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Neet o studenti inattivi?

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Academic year: 2021

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1.1 Demografia e statistica

Nel 1978 il secondo lungometraggio di Nanni Moretti, “Ecce Bombo”, descriveva la condizione di quattro amici non ancora trentenni, reduci dall’esperienza del Sessantotto, nella Roma di quegli anni. Michele, venticinquenne mantenuto dai propri genitori, chiede a una propria coetanea: “Che lavoro fai?” “Nulla di preciso” “…Come campi?” “ Giro…, vedo gente…, mi muovo…, conosco…, faccio cose…” “E l’affitto?” “Vivo con mio fratello e non lo pago.” “E i vestiti?” “A un amico, per esempio, che va a Londra, gli dico di portarmi delle cose…” “Il mangiare?” “Mi ospitano molto spesso” “Questa sigaretta?” “Ho incontrato un amico stamattina e mi ha dato due pacchetti di queste”. Nel 1985, il gruppo musicale dei CCCP cantava “Non studio, non lavoro, non guardo la TV, non vado al cinema, non faccio sport”, descrivendo la condizione giovanile della provincia italiana durante gli anni Ottanta come una lunga parentesi di noia e vuoto esistenziale. Sebbene si tratti di parole vecchie di qualche decennio, esse richiamano alla mente la condizione di giovani fuori dal circuito lavorativo e scolastico. Fenomeno che solo recentemente non è più orfano di un nome ed entrato a pieno titolo nel vocabolario nazionale e internazionale con il nome di Neet, acronimo inglese di “Not (engaged) in Education, Employment or Training.

In relazione alla definizione utilizzata dall’ISTAT, nella categoria Neet sono compresi “i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione”(ISTAT 2011, p.159), ma anche la Banca d'Italia non manca di approfondire la rilevazione del fenomeno, allargando le classi d'età fino ai 34 anni (Banca d'Italia 2011). Sappiamo bene però che le definizioni non sono mai neutrali. Anche le definizioni così come le nostre espressioni sono il frutto della società in cui viviamo. L'uomo non è una tabula rasa, come avrebbe detto Popper, ma rappresenta l'output della società in cui vive, ciò vuol dire che l'uomo è frutto di un processo di socializzazione, che non termina mai. Quindi potremmo pensare che l'uomo sia “portatore” di tante definizioni, ognuna diversa dalle altre.

In ogni caso prima di entrare nel merito del fenomeno NEET, è indispensabile considerare il quadro demografico in cui esso si inserisce.

Citando un articolo di Alessandro Rosina1, possiamo dire che in Italia è da lungo tempo in atto un

forte processo di “degiovanimento”, che interessa anche gli altri paesi europei ma che assume da noi proporzioni notevolmente più significative. Se volessimo rappresentare la popolazione in termini generali, la figura che può rappresentarla meglio è una piramide, dove alla base troviamo la fascia della popolazione con età più giovane, che da sempre rappresenta la componente demografica più consistente, mentre la punta rappresenta le fasce più anziane, numericamente molto più esigue.

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Ma se questo è stato vero per tutta la storia dell’umanità, da qualche decennio le cose sono cambiate. Da un punto di vista demografico, la numerosità della popolazione anziana è molto elevata e in progressivo aumento.

Attualmente viviamo in una fase di transizione che sta alterando profondamente i tradizionali e consolidati equilibri demografici tra nuove e vecchie generazioni. I motivi sono vari, tra questi uno dei meriti va attribuito all'incremento della longevità, ossia all'allungamento della durata della vita, ciò consente sempre più a una parte crescente delle popolazione di entrare in età anziana e di rimanerci per durate sempre più lunghe. Il numero di anziani si accresce e questo dilata e sposta verso l’alto la punta della piramide demografica; stiamo parlando quindi del processo di invecchiamento della popolazione, che ha una ricaduta sulla struttura demografica. Un altro fattore da non sottovalutare che ha un'incidenza sull'edificio demografico è la riduzione della natalità. A tal proposito si guardi il grafico seguente:

Ma se la longevità fa aggiungere piani al vertice, la diminuzione delle nascite porta a indebolire le fondamenta. In passato il numero medio di figli per donna era molto alto, nei primi decenni dell’Unità d’Italia era pari in media a cinque nati per donna. La fecondità è poi progressivamente diminuita fino a raggiungere un valore pari a due, nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso. A inizio anni novanta siamo diventati il paese con più bassa fecondità al mondo e nel corso di tale decennio il primo paese del pianeta a veder la consistenza numerica degli under 15 scendere sotto quella degli over 65. Riportando i dati dell'Istat: nel 2014 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 502.596 bambini, quasi 12 mila in meno rispetto al 2013, 74 mila in meno sul 2008. La diminuzione delle nascite è dovuta soprattutto alle coppie di genitori entrambi italiani: 398.540, quasi 82 mila in meno negli ultimi sei anni, questo perché le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno e hanno una propensione ad avere figli sempre più bassa. Il numero medio di figli per donna scende a 1,37 (rispetto a 1,46 del 2010).

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le previsioni demografiche ISTAT (2011) al 2030 si registrerebbe una perdita di bambini e giovani fino a 29 anni pari 553 mila unità, destinata a raddoppiare nei 20 anni seguenti. La classe di età tra 18 e 34 anni subirebbe in quarant’anni una perdita vicina al milione e mezzo.

Lo squilibrio tra le generazioni è quindi destinato a aumentare. Il rischio inoltre è che al degiovanimento demografico corrisponda anche un degiovanimento sociale2, ossia una perdita

generalizzata di peso e di importanza delle nuove generazioni in ambito politico, sociale ed economico. In altre parole, si teme in una combinazione tra riduzione quantitativa dei giovani e scarsa valorizzazione del loro capitale umano, che in parte si stanno già verificando.

Riprendendo le parole di M. Agnoli in3la stessa Unione Europea riassume così le trasformazioni

occorse nel continente negli ultimi anni che hanno investito la popolazione giovanile (European Commission, 2012; Wisser, 2012):

 il paradosso di percorsi formativi dei giovani tendenzialmente più lunghi, associati ad un decremento della disponibilità di posti di lavoro;

 l'identificazione di fasi di transizione e di accesso al mercato del lavoro sempre più complesse;

 un incremento del rischio di esclusione sociale e povertà per i giovani europei, stante la relazione tra condizione di Neet e rischio di intraprendere percorsi biografici di esclusione sociale, che rappresenta un'ipotesi classica nella letteratura sul fenomeno (Social Exclusion Unit, 1999; La Rosa e Kieselbach, 1999; Mascherini, Salvatore, Meierkord e Jungblut, 2012). L'incremento del rischio di esclusione sociale è ipotizzato come conseguenza diretta in particolar modo dell'incremento della disoccupazione giovanile (Wisser, 2012, p.7);

 condizioni sempre più negative, che vengono rappresentate nei termini di fattori di rischio, che possono produrre delle conseguenze sullo stato di salute dei giovani. Anche in questo caso si tratterebbe dell'estensione di un fenomeno già studiato in letteratura, attraverso l'esplorazione della relazione esclusione lavorativa/stato di salute dei giovani (Borghi, 1999b).

All'interno di questo quadro per niente incoraggiante, assistiamo anche ad un incremento della quota di giovani Neet. E' interessante notare come nel 2013 in Italia tra questi giovani che non studiano e non lavorano prevalgano le donne 27,7% rispetto agli uomini 24,4%, su una popolazione Neet pari a 2.435. Va però anche precisato che ciò è da attribuire in larga parte alla loro maggior

2 A. Rosina, Il “degiovanimento” uccide la società italiana, in Vita e Pensiero, 2012.

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presenza nella componente di indisponibili perchè impegnate in attività di sostegno all'interno della rete familiare (casalinghe e non solo). Secondo alcune analisi su dati del Censimento del 2011 e sull'indagine Istat sulle forze lavoro, a indicare “motivi familiari” come causa dell'inattività economica era il 17% delle donne in età 15-24 e oltre il 40% nella fascia 25-34 (fase nella quale la maggioranza della popolazione femminile forma un'unione di coppia e inizia ad avere figli). La corrispondente voce sul versante maschile non arriva al 5%. Sulle donne pesano quindi in modo persistente i limiti delle misure di conciliazione in aggiunta alle minori opportunità professionali. Negli ultimi anni a essere aumentata è soprattutto la quota dei disoccupati e degli inattivi “attivabili”, dove invece è più rilevante la componente maschile. E' infatti dal 2008 al 2013, come si evince dal Rapporto sul mercato del lavoro 2013-14 del Cnel, che le donne Neet sono lievitate di circa 200 mila unità (con incidenza salita dal 23,2 al 28,1%) contro un valore doppio per gli uomini (dal 15,6 al 24,5%).

Riguardo invece al titolo di studio, la crescita del fenomeno ha riguardato tutti i livelli, ma ha inciso maggiormente su chi ha un diploma superiore, dove la percentuale di Neet è salita oltre il 28% (4 punti sopra il dato dei laureati). Su dieci giovani non studenti e non lavoratori, uno è laureato, cinque sono diplomati e quattro hanno al massimo licenza media. Una ricerca dell'Oecd4 mostra

come, in tutti Paesi, il rischio di cadere nella condizione di inattivo involontario sia nettamente maggiore per chi ha basse qualifiche e competenze. L'Italia fa eccezione perchè chi ha il titolo di studio intermedio si avvicina più a chi ha qualifiche basse che ai laureati rispetto al rischio di diventare Neet.

Un obiettivo delle politiche italiane potrebbe essere quello di riportare i Neet sotto al 15% (come Regno Unito, Francia e Germania). Questo significa, di fatto ridurre la coda davanti ai cancelli di ingresso del mercato del lavoro di circa un milione di under 30. Un risultato che consentirebbe di far tornare il tasso di occupazione in età 15-29 ai livelli pre-crisi(era attorno al 40% nel 2008, contro il 28% del 2014), che comunque già si collocava dieci punti sotto la media europea. Recuperare tali livelli potrebbe essere un obiettivo di medio periodo. In un orizzonte più breve andrebbe preso l'impegno di far scendere i Neet sotto il 20%, il che significa puntare a ridurre lo stock dei giovani che non studiano e non lavorano di circa 600 mila unità.

Da un punto di vista strettamente statistico, è necessario sottolineare una differenza, ossia bisogna distinguere tra l'indicatore Neet e lo Youth unemployment. Questi sono due concetti correlati, ma ci sono importanti discrimini tra i due.

A seguito della definizione OIL, il tasso di disoccupazione è una misura di coloro che non sono occupati, ma hanno cercato un lavoro nel mese precedente e sono in grado di avviarlo nelle

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successive due settimane, cioè registra la quota di popolazione economicamente attiva ma momentaneamente non in grado di trovare un lavoro. Il tasso di disoccupazione dei giovani può essere gonfiato da chi esce dal mercato del lavoro, come ad esempio quelli che decidono di tornare in formazione o chi decide di non cercare un lavoro o credono non ci sia lavoro per loro. Quindi, in entrambi i casi, diventano economicamente inattivi ossia irrilevanti per il calcolo del tasso di disoccupazione. In contrasto, la definizione di NEET cattura tutti i giovani che non hanno un impiego, non sono in educazione o formazione.

Mentre il tasso di disoccupazione giovanile si riferisce solo ai membri economicamente attivi della popolazione che non sono in grado di trovare un posto di lavoro, il tasso di NEET può essere inteso come la percentuale della popolazione totale di giovani che non sono attualmente impegnati nel lavoro, istruzione o di formazione.

Inoltre, il denominatore dei due tassi è diverso. Nel tasso di disoccupazione giovanile il denominatore è costituito solo da coloro che sono economicamente attivi, mentre il denominatore della popolazione NEET è costituito dalla popolazione totale di giovani. Pertanto i dati non sono direttamente comparabili.

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