempo. Per le fasi di crescita si passa dai 5 anni del terzo ciclo a 9 anni nel sesto, per quelle di decrescita dai 3 anni del terzo ciclo ai 6 anni nel quinto (per il momento la durata della fase discendente del quarto tratteggiata in rosso coincide con quella del terzo).

La fase di contrazione (1974-1977) risulta talmente ridotta da poter essere considerata come una breve pausa tra le due fasi fortemente ascendenti. Non sorprenderà quindi se, all’epoca, grazie anche ad una inflazione più alta, in ben pochi si sono potuti rendere conto che i prezzi reali subirono una piccola contrazione.

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Per quanto riguarda il primo ciclo sono un paio gli elementi da tener presente: in primo luogo, l’economia di quel periodo era fortemente danneggiata e prevalentemente agricola; in secondo luogo, il processo produttivo risentiva di un ampio controllo dell’imprenditore.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, l’abitazione ha occupato un ruolo fondamentale sia nella politica che nell’economia Italiana, in particolare fino agli anni settanta.

Dottrina autorevole ha evidenziato che le condizioni che hanno influenzato in modo determinante il settore dell’edilizia e che lo hanno indirizzato allo sviluppo del sistema economico italiano post-bellico sono state l’accresciuta importanza della manodopera sottratta all’agricoltura e dal meridione per essere incanalata nei settori più fiorenti dell’epoca nonché le estrazioni di capitali, con la valorizzazione selvaggia della rendita edilizia, necessaria per finanziare gli altri settori produttivi5.

Nell'immediato dopoguerra, la legge sui piani di ricostruzione era funzionale alla scelta di fondo di assegnare all'edilizia un ruolo trainante dello sviluppo.

Come è stato acutamente osservato, la ripresa economica nel dopo guerra non poteva essere interamente affidata all'industria del nord sia a causa dei gravi danni subiti dagli impianti, sia a causa dell'arretratezza di quelli funzionanti, sia a causa della dequalificazione della mano d'opera in conseguenza della pausa forzata6.

II settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione, sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né manodopera qualificata, né materiali di importazione, sia perché rispondeva ad una esigenza sociale molto sentita che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale. Accanto a questa ragione economica

5 Arlati, Scarpini, Storia e struttura del settore edilizio in Italia dal dopoguerra ad oggi, 1979, Clup, pag 152

6 Tutino, Scarpini, Storia e struttura del settore edilizio in Italia dal dopoguerra ad oggi, 1979, Clup, pag 156

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del ruolo assegnato all’industria delle costruzioni, ecco il ruolo sociale: la domanda di abitazioni.

L’utilizzazione perversa di questa domanda rende, tuttavia, sempre più perverso il meccanismo che si mette in moto.

Infatti, alla base della fortuna del settore edilizio vi è stata sicuramente una consistente domanda di abitazioni determinata dalla stasi bellica e dalle distruzioni, e in seguito alimentata dalla politica di facilitazioni creditizie e fiscali, dallo sviluppo dei redditi con domanda di rinnovamento del patrimonio edilizio obsoleto, e dalle migrazioni interne7.

Inoltre questo enorme successo non è da attribuire soltanto alla ricostruzione delle abitazioni, devastate dalla guerra ma anche dalla costruzione di un nuovo apparato industriale che necessitava di nuovi stabilimenti. Infatti il boom economico di quegli anni aveva permesso un notevole incremento della produzione industriale generando così un rapida espansione delle aziende che vi producevano nel territorio italiano.

Per questo nella fase iniziale del processo, il settore edilizio si è trovato in una posizione di oggettiva alleanza con gli altri settori industriali, poiché come quelli si alimentava delle immigrazioni interne, e anche in favore di quelli ricuperava redditi distribuiti.

In definitiva, le migrazioni interne, la convenienza all'investimento, la politica di incoraggiamento all'acquisto, sono state le componenti essenziali che hanno provocato un'enfasi della domanda, poi hanno favorito la speculazione e, quindi, la lievitazione dei prezzi delle abitazioni. Ovviamente, questo processo ha provocato un vertiginoso innalzamento anche nei prezzi degli affitti.

Tutto il processo, fin qui raccontato, si svolge senza mai risolvere il problema della casa per i meno abbienti, anzi aggravandolo continuamente.

Nel 1951 su di un totale di 19.6 milioni di occupati, l'agricoltura ne assorbe il

7 Tutino, Scarpini, Storia e struttura del settore edilizio in Italia dal dopoguerra ad oggi, 1979, Clup, pag 157

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45%, contro il 22% delle attività industriali8.

Nel decennio 1951-1961 la situazione appare già modificata: nel 1961, su un totale di 20,4 milioni, la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%, mentre quella dei settori industriali tocca il 28% ed il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti9.

L'agricoltura ha già perso circa 2.6 milioni di addetti di cui 1.5 nelle campagne dell’Italia centrale e meridionale; ma, mentre il nord ed il centro hanno, in valore assoluto, accresciuto il numero degli occupati, il meridione è sceso di circa 100 mila unità nel suo complesso.

Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud gli addetti all'industria nel meridione crescono solo di 80.000 unità mentre al nord salgono di ben 350.000 unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900.000 addetti al settore agricolo, che non gode di adeguati investimenti.

Su un totale dei 19.4 milioni di occupati al 1971, oltre il 50% sono al nord mentre il meridione non raggiunge il 30%.

Particolarmente significativa è la distribuzione per comparti: al nord i 9,7 milioni di occupati sono per il 50% nei settori industriali, per il 30% in quello delle costruzioni e solo per il 12.5% in agricoltura; al sud i poco meno di 6 milioni di occupati sono per il 30% ancora in agricoltura, per il 25% nel settore terziario e per meno del 20% nei settori industriali10.

L’incremento della popolazione fra il 1951 e il 1961 è di gran lunga più accentuato nelle aree del nord (1,5 milioni) che non in quelle centrali (0.7 milioni) in cui va considerata la presenza determinante di Roma, e meridionali (0,9 milioni); e si verifica malgrado in queste ultime sia più alto il tasso di natalità.

La stesso fenomeno - ancora più accentuato - si riscontra nel decennio 1961-71, ove ad una crescita complessiva di circa 3,5 milioni di abitanti fa riscontro un

8 Galeotti. G., Movimenti migratori interni in Italia, Cacucci Editore, 1971, pag 120 9 Ibidem, pag 12

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incremento di ben 2.3 milioni nelle aree del nord contro le 900.000 unita delle aree centrali e solo 300.000 nel meridione11.

La dimensione dei flussi migratori è già leggibile all'interno di questi dati.

Tra il 1951 e il 1971 sono emigrati dal Mezzogiorno 4.3 milioni di residenti, quasi un quarto della popolazione iniziale.

Il processo di abbandono delle zone montane-collinari e delle campagne trova ulteriore conferma non solo nel dato del decremento della popolazione rurale, che ha perduto quasi 5 milioni di unita tra il 1961 e il 1971, ma anche nella modificazione della distribuzione della popolazione per zone.

La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese, ha determinato due fondamentali ordini di problemi.

Innanzitutto, nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale ha prodotto gravissimi danni economici ed ha compromesso l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani). In secondo luogo, nelle zone di concentrazione, l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani ha generato notevoli inconvenienti con ripercussioni sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento).

Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane, dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali, quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte. Gli anni '50 sono gli anni d'oro della speculazione più sfrenata. In quell’arco temporale, il numero di vani di abitazione è passato da 37 milioni, per 47,5 milioni di abitanti del 1953 a 63 milioni per 54 milioni di abitanti nel 197112. Il patrimonio edilizio è dunque cresciuto molto più velocemente della

11 Galeotti. G., op. cit., pag 125

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popolazione.

Altro elemento caratterizzante il dopoguerra è il costante e notevole aumento della proprietà dell’abitazione.

Da uno studio condotto nel 1931 circa aveva accertato che le abitazioni in piena proprietà o in usufrutto erano il 16,8% nei comuni con oltre 100.000 abitanti, il 29,1% nei comuni con un numero di abitanti compreso fra 50.000 e 100.000, il 39,2% nei comuni di 20.000-50.000 abitanti.

Per complesso delle abitazioni censite nei comuni da 20.000 abitanti in su, la proprietà dell’abitazioni raggiungeva il 26%13.

Nel dopo guerra il numero delle famiglie proprietarie dell’abitazione in cui vivono è rapidamente aumentato, in particolare nei centri minori, infatti secondo il centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato sull’edilizia (CRESME) nel 1966 nei comuni con più di 30.000 abitanti il 38,1% delle famiglie abitavano il case di proprietà14.

Lo spostamento della popolazione ha favorito l’aumento del prezzo dei terreni edificabili al nord ed al sud nonostante molte persone lo abbandonassero alla ricerca di un posto di lavoro e lo sviluppo produttivo sia stato quasi assente. L’innalzarsi dei prezzi dei terreni edificabili ha fatto crescere in modo esorbitante le abitazioni in affitto questo perché c’era un cattivo uso dei piani regolatori di quei tempi.

All'inizio degli anni '60, lo sviluppo industriale del paese si consolida.

I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria.

Seppur timidamente, viene alla luce la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati.

Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati.

13 Fonte Istat, Indagine sulle abitazioni al 21 aprile del 1931, Firenze, Vallecchi, 1934, parte II, tav. VIII; 14 Cresme, Quaderno 6, Principali risultati dell’indagine pilota n. 22 sulla struttura economica del mercato edilizio italiano, Roma, Castaldi, 1967, pag 8;

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È per questo che, a partire dal 1960 si assiste, specialmente al Nord, alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.

Prima ancora della battaglia lanciata poi negli anni sessanta, a partire dagli anni 50 erano state iniziate le politiche per favorire l’industria edilizia.

Nel 1949 viene emesso un piano settennale dell’Inacasa, detto anche piano Fanfani, con la legge del 28 febbraio n. 43.

Il piano verteva di più su un piano di assistenza ai disoccupati piuttosto che su un piano di costruzioni di abitazioni. Si tratta quindi di una politica per l’occupazione attraverso la costruzione edilizia, l’occupazione operaia costituirà la base del cosiddetto “volano keynesiano” punto di inizio per un più generale sviluppo dell’economia Italiana.

Lavoro, alloggi, allargamento degli sbocchi di mercato per tutti i beni legati direttamente all’edilizia (cemento, ferro, mattoni, calce, tubi, arredamenti) ma anche un generale aumento dei consumi visti la maggiore possibilità di acquisto. I risultati si concretizzano quindi nel miglioramento delle condizioni di vita e nella disponibilità di case per i lavoratori.

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1.2 Il boom dell’edilizia

Come abbiamo già evidenziato nel paragrafo precedente, all’edilizia fu affidato un ruolo molto importante alla fine del secondo conflitto mondiale, dal momento che il settore in quanto doveva fare da traino a tutta l’economia del Paese.

La Legge più importante di quell’epoca fu la legge del 28 febbraio 1949 n. 43, il c.d. “Piano INA casa” o “piano Fanfani”.

Già dalla denominazione a rubrica della legge riusciamo a comprendere quanto alte fossero le attese: “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia,

agevolando la costruzione di case per lavoratori”.

L’impianto normativo prevedeva la costruzione di un ente a gestione autonoma, dipendente dal Ministero del Lavoro, deputato a dare esecuzione alle decisioni di un comitato che aveva in mano il piano per incrementare l’occupazione operaia, attraverso la costruzione di case per i lavoratori.

Il piano doveva avere una durata settennale e prevedeva tutte le operazioni previste per la costruzione e l’assegnazione degli alloggi ai lavoratori tenendo presente dei fondi messi a disposizione.

I fondi dovevano essere costituiti attraverso:

1. un prelievo dello 0,6% sulla retribuzione mensile dei lavoratori dipendenti;

2. un prelievo dell’1,20% dalle retribuzioni versate da parte dei datori di lavoro;

3. un contributo dello Stato per il 4,30% del complesso dei contributi di dipendenti e datori di lavoro. Lo stato avrebbe anche fornito il 3,30% del costo prefissato per ogni alloggio costruito per i primi 4 anni prelevato dagli aiuti dati dagli USA15.

Il piano escludeva totalmente i contributi del cosiddetto ceto medio ovvero quello dei commercianti, gli artigiani ecc.

15 Riccardo Sarfatti, Il contesto politico economico e sociale del primo ciclo edilizio, in Storia e struttura del settore edilizio, 1979, Clup, pag. 67.

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Attraverso questa manovra si andava a introdurre il c.d. principio del risparmio

forzoso ovvero della solidarietà forzata, in quanto non tutti quelli che

contribuivano avrebbero potuto avere la casa.

Gli esperti dell’epoca avevano stimato un fabbisogno di circa 12.600.000 vani calcolati con queste modalità16:

- Vani necessari a partire dal 1931 7.000.000

- vani necessari per la ricostruzione post- bellica

e per incremento demografico 5.000.000 - vani stimati per l’incremento demografico

dal 1942 al 1945 600.000

Tot. 12.600.000

Tuttavia, secondo le stime della C.G.I.L. il piano riusciva ad assorbire meno del 4% della disoccupazione dell’epoca e soltanto il 10% dei lavoratori avrebbero avuto una casa.

Tutti concorrevano di fatto all’assegnazione: la procedura era quasi una lotteria dove si estraevano a sorte i buoni che i lavoratori avevano in cambio dei loro contributi.

La legge servì, più che altro, a rassicurare l’impresa privata in quanto era ancora restia ad avviare il processo di ricostruzione a causa dell’instabilità politica. I dati non hanno testimoniato un andamento molto irregolare degli investimenti e del numero dei vani costruiti: quest’ultimi, nel 1951, furono 60.000, 96.000 nel 1953 e 21.000 nel 1957;

Le percentuali delle abitazioni costruite con il piano INA-casa sul totale dell’edilizia sono state: il 17,7% nel 1951, il 2,1% nel 1957 e il 13,9% nel 1957. Sul fronte degli investimenti, furono 53 miliardi nel 1951, 22 miliardi nel 1957 e

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158 miliardi due anni dopo17.

Un’altra legge importante dell’epoca fu la Legge Tupini del luglio del 1949 intervenuta ad introdurre il metodo del contributo da parte dello Stato in annualità sugli interessi dei mutui: un principio, questo, che doveva diventare un pilastro fondamentale per il finanziamento dell’edilizia popolare economica. Con tutte queste agevolazioni, sia per l’edilizia pubblica che per l’edilizia privata, nel dopo guerra si è assistito ad un enorme proliferazione di piccole imprese edili.

Il fenomeno prendeva forma a causa del notevole sfruttamento della manodopera composta da contadini arrivati dalle campagne e dalle regioni del Sud Italia. Negli anni ’60, anche l’abbandono della mezzadria contribuiva alla nascita di tante piccole aziende, anche se c’è da dire che molte di esse, nate in concomitanza dell’ondata giuridica favorevole alla ricostruzione, fallirono poi sul finire degli anni ’50, quando si esaurirono i contributi.

Le grandi imprese dettero un contributo importante alla ricostruzione delle ferrovie, delle strade e dei monumenti mentre le piccole aziende ebbero la fortuna di operare nel campo delle riparazioni o comunque in opere di più modesta entità. Un settore, quello, particolarmente favorito anche a causa dalla normativa edilizia quasi assente sul punto, che consentiva di costruire risparmiando, ad esempio, sulle fondazioni, sulle coperture nonché sugli allacciamenti.

Tra le ditte tecnologicamente più avanzate, menzioniamo, ad esempio, l’Impresit18, che già prima della guerra era allocata sul mercato internazionale, concorrendo per lavori di grande impegno economico.

Nel 1957, le grandi imprese italiane che operavano all’estero erano circa una trentina19, con un carnet di ordini tra gli 80-100 miliardi di lire.

Queste ditte operavano in particolar modo in Africa settentrionale.

17 Riccardo Sarfatti, Il contesto politico economico e sociale del primo ciclo edilizio, cit., pag 69. 18 Azienda che opera nel settore edilizio negli anni ‘50.

19 Lando Bortolotti, Storia della politica italiana, Evoluzione tecnico-organizzativa ed economica

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18

Con l’espandersi di questo tipo di mercato si iniziò anche ad esportare il

know-how, la cui tutela sollecitò la nascita di una serie di aziende di consulenza

tecnica, tra cui Elettroconsult20, che vedeva tra i suoi soci fondatori anche il gruppo Fiat e quella fondata dalla Edison.

Grazie al censimento industriale si è reso evidente il notevole aumento del numero di ditte rispetto al periodo ante guerra: infatti, le ditte di costruzioni e impianti risultavano essere 43.389 contro di meno 30.000 negli anni più fiorenti dell’anteguerra21.

Nel 1961 il numero salì fino a 67.450 per poi giungere, nel 1971, a 158.553. Il numero degli occupati in secondo questo censimento passarono da 530.000 circa a quasi un milione, mentre le ditte con meno di 10 dipendenti passarono dall’67% all’86%22.

Il rendimento netto degli investimenti nell’industria edile, fino agli anni ’70, era molto alto: poteva arrivare, grazie anche all’esenzione fiscale, fino al 15%, ma rilevazioni molto attendibili degli anni successivi riferirono che il rendimento arrivò fino al 35% dei capitali investiti23.

Proseguì a rapida velocità l’affermazione, nel campo dell’edilizia, delle forme societarie: le 584 società censite nel 1932 divennero, nel 1951, 2121 con 113.226 addetti, con punte massime in Emilia dove si constatava la massiccia presenza di cooperative, mentre in Lombardia erano censite 394 aziende con 37.659 dipendenti, mentre, nel Lazio, erano 232 per un totale di 25.270 addetti24.

In questi anni si assistette alla “morte” delle aziende familiari, che vennero soppiantate da aziende in forma societaria, una veste, tuttavia, che nascondeva pur sempre una proprietà familiare.

Un esempio a riguardo è l’impresa Lodigiani s.p.a., fondata nel 1927 e che negli

20 Società nata nel 1957 i cui soci erano: Fiat, Montecatini e Sade.

21 F.M Salvi, La posizione dell’edilizia nell’economia italiana, in 24 ore – Edilizia, numero specialiale, 1956;

22 Lando Bortolotti, Storia della politica italiana, cit., pag 227.

23 F. Feroldi, L’industria edilizia, 1953 cit.pag 176.

24 III Censimento generale dell’industria e del commercio (5 novembre del 1951) e IV Censimento (16 ottobre 1961).

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19

anni ‘70 detiene un capitale sociale di ben 2 miliardi di vecchie lire.

Il boom economico degli anni ’60, unito al massiccio spostamento della popolazione, comportò una crescita senza precedenti dei prezzi dei terreni edificabili.

Una delle caratteristiche principali dell’edilizia in quegli anni è stata la notevole concentrazione dell’attività di costruzione nei maggiori centri urbani (Roma, Milano, Torino).

Furono gli anni d’oro delle immobiliari, che fanno anche un salto di qualità. Assistiamo all’aumento del valore fondiario in concomitanza a diversi fattori come: l’aumento del benessere, l’aumento dei potenziali acquirenti, la veloce espansione delle città dovuta anche all’assenza di normative urbanistiche.

Di nuove società immobiliari ed edili se ne formano 860 nel 1956, e ogni anno di più nei sei successivi, fino alle 2065 del 196225.

Infatti, nel 1960, le 1542 immobiliari ed edili di nuova formazione rappresentano il 27,44% del capitale investito in nuove società.

Solo dal ’62 il processo si rallenta.

Negli anni del boom, il valore delle aree sale in modo incredibile: per fare un esempio, a Milano, secondo l’Ilses, nei sette anni tra 1956 e 1962 il valore del patrimonio fondiario è passato da 3.844 miliardi a 9.745, nelle zone periferiche da 905 a 3.396, per le zone “esterne” da 1.468 a 3.52326.

Il prezzo dei terreni a Milano passa, dal 1956 al 1963, per la zona del centro da 1.200.000 di lire a m2 a 6 milioni, per le zone Garibaldi e via Moscova da 550.000 a 3 milioni.

Come si può vedere da questi dati riportati da uno studio della Banca d’Italia, i prezzi lievitarono in breve tempo e l’aumento non riguardò solo le grandi città ma anche i centri più piccoli.

Negli anni Sessanta, l’effetto combinato dell’inflazione, del miglioramento dello stile di vita, nonché il diffondersi di aspirazioni di un livello più alto di vita

25 Associazione fra le società italiane per azioni, L’economia italiana nel 1929, pag 157 e 265 26 Lando Bortolotti, Storia della politica italiana, cit., pag. 230.

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20

urbana condusse a una prima presa di coscienza dei possibili problemi urbanistici.

Negli anni del boom economico, gli impresari avevano costruito senza tener presente le poche e insignificanti leggi urbanistiche.

Dal 1962 fu avviato un lento cammino legislativo volto ad attenuare ed arginare il problema dell’abuso edilizio.

Furono gli anni del cosiddetto “blocco-edilizio”, periodo in cui le aziende si sono dovute adattare a una maggior disciplina urbanistica, esplorando nuovi campi di attività, che avrebbero assunto un peso decisivo una decina di anni dopo, quando la disciplina urbanistica è divenuta più efficiente nelle città e nelle aree più sviluppate.

Questi nuovi campi furono i centri storici e le aree turistiche.

Per quanto riguarda i centri turistici, tra cui, in primo luogo, si distinsero quelli promossi da immobiliari di medie dimensioni, che avevano come fine l’operazione sui terreni resi edificabili, come ad esempio l’impianto di Ala Stura in Piemonte, in cui venne costruito un impianto di risalita per facilitare le vendite di una lottizzazione, poi abbandonato.

Poi ci furono i centri turistici promossi da immobiliari collegate a grandi gruppi finanziari che ne hanno conservato nel tempo il controllo come ad esempio i villaggi della Valtur, la famosa società immobiliare turistica, nata nel ’64 il cui capitale sociale raggiunge nel ’73 ben 4 miliardi di lire, promossa dalla Fiat, dalla Sara, da alcune casse di risparmio e da altri operatori minori, dalla Compagnia Italiano turismo, dalla Finmare, nonché dall’Alitalia.

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21

1.3 L’arresto degli anni Settanta

Gli anni ’70 segnano l’inizio di una generalizzata stagnazione dell’attività edilizia.

La conferma arriva dal notevole ridimensionamento degli investimenti nelle abitazioni rispetto al passato, come risulta dai primi rilievi dell’ISTAT relativi all’attività edilizia, evidenzianti un calo progressivo delle quantità prodotte. Tuttavia, più che di stagnazione edilizia sembra più corretto parlare di uno spostamento della produzione.

Come abbiamo precedentemente sottolineato, il secondo ciclo edilizio prende le mosse a metà degli anni ‘60 e termina con la crisi economica degli anni ‘73/’74. Secondo la dottrina prevalente27, non ci fu un vero e proprio arresto del settore delle costruzioni, bensì uno spostamento di esso.

Infatti, durante il primo ciclo edilizio, il mercato delle costruzioni aveva interessato, in particolar modo, le città o comunque i grossi centri urbani, in quanto si stava verificando uno spostamento della popolazione dalle campagne e dalle regioni del sud verso il nord o comunque verso città più grandi.

Motivo per cui, oltre allo spostamento della popolazione, si ebbe anche lo spostamento delle sacche di risparmio.

In questo secondo ciclo, si è assistito ad uno stop alla produzione nelle città perchè le sacche di risparmio si erano esaurite, sia per via della crisi che stava colpendo l’Europa, sia per l’esaurimento della domanda, sia per la comparsa delle prime leggi urbanistiche.

La costruzione di immobili si è così fermata nei centri urbani, che nel primo ciclo avevano fatto da traino all’economia, e si era spostata in zone come le regioni del sud, in cui precedentemente non era stato costruito molto, e nelle zone di campagna.

Tutto questo non è riscontrabile su documenti validi perchè gli uffici comunali omettevano di predisporre le dovute comunicazioni a chi di competenza e molte

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22

abitazioni venivano autoprodotte.

In quegli anni, insieme all’abusivismo che si cercava di contrastare con l’introduzione delle prime leggi urbanistiche, imperversava anche il problema della speculazione delle grandi immobiliari.

La ripresa dell’attività edilizia, per cosi dire “legale”, avviene solo nel periodo successivo all’emanazione della legge ponte (1967-1969).

A partire dagli anni ’70, si sono verificati alcuni fatti rilevanti, tra loro correlati, che producono un sensibile cambiamento nella struttura del mercato edilizio. In primo luogo, si assiste al ridimensionamento ed alla diversificazione della domanda edilizia verso segmenti di mercato della media borghesia.

Si segnala poi, in secondo luogo, che l’offerta si allontana maggiormente dalla domanda edilizia a causa degli alti costi di costruzione, che risentirono enormemente del significativo aumento del prezzo delle materie prime e del costo del lavoro.

Da ultimo, il processo di ristrutturazione che investe l’intero settore delle costruzioni28, nonché la crisi occupazionale dell’industria e la diminuzione del flusso migratorio portano alla riduzione della domanda di abitazioni.

Il fenomeno viene sentito maggiormente nelle aree urbane del Centro- Nord, riguardando solamente in misura minoritaria il Sud.

Con gli aumenti salariali dei lavoratori dipendenti e la maggiorazione del costo delle materie prime, avvenuti senza un eguale aumento della produttività, per i scarsi investimenti nell’innovazione tecnologica, i costi di costruzione lievitarono notevolmente.

L’offerta si allontana sempre di più dalla domanda: la produzione si concentra soprattutto in abitazioni di livello medio-alto mentre la domanda reale riguarda abitazioni di livello medio-basso.

Viene meno il rapporto equilibrato tra livello quantitativo e qualitativo della produzione e domanda solvibile.

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23

Di conseguenza, diviene inevitabile che il settore entri in crisi, ed ecco dunque la forte riduzione dell’occupazione e il dilagarsi dei fallimenti delle imprese.

Bisogna anche dire che quel periodo negativo è anche la conseguenza della politica fiscale e monetaria degli anni 1963-1965 che ha pesanti ripercussioni soprattutto nel settore edile, specie quello privato.

Si osserva che di per se è il periodo è caratterizzato da un intensa attività edilizia ma con caratteristiche diverse rispetto al periodo precedente.

Assistiamo una maggiore diffusione territoriale e ad una diversificazione della tipologia di interventi: per la prima volta dal secondo dopoguerra, vengono prese in considerazione la ristrutturazione del patrimonio esistente e la costruzione di villaggi turistici.

Sul versante dei soggetti protagonisti dell’attività, entrano in gioco i grandi gruppi che operano nel settore urbano, contribuendo, pertanto, alla diversificazione degli operatori del settore.

In questo periodo, si fa molto presente l’intervento dello Stato che sembra appoggiare questa “nuova” espansione edilizia, anche per colmare la caduta del settore privato e l’esigenza di strutture abitative.

A tutta questa serie di fenomeni contribuì sicuramente lo sviluppo incontrollato dell’edilizia sul piano territoriale, spinto e sollecitato ai massimi livelli dagli imprenditori il cui unico fine era solo quello di conseguire il massimo profitto. Già dai primi anni ‘60 si era affacciato il problema della regolamentazione della produzione edilizia, ragion per cui lo Stato intervenne ad elaborare un “Primo programma quinquennale”, volto a favorire un processo di industrializzazione del settore. In esso viene affrontato il problema dei prezzi che incidono sulla domanda di abitazioni medio-bassa ed il problema della crescita della rendita fondiaria.

Il dilagare della crisi economica modifica la strategia del programma che si focalizzerà maggiormente sulla ricerca degli incentivi per promuovere gli investimenti produttivi. Tuttavia, la politica messa in atto non ha l’effetto sperato: risulta difficile e complicato regolare l’offerta complessiva ed

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24

avvicinarla alla reale domanda.

Dalla metà degli anni ’60 agli anni ’70, gli investimenti in ambito di costruzioni contribuiscono a ridurre sensibilmente la flessione degli investimenti totali ma la percentuale degli occupati del settore rispetto all’industria scende notevolmente, se paragonata al periodo precedente29.

Da quel momento, entra progressivamente in crisi il ruolo del settore delle costruzioni come volano economico, per il venire a mancare delle condizioni favorevoli presenti nel primo ciclo.

La piena occupazione che era stata raggiunta allora diminuisce e il prezzo delle materie prime, come ad esempio il cemento, aumenta.

Il settore, di conseguenza, perde la sua elasticità nella capacità produttiva e nella disponibilità dei fattori della produzione e quindi anche la sua indipendenza dagli altri settori produttivi.

Dopo aver raggiunto il suo apice intorno a metà degli anni ’60, da quel momento in poi si mette in moto un processo a spirale prezzi-salari-prezzi in cui gli imprenditori, per non vedere diminuire i loro profitti, aumentano i prezzi, e di conseguenza, i lavoratori, per non vedere ridotto il loro potere d’acquisto, chiedono aumenti salariali.

Mentre negli altri settori, a fronte degli aumenti salariali, si avviano processi di ristrutturazione per aumentare la produttività attraverso il miglioramento della tecnologia, il settore delle costruzioni rimane arretrato.

Ed ecco, pertanto, che il costo del lavoro risulta molto alto rispetto agli altri settori.

Secondo l’opinione di molti, la crisi è dovuta non tanto all’esaurimento della domanda ma piuttosto dall’esaurirsi della domanda di case a qualsiasi prezzo30. A metà degli anni ’70 i segni della crisi edilizia si fanno più nitidi per l’assenza di una qualsivoglia politica urbanistica, la mancanza di interventi dello Stato volti a favorire la domanda di abitazioni come investimenti, il minore intervento

29 Ferdinando Terranova, Edilizia e potere politico, cit., pag. 152. 30 Ferdinando Terranova, Edilizia e potere politico, cit., pag. 154.

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25

pubblico nell’edilizia abitativa e una maggiore offerta di abitazioni a carattere medio alto31.

Per far fronte alla situazione di flessione, allo Stato viene assegnato un ruolo di maggior peso nella programmazione e nella regolamentazione dell’attività edilizia.

Vengono così approvati una serie di provvedimenti legislativi che riguardano il regime del suolo urbano, il sistema degli affitti e la programmazione dell’intervento pubblico, con precipuo fine di rilanciare l’attività edilizia, prestando particolare attenzione al soddisfacimento della domanda di case economiche.

La prima legge fu la L. 10/77 che conteneva le “Norme per l’edificabilità dei

suoli”32, nella quale si è cercato di affrontare il problema del regime dei suoli

urbani, senza conseguire, tuttavia, i risultati sperati.

Un'altra legge emanata in quel periodo fu la L. 392/78, nota anche come Legge

sull’equo canone, che disciplinava le collocazioni degli immobili urbani. In essa,

tra le altre cose, si stabiliva che il canone di locazione non doveva superare il 3,85% del “valore locativo”33, da calcolare sulla base di un costo base a mq, moltiplicato per alcuni coefficienti in funzione del tipo di abitazione, della classe demografica dei Comuni, dell’ubicazione dell’edificio, del livello di piano, dello stato di conservazione e della necessità di mantenimento.

Negli anni precedenti si era costruito senza ritegno e, senza dubbio, la nuova legislazione in materia di urbanistica, arrivava in soccorso per conferire maggior ordine al sistema.

La stagnazione dell’attività edilizia degli anni ’70, soprattutto nelle aree urbane, viene superata, momentaneamente, grazie ai nuovi mercati: molte imprese,

31 Ibidem, pag. 155.

32 I punti più importanti della Legge furono: la concessione onerosa con cui si separa, il diritto di proprietà che rimane in capo al detentore dell’area e il diritto di edificazione che rimane in testa all’autorità pubblica, la quale lo concede al proprietario dietro la corresponsione di contributo concessorio; Programmi Pluriennali di Attuazione attraverso i quali si vuole porre fine a quell’attività spontanea, caotica e disordinata; l’estensione del regime della convenzione introdotto con la L. 167/62, anche sulle aree esterne al Piano di Edilizia Economica e Popolare.

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26

difatti, puntarono all’edilizia residenziale come bene rifugio per il piccolo risparmiatore, anche se poi si venne a creare un’offerta superiore alla domanda. Ragion per cui si cercò l’aiuto indiretto dello Stato al settore privato attraverso provvedimenti fiscali e creditizi per favorire ed incrementare la proprietà della casa e l’investimento immobiliare per lucrare su di una rendita permanente. Non mancarono i tentativi di far entrare in questo settore forme di progresso tecnologico, volti a ridurre i tempi di produzione, con consequenziale riduzione del fattore lavoro ed aumento dell’organizzazione del lavoro delle imprese34. Tuttavia, le generali diffidenze e paure dell’imprenditoria nei confronti del progresso frenarono l’innovazione e l’espansione delle nuove tecnologie, a differenza di quanto accadde in altri paesi europei che presero in considerazione, ad esempio, il metodo della prefabbricazione.

Sul finire degli anni ’70, l’opinione pubblica verso la casa cambia, ciò anche in conseguenza del cambiamento delle classi sociali.

Infatti, eccezion fatta per qualche fascia della popolazione che ancora necessitava di alloggi in affitto, la stragrande maggioranza della popolazione mirava ad alloggi di proprietà, non tanto per fare un’operazione di investimento ma proprio per uso familiare.

L’edilizia che si sviluppava in quegl’anni era quella convenzionata-agevolata che trova conferma nei Piani di zona.

Tra gli effetti del nuovo quadro legislativo possiamo menzionare il ridimensionamento del mercato dell’affitto, ma anche una serie di facilitazioni per le fasce di reddito medio alto al regime di agevolazioni e, contestualmente, per le fasce medio basse, l’aiuto all’accesso all’edilizia sovvenzionata.

Questa politica volle rispondere all’andamento della società degli anni successivi.

La domanda abitativa si concentra maggiormente verso insediamenti urbani esterni alle città e, di conseguenza, compaiono nuove problematiche, come

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27

l’impellente necessità di vie di comunicazione. Si viene a creare una domanda più “selettiva” che esprime non tanto un bisogno quantitativo di alloggi ma un’esigenza più di tipo qualitativo.

Nei piccoli centri, in termini di nuova edilizia, non si ebbero grandi risultati in quanto l’entità dei finanziamenti fu molto bassa ma le costruzioni che vennero fatte hanno avuto un forte impatto paesaggistico e geologico, ed il recupero con il restauro delle opere già presenti fu molto positivo.

Nelle grandi città le opere di restauro furono totalmente a carico dei cittadini, senza alcun finanziamento da parte dello Stato che comunque dette un contributo importante, a livello monetario, per le grandi opere di riqualificazione e rigenerazione (strade, scuole, ecc..), volte a dotare queste porzioni di città di ogni necessità.

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28

CAPITOLO II

Dalla crisi statunitense alla crisi mondiale

2. 1 L’origine del dissesto

Ormai da diversi anni il mondo attraversa la più grande crisi economica e finanziaria dai tempi della grande recessione. Tutti i mercati, senza distinzione, stanno attraversando un periodo di estrema difficoltà, motivo per cui le principali istituzioni nazionali e sovranazionali sono alle estenuante ricerca di una soluzione, anche se, finora, con scarsi risultati.

Tutto ebbe inizio, intorno al 2007-2008, negli Stati Uniti, a causa di una crisi finanziaria dovuta ad una bolla immobiliare caratterizzata da mutui concessi a persone con scarsa solvibilità: i cosiddetti “mutui subprime”.

La forte riduzione del mercato immobiliare statunitense non ha reso possibile per molti proprietari rispettare gli impegni finanziari presi, con la conseguenza che una grande quantità di immobili sono stati pignorati e molti dei principali istituti finanziari sono stati costretti al fallimento o spinti fino alla cessazione dell’attività.

Siamo di fronte ad un sistema finanziario globale privo di ogni logica: perdite creano altre perdite, debiti generano altri debiti e qualsiasi misura di risanamento porta solo alla recessione.

Allo scenario descritto finora ha contribuito enormemente la “Greenspan fee“ (dal nome dell’ex governatore della Fed) che, con il denaro a costo quasi zero e con controlli sull’erogazione del credito da parte delle banche non sufficientemente stringenti, ha certamente fatto crescere l’economia statunitense ma ha anche contribuito alla nascita di questa “bolla immobiliare”, il cui scoppio ha portato all’inevitabile crollo del sistema bancario.

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29

Come acutamente osservato in dottrina35, di tutta evidenza risulta che il principale motivo della crisi finanziaria americana sia proprio l’eccessiva erogazione di prestiti o la loro cattiva erogazione, ma a ciò va aggiunta la troppa tolleranza dei regolatori e l’ingenua richiesta di credito da parte di soggetti che, guidati dal Moral Hazard, chiedevano cifre sempre più alte pur sapendo di non riuscire a rimborsarle a scadenza.

In questo modo l’intermediario, che doveva veder incrementare i suoi guadagni, si ritrova con ingenti perdite, e se l’intermediario in questione è una banca, possono crearsi problemi di liquidità seguiti da un Bank Running36.

Questa crisi è molto diversa da quella che ha colpito il mondo negli anni ’70 in quanto lì la causa fu la crisi petrolifera, ma differisce anche da quella agli inizi degli anni ’90 in cui si è verificata la cosiddetta bolla di internet.

Secondo l’opinione dei maggiori economisti dell’area americana, la crisi ha avuto origine da molteplici ragioni ma la più importante è stata la riduzione dei prezzi delle abitazioni degli Stati Uniti, che insieme ad altri fattori hanno contribuito all’allargamento della crisi a livello mondiale37.

A partire dal 2000, le banche americane avevano concesso un alto numero di mutui sub-prime, ovvero un particolare tipo di mutuo che la banca concede a persone con un reddito molto basso o insicuro. Per questa ragione, l’operazione risulta molto rischiosa per la banca poiché manca la certezza che i mutuatari riusciranno a restituire il capitale preso in prestito.

Le ragioni che hanno contribuito alla decrescita di questi mutui sono state molte.

35 Rispoli F. M., La crisi dei mercati finanziari, Giuffre Editore, 2009, pag 56

36

Espressione inglese che si riferisce alla corsa agli sportelli, evento in cui,

i correntisti di una banca, temendo per i loro depositi, si dirigono in massa

a ritirare le proprie liquidità. Tale avvenimento è stato alla base della

grande depressione del 1929 in cui il crollo di Wall Street e il successivo

crac del sistema bancario statunitense ha portato al fallimento di un numero

imprecisato di banche statunitensi.

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30

Gli esperti del settore ne hanno individuati alcuni38:

1. la bolla immobiliare che stava attraversando il mercato edilizio in quel periodo;

2. i bassi tassi d’interesse presenti negli Usa;

3. il meccanismo finanziario della cartolarizzazione; 4. l’assenza di regole sul leverage.

Attraverso il grafico sottostante si può avere un idea complessiva dei comportamenti e delle situazioni dei mercati finanziari più recenti.

Fonte: Blanchard (2008)

38

Carluccio Bianchi, La crisi globale del 2007-2009:cause e conseguenze, (estensione e aggiornamento

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31

La prima barra verticale che risulta essere scarsamente visibile, mostra a quanto ammontavano le perdite attese sui titoli e sui prestiti subprime statunitensi nell’ottobre 2007: il valore si apprestava a circa 250 miliardi di dollari.

La seconda barra mostra invece la perdita cumulativa stimata relativa alle variazioni di output mondiale. Questa perdita, costruita come la somma delle differenze tra la produzione effettiva dei diversi paesi rispetto ai loro trend storici, è basata sulle stime del FMI e si riferisce al periodo 2008-2015. Tale perdita ammontava a 4700 miliardi di dollari, ovvero quasi 20 volte la perdita iniziale sui subprime. La terza barra mostra la diminuzione dei costi azionari, misurata come somma delle diminuzioni dei valori delle azioni di tutti i mercati mondiali, ovvero la diminuzione della capitalizzazione azionaria che si è verificata da luglio 2007 (quando sono iniziati a sentirsi i primi sintomi della crisi) a novembre 2008.

La perdita de quo è di circa 26400 miliardi di dollari, ovvero circa 100 volte la perdita iniziale sui subprime.39

39 Blanchard, O., The crisis: basic mechanisms, and appropriate policies, Massachussetts Institute of Technology - Department of Economics - Working Paper Series, 2008.

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32

Come si può vedere da quest’ultimo grafico, dal 2003 le banche hanno aumentato notevolmente il volume dei mutui sub-prime. Per cui, in virtù delle ragioni individuate precedentemente si può capire come, per quanto riguarda la bolla immobiliare negli stati uniti, a partire dal 2000 fino a metà del 2006, il prezzo della abitazioni è cresciuto del 15% in media l’anno, venendo a creare la cosiddetta bolla immobiliare.

Infatti, analizzando il grafico sottostante rappresentante l’indice di Case-Shille40 che indica i prezzi delle case unifamiliari nelle venti principali aree urbane del paese41, possiamo notare l'impennata dei prezzi delle case nel 2007 ed il successivo ripiegamento del valore delle abitazioni42.

40E' un indicatore che viene fornito mensilmente da Standard & Poor's e che ha come base un

valore di 100 riferito al gennaio del 2000.

41 Atlanta, Boston, Charlotte, Chicago, Cleveland, Dallas, Denver, Detroit, Las Vegas, Los

Angeles, Miami, Minneapolis, New York, Phoenix, Portland, San Diego, San Francisco, Seattle, Tampa e Washington.

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33

Il continuo aumento dei prezzi delle case ha incentivato gli istituti a concedere mutui, rendendo l’attività conveniente e poco rischiosa.

Si prevedeva un continuo crescere dei prezzi, quindi l’istituto di credito non si accertava che il mutuatario potesse restituire il capitale perché, nel caso in cui esso non procedesse al pagamento, la banca poteva pignorare la casa e rivenderla ad un prezzo più alto del prestito concesso al mutuatario.

La bolla immobiliare è stata anche favorita dai tassi di interesse molto bassi negli Usa, specie nel periodo 2001- 2004.

Dopo l’11 Settembre 2001, con il crollo delle Torri Gemelle e l’attacco al Pentagono a Washington, il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, decise di abbassare i tassi di interesse all’1% per mantenere l’economia forte e più stabile.

Da un lato gli investitori considerarono la percentuale scelta molto bassa e decisero di non impiegare il loro denaro in questi titoli.

Dall'altro lato, l'abbassamento del tasso incentivò, e non poco, le banche di Wall Street a chiedere prestiti di denaro alla Banca Centrale degli Stati Uniti con un interesse del solo 1%.

La conseguenza fu un enorme quantità di credito erogato facilmente e a basso costo.

Tuttavia, il tasso di interesse è anche il costo del denaro quindi, se esso è molto basso, per le persone aumentano le possibilità di prendere in prestito soldi ad un minor costo e, di conseguenza, si provoca l’aumento dei prezzi delle case, spalleggiando così la bolla immobiliare.

Un altro elemento che ha favorito la crescita dei mutui subprime è stata la cartolarizzazione, quel complesso meccanismo finanziario tramite il quale gli istituti di credito rivendevano questi particolari mutui ad altri competitors, traslando su di essi anche il rischio. Attraverso la cartolarizzazione, le banche passano dal modello “originate and hold” al nuovo modello “originate and

distribuite”.

(36)

34

hold”: la banca presta il capitale al mutuatario, il quale si impegna a ripagare il

prestito con una serie di rate. Con questo tipo di mutuo, la banca deve aspettare un arco temporale maggiore rispetto al secondo modello, in cui si cede il prestito ad altri operatori del settore.

Nel modello “originate and distribuite” sono tre i soggetti interessati: la banca, la società veicolo e il mutuatario.

Anche in questo caso il mutuatario chiede in prestito una somma che dovrà restituire in un certo arco temporale. Successivamente all’erogazione del mutuo, la banca lo rivende ad un altro istituto finanziario, liberandosi in questa maniera, del rischio di insolvenza del mutuatario e traslandolo sull’istituto. Quest’ultimo emetterà a favore della banca titoli obbligazionari dello stesso importo del prestito.

In questo modo, la banca recupera immediatamente il capitale che ha erogato come prestito per ripetere l’operazione con un altro cliente. Ovviamente il cliente che versa in grandi difficoltà non potrà rinegoziare il mutuo perché non ha la possibilità di cambiare gli accordi tra la banca e la società per la cartolarizzazione.

A metà del 2008, più del 60%43 di tutti i mutui statunitensi era cartolarizzato. Inoltre, questi mutui venivano “riuniti” in pacchetti al fine di formare MBS (mortgage-based securities), che venivano poi divisi in diverse tranches offerte agli investitori a seconda della loro propensione al rischio.

Il fenomeno della cartolarizzazione ha permesso alle banche ed agli altri istituti finanziari di espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio. Attraverso la cartolarizzazione, le banche e le altre Istituzioni finanziarie possono aumentare le attività in rapporto al capitale proprio generando il fenomeno della

leva finanziaria: in particolare, le istituzioni finanziarie e le banche hanno

finanziato i loro portafogli con sempre meno capitale, quindi aumentando il tasso di ritorno su quel capitale stesso.

Possiamo individuare le ragioni di questo fenomeno nell’ottimismo che si era

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35

creato all’inizio e la sottovalutazione del rischio, ma anche nella presenza di numerose lacune nella regolamentazione economica.

A titolo esemplificativo, si può ricordare che le banche riuscivano a trattenere meno capitali di quelli richiesti dalla legge spostando alcuni asset dai loro bilanci a quelli di “structured investment vehicles” (SIVs): in questo modo, le loro attività risultavano in un ammontare minore, e quindi anche il capitale richiesto ai fini di garanzia poteva essere inferiore44.

Il grafico sottostante mostra il notevole aumento del leverage delle cinque maggiori banche di investimento americane fino alla grande crisi.

Fonte Blancard

Quindi, era ormai divenuta prassi che le banche americane e le altre istituzioni

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