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Il Centro di Accoglienza per richiedenti asilo di Via Pietrasantina a Pisa, nel contesto dell'Emergenza Nord Africa. Dalla gestione all'autogestione.

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Academic year: 2021

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A tutti i ragazzi del Centro

affinché trovino

il loro posto nel mondo.

“In una non-vita non compi gli anni, non cresci, non cambi” _Amani El Nasif_

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“Nessuno lascia la propria dimora volontariamente o lietamente.

Quando le persone lasciano la loro terra, il luogo di nascita, il luogo

in cui risiedono, ciò significa che vi è qualcosa di profondamente

sbagliato nelle circostanze in cui il loro paese si trova. E non

dovremmo mai sottovalutare tale situazione difficile dei rifugiati che

fuggono attraverso i confini. Essi sono segni, sono sintomi, sono la

prova di qualcosa di molto errato da qualche parte della scena

internazionale. Quando giunge il momento di lasciare la nostra casa,

la scelta è penosa…Può essere una scelta che costa. Tre settimane e

tre giorni dopo che la mia famiglia aveva lasciato le coste della

Lituania la mia piccola sorella morì. La seppellirono al margine della

strada e non potemmo mai ritornare a mettere fiori sulla sua tomba.

E mi è grato pensare che io sto qui come sopravvissuto che parla per

tutti coloro che sono morti al margine della strada, alcuni seppelliti

dalle loro famiglie, altri no.

E per tutti quei milioni che oggi attraverso il mondo non hanno voce,

non possono essere ascoltati. Anch’essi sono esseri umani, anch’essi

soffrono, anch’essi hanno le loro speranze, i loro sogni e le loro

aspirazioni. La maggior parte sogna una vita normale….

Vi prego, quando pensate al problema dei rifugiati, di pensare ad essi

in modo non astratto. Non pensate ad essi nel linguaggio burocratico

di “decisioni”e “dichiarazioni”e “priorità”. Vi prego pensate agli

esseri umani che sono investiti dalle vostre decisioni. Pensate alle vite

in attesa di aiuto".

*

*Dal discorso introduttivo al Convegno Ministeriale degli Stati firmatari la Convenzione del 1951 pronunciato dal presidente Vaira Viki-Freiberga della Lituania, che fuggì dal suo Paese quand’era bambino dopo la seconda guerra mondiale.

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INDICE

Introduzione p. 7

I. Migranti e rifugiati. Aspetti storici, sociologici e giuridici.

1. Le migrazioni nella storia e i fattori di spinta p. 15 1.1. Le migrazioni internazionali come fenomeno sociale p. 18 1.2. Dai migranti come problema, alle migrazioni come

specchio delle società ospitanti p. 22

1.3. La regolamentazione della figura del migrante p. 28 1.4. NOI e LORO: dalla competizione alla convergenza

delle lotte per la giustizia sociale p. 33 2. Movimenti di profughi dall’età moderna ai nostri giorni p. 36

2.1. Dall’asilo come consuetudine tradizionale, all’asilo

come diritto p. 43

2.2. Italia: da Paese di emigrazione a Paese di

immigrazione e d’asilo p. 47

II. La Primavera Araba e l’istituzione dell’emergenza Nord Africa

1. La Primavera Araba e il contesto libico p. 59

2. Il viaggio verso la speranza p. 71

3. L’approdo e l’accoglienza in Italia: il Programma ENA p. 76 4. Accoglienza diffusa: il modello Toscana, superare le tendopoli p. 87 4.1. Ospiti e Comuni coinvolti nella gestione dell’ENA Toscana p. 93

4.2. Gli enti gestori in Toscana p. 94

III. Il Centro di via Pietrasantina: la gestione

1. Convenzione d’apertura: CRI-Pisa e Società della Salute p. 99 2. Lontano dagli occhi lontano dal cuore: una baraccopoli

dietro la torre pendente p. 101

3. Aspetti socio-economici della gestione p. 120

3.1. … a proposito del mediatore culturale e linguistico p. 126 3.2. … a proposito dell’assistenza legale p. 130 3.3. … a proposito di assistenza medica p. 134

3.4. … a proposito del vitto p. 136

3.5. … a proposito del pocket money p. 139

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4. Integrazione: un mondo in una parola p. 149

4.1. Integrazione professionale-lavorativa e tirocini formativ i p. 158

4.2. Integrazione abitativa p. 168

4.3. “Voglio studiare” p. 172

5. Rapporti umani p. 178

5.1. Contratto di accoglienza e Regolamento interno p. 178 5.2. Necessità di cooperazione, non di contrapposizione p. 181

5.3. Operatore come interfaccia p. 191

5.4. «Parlavamo attraverso una finestra …» p. 194

5.5. «Se non ti piace il cibo … » p. 199

5.6. Radio Asilo, rete migrante p. 203

5.7. «Il 300 è andato via» p. 207

6. Guled: vittima dell’inumanità p. 217

7. Mancanze istituzionali: oltre la Croce Rossa p. 228

IV. Dalla fine dell’emergenza all’autogestione

1. Fine dell’emergenza: dal 31 dicembre 2012

al 28 febbraio 2013 p. 253

2. Il lungo giorno dello sfratto p. 260

3. Autogestione: riappropriarsi di sé p. 272

4. Prospettive e speranze p. 292

Conclusioni p. 297

Persone intervistate e date delle interviste p. 311

Bibliografia p. 313

Sitografia p. 321

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Introduzione

Il presente lavoro nasce dal desiderio e dal tentativo di dar voce a coloro i quali possono essere definiti i “muti sociali”, coloro che nella società non hanno voce, che vengono considerati scarti o che comunque vengono esclusi e nascosti agli occhi dei più perché potrebbero mettere in crisi l’idea dominante di società e di benessere. Solo facendo finta che alcune categorie cariche di sofferenza non esistano, le persone si sentono autorizzate a vivere la loro vita senza occuparsi di quei problemi di cui dovrebbero farsi carico se quotidianamente li avessero davanti agli occhi. Ma risolvere un problema è faticoso. Dunque, quando si può, meglio fingere che esso non esista.

Il presente elaborato analizza tematiche relative all’Emergenza Nord Africa, istituita sul territorio nazionale dal governo italiano nel febbraio 2011 a fronte “dell’eccezionale afflusso” di profughi provenienti dalla Tunisia prima e dalla Libia poi in seguito allo scoppio della Primavera Araba, e rappresenta una trasposizione, con approfondimenti e ampliamenti, dei temi affrontati in un documentario sulla gestione e sulla successiva autogestione del Centro d’Accoglienza per richiedenti asilo di via Pietrasantina a Pisa, realizzato insieme al collega di Scienze per la Pace Fabio Ballerini, allo scopo di dare visibilità a una realtà di disagi e sofferenze che si perpetuava nell’ombra.

L’idea del documentario è nata nel marzo 2013 quando, passando in rassegna i vari canali televisivi e sfogliando i vari quotidiani nazionali, ci si era resi conto di come fosse passata pressoché inosservata la notizia della chiusura dell’Emergenza Nord Africa (ENA), ovvero del programma di assistenza ai profughi, una chiusura stabilita per il 31 dicembre 2012 e poi in qualche modo

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prorogata fino al 28 febbraio 2013. Nessuno dei media si era soffermato ad approfondire la situazione, e soprattutto le conseguenze di tale disposizione sulla vita di molte persone, che dopo un anno e mezzo di accoglienza si trovavano in condizioni molto più precarie rispetto al momento dell’arrivo in Italia, allontanate dai Centri d’accoglienza, senza nessun sostegno e senza nessuno strumento per orientarsi e neppure “arrangiarsi” in un Paese rimasto ancora straniero. Si trattava di una notizia esplosiva per il suo contenuto che raccontava un caso di vera e propria disumanità istituzionale; eppure non assumeva la rilevanza che avrebbe dovuto assumere in un Paese civile.

Intanto, già dal 28 febbraio 2013, data che chiudeva definitivamente il progetto, dieci dei giovani migranti ancora presenti nel Centro di via Pietrasantina, con pacifica determinazione, avevano deciso di rimanere all’interno della struttura e di provare ad autogestirla, sostenuti da alcuni studenti di Scienze per la Pace e da attivisti di due associazioni, Africa Insieme di Pisa e Rebeldia, a

cui si aggiunse successivamente il comitato pisano di Emergency dando una grossa mano. Così, se all’inizio l’idea del documentario era stata quella di raccontare le modalità operative della gestione, nonché la rabbia dei migranti in proposito, i quali lamentavano di non aver ricevuto in quasi due anni ciò che, in base alle leggi sull’accoglienza, sarebbe spettato loro; con la scelta dell’autogestione l’obiettivo da inquadrare si è allargato, ed è maturata allora la consapevolezza che il documentario non avrebbe potuto raccontare tutto ciò che valeva la pena di essere raccontato, e che sarebbe stato interessante, quasi doveroso, approfondire l’argomento nei suoi dettagli e nelle sue sfumature. Da questa considerazione è nata l’idea di sviluppare l’argomento attraverso la tesi.

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Per comprendere appieno il punto di vista dei migranti, la loro collera nei confronti delle istituzioni, la loro voglia di lottare e la loro determinazione a non farsi scoraggiare, si è cominciato ad intervistare i ragazzi, a far raccontare loro quella che era stata, dal loro punto di vista, la gestione del Centro d’accoglienza da parte dell’ente gestore che l’aveva presa in carico, ovvero la Croce Rossa. Al racconto delle loro esperienze nel Centro e dei rapporti con gli operatori dell’accoglienza, ben presto hanno cominciato a mescolarsi le storie delle loro vite, cominciate in Ciad, proseguite in Libia e approdate poi in Italia, prima a Lampedusa e infine a Pisa, attraverso quello che essi definiscono “un lungo cammino verso la speranza” (per questo il documentario nato dalle loro storie è stato intitolato “CiaLiLaPi (Ciad, Libia, Lampedusa, Pisa). Il lungo cammino

verso la speranza”1). Sono storie dunque che cominciano molti anni prima dell’arrivo in Europa, e conoscerle aiuta a dare alle persone che hanno lasciato il proprio Paese d’origine la giusta dimensione di migranti e non di immigrati. Il termine immigrato, infatti, cancella il passato, le radici, perché si è immigrati nel momento in cui si arriva nel “nuovo mondo”, nella nuova vita che il Paese straniero riconosce o nega, e che non è comunque tutta la vita, perché tutta la vita comprende anche quel passato nel Paese d’origine che nel Paese d’arrivo, inconsapevolmente per i più e consapevolmente per altri, viene annullato insieme all’identità e alla possibilità di comprendere dei migranti le idee, le scelte, i comportamenti, il loro essere persone.

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Nella seconda metà dello scorso luglio il documentario è stato presentato in Sicilia, prima a Cinisi e Belpasso, nei campi di lavori che Libera organizza nei territori confiscati alla mafia e datigli in gestione; poi a Marsala, in occasione del Raduno nazionale dei giovani di Libera. Il documentario ha scopo divulgativo e di finanziamento del Centro di via Pietrasantina.

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Molto, nella scelta di approfondire e completare il documentario con la tesi, ha contato il rapporto d’amicizia nato nel tempo soprattutto con i ragazzi ciadiani che, superate le prime riserve dovute in alcuni alla timidezza, in altri alla paura di essere riconosciuti nel Paese di provenienza dove le famiglie avrebbero potuto subire violente ritorsioni2, hanno regalato con i loro racconti preziose testimonianze di vita vissuta, motivati dalla speranza di far acquistare alle loro storie di sofferenza quella visibilità che avrebbe potuto informare e sensibilizzare chi nulla sapeva di loro e della difficile condizione dei profughi in generale.

La nascita del rapporto d’amicizia e il coinvolgimento personale che ne è derivato, hanno condizionato il metodo con cui l’argomento in questione è stato studiato e trattato, che inizialmente si è basato sull’ascolto, mediante interviste strutturate, delle esperienze dei protagonisti dell’accoglienza, beneficiari, gestori e sostenitori (singole persone e rappresentanti di associazioni), attraverso i cui racconti in prima persona (dei quali hanno autorizzato l’utilizzo3

), gli argomenti prendono consistenza; poi si è spostato su strumenti d’indagine tipici dell’etnografia sociale4, quali l’intervista discorsiva libera e l’osservazione partecipante che, adottando un punto di vista “intrusivo” (shadowing), hanno

permesso di catturare anche quei ricordi che riaffioravano nelle persone in modo frammentario, e in situazioni assolutamente informali (quale fu, ad esempio, il

2

Dice infatti Azeen «io la mia storia la vorrei raccontare al mondo intero, raccontare chi è il mio

presidente, ma ho paura». Per questo alcuni volti nel documentario sono stati nascosti o oscurati,

e alcuni nomi modificati.

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Tutti gli intervistati hanno rilasciato la liberatoria che ha consentito l’utilizzo delle intervite.

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L’etnografia sociale si propone la “descrizione di un particolare mondo sociale in base a una

prospettiva non scontata. Fare etnografia non significa semplicemente descrivere “realtà” sociali (relazioni, mondi, professioni, istituzioni), ma farlo in base a presupposti che ne illustrino aspetti poco evidenti o comunque non ovvi” (A. DAL LAGO, R. DE BIASI, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Bari, 2002, p. X).

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viaggio fatto insieme in macchina per partecipare ad una serata organizzata a Mulazzano/LO per ascoltare storie di migranti; oppure la serata allo stadio di San Siro in attesa che iniziasse la partita; o altre manifestazioni culturali che con loro ho condiviso; o magari sorseggiando un tè seduti sull’erba nel cortile …). Dopo il 28 febbraio, infatti, ho vissuto ogni giorno con loro per circa tre mesi, aiutandoli a programmare l’autogestione e a metterla in pratica. E’ in questa fase che il rapporto si è fatto più stretto e che i ragazzi mi hanno raccontato gli aspetti più personali e più intimi delle loro storie, e anche quelli più tristi da ricordare. Ed è in questa fase, appunto, che da osservatore esterno sono diventato un osservatore partecipante. Quando racconto dell’autogestione, infatti, parlo anche di me e

dunque il racconto smette di essere impersonale.

Per avere un quadro preciso del contesto in cui l’oggetto dell’analisi era inserito, si è reso necessario approfondire, attraverso la lettura di testi normativi e divulgativi specifici, la conoscenza dell’ENA, nelle sue finalità, nei suoi aspetti organizzativi e nelle sue pratiche. E poiché l’argomento richiama il fenomeno più generale dei movimenti di profughi, che all’interno delle migrazioni internazionali vanno occupando uno spazio sempre più ampio, è sembrato opportuno, per contestualizzare il più compiutamente possibile il tema specifico e dare la misura della vastità, geografica e temporale, di un fenomeno di cui il Centro pisano rappresentava una manifestazione periferica, aprire la trattazione con una panoramica sulle migrazioni internazionali. Ne sono stati illustrati, sia alcuni aspetti storici per sottolineare l’infondatezza dell’idea che sia solo questo momento storico a produrre “ondate” di migranti che “invadono” il nostro territorio per “rubare il lavoro a noi e alle nostre generazioni future”; sia alcuni

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aspetti giuridici per verificare la risposta istituzionale data nel tempo al manifestarsi del fenomeno; e sia alcuni aspetti sociologici per far emergere come le migrazioni siano il prodotto dell’interazione politico-economica tra i Paesi che poi diventano ospitanti e i Paesi di provenienza dei flussi migratori, e non siano scelte né individuali, né casuali.

Nel contesto dell’Emergenza Nord Africa, l’obiettivo è stato poi puntato sulla risposta toscana di accoglienza. Si tratta di una risposta teoricamente pregevole e innovativa nel suo tentativo di superare l’idea tradizionale delle tendopoli e di aree di grande concentrazione di profughi per privilegiare il modello più umano di “accoglienza diffusa”, realizzata tramite l’istituzione di Centri d’accoglienza piccoli o di medie dimensioni. Tuttavia, come testimoniano la gestione del Centro pisano di via Pietrasantina e altri studi autorevoli fatti sull’esperienza toscana, la traduzione pratica di questa risposta ha rivelato limiti notevoli che, nell’ottica di un’accoglienza che possa a buon diritto definirsi tale, non possono essere accettati.

Tanto ci sarebbe ancora da scoprire, ma ciò che qui ho riportato è tutto quello che ho scoperto finora. Il lavoro mi ha dato tanto. Mi ha aiutato a crescere. A contatto con la determinazione, i valori e la realtà di persone come queste, il mio senso della vita è maturato. Ho conosciuto da vicino un mondo, quello dei migranti, a cui fino a quel momento avevo guardato con quella superficialità che spesso ci caratterizza finché non incontriamo faccia a faccia l’”oggetto” del nostro pensiero. Mi ha fatto capire che “una Persona è la sua vita. Ciò che è adesso, è il frutto del suo passato. Impariamo ad ascoltarla: ci si aprirà un mondo di colori”.

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Ancora una cosa tengo a sottolineare, che nella parte relativa alla gestione del Centro d’accoglienza, ho cercato di dare una lettura il più possibile aderente alla realtà dei fatti, senza alcuna intenzione di voler giudicare le persone, né sottovalutare l’impegno di quegli operatori che hanno lavorato per rendere l’accoglienza la miglior accoglienza che potesse essere immaginata dal loro punto di vista e nelle condizioni date. Ciò non esclude tuttavia l’eventualità di errori involontari nell’interpretazione di alcuni fatti o parole, di cui mi scuso in anticipo.

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I. Migranti e rifugiati. Aspetti storici, sociologici e

giuridici

“Ogni individuo ha il diritto di cercare e godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni.”

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, (art. 14, 1)

1. Le migrazioni nella Storia e i fattori di spinta

Le migrazioni dei popoli sono un fenomeno persistente durante tutta la storia dell’umanità. Forse non è casuale che la storia dell’umanità, secondo la mitologia biblica, abbia inizio con un episodio di esilio: la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Migliaia di anni dopo, due altri episodi di esilio avrebbero segnato la vita dei fondatori di due delle tre grandi religioni monoteiste più diffuse nel mondo: la fuga della Sacra Famiglia dalla Palestina in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode e, nel 622 d.C., l’Egira, la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina, punto di partenza della reale propagazione dell’Islam.

Nel corso dei secoli singole persone e popoli interi, sotto la spinta di eventi epocali, hanno dovuto migrare. Iniziarono gli uomini della Preistoria, abbandonando ambienti inospitali per cercarne di più propizi, di più fertili o dove la cacciagione fosse più abbondante. Continuarono i popoli della storia antica, periodo in cui le migrazioni conobbero momenti e luoghi di particolare intensità, come quando i Greci colonizzarono l’Italia meridionale, o i Romani romanizzarono una gran parte dell’Europa, o ancora i barbari venuti dall’Asia si

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insediarono nell’Europa centro-settentrionale. Ancora durante il Medioevo grandi migrazioni di popoli si diressero verso l’Europa, come quelle degli Arabi e dei Turchi, così che oggi la popolazione europea, a dispetto di chi ancora sostiene la “superiorità” di noi europei, è il risultato della convivenza lunghissima con popolazioni di origine africana ed asiatica.

Anche gli Europei a partire dal XVI secolo, dopo le grandi scoperte geografiche, cominciarono ad emigrare. Ma fu soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che in molti Paesi dell’Europa, sia per l’esiguità delle risorse rispetto a una popolazione in costante crescita, sia in conseguenza di eventi geopolitici, grandi masse di migranti si diressero verso il Canada e gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile, il Sudafrica e l’Australia, dove molti finirono con l’insediarsi stabilmente, contribuendo alla formazione di una popolazione anch’essa eterogenea.

Particolarmente rilevante è diventato il fenomeno nella nostra epoca, connotato, come vedremo, da un’ampia estensione e da modalità specifiche.

Tutti gli spostamenti, di ieri e di oggi, sono sempre stati determinati da fattori di spinta molteplici nella loro tipologia, in quanto riconducibili, nel migliore dei casi, a curiosità, ambizione e desiderio di scoperta, più spesso a necessità e bisogni (aumento demografico e diminuzione di risorse naturali; catastrofi naturali; costrizione diretta o indiretta da poteri umani, politici ed economici…). Essi hanno sempre inevitabilmente prodotto, e continuano a farlo, trasformazioni sociali e istituzionali, mutamenti nei valori, adattamenti dei migranti alla società ricevente e viceversa. Hanno anche prodotto profonde sofferenze, comuni a tutti i soggetti coinvolti, anche se in tempi diversi nell’eterno gioco delle parti;

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sofferenze per lo sradicamento dalla propria terra; per la clandestinità a cui si è spesso costretti; per la vita misera nei sobborghi degradati della periferia di grandi città; per lo sfruttamento e i pregiudizi di cui sono vittime. Considerati intrusi, abusivi che “pretendono” lavoro, diritti e rispetto “in casa d’altri”, i migranti di

ieri (tra i quali anche noi italiani) e i migranti di oggi, oggetto di discriminazioni ed emarginazione, vedono troppo spesso calpestata la propria dignità di esseri umani.

Oggi le dimensioni crescenti delle migrazioni internazionali si manifestano, oltre che sotto il profilo numerico, anche in rapporto a quello geografico: dalla fine della guerra fredda quasi nessun Paese del mondo è stato risparmiato dal fenomeno. I Paesi dell'Est europeo, dai quali, prima del crollo del comunismo l'espatrio era vietato, fanno registrare attualmente grosse correnti migratorie verso le aree più sviluppate dell'Occidente.

L'OIL5 ritiene che oltre cento Stati possano oggi essere classificati come Paesi di forte immigrazione o emigrazione. Circa un quarto di tali Paesi invia e riceve allo stesso tempo gruppi rilevanti di migranti, fenomeno che fa sparire la vecchia distinzione tra Paesi di emigrazione, di immigrazione e di transito, e oggi “forse nessuna parte del mondo incarna meglio del bacino del Mediterraneo il

venir meno di questa distinzione”6.

5

L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) è un'agenzia specializzata delle nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani internazionalmente riconosciuti, con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro in tutti i suoi aspetti.

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KOSER K., Le migrazioni internazionali, Universale Paperbacks, Il Mulino, Bologna 2009, p. 18.

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Una categoria particolare di migranti è quella dei profughi7 che, in fuga dal terrorismo politico, dai conflitti armati e dalle violazioni dei diritti umani, chiedono asilo ad altri Paesi, percepiti come più affidabili e più sicuri (per quanto ad essi estranei, e lontani dai loro affetti e dalle loro radici), e la cui massima aspirazione è quella di ottenerne ospitalità e protezione attraverso il riconoscimento dello status di rifugiato.

Di questa categoria si tratterà in seguito, dopo che saranno stati brevemente sviluppati alcuni aspetti sociologici e giuridici delle migrazioni internazionali.

1.1. Le migrazioni internazionali come fenomeno sociale

Da anni i dibattiti sulle migrazioni internazionali continuano a fervere in tutta Europa e si trovano al primo posto nell’agenda politica di molti Paesi del mondo. Esse attirano l’attenzione dei media e sono diventate un argomento d’interesse pubblico. Tuttavia il problema non è ancora abbastanza conosciuto nella sua vera realtà e in tutte le sfumature delle sue motivazioni e delle sue dinamiche; e forse è per questo che l’atteggiamento nei confronti dei migranti si mantiene oppositivo da parte di varie componenti della società, e che le condizioni di vita, loro e dei loro discendenti, non migliorano. Resta ancora molta confusione nell’uso e nella comprensione di concetti, termini, ed espressioni quali richiedenti asilo, rifugiati, immigrato clandestino o irregolare, migrazione

temporanea e permanente, volontaria e forzata, economica e di rifugiati.

Le migrazioni internazionali presentano oggi diversi aspetti spesso intrecciati tra loro: quello della globalizzazione, nel senso che ad essere

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interessato dal fenomeno è un numero sempre maggiore di Paesi, intesi come Paesi sia di provenienza sia di arrivo; quello dell’accelerazione, in quanto si registra un crescente aumento dei movimenti migratori, anche per l’incremento dell’incidenza dei rifugiati; quello della differenziazione nella composizione dei flussi, sotto il profilo demografico e sociale, e rispetto alle motivazioni; quello della feminizzazione, sia nel senso dell’incremento della componente femminile, sia nel fatto che spesso sono le donne l’avanguardia dell’esperienza migratoria; e quello, infine, della politicizzazione, ovvero della regolamentazione legislativa dei migranti da parte dei Paesi ospitanti i quali, peraltro, si caratterizzano attualmente per la scelta di politiche restrittive di chiusura.8

E’ stato calcolato che nel primo decennio di questo terzo millennio una persona ogni 35 è un migrante, rifugiato o migrante economico, comunque persona che vive in un Paese diverso da quello di origine9. Le aree di maggiore attrazione sono l’America del Nord e l’Europa, nella quale vivono attualmente circa 25 milioni di migranti, di cui solo una parte minima, circa un milione e mezzo, si trova in Italia10; quelle di maggiore provenienza sono i Paesi delle sponda sud del Mediterraneo e quelli dell’est europeo.

Secondo Stefhen Castles, non è solo la povertà in termini generici a determinare la spinta ad emigrare, ma una serie di squilibri e di contraddizioni.

8“Il carattere restrittivo delle politiche migratorie si esprime innanzitutto in un aumento

progressivo dei requisiti e delle condizioni che i Paesi di immigrazione pretendono dai loro potenziali immigranti per l’ammissione e la permanenza nel Paese” (MACIOTI-PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari 2010, p.6).

9Si parla di circa il 3% della popolazione mondiale, ma “questa percentuale modesta è in realtà

l’espressione di un fenomeno che interessa tutti i Paesi e la cui rilevanza sociale è ben superiore a quella indicata dalle cifre” (MACIOTI-PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari 2010, p.3).

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Un numero inferiore a quello degli emigrati italiani che risiedono ormai stabilmente in Europa e in Paesi extraeuropei.

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Egli sostiene, ad esempio, che l’inserimento dei Paesi poveri nel mercato mondiale, favorito, se non deciso, dai Paesi ricchi “ha tali effetti di sconvolgimento delle strutture preesistenti, che il modo di vivere precedente

diventa impraticabile e le migrazioni appaiono come l’unica soluzione”11. I

processi di modernizzazione dell’agricoltura determinati dalla rivoluzione verde12

, inoltre, hanno espulso dal settore agricolo i contadini più poveri che, impossibilitati finanziariamente ad adeguarsi alle nuove tecniche agricole e a dotarsi degli strumenti necessari per praticarle, si sono visti costretti ad emigrare13. E ancora, il processo di sviluppo in atto nei Paesi poveri, sostenuto da attori appartenenti ai Paesi ricchi, se da una parte ha positivamente determinato un aumento della scolarizzazione, dall’altro non ha promosso un aumento parallelo delle opportunità occupazionali corrispondenti ai titoli di studio ottenuti, per cui anche “i cervelli” hanno dovuto emigrare e spesso sprecare le loro competenze in condizioni di sottoccupazione. Spesso si risiede in un Paese diverso dal proprio per ragioni di tipo politico; è questo il caso dei rifugiati, che fuggono da situazioni disperate, da guerre o persecuzioni etniche e religiose.

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CASTLES S., Ethnicity and Globalization, Sage, London 2000, p. 83 (Stephen Castles è professore di Sociologia all’Università di Sydney e direttore dell’Istituto dell’Emigrazione Internazionale (IMI) all’Università di Oxford. Sociologo ed economista politico, è specializzato in questioni globali come l’emigrazione e lo sviluppo, con particolare attenzione al continente africano. È stato direttore del Centro studi per i rifugiati all’Università di Oxford dal 2001 al 2006).

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Il termine rivoluzione verde definisce un approccio innovativo ai temi della produzione agricola che, attraverso l'impiego di varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci, acqua e altri investimenti di capitale in forma di mezzi tecnici, ha consentito un incremento significativo delle produzioni agricole in gran parte del mondo, e soprattutto nei Paesi poveri. Essa ha rivelato col tempo delle criticità, ed è oggi in corso una sua revisione.

13

Una simile dinamica si era già verificata nell’ambito del settore agricolo a fine ottocento, quando, paradossalmente, all’incremento della popolazione e della produzione agricola, corrispose lo sgretolamento delle strutture tradizionali basate sull’industria domestica, a favore della concentrazione di terre e produzioni nelle mani di poche e grandi aziende (antenati delle moderne multinazionali), incentivata dagli stessi governi. Questo rese difficoltosa la sopravvivenza nelle campagne e determinò emigrazione e proletarizzazione dei contadini (SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza

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E invece, quando si analizzano le migrazioni internazionali si tende tradizionalmente a ricondurre le ragioni della spinta migratoria unicamente a situazioni politico-economico problematiche caratterizzanti i Paesi d’origine, come se i Paesi di destinazione fossero semplicemente protagonisti passivi, se non addirittura vittime, di questo processo “evolutivo” dai risultati spesso “involutivi”.

In realtà, come diversi studiosi dimostrano, le migrazioni internazionali sono il prodotto dell’interazione tra Paesi che poi diventano ospitanti, solitamente ricchi e a bassa densità demografica, e Paesi di provenienza, solitamente poveri, o più poveri, e ad alta densità demografica14. Essa non è mai casuale né riconducibile a scelte individuali, ma è un fenomeno precisamente strutturato, funzionale a strategie politiche ed economiche. Fondamentale è sempre stato, ad esempio, il ruolo che la domanda di lavoro e il bisogno di manodopera dei Paesi ricchi hanno avuto ed hanno tuttora nell’attivare i processi migratori, domanda di lavoro e bisogno di manodopera oggi incrementati dalla tendenza ormai diffusa dei Paesi economicamente sviluppati a “specializzare” i propri lavoratori. Come afferma infatti N. Harris, “quanto più la forza lavoro dei Paesi sviluppati si

specializza, tanto più necessario diviene il supporto di lavoratori generici”15 che,

legalmente o illegalmente, provengono dai Paesi più poveri; e aggiunge che proprio per questa ragione le frontiere “sono chiuse solo a metà, nel senso che un

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“I movimenti migratori internazionali non nascono per il semplice fatto che alcuni individui

desiderano migliorare le proprie condizioni di vita, bensì sono conseguenza di una complessa serie di processi economici e geopolitici” da SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza europea, Feltrinelli, Milano 1999, p. 13 (Saskia Sassen,

nata nel 1947, è una sociologa ed economista statunitense, nota per le sue analisi su globalizzazione e processi transnazionali).

15

HARRIS N., I nuovi intoccabili, Il Saggiatore, Milano 2001, p. 43 (Nigel Harris, nato nel1935, è un economista britannico specializzato in economia delle aree metropolitane, consulente presso il Centro di politica europea Bruxelles sul tema delle migrazioni internazionali).

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certo numero di immigrati riesce a filtrare comunque attraverso le maglie del

protezionismo. [Cosa che] non avviene per caso”16.

1.2. Dai migranti come problema, alle migrazioni come specchio delle società ospitanti

Il tema migranti, in genere, viene percepito e presentato nei Paesi d’arrivo come un problema, un’invasione, una minaccia da controllare più che da governare. Esso è circondato da una cornice oppositiva, al cui interno l'ostilità nei confronti degli stranieri è spesso generata ad arte da manipolazioni mediatiche, che legando la mancanza di sicurezza nelle città alla presenza degli immigrati, stimolano il pregiudizio e l’aggressività. L’ostilità può diventare occasione di facile profitto politico17; fa aumentare in senso restrittivo l'apparato normativo in materia di controlli e di norme per l'integrazione18; impone la regolazione selettiva delle frontiere a scopo economico come pensiero unico; ed enfatizza le differenze culturali e religiose. Tutto ciò permette di nascondere più facilmente le crepe della solidarietà nazionale e di trovare per la coscienza collettiva giustificazioni capaci di rasserenarla.

16

MACIOTI-PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari 2010, p.18.

17

Si pensi, in Italia, alle dichiarazioni xenofobe di esponenti della Lega Nord, accolte con favore dal proprio elettorato, manipolato ad arte da certa stampa e dai discorsi di certi rappresentanti politici istituzionali.

18

Sempre in Italia, la legge Bossi-Fini, lasciando inalterato l’impianto del precedente Testo Unico (che aveva inglobato e armonizzato le leggi in materia di immigrazione emanate fino a quel momento, comprese le leggi Martelli e Turco-Napolitano) prevedeva politiche sociali per gli immigrati; ma, tagliando nel contempo i fondi ad esse destinati, le rese impraticabili. Col terzo governo Berlusconi, l’impianto del T.U. fu progressivamente smantellato e con esso le politiche sociali per l’immigrazione. Il Pacchetto Sicurezza, poi, insistendo sul nesso immigrazione/sicurezza, immigrazione/devianza, ha spinto l’opinione pubblica in direzione anti-immigrati. Insomma, gli ultimi provvedimenti legislativi hanno introdotto un “diritto a parte” per gli immigrati, che in qualche modo ha istituzionalizzato la discriminazione, alimentando la cultura razzista e xenofoba. Si pensi all’episodio che recentemente ha riguardato il ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, offesa ripetutamente dai leghisti.

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23

E invece sarebbe più opportuno e vantaggioso per tutti guardare al fenomeno nella sua vera realtà di fatto sociale, attribuendone correttamente cause e responsabilità, e maturare di conseguenza un atteggiamento inclusivo e lungimirante. Sostiene a questo proposito Saskia Sassen, «governare in modo lungimirante le migrazioni è possibile, e dipende in primo luogo dalla capacità di

inquadrarle correttamente nei processi di globalizzazione»19. Si tratterebbe

innanzitutto di riconoscere quanto diversi e numerosi siano gli attori che creano le condizioni affinché nei Paesi meno sviluppati si maturi la scelta di emigrare; di individuare nelle dinamiche della politica economica dei Paesi ospitanti le ragioni di attrazione dei lavoratori dei Paesi più poveri; di comprendere quanto siano mobili e in parte invisibili i confini di oggi; di considerare la migrazione ben governata come una risposta possibile, insieme ad altre, al declino demografico europeo20. Eppure poche politiche sembrano oggi tanto prigioniere di stereotipi teorici e perversioni pratiche quanto quelle che hanno per “oggetto” i migranti.

«Le politiche di tutti i Paesi industrializzati contengono due rappresentazioni inesatte dei processi migratori, cosa che spiega perché i nostri

governi passino il loro tempo a voler controllare l'immigrazione senza mai

19

Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

20

Secondo le previsioni dell'International Institute for Applied Systems Analysis di Vienna, alla fine del secolo in corso in Europa vivranno 80 milioni di persone in meno e il calo potrebbe anche accelerare. Un declino demografico avrebbe conseguenze, ad esempio, sul numero degli attivi in grado di pagare le pensioni di una popolazione anziana in aumento sul totale. «Si tratta

di tendenze che possono essere gestite in molti modi […]. Ad esempio, si può intervenire sul sistema socio-economico, riducendo i costi del prolungamento della vita media, ossia diminuendo le pensioni, spostando in avanti l'età pensionabile, riducendo infrastrutture e servizi socio-sanitari in quantità e qualità [..].Per queste ragioni, sono certa che le migrazioni saranno un elemento della risposta alla sfida demografica. Se questo è vero, sembra ragionevole e vantaggioso per tutti cercare dei modi realistici per governarne l'immigrazione, invece che accontentarsi di controllarla», da Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

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riuscirci»21. Tali rappresentazioni hanno prodotto, secondo la Sassen, quel

concetto errato di immigrazione come fenomeno indipendente da tutte le attività dei Paesi di destinazione, per cui sarebbero solo gli immigrati nel loro insieme a costituire il fenomeno migratorio, portandone per intero la responsabilità. In realtà, la schiera degli attori coinvolti nelle migrazioni internazionali è ben più ampia e variegata.

In base alla prima rappresentazione, povertà e disoccupazione sarebbero le cause prime dell'emigrazione. Ma se le migrazioni fossero riconducibili esclusivamente al desiderio individuale di superare la povertà e di una vita migliore, i Paesi di destinazione sarebbero estranei al fenomeno migratorio, semplici osservatori passivi che non avrebbero altra possibilità se non quella di accoglierli o, al contrario, di chiudere le frontiere. Non appena i politici e l'opinione pubblica si convincono di questo schema, non restano molte opzioni: a fronte di una prevista, in realtà presunta “invasione di massa”, sembra giustificato chiudere tutte le frontiere, e ragionare in termini di controllo più che di governo delle migrazioni. La xenofobia e il razzismo sono soltanto le manifestazioni più estreme e visibili di questo atteggiamento, che nasce proprio nella cultura politica dei Paesi più sviluppati i quali, in forme più o meno marcate, tentano di “chiudere le porte” verso i migranti di qualunque tipo.

In realtà la situazione è molto più complessa. Afferma Saskia Sassen «per il singolo la migrazione è una scelta personale, anche se la possibilità di migrare

come tale è prodotta socialmente. Questo aspetto passa in genere sotto silenzio,

perché i flussi migratori presentano caratteristiche esteriori comuni: sono

21

Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

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costituiti essenzialmente, anche se non del tutto, da persone povere, originarie di

Paesi meno sviluppati, con un livello di formazione medio-basso, disposte ad

accettare i posti di lavoro meno ricercati»22. Da questa fenomenologia deriva,

come si diceva, l'idea che siano la povertà e la disoccupazione le molle decisive della decisione migratoria, idea contraddetta però dalla realtà dei fatti: molti Paesi con tassi elevati di povertà e disoccupazione (ad esempio molti Stati africani), infatti, non sono per niente Paesi d'emigrazione; e inoltre in Stati in cui la povertà è atavica, la migrazione al contrario è un fenomeno recente. Affinché la povertà si traduca in una spinta a migrare, occorre insomma che intervenga tutta una serie di condizioni esterne con cui essa vada a coniugarsi, e anche in quel caso spesso avviene che solo una minoranza di persone appartenenti alle classi meno favorite e medie facciano questa scelta. Che le migrazioni non costituiscano una via d'uscita indifferenziata dalla povertà e dalla disoccupazione lo mostra anche la geografia specifica dei flussi, sia che ricalchi i passati rapporti coloniali, sia che segua i loro nuovi legami nell'economia globalizzata. Il livello di sviluppo asimmetrico è certamente condizione fondamentale per l’emigrazione, ma non è sufficiente a spiegare l’intero fenomeno. Sono infatti le condizioni presenti nei Paesi di destinazione che influenzano dimensioni e durata delle migrazioni. Non si tratta perciò di processi ad essi esogeni e rispetto ai quali non hanno possibilità d’intervento. Solo riconoscendo ciò, essi si convincerebbero a mettere in atto politiche d’immigrazione mirate, non a “respingere le invasioni”, ma a governale come flussi migratori strutturati.

22

Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

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La seconda rappresentazione a cui fa riferimento la Sassen, poi, impedisce di includere nel ragionamento altri attori che svolgono, invece, un ruolo fondamentale nelle storie di migrazione internazionale: le multinazionali, che contribuiscono a internazionalizzare la produzione, sollecitando gli spostamenti dei piccoli produttori o delle piccole imprese locali; il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che, dopo aver condotto una politica irresponsabile di fornitura di crediti ai Paesi poveri, spesso tra l’altro in balia di governi corrotti e oppressivi, li tengono ora stretti nella morsa di un debito infinito, che li ha obbligati a tagliare gli investimenti nelle politiche sociali e di sviluppo, imprimendo una svolta regressiva e dunque un’ulteriore spinta all’emigrazione, e che con le loro “politiche di austerità” e con i loro “programmi di aggiustamento strutturale” contribuiscono ad aprire i Paesi poveri al saccheggio da parte delle imprese straniere, distruggendone i settori dell'economia tradizionale; e ancora l'Unione Europea e gli Stati Uniti, con le loro politiche protezioniste in materia di agricoltura. Sono questi attori a far pressione, in un modo o nell'altro, sui poveri come sulla classe media, affinché cerchino strategie alternative di sopravvivenza, come la migrazione, nazionale o internazionale.

E anche quella del profugo che scappa dalla guerra può essere considerata una scelta sociale, perché la guerra, quando è civile, quando è fratricida (come le tante guerre cicliche e dimenticate dell’Africa e dell’Asia) è un fatto sociale, che può nascere da differenze etniche o religiose; da squilibri sociali nel godimento di risorse e diritti; da rivendicazione di libertà o territori; da dinamiche di esclusione a danno di minoranze; da lotte tra fazioni per l’accaparramento del potere, lotte che non si arrestano fino a che l’una non elimina l'altra, e le cui responsabilità

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27

affondano spesso nelle passate politiche coloniali o nelle presenti politiche di dominio dei Paesi ricchi, ancora una volta “registi” e “produttori” di scenari di morte e di fughe.

Pertanto, l'immagine dell'immigrazione secondo la quale essa avrebbe come suo unico movente la fuga dalla povertà e dalle persecuzioni subite nel Paese d'origine, che è poi la più diffusa, è da demitizzare in quanto, riprendendo una teoria classica e superata dell’immigrazione, tutta centrata sul concetto di scelta personale in cerca di una vita migliore, non rende pienamente ragione del

fenomeno nella sua complessità, poiché "le migrazioni internazionali sono contestualizzate in più vasti processi sociali, economici e politici, [e] la decisione

di migrare è prodotta socialmente"23.

Una ricostruzione storica e sociologica dei movimenti migratori che negli ultimi due secoli hanno attraversato i confini europei, non può che cancellare quella rappresentazione di “invasione di massa”24

che si è fossilizzata nell'immaginario collettivo, mostrando come il fenomeno debba essere ricondotto a costanti strutturali, radicate nella geopolitica e nelle trasformazioni socio-economiche dei Paesi d’arrivo25

. Le migrazioni internazionali rispondono dunque

23

SASKIA SASSEN, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine

mondiale, Il Saggiatore, Milano 2002, p.82.

24

Quando nel 1996 Saskia Sassen pubblica Migranti, coloni, rifugiati, il suo primo studio interamente dedicato alle migrazioni in Europa, l'opinione pubblica era in preda a un vero panico

da invasione: da alcuni anni profughi e immigrati provenienti dall'ex blocco socialista,

dall'Africa e più in generale dal Sud del mondo, stavano raggiungendo in massa le società del benessere e della "libertà".

25Paradigmatica in proposito è l’analisi che la Sassen fa sull’immigrazione statunitense.

Utilizzando le teorie classiche dell’immigrazione, risulterebbe infatti inspiegabile il fatto che gli investimenti esteri verso Paesi in via di sviluppo (in particolare asiatici e centro americani) creino, contemporaneamente, un innalzamento del livello occupazionale di tipo industriale e del Pil medio pro capite, e un’intensificazione del flusso migratorio, indirizzato proprio verso il Paese che sostiene l’investimento. La sua analisi, nel tentativo di comprendere l’apparente contraddittorietà di questo fenomeno, indagandone più a fondo la dinamica, mette in luce come

(28)

28

a costanti sistemiche e quindi la metafora dell'”invasione” non corrisponde alla realtà del fenomeno, ma piuttosto ad un'euristica della paura tesa alla creazione di facili consensi politici. La sproporzione nella distribuzione delle ricchezze a livello planetario fornisce certamente un motivo sostanziale alle moderne migrazioni, come già abbiamo visto, ma non esaustivo.

Non riconoscere questo genere di interdipendenze, isolare il fenomeno come un’eventualità autonoma messa in atto esclusivamente dai migranti, conduce a gravi incomprensioni, e dunque a politiche difettose che, nell’immediato, disattendono i diritti dei migranti, ma che, in una prospettiva lungimirante, finiranno col danneggiare la società nel suo complesso.

1.3. La regolamentazione della figura del migrante

Per quanto la funzione di controllo dello Stato sull’immigrazione sia diventata prevalente a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, fu nella seconda metà del XIX secolo che le Nazioni assunsero un ruolo innovatore nella gestione del fenomeno, sviluppando nuovi modelli d'immigrazione complessivamente accoglienti, per quanto fortemente distinti da Stato a Stato.

quella migrazione non sia data dalla sola povertà, ma venga prodotta socialmente, nell’interazione con la cultura americana. In generale il meccanismo di industrializzazione dei Paesi poveri, che ha un carattere di natura transitoria e non costituisce il primo passo verso migliori opportunità di impiego ma è un "vicolo cieco", prevede per gli investitori una serie di facilitazioni fiscali e di deroghe alle normative ufficiali in materia di diritto del lavoro. La forza lavoro che viene impiegata dagli appaltatori che agiscono per conto delle grandi società multinazionali presenta caratteristiche specifiche: si tratta, per lo più, di giovani donne, a causa del minore costo del lavoro costituito da questa categoria e della tipologia del lavoro prestato. Questa massiccia raccolta di manodopera industriale femminile all’interno di contesti socio-economici a prevalente conduzione agricola produce uno stravolgimento dell’economia complessiva dei villaggi (causata dall’emigrazione interna e dalla diminuzione della popolazione femminile), un accentramento verso le EPZ (le zone di produzione per l’esportazione, nelle quali vengono impiantati gli stabilimenti dagli appaltatori) e una forte ibridazione di tipo culturale con il mondo occidentale. Quando queste lavoratrici vengono espulse dal ciclo di produzione si rivela, per loro, impossibile il ritorno alla precedente situazione di vita nel villaggio originale, e l’emigrazione di tutto il nucleo familiare diviene l’unica soluzione possibile.

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29

Sul finire del secolo, però, la situazione cambiò, e l'Europa si caratterizzò nel contempo, da un lato per grandi flussi migratori di rifugiati (tra il 1880 e la prima guerra mondiale, per fare un esempio, due milioni e mezzo di Ebrei emigrarono dalla Russia verso dell'Europa), dall'altro per una politica della cittadinanza che incrementava i meccanismi di esclusione politica. Nell'arco di tempo che abbracciò le due guerre mondiali, il ruolo degli Stati nazionali fu molto repressivo. Si era aperto in quel periodo una stagione di fughe di massa, in cui profughi e migranti economici appaiono indistinti e che, peraltro, mette in luce come la paternità storica del fenomeno migratorio attribuita alle grandi migrazioni dal Sud del Mondo, sia un errato luogo comune, perché “è, invece, un prodotto eminentemente europeo, coevo alle modificazioni strutturali verificatesi negli stati

europei agli inizi del XX secolo”26. Con la creazione dei moderni Stati nazionali,

dunque, il concetto di straniero mutò sensibilmente. Gli stranieri divennero individui appartenenti a un gruppo “a parte”, privati dei diritti di cittadinanza, che lo Stato, come sostiene Hannah Arendt, aveva il potere e la legittimazione istituzionale per escludere dalla società civile27.

Nel secondo dopoguerra la Germania ad esempio privilegiò l’immigrazione temporanea, che favoriva una permanenza limitata nel tempo, anticipando quel concetto d'integrazione parziale che ancora oggi trova molti consensi, nonostante si sia rivelato fallimentare. La Francia, al contrario, con la sua mission civilisatrice, si distinse per una concezione assimilatoria, volta alla

26

SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza europea, Feltrinelli, Milano 1999, p. 93.

27

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30

naturalizzazione degli stranieri. L’Italia, invece, diventò in quegli anni uno dei Paesi a più forte emigrazione.

In particolare nel periodo che seguì le due guerre mondiali, la ricostruzione post-bellica produsse un’apparentemente insaziabile domanda di forza – lavoro, e fece crescere l'immigrazione in misura direttamente ad essa proporzionale (la Germania federale accolse nel periodo compreso tra il 1945 ed il 1988 quattordici milioni di persone); mentre anche la fine del colonialismo determinò grandi spostamenti di masse (rientrarono in Francia dopo la liberazione dell'Algeria un milione di francesi). Ma fu negli anni settanta, come già è stato osservato, che l'immigrazione raggiunse il suo apice. In seguito alla crisi petrolifera, e soprattutto dagli anni ottanta, gli Stati europei cominciarono ad imporre politiche sempre più restrittive in materia di controllo delle migrazioni, all’insegna di preoccupazioni di tipo sicuritario, che sono poi quelle che l’Unione Europea ha continuato a privilegiare fino ai nostri giorni, ottenute con una militarizzazione sempre più comunitaria delle frontiere28.

Se nelle prime fasi della sua esistenza la Comunità Europea era sprovvista di competenze legali in materia di circolazione transfrontaliera delle persone, successivamente la nuova Unione Europea, riconoscendo la reale dimensione transnazionale e sociale del fenomeno, dovette progressivamente dotarsene, elaborando una normativa comunitaria su aspetti delle migrazioni prima di

28Un’innovazione in proposito è stata l’istituzione nel 2005 di FRONTEX, un'istituzione

dell'Unione Europea il cui scopo è il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati dell’UE. Oggi, inoltre, in seguito agli accordi di partenariato previsti nel Programma dell’Aia (2004-2009), che si basano su meccanismi premiali e compensativi nei confronti dei Paesi collaborativi, vengono coinvolti nel controllo delle frontiere europee anche i Paesi di origine e transito dei migranti stessi (POSSENTI I., Attrarre e

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31

competenza esclusiva dei singoli Stati nazionali. Il Trattato di Schengen (1985)29 e la Convenzione di Dublino (1990)30 rappresentarono i primi tentativi in questo senso, mirati più che a regolamentare il fenomeno, possibilmente a frenarlo, in nome della sicurezza e della difesa degli interessi economici degli Stati europei.

Il Trattato di Amsterdam (1997), che incorporò gli Accordi di Schengen, tornando ad accostare il tema dell’immigrazione a quello della sicurezza, confermò l’orientamento sicuritario, che si tradusse nell’elaborazione di provvedimenti specifici31 mirati a fare dello spazio Schengen, “una zona ben delimitata di benessere economico-sociale […] preservata non solo dalla

criminalità organizzata o dal terrorismo internazionale, ma anche dalla minaccia

dell’immigrazione illegale”32

. Pertanto, a partire dal Trattato di Amsterdam, quello “spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia”33

andò prefigurandosi nelle politiche comunitarie come uno spazio privilegiato in cui “la “libertà” […] è quella dei cittadini europei che dovrebbero essere adeguatamente protetti, entro

29

Il Trattato di Schengen, intergovernativo e non ancora comunitario, fu siglato inizialmente da un primo nucleo ristretto di Paesi, sia Stati Membri dell'Unione Europea (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi), sia Stati terzi (Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein). Questo primo nucleo nel corso degli anni successivi si allargò progressivamente a quasi tutti gli Stati Membri, tanto che esso finì con l’essere incorporato nella struttura comunitaria con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam del 1997.

30

La Convenzione di Dublino fu firmata gradualmente dagli Stati Membri tra il 1990 e il 1998. I suoi obiettivi specifici erano quelli, sia di ridurre il numero delle domande di asilo multiple, ossia presentate simultaneamente in diversi Stati dallo stesso individuo (Asylum-shopping); sia di ridurre il fenomeno dei rifugiati in orbita, ossia di quei migranti che venivano rinviati da un Paese all’altro, a causa di una ripetuta declinazione di responsabilità da parte dei governi chiamati in causa. Essa fu completata nel 2000 da un Regolamento applicativo. L’insieme della Convenzione, del Regolamento e di altri atti ad essi connessi, è noto come Sistema di Dublino.

31

Relativi a: politiche dei visti; condizioni di ingresso, circolazione e soggiorno dei migranti; misure di allontanamento, espulsione e rimpatrio; cooperazione giudiziaria, amministrativa e di polizia.

32

POSSENTI I., Attrarre e respingere. Il dispositivo di immigrazione in Europa, Pisa University Press, Pisa, 2012, p. 85.

33

Trattato di Amsterdam, art. 2, punto 4 nella versione consolidata con il Trattato sull’Unione

(32)

32

il loro spazio di libera circolazione, dall’immigrazione, dalla criminalità e dal

terrorismo”34. In pratica “la libertà interna dell’Unione Europea, viene concepita

e misurata in base al grado di protezione dall’esterno”35

. Il progetto di consolidamento di politiche comunitarie così impostate continuò a svilupparsi anche attraverso una serie di Programmi comunitari (Tampere 1999-2004; L’Aia 2004-2009), e fu ulteriormente rafforzato dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1°dicembre 2009.

Da quel momento e ancora oggi, nel Programma di Stoccolma (2010-2014), l’atteggiamento della politica europea nei confronti delle migrazioni è ambivalente, e marcia su un doppio binario. Infatti, se da una parte mira “a

garantire i controlli e la sorveglianza efficace alle frontiere esterne”36, dall’altro

prevede lo sviluppo di “una politica comune dell’immigrazione intesa ad

assicurare […] la gestione efficace dei flussi migratori”37, laddove l’efficacia

della gestione si misura evidentemente, non in rapporto ai bisogni dei migranti, ma in relazione agli interessi dei Paesi europei. Ed è interesse dei Paesi europei, infatti, lasciare che le frontiere restino “chiuse solo a metà” per permettere che i migranti, in un certo numero, riescano comunque a “filtrare attraverso le maglie

del protezionismo”38, nella cornice di una politica che si assicura tanto la

possibilità di respingere, quanto quella di attrarre. La stessa ambivalenza si riscontra anche quando accanto “all’equo trattamento dei cittadini di Paesi terzi

34

POSSENTI I., Attrarre e respingere. Il dispositivo di immigrazione in Europa, Pisa University Press, Pisa, 2012, p. 81.

35

Ibidem. p. 85.

36

Trattato di Lisbona , Capo II, art. 77, 1b.

37

Ibidem, art. 79, 1.

38

MACIOTI-PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari 2010, p.18.

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33

regolarmente soggiornanti negli Stati membri”39 si prevede “il contrasto

rafforzato dell’immigrazione illegale”40

, operando indirettamente la distinzione tra due categorie di stranieri (quelli in regola e quelli non in regola) che riflette in verità “due modi di guardare la realtà: il modo desiderante, proprio di un’Europa che intende attrarre forza-lavoro; e il modo refrattario, proprio di un’Europa che

intende respingerla”41.

Insomma, le politiche europee messe finora in atto sull’immigrazione rivelano un rilancio di quelle logiche di dominio che hanno caratterizzato i lunghi secoli del colonialismo.

1.4. NOI e LORO: dalla competizione alla convergenza delle lotte per la giustizia sociale

Dalla breve analisi fin qui svolta si evince la necessità di un mutamento radicale nella cultura e nelle politiche migratorie e d'integrazione, nonché nelle strategie socio-economiche in generale. L'ostilità verso l'immigrazione di una parte della popolazione europea, fatta eccezione per quella di stampo prettamente razzista, è riconducibile innanzitutto alla presunta competizione sul mercato del lavoro tra nazionali e immigrati, e all’idea profondamente radicata che nell’attribuzione dei benefici e nel godimento dei diritti, debbano venire prima i nazionali. Ma questo, a ben riflettere, è un concetto errato e controproducente, in quanto politiche di welfare nei confronti degli immigrati capaci di assicurare loro giustizia sociale e maggiore partecipazione politica, non potrebbero che essere la

39

Trattato di Lisbona , Capo II, art. 79, 1.

40

Ibidem.

41

POSSENTI I., Attrarre e respingere. Il dispositivo di immigrazione in Europa, Pisa University Press, Pisa, 2012, p. 89.

(34)

34

conseguenza di scelte politiche più generali, concepite e realizzate dagli Stati, anche dell’Unione Europea, a vantaggio di tutta la società.

Anche la pluralità di religioni che accompagnano i migranti viene percepita come un elemento di separazione e crea ostilità, rendendo difficile l'inclusione sociale degli stranieri. Eppure la storia insegna che proprio in Europa sperimentammo un simile intenso antagonismo verso persone e gruppi che oggi riteniamo essere dei nostri. «Le difficoltà della vecchia Europa derivano, in parte, dall'assenza di riflessione storica sulle precedenti stagioni migratorie, cosicché

questo capitolo della sua storia resta, nell'ombra della narrazione ufficiale,

dominata dall'immagine di un'Europa esclusivamente continente

d'emigrazione»42. Aiuterebbe pertanto riappropriarsi della memoria storica, nello

specifico di quel passato in cui l'immigrazione, stazionaria e stagionale, era vista di buon occhio, in quanto le veniva riconosciuto il ruolo importante di fattore di crescita economica per le comunità di destinazione, e contribuiva in maniera tangibile a migliorarne la qualità della vita43.

E’ necessario dunque “ripassare” al più presto la lezione del passato, e prestare attenzione nel contempo a quegli studi di demografia, sociologia, economia e politica del presente, che prospettano spazi nuovi di organizzazione e

42

Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

43

«Eppure, nel XVIII secolo i polders di Amsterdam sono stati bonificati da operai venuti dal nord

della Germania; i francesi reclutavano gli spagnoli per impiantare le loro vigne; Milano e Torino in piena espansione hanno fatto arrivare manodopera dalle Alpi; gli acquedotti londinesi sono stati costruiti da irlandesi; i bei palazzi della giovane monarchia svedese sono stati costruiti da maestranze italiane; il tunnel del San Gottardo in Svizzera è in gran parte opera di italiani, cosi come le ferrovie e le acciaierie tedesche sono state costruite da italiani e polacchi. E ancora, nel corso del XIX secolo, sono stati in gran parte degli immigrati tedeschi e belgi a realizzare le ristrutturazioni di Parigi…» da Le migrazioni nei processi di globalizzazione. Una conversazione con Saskia Sassen a cura di Federico Oliveri (in http://www.juragentium.org/topics/migrant/it/oliveri.htm).

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35

integrazione, dove le diversità culturali diventino componenti stabili della società civile, e siano vissute come fattori di coesione e non di separazione. Insomma occorre finalmente avviare quel processo di trasformazione del LORO in NOI che, superando il pur apprezzabile atteggiamento assistenzialistico e soprattutto fondandosi sull’accettazione delle differenze culturali di ciascuno, possa creare le condizioni atte a costruire una società di diritti uguali per tutti, di cui l’intera società beneficerebbe.

In questa prospettiva acquistano un ruolo di rilievo quelle istituzioni civili e giuridiche che restano alla base della cittadinanza contemporanea in Europa, e che, pur di fronte a difficoltà insormontabili nel corso del tempo, si sono adoperate per consentire a tutti i membri delle nostre comunità l'accesso ai diritti civili, sociali e politici. A loro spetta di essere illuminate e lungimiranti; di elaborare strumenti amministrativi e giuridici in grado di allargare la nozione di appartenenza politica e di cittadinanza; di avviare, così com'è avvenuto nel passato, processi creativi, di reinvenzione istituzionale e democratica. Tutto ciò, se anche indirizzato a beneficio dei migranti, non potrà non produrre un positivo rafforzamento della cittadinanza in generale.

(36)

36

2. Movimenti di profughi dall’età moderna ai nostri giorni

E’ nel corso dell’età moderna che la storia comincia a registrare consistenti movimenti di quella particolare categoria di migranti che sono i profughi. I primi di rilevante portata, si verificarono al tempo delle guerre di religione che, riconducibili per lo più alla Riforma Protestante di Martin Lutero, travagliarono l’Europa tra il XVI e il XVII secolo.

A questo periodo risalgono, infatti, la persecuzione degli Ugonotti44, costretti a fuggire dal loro Paese d’origine dopo la revoca dell’Editto di Nantes, e a cercare scampo in altri Paesi europei, ma anche in Paesi d’oltremare fino al Nord America e al Sud Africa; quella degli Ebrei, vittime fin dal Medioevo di periodiche espulsioni da parte degli Stati europei di recente formazione45, che cercarono scampo nei Paesi dell’Europa continentale; e ancora, in Spagna, quella dei Moriscos di discendenza araba, che si diressero soprattutto verso il Nord Africa46.

Nello stesso periodo furono vittime di persecuzioni politico-religiose anche comunità più piccole, che cercarono rifugio nelle terre del Nuovo Mondo

44

Fino all’Ottocento la parola rifugiato indicò prevalentemente proprio gli Ugonotti, ovvero i protestanti francesi messi al bando dalla revoca dell’Editto di Nantes (editto col quale nel 1598 Enrico IV re di Francia aveva concesso loro libertà di culto, per porre termine alle guerre di religione che avevano precedentemente insanguinato la Francia). Il termine fu poi esteso a tutti coloro che erano costretti ad abbandonare la propria terra (SASKIA SASSEN, Migranti, coloni,

rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza europea, Feltrinelli, Milano 1999, p. 43).

45

Gli Ebrei furono cacciati dall’Inghilterra nel 1290; dalla Francia nel 1306 e nel 1394; dall’Austria nel 1420 ed infine dalla Spagna nel 1492 al tempo della Reconquista (l’espulsione più nota per ferocia e dimensioni). (FERRARI G., L’asilo nella Storia - Relazione tenuta all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, il 4 febbraio 2005, p.10in http://www.unhcr.it/news/download/126/634/91/lasilo-nella-storia.html ).

46

Moriscos: nome spregiativo dato dagli Spagnoli a quei Mori che, rimasti in Spagna dopo la

Reconquista da parte dei re cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, nel 1492

furono costretti a convertirsi al Cristianesimo. Poi, comunque perseguitati nel sec. XVI, vennero comunque espulsi dalla Spagna nel secolo successivo. (FERRARI G., La Convenzione sullo

status dei rifugiati, aspetti storici -Relazione tenuta all’Università degli Studi di Roma “La

Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, il 16 gennaio 2004, p. 8; in http://www.unhcr.it/news/dir/91/view/663/lasilo-nel-diritto-internazionale-63300.html).

Figura

Tabella 1 – Valore del fattore “d” per ogni singola regione/PA
Tabella 2 – Approccio modulare

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