• Non ci sono risultati.

La Corporate Social Responsibility: teorie, politiche e strumenti.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La Corporate Social Responsibility: teorie, politiche e strumenti."

Copied!
124
0
0

Testo completo

(1)

1

INDICE

Introduzione. ..………..3

CAP. 1 La Corporate Social Responsibility ...7

1.1 Il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa………..8

1.2 La Responsabilità sociale d’Impresa: evoluzione del dibattito………..12

1.3 La globalizzazione e la terza generazione del welfare………25

1.4. La sostenibilità sociale ed ambientale ..……… 32

CAP. 2 Modelli d’impresa………. …..40

2.1 La CSR nella teoria economica dell’impresa.……….41

2.1.1 Dalla “Shareholder Theory” di Friedman alla “Stakeholder Theory” di Freeman. ………...42

2.1.2 La teoria contrattualista. ...52

2.1.3 La teoria neo-contrattualista. ………....58

2.1.3.1 La teoria dell’agenzia. ………..59

2.1.3.2 La teoria neoistituzionalista .………...61

2.1.3.3 La natura dell’impresa e la responsabilità sociale per L. Sacconi. ………...63

CAP. 3 Strategie e performance aziendali………..65

3.1 Strategia dell’impresa e società……….66

3.2 Gli strumenti per una gestione responsabile: dal Codice Etico al Bilancio Sociale………73

(2)

2

3.2.2 Il Bilancio di Sostenibilità. ………..88 3.3 Le performance aziendali e la Corporate Social Responsibilitry…………...90

CAP. 4 La Responsabilità Sociale d’Impresa nelle politiche dell’Unione Europea e dell’Italia. ………..94

4.1 La CSR nello sviluppo delle politiche comunitarie………95 4.2 La CSR nelle politiche italiane………..104

Considerazioni conclusive

Esperienze recenti e prospettive future della CSR...110

(3)

3

Introduzione

“Business started long centuries before the dawn of history, but business as we now it is new-new in its broadening scope, new in its social significance. Business has not learned how to handle these changes, nor does it recognise the magnitude of its responsibilities for the future of civilization.” ( Donham W.B., 1929)

Negli ultimi decenni la governance del capitalismo globale, consentendo l’affermazione di una economia senza confini, ha reso possibile sia l’abbattimento dei costi sia la facilità d’accesso a materie prime, manodopera e tecnologie ma, al tempo stesso, ha posto alle imprese il problema di ripensare il loro rapporto con i mercati sempre più lontani dall’unico modello di sviluppo capitalistico.

“Non esiste “il”capitalismo, non esiste “la” economia di mercato. Esistono più capitalismi, esistono - in special modo – più economie di mercato. I loro elementi costitutivi (la proprietà dei mezzi di produzione, il ruolo del capitale e del lavoro, la destinazione del profitto, lo spazio per la concorrenza e la collaborazione, le forme di controllo, ecc.) possono essere variamente declinati e combinati”.1

E pertanto, nel panorama molto variegato ed eterogeneo del mercato globale interessato dai recenti cambiamenti e da un forte aumento di pressioni esterne, la concezione dell’impresa si è ormai allontanata dall’idea di attore economico finalizzato unicamente a massimizzare il profitto, a guidare la domanda e l’offerta senza doversi occupare della gestione dell’impatto sociale e ambientale della propria attività.

Assume, infatti, un’importanza rilevante la comprensione di contenuti, contorni e conseguenze sociali dell’operato di un’azienda che si rende sempre più conto che per ottenere successo e benefici durevoli, è necessario adottare un atteggiamento “responsabile” nei confronti del mercato, dell’ambiente, dei dipendenti e dei consumatori.

(4)

4

A tal fine le imprese si stanno sempre più rapportando nello scenario mondiale in un’ottica che tende non solo a creare valore per se stesse, ma che cerca al tempo stesso di costruire un percorso favorevole allo sviluppo di una forte attenzione nei confronti del sociale per creare, cioè, condizioni di benessere e di qualità della vita.

Nello scenario odierno in cui il potere delle imprese cresce ed è sempre meno controllabile dal potere politico di un singolo Stato, la CSR è un argomento molto complesso in quanto può essere interpretata in diversi modi e diviene l’anello di congiunzione tra l’azienda e realtà diverse.

“ La complessità sta proprio nel fatto che l’impresa, la politica e la legislazione, la salute, la cultura, i diritti umani e l’ambiente non rappresentano più ambiti distaccati, ma ognuno di essi diventa un soggetto, un interlocutore funzionale al raggiungimento degli obiettivi di ciascuno”, afferma Sabina Mirabile al Convegno su “La responsabilità sociale dell’impresa” organizzato da Aism e Eccellere nel giugno 2008.

La tesi muove, pertanto, dall’idea che la responsabilità sociale d’impresa debba essere intesa non semplicemente come strumento di marketing o come semplice definizione dei valori etici, ma come l’impatto causato dalle operazioni aziendali sulla collettività, sull’ambiente in cui l’organizzazione opera e con il quale instaura un rapporto di reciproca interdipendenza.

“Socialmente responsabili” sono le imprese che si sforzano di adeguare le proprie iniziative a standard di comportamento attenti al rispetto dei diritti umani, alle condizioni di sicurezza dei lavoratori, all’impatto ambientale ben oltre quanto prescritto da leggi e regolamenti. Adottando tali buone pratiche le imprese forniscono da un lato contributi socialmente qualificati e dall’altro massimizzano il loro valore.

Per esigenze di chiarezza espositiva l’elaborato è suddiviso in capitoli che trattano le diverse tematiche concernenti la CSR.

Scopo del primo capitolo è, innanzitutto, definire il concetto di responsabilità sociale d’impresa nelle sue diverse accezioni oltre che il dibattito che sta interessando il mondo accademico dalla seconda metà del secolo scorso ai giorni nostri.

Il tema è stato affrontato successivamente alla luce del nuovo scenario mondiale globalizzato nei suoi effetti economici, sociali ed ambientali che rendono necessario trovare nuovi equilibri tra funzioni pubbliche e funzioni private, tra Stato e mercato, riconoscendo sia i limiti dello Stato sia i limiti del mercato. E’ stata analizzata,

(5)

5

pertanto, la problematicità dei processi di sviluppo delle imprese in una chiave di lettura che dia conto del loro impatto ambientale e sociale oltreché dell’evoluzione dei sistemi di welfare: ho approfondito, a tale scopo, le esigenze economiche ma anche le aspettative sociali considerando le problematiche connesse alla gestione strategica delle imprese strettamente collegate alla sostenibilità dello sviluppo, così come auspicato dal Global Compact e dai numerosi incontri organizzati a livello internazionale.

Il secondo capitolo offre una ricostruzione di alcune prospettive interpretative (la Stakeholder theory, la teoria contrattualista e la teoria neocontrattualista) relative a moderne teorie economiche dell’impresa al fine di cogliere in ognuna di esse le ragioni della CSR attraverso l’analisi della natura, degli obiettivi e delle finalità delle imprese. Il lavoro prosegue trattando nel terzo capitolo la funzione sociale dell’impresa e le strategie rispondenti alle richieste e ai bisogni della comunità in cui l’azienda opera. Vengono trattati, successivamente, gli strumenti per una gestione responsabile: il Codice Etico, il Bilancio Sociale e il Bilancio di Sostenibilità per una nuova cultura del business. Si è, dunque, cercato di sostenere la correlazione tra la performance aziendale e la CSR attraverso gli studi compiuti negli ultimi anni dall’Harvard Business School e l’implementazione del Socially Responsible Investing oltre che degli indici di borsa “etici”.

Il quarto capitolo si occupa delle politiche di diffusione della Corporate Social Responsibility adottate dall’Unione Europea a partire dalla pubblicazione nel 2001 del Libro Verde fino alla Comunicazione della Commissione del 2011 concernente la Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese. In seguito sono state affrontate le politiche italiane degli ultimi anni tese a promuovere la cultura della responsabilità sociale all’interno del sistema socio-economico nazionale sino al Piano d’azione sulla Responsabilità Sociale d’Impresa 2012-2014, richiesto dalla Commissione europea a tutti gli Stati membri.

Certamente le logiche e le strategie della responsabilità sociale possono essere occasioni affinché le imprese si pongano alcune domande fondamentali sul proprio ruolo e sugli strumenti necessari allo sviluppo che la legge non specifica, né vincola.

La responsabilità sociale dovrebbe essere, cioè “un’investire di più”, come afferma il Libro Verde 2001 della Commissione Europea, con la logica da un lato di contribuire allo sviluppo sostenibile, dall’altro di aumentare la competitività dell’impresa.

(6)

6

Ritengo, comunque, che le idee proposte dalla Commissione abbiano bisogno di più specifici meccanismi di incentivi per poter essere perseguite e che siano indispensabili interventi più decisi da parte dei governi e delle istituzioni attraverso il rafforzamento delle leggi, dei controlli e delle sanzioni nei confronti dei comportamenti riprovevoli delle imprese. Talvolta esiste, infatti, una profonda divergenza tra la teoria e la pratica della CSR: spesso accade che alcune imprese ne facciano un uso puramente strumentale, spinte da motivazioni opportunistiche oppure che, nonostante l’adozione di codici etici e di bilanci sociali, mettano in atto pratiche irresponsabili e abusi di vario genere.

Scandali societari, manipolazione dei bilanci, inquinamento ambientale, delocalizzazioni produttive, sono solo alcune delle forme tramite le quali, ai giorni nostri, può manifestarsi l’irresponsabilità sociale delle imprese.

Nonostante ciò, dal proliferare di iniziative e strumenti destinati alla sensibilizzazione delle imprese e al sostegno delle buone pratiche, dall’approccio sempre più pragmatico assunto in ambito dottrinale, sembra che vi siano i presupposti per un vero cambiamento culturale che, partendo da una domanda crescente di responsabilità sociale, chiede anche alle imprese di fare “la propria parte” per una crescita equa e compatibile, rispettosa della collettività e dell’ambiente.

(7)

7

CAPITOLO PRIMO

(8)

8 1.1 Il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa.

Negli ultimi decenni si è ampiamente diffuso sia in Europa che nel resto del mondo il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa (RSI in italiano o, secondo la terminologia inglese CSR, Corporate Social Responsibility) e si è progressivamente sviluppato l’interesse circa il problema delle relazioni tra impresa e società ma, a tutt’oggi, la nozione di responsabilità sociale d’impresa non ha ancora trovato una univoca ed esaustiva definizione.

Tale concetto è, comunque, molto ampio ed ingloba numerosi significati: partendo dall’origine etimologica del termine “responsabilità” che indica la consapevolezza di dover rispondere degli effetti di azioni proprie o altrui, e di conseguenza indica anche l’impegno che ne deriva.

Occorre, pertanto, comprendere di cosa è responsabile l’impresa e nei confronti di chi: la responsabilità sociale di un’impresa non va considerata solo giuridicamente dato che coglie aspetti più vasti e rilevanti partendo dal presupposto che l’azienda, appunto, non è un’isola separata dall’ambiente sociale in cui opera, ma è, bensì, un punto di riferimento per chi ci lavora, per chi ci investe, per chi produce beni e strumenti, per chi vive nel territorio.2

E, pertanto, deve farsi carico delle molteplici esigenze e sollecitazioni che provengono da tali contesti, deve a loro rapportarsi, instaurare un sistema di relazioni fiduciarie, essere, insomma, “responsabile” nei loro confronti.

“A questo punto sorgono due domande:

1) la responsabilità sociale si basa sulla legge, sull’azione volontaria o sull’opportunità di mercato?

2) verso chi l’impresa è responsabile?”3

Già nel 1993 il Presidente Delors si appellava alle imprese europee affinché prendessero parte alla lotta contro l’esclusione sociale e ciò si era tradotto in una forte mobilitazione e nello sviluppo di reti europee di imprese.

2

Sobrero R.,(2006).

(9)

9

La definizione ufficiale di CSR è del 2001 e la ritroviamo nel Libro Verde della Commissione Europea, documento che sviluppa l’obiettivo, dato dal Vertice europeo di Lisbona del marzo 2000, che l’Unione Europea diventi “l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita sostenibile accompagnata da un miglioramento qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”. La Commissione delle Comunità europee presenta a Bruxelles il 18.07.2001 il Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” nel quale la responsabilità sociale è definita come “L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate.

Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici, ma anche andare al di là, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”.4

Le caratteristiche principali della CSR si ritrovano, pertanto, secondo la Commissione europea, nell’andare al di là delle normative adottando volontariamente e liberamente comportamenti socialmente responsabili e nel tener conto delle ripercussioni economiche, sociali ed ambientali dell’operato dell’azienda.

La CSR deve andare, infatti, oltre il rispetto delle prescrizioni delle leggi affinché, su base volontaria, un’impresa adotti pratiche che le facciano ottenere benefici e vantaggi per se stessa ma anche per il contesto in cui opera.

“Tale azione porta allo sviluppo di nuove partnership e di nuovi ambiti per le relazioni stabilite nell’ambito delle imprese, in particolare per quanto riguarda il dialogo sociale, l’acquisizione delle qualifiche, l’uguaglianza delle opportunità, la previsione e la gestione del cambiamento; a livello locale o nazionale, per il consolidamento della coesione economica e sociale e la protezione della salute e, in modo più generale, su scala planetaria, per la protezione dell’ambiente e il rispetto dei diritti fondamentali”.5 E’ evidente che la legittimazione dell’impresa non può più essere subordinata soltanto alla massimizzazione del profitto anche se nel rispetto della legge e della morale corrente, come voleva il Premio Nobel per l’economia Milton Friedman,6 secondo il

4 Libro Verde, COM(2001) 366 definitivo. 5 Ibidem.

(10)

10

quale “poche tendenze potrebbero indebolire così fortemente le stesse fondamenta della nostra società libera come l’accettazione da parte dei manager d’impresa di qualsiasi tipo di responsabilità sociale che sia diversa dal realizzare maggiori guadagni possibili per gli azionisti. Questa è una dottrina fondamentalmente sovversiva …”.

Si tratta, in vero, di un vero e proprio cambiamento nella cultura d’impresa che intraprende la difficile strada verso l’affermazione della cultura della responsabilità sociale d’impresa, chiamata dalla società ad una partecipazione attiva alla soluzione delle sue problematiche e alla realizzazione di una missione integrativa alla sua logica di profitto.7

Nasce la consapevolezza che l’attività di un’impresa non può più misurarsi soltanto attraverso il calcolo del valore economico, ma necessita di un’integrazione con gli aspetti ambientali e sociali.

Tale interpretazione è coerente con la definizione che Lorenzo Sacconi dà della Corporate Social Responsibility come “un modello di governance allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder, che è valido per ogni tipo di impresa al di là della sua struttura di proprietà e controllo”.8

Il comportamento responsabile coinvolge cioè ampie fasce di soggetti e crea una relazione virtuosa tra l’impresa e il contesto in cui opera al punto che la creazione del valore è condivisa ed è a vantaggio di tutti gli stakeholder.9

Dopo dieci anni la Commissione europea con la nuova Comunicazione del 25 ottobre 2011 riesamina la nozione espressa nel Libro Verde ritenendo che affrontare il tema della responsabilità sociale delle imprese è nell’interesse delle imprese nonché nell’interesse dell’intera società.

“Facendo fronte alle proprie responsabilità sociali le imprese creano nel lungo termine fiducia tra i lavoratori, i consumi e i cittadini quale base per modelli di imprenditoria

7 Mariano L.(2008), p. 40.. 8

Sacconi L.(a cura di)(2005a), p.27-28

9 Con il termine stakeholder si fa riferimento a “ogni individuo o gruppo di individui i cui interessi siano

toccati in modo essenziale (sia in quanto partecipanti a transazioni, sia per via di ricadute esterne alle transazioni) dalla conduzione delle attività di un’impresa”, ivi, p. 18

(11)

11

sostenibile. Elevati livelli di fiducia contribuiscono a loro volta a determinare un contesto in cui le imprese possono innovare e crescere”.10

La Commissione, valutando positivamente l’impatto della politica europea in materia di CSR, identifica “la necessità di meglio chiarire cosa ci si attende dalle imprese e di rendere la definizione unionale della CSR coerente con i principi e gli orientamenti internazionali nuovi e aggiornati”.11

E, pertanto, ritiene la responsabilità sociale delle imprese come “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società ... Per soddisfare pienamente la loro responsabilità sociale, le imprese devono avere in atto un processo per integrare le questioni sociali, ambientali, etiche, i diritti umani e le sollecitazioni dei consumatori nelle loro operazioni commerciali e nella loro strategia di base in stretta collaborazione con i rispettivi interlocutori, con l’obiettivo di:

- fare tutto il possibile per creare un valore condiviso tra i loro proprietari/azionisti e fra gli altri loro soggetti interessati e la società in generale;

- identificare, prevenire e mitigare i loro possibili effetti avversi”.12

La questione centrale diventa, pertanto, quella della definizione effettiva della governance aziendale che in una visione lungimirante deve porsi come obiettivo primario il dialogo con i suoi stakeholder, cioè i suoi “portatori d’interesse” mirando sì a fare profitto ma in modo corretto, producendo benessere sociale, equilibrio ed equità, qualità della vita, diffusione di cultura e di ricchezza.

In sostanza, perseguendo l’adozione di comportamenti socialmente responsabili l’impresa può conseguire la logica imprenditoriale del profitto insieme a quella dell’ambiente e della sua difesa oltreché la logica della comunità in cui opera, armonizzandole in una serie di azioni che portano nuova vitalità .13

.

10

Commissione Europea, COM(2011) 681 definitivo.

11 Ibidem. 12 Ibidem.

(12)

12 1.2 La Responsabilità Sociale d’Impresa: evoluzione del dibattito.

Esaminando il concetto di Responsabilità Sociale d’impresa, le preoccupazioni in tal senso si possono far risalire addirittura ai primi decenni del secolo scorso negli Stati Uniti con il testo di Chester Barnard (1930) “The functions of the Executive” e la pubblicazione del 1940 di Theodore Krep’s “Measurement of the Social Performance of Business” che possono definirsi i primi due riferimenti alle responsabilità sociali dei dirigenti e delle imprese.

Ma, come afferma Archie Carroll14 possiamo indicare in Howard Bowen il padre della Corporate Responsability dato che nel 1953 in “Social Responsabilities of the Businessman” coniava il termine Corporate Social Responsability dandone tale definizione “its refers to the obligations of businessman to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those lines of action which are desiderable in terms of the objectivies and values of our society”.

Il dibattito veniva ripreso poco tempo dopo anche da Keith Davis e William Frederick con l’intento di sviluppare una riflessione per restituire ai mercati quella fiducia che era venuta meno in seguito alla Grande Depressione e ai due conflitti mondiali.

La responsabilità sociale fa riferimento, secondo Davis, alle azioni e decisioni prese per ragioni che vanno oltre l’interesse economico o tecnico dell’azienda e lo stesso studioso sostiene, inoltre, che alcune decisioni aziendali ritenute “responsabili” trovano giustificazione in un lungo e complicato processo destinato a contribuire ad un maggiore guadagno per l’impresa nel lungo periodo.

Davis afferma, inoltre, con la sua celebre “ferrea legge della responsabilità” (iron law of responsability) che non può esistere responsabilità senza potere “social responsability of businessmen need to be commensurate with their social power”.15

Le imprese devono divenire attori attivi e propositivi anche in ambito sociale: responsabilità e potere sono indissolubilmente legati tra loro anche nel mondo degli

14 Carroll A.(1999), 268-295.

(13)

13

affari e, poiché sono destinati ad equilibrarsi costantemente, la diminuzione dell’una reca con sé quella dell’altro.16

L’elusione di responsabilità porterebbe inevitabilmente ad una mancanza di potere sociale delle imprese lasciando campo libero a governi e sindacati che potrebbero porre per legge limiti e vincoli, provocando,di conseguenza, danni alle loro attività.

Anche per William Frederick il mondo della produzione deve poter potenziare il benessere economico-sociale in toto e la responsabilità sociale deve intendersi come rispetto e disponibilità ad utilizzare le risorse oltre che per interessi privati anche per fini sociali. “…. businessmen should oversee the operation of an economic system that fulfills the expectations of the public. And this means in turn that the economy’s means of production should be employed in such a way that production and distribution should enhance total socio-economic welfare”.17

McGuire per la prima volta introduce il concetto di “corporate citizenship” affermando “business must act justly as a proper citizen should”18

e con Walton nel 1967 si sostiene che l’impresa deve agire in modo volontario, cioè senza costrizioni esterne e deve essere disposta a sostenere costi che non abbiano un diretto ritorno economico. Tuttavia, è chiaro che in questi anni è ancora l’imprenditore il soggetto socialmente responsabile delle proprie azioni in considerazione delle richieste della società: il dibattito si concentra, infatti, sul businessman e sulla sua capacità di incidere sull’ambiente circostante.

Negli anni ’70 il pensiero sulla CSR comincia a diversificarsi e con Milton Friedman, studioso radicalmente liberista, a lungo capofila degli economisti della Scuola di Chicago, il concetto di responsabilità sociale d’impresa, definito da lui profondamente sovversivo, subisce un duro attacco : "there is one and only one social responsibility of business–to use it resources and engage in activities designed to increase its profits so long as it stays within the rules of the game, which is to say, engages in open and free competition without deception or fraud."19

16 Morri L.(2009), p. 25. 17 Frederick W. (1960), in Carroll (1999), p.271. 18 Mc Guire (1963), in Carroll (1999), pp. 271-272. 19 Friedman M. (1970).

(14)

14

L’impresa è considerata come una “black box” orientata unicamente al profitto e le decisioni assunte dal management devono considerare quale unico interesse quello della proprietà, limitando la responsabilità imprenditoriale solo a ciò che è previsto per legge: in quest’ottica deve ritenersi razionale soltanto il comportamento economico da cui deriva una massimizzazione dell’interesse personale. Secondo tale teoria, nota come

“shareholder model”, dunque, qualunque cosa che possa compromettere l’efficienza

dell’impresa rappresenta un costo superfluo e i manager che perseguono altre finalità, come quelle sociali e/o ambientali a scapito dei profitti, si comportano in maniera immorale.

Friedman, comunque, incita certamente le imprese ad accrescere i profitti ma sempre nel rispetto delle regole del gioco, in un’aperta e libera competizione.

La prospettiva dello shareholder value quale fine ultimo dell’azione manageriale è, nel tempo, divenuta la dottrina ortodossa dell’impresa ed ha influenzato le strategie societarie oltreché le scelte mondiali e nazionali di politica economica degli ultimi trent’anni.

L’economista italiano Luigi Zingales, di formazione friedmaniana, sostiene che spesso i governi e la società civile esercitano pressioni sulle imprese affinché queste, facendosi carico di responsabilità sociali ed ambientali che a loro non competono, intraprendano azioni di CSR.

Ma per molte aziende, secondo lo studioso, tali attività sono semplicemente strumento di marketing “Se i consumatori sono disposti a pagare di più per il caffè eco-solidale o per la benzina meno inquinante, vendere questi prodotti non è avere una responsabilità sociale, ma un buon fiuto di mercato”.20

Negli stessi anni, però, questo approccio ha cominciato ad essere discusso e contestato da coloro che si contrappongono alla tesi della massimizzazione del profitto come unico valore guida nei comportamenti d’impresa e assumono posizioni che ne evidenziano le incongruenze: nasce, pertanto, il dibattito sulla responsabilità sociale come confronto sulla identificazione degli interessi dell’impresa e sui vincoli posti all’impresa dalla società.

(15)

15

In questo periodo cresce, infatti, l’attenzione verso il contesto socio-culturale, essenziale per definire i compiti delle imprese: il Committee for Economic Development (CED) nel 1971 pubblica il rapporto “Social Responsabilities of Business Corporation” nel quale si riconoscono, per la prima volta, le priorità che le aziende devono perseguire per poter essere considerate socialmente responsabili e le modifiche sostanziali che sta subendo il rapporto tra imprese e società.

Tale rapporto viene illustrato avvalendosi dell’ “approccio dei cerchi concentrici” secondo il quale il cerchio più interno riguarda la responsabilità a svolgere in modo efficiente le funzioni economiche –produzione, sviluppo della forza lavoro, crescita economica - dell’azienda, il secondo concerne la responsabilità nei confronti delle priorità sociali, mentre il cerchio esterno rappresenta la responsabilità dell’impresa riguardo la sua azione per lo sviluppo della società, evidenzia cioè le nuove responsabilità che le imprese dovrebbero assumere per avvicinarsi a gravi problemi al fine di migliorare l’ambiente sociale.21

22Figura 1: “Modello dei tre cerchi concentrici”

Fonte: Committee for Economic Development, 1997

21Moscarini F.(2009),pp.178-193.

(16)

16

Occorre tener presente che il CED è un’organizzazione composta da persone del mondo imprenditoriale e da accademici del settore e che tale documento viene redatto in un periodo di intensa attività dei movimenti sociali sulle tematiche ambientali, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, dei consumatori, etc., che cominciano a mettere fortemente in discussione il mondo delle imprese.

Nel 1972 l’American Enterprise Institute for Public Policy Research promuove un grande dibattito sul tema della CSR e gli accademici H. J. Manne e H. C. Wallich ne pubblicano una sintesi in “The modern Corporation and Social Responsibility” nel quale si afferma “Any working definition of the idea of corporate social responsibility must begin with the idea that expenditure or activity be one for which the marginal returns to the corporation are less than the returns available from some alternative expenditure. That is not to say that the company must in absolute terms lose money but simply that it makes less money that would otherwise be the case”.23

Manne sottolinea, inoltre, l’elemento del volontarismo che, però, da solo non giustifica l’azione dell’impresa come socialmente responsabile come pure non sono azioni di CSR quelle derivanti da coercizioni o pressioni che possono influenzare l’operato dell’impresa.24

Wallich, a sua volta,nell’esercizio della Csr individua alcuni elementi chiave: 1) definire gli obiettivi; 2) individuare le decisioni da attuare per raggiungerli; 3) reperire le risorse economiche necessarie per finanziarli.25

Lo stesso Davis nel 1973 ritorna sul concetto e sostiene che la responsabilità sociale di un’impresa comincia dove la legge finisce: un’impresa non può essere definita socialmente responsabile se semplicemente risponde al minimo richiesto dalle leggi perché ciò è quanto ogni buon cittadino dovrebbe fare.26

Di contro alla posizione neo-classica che di fatto nega la responsabilità dell’impresa nei confronti della collettività, scaturisce, pertanto, il riconoscimento della responsabilità

23 Manne H.J. – Wallich H.C. (1972) in Carroll (1999), p. 276.

24 L’elemento della volontarietà, come sappiamo, è ritenuto anche oggi fondamentale da moderne

definizioni della CSR, come quella inserita nel Libro Verde di Lisbona del 2001.

25 Ivi, p. 276.

(17)

17

sociale come capacità dell’impresa di risolvere problemi sociali27

e si evidenziano quali caratteristiche deve possedere per essere definita socialmente responsabile: particolarmente illuminante al riguardo è il pensiero di Archie Carroll che, sviluppando ulteriormente il rapporto tra imprese e società, nel 1979 elabora una famosa definizione di RSI cercando di conciliare obiettivi economici e sociali e stabilendo che la responsabilità sociale deve includere le aspettative economiche, giuridiche, etiche e discrezionali della società in un determinato periodo storico.

Carroll riconosce che l’impresa ha in primo luogo responsabilità economiche di creazione di valore quale profitto per gli azionisti e offerta efficiente di beni e servizi per il mercato “The economic component of the definition suggest that society expects business to produce goods and services and sell them at a profit. This i show the capitalistic economic system is designed and functions.”; secondariamente ha responsabilità giuridiche legate al rispetto delle normative decise dai legislatori “The law represents the basic “rules of the game” by which business is expected to function.” Le altre due componenti comprendono la responsabilità etica e la responsabilità discrezionale: la prima prevede il conformarsi ai valori sociali e ad agire con equità, giustizia, imparzialità; la seconda implica da parte dell’impresa investimenti volontari a favore della comunità senza alcuna aspettativa di ritorno “the ethical responsibility represents the kinds of behaviors and ethical norms that society expects business to follow. … Finally, there are discretionary responsabilities. These represent voluntary roles that business assumes but for which society does not provide as clear-cut an expectation as it does in the ethical responsibility”. 28 Si supera in tal modo la mera idea di profitto e di obbedienza alle leggi.

Successivamente Carroll (1991) illustrerà efficacemente le quattro componenti della sua definizione nel modello della piramide che porrà, come in una scala d’importanza, ciò che l’impresa deve tener presente: continuerà a prevalere sulle altre la responsabilità economica e all’ultimo livello, la componente discrezionale, corrisponderà alla cosiddetta corporate citizenship ovvero impegnarsi significa per l’impresa comportarsi da buon cittadino

27 Fitch G.,in Carroll (1999), p. 281. 28 Carroll A.(1999), p. 283.

(18)

18

Fig. 2: The Pyramid of Corporate Social Responsibility

.

Fonte: A.B. Carroll, 1991

“The pyramid of CSR depicted the economic category as the base (the foundation upon which all others rest), and then built upward through legal, ethical, and philanthropic categories ... The CSR firm should strive to make a profit, obey the law, be ethical, and be a good corporate citizen.”29

Caratterizzante questa fase del dibattito sulla CSR è l’interpretazione degli atti di responsabilità sociale come un costo che comporta dei trade-off rispetto ad altri obiettivi dell’azienda. Coerentemente risulta importante l’analisi delle conseguenze distributive dei comportamenti di responsabilità sociale.

In questi stessi anni alcuni studiosi spostano l’attenzione dalla responsabilità sociale alla sensibilità sociale “corporate social responsiveness” traducibile come attenzione al sociale in quanto, secondo loro, l’impresa deve cercare di rispondere il più possibile ai bisogni della società, anzi anticiparli e prevenirli: si identifica, insomma, un ruolo attivo e pro-attivo da parte dell’azienda.

(19)

19

Il maggiore teorico della corporate social responsiveness (chiamata CSR2) è William Frederick: egli sostiene l’accettazione da parte dell’impresa di obblighi (derivanti dalla sua attività in uno specifico contesto sociale) che la portano a sostenere cambiamenti organizzativi e nuovi processi gestionali.

“Corporate social responsiveness refers to the capacity of a corporation to respond to social pressures …The key questions are: Can the company respond? Will it? Does it? How does it? To what extent? And with what effect?” 30

Pertanto,in questa prospettiva al centro del dibattito vi sono gli strumenti necessari affinché l’impresa faccia della responsabilità sociale una realtà concreta che sia in grado di incanalare le tensioni sociali in formalizzati processi aziendali.31

E’, comunque, solo nel ventennio successivo che la nozione di CSR viene rielaborata da un punto di vista concettuale e teorico: infatti prendono corpo i filoni di pensiero più importanti per lo sviluppo della responsabilità sociale d’impresa e cambia la visione delle richieste provenienti dall’ambiente esterno che ora vengono considerate quali occasioni di miglioramento gestionale.

Gli ultimi decenni dello scorso secolo sono caratterizzati, pertanto, da filoni dottrinali alternativi: la nascita e gli sviluppi della stakeholder theory, l’affermarsi degli studi di business ethics e del concetto di Corporate Social Performance.

Gli anni ’80 segnano il passaggio dallo shareholder management, basato sulla creazione di valore unicamente per gli azionisti, allo stakeholder management, basato sulla creazione di valore condiviso secondo la Stakeholder Theory formulata nel 1984 da Edward R. Freeman in base alla quale il successo di un’azienda dipende dalla sua capacità di cogliere e soddisfare le istanze degli interlocutori con cui si relaziona.

La stakeholder theory32 si basa, appunto, sul concetto di stakeholder che era stato coniato dalla General Electric negli anni ’30 per identificare gli azionisti, i dipendenti, i clienti e la comunità.

Il nuovo approccio sostituisce l’idea minimalista di Friedman con una visione più ampia che vede l’impresa responsabile verso un ampio gruppo di portatori di interesse

30

Frederick.W. (1978), p. 154.

31 Di Toro P.(1993), p. 108.

(20)

20

(stakeholder) che include fornitori, clienti, azionisti, dipendenti, comunità, verso i quali la stessa ha dei “doveri”.

Fino agli anni Settanta, come detto, mentre gli economisti neo-classici sostenevano che perseguire atti di responsabilità sociale potesse costituire rischi di inefficienza, i sostenitori della necessità di tali iniziative le consideravano “costi” o “vincoli”, dovuti ai cambiamenti della società.

Un mutamento sostanziale avviene con la visione della responsabilità sociale come attributo gestionale dell’impresa, come “strumento competitivo” che trova la sua ragion d’essere nel turbolento divenire dei mercati, nei mutati contesti economici, nell’interdipendenza crescente tra imprese e ambiente: l’impresa si pone al centro di una serie di rapporti con differenti gruppi sociali rispetto ai quali attiva relazioni di scambio, di informazione, di rappresentanza.

Si tende cioè a rendere compatibili gli interessi dei diversi stakeholders con la massimizzazione degli utili dell’impresa.

La responsabilità sociale viene, insomma, ad essere intesa sempre più come una serie di comportamenti che l’impresa adotta in modo da convertire le complesse richieste provenienti dall’ambiente esterno in occasioni di miglioramento gestionale e di differenziazione, e, dunque, non è più un concetto che si contrappone all’idea dell’impresa come organizzazione motivata dal risultato reddituale.33

La Stakeholder Theory raffigura, infatti, l’impresa come una “costellazione di interessi cooperativi e in concorrenza tra loro che possiedono un valore intrinseco” che vanno considerati “per il proprio interesse in sé e non semplicemente per la capacità di favorire gli interessi di un altro gruppo”.34

Il concetto di stakeholders, già usato anni prima,35 viene formalizzato in maniera organica da E. Freeman (1984) che in “Strategic management. A stakeholder approach”, li identifica come “gruppi o soggetti che sono influenzati o possono influenzare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa”. E ancora li distingue tra stakeholders primari (o in senso stretto) tutti quegli individui e gruppi ben identificati da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori e

33

Viviani M (2006).

34 Freeman E. R.(2007), pp.51-52.

35 Il concetto di stakeholder era stato utilizzato per la prima volta dallo Stanford Research Institute nel

(21)

21

agenzie governative; e secondari (o in senso più ampio) in coloro che possono influenzare o essere influenzati dall’attività dell’azienda (le istituzioni, le comunità, i sindacati…).

Tutti questi stakeholders ricoprono un ruolo attivo nella creazione di valore da parte dell’impresa e, pertanto, il ruolo del manager è quello di soddisfare i loro interessi al fine di coniugare obiettivi economici e sociali.

Ripensare la teoria dell’impresa, quindi, secondo questa prospettiva significa ridefinirne del tutto gli scopi “ … il management, oltre ad essere uno stakeholder come gli altri, con un interesse nell’impresa simile a quello di altri dipendenti, svolge un ruolo “speciale” che si esprime nell’adempimento del dovere morale di proteggere il “benessere” e di badare alla “salute” dell’impresa ...”36

Dalla Stakeholder Theory si è quindi sviluppato lo studio delle relazioni interattive del business moderno in cui lo stakeholder engagement conduce a responsabilità reciproche, dialogo e condivisione di impegni.

Si affermano, pertanto, gli studi di business ethics o “etica degli affari” che investono tutte le aree del management, dalle funzioni produttive alle strategie competitive e definiscono le norme di condotta delle politiche di gestione e del sistema dei controlli. Frederick (1986) sostiene la necessità di una “corporate social rectitude” CSR3 che viene incorporata alle precedenti impostazioni ( CSR1 e CSR2), con la quale si devono analizzare i valori etici insiti nei comportamenti sociali dell’impresa.

“Corporate social rectitude embodies the notion of moral correctness in actions taken and policies formulated. Its general value referent is that the body of sometimes dimly or poorly expressed but deeply held moral convictions that comprise the culture of ethics”.37

Di fatto, la business ethics cerca di rispondere alla domanda se esiste un nesso tra la ragione etica e la ragione economica fornendo un giudizio di merito sulla condotta d’impresa in relazione ai valori che la caratterizzano ed in funzione di quelli che contraddistinguono l’ambiente in cui essa opera.

Nel 1987 Epstein unisce la corporate social responsibility, la corporate social responsiveness e la business ethics in ciò che egli definisce “corporate social policy

36 D’Orazio E.”(2008). 37

(22)

22

process” ed aggiunge “The nub of the corporate social policy process is the institutionalization within business organizations of the following three elements …business ethics, corporate social responsibility and corporate social responsiveness”.38

L’obiettivo dell’impresa deve, difatti, costituire un unico orientamento globale per la propria attività.

Lorenzo Sacconi (2005) a sua volta definisce la Business Ethics come “ l’applicazione della riflessione filosofica alle diverse istituzioni dell’economia, dal livello più generale (Stato, Mercato), alle forme organizzative intermedie (Imprese e organizzazioni) fino alle singole decisioni manageriali e comportamenti individuali (contratti, rapporti di lavoro), al fine di esprimere una valutazione sulla giustificazione morale di tali istituzioni, riaffermandone la legittimazione morale e, nel caso delle imprese, le condizioni per una “licenza di operare condivisa”. Si tratta quindi di etica applicata…”39

Nel saggio“ Visione etica e valori d’impresa” (2005) Baldin e Sacconi considerano la visione etica di impresa dal punto di vista del contrattualismo40 “Ciò che ha valore etico, per il contrattualismo, è l’accordo unanime tra gli stakeholder nel perseguire il loro reciproco vantaggio; l’eticità sta nell’imparzialità dell’accordo…la visione etica di impresa è l’interpretazione dell’idea di giustizia caratterizzante una particolare impresa... la visione etica riunisce e supera, in un certo senso, sia la “missione” che i “valori aziendali … Essa stabilisce la modalità (etica) con cui si intende perseguire la missione..I valori poi sono i principi etici di equo trattamento di ciascuno stakeholder”.41

“Si potrebbe anzi suggerire che produrre una buona teoria del bilanciamento tra interessi degli stakeholder dell’impresa sia uno dei più importanti banchi di prova dell’etica normativa applicata, certamente il più importante in EdA”.42

Gli studi sulla business ethics hanno senz’altro sviluppato ed influenzato positivamente anche negli anni successivi il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa dato che, facendo riferimento a valori accettabili da tutti, forniscono giustificazioni all’assunzione di comportamenti e pratiche responsabili da parte delle aziende.

38 Epstein E. (1987), in Carroll A. (1999), cit., p.288. 39 De Colle S.- Sacconi L. (2005), p. 611.

40

La teoria contrattualistica sarà ampiamente trattata in un successivo capitolo.

41 Baldin E.-Sacconi L. (2005), p. 604. 42 Sacconi L. (2005), p. 266.

(23)

23

Negli stessi anni si sviluppa il concetto di Corporate social performance (CSP) che concerne la capacità dell’impresa di rispondere in modo adeguato ai problemi e alle aspettative sociali e gli effetti che le politiche di responsabilità sociale intraprese hanno sulla sua performance.

Carroll (1979) ritiene che la CSP deve consistere nell’integrazione di tre dimensioni interconnesse: 1) la corporate social responsibility che consiste nel definire le responsabilità dell’impresa43

nei confronti della società; 2) la corporate social responsiveness che comprende la rispondenza verso i problemi sociali e 3) i social issues cioè l’identificazione delle problematiche e delle aree di interesse a cui vuole rivolgersi l’azienda.44

Rispetto a tali responsabilità l’impresa può assumere atteggiamenti diversi che danno luogo a risposte diverse determinando il suo livello di performance sociale.

Anche Sethi (1979) fornisce un importante contributo individuando tre livelli di comportamento dell’azienda in risposta ad istanze sociali: “social obligation”, “social responsibility” e “social responsiveness”. Il primo termine si riferisce ai comportamenti dell’impresa in risposta ad obblighi sociali; il secondo al rispetto dei valori e delle norme della società; la responsiveness si riferisce, invece, al ruolo attivo che l’azienda deve avere nella società.

Al modello di Carroll si rifanno Wartick e Cochran (1985) definendo la CSP come “l’integrazione dei principi di responsabilità sociale, i principi di risposta e le politiche sviluppate per risolvere problematiche sociali”.45

Carroll sostiene “one of the major contributions of these two authors was to recast my three aspects – corporate social responsabilities, corporate social responsiveness and social issues – into a framework of principles, processes, and policies. They argued that my CSR definition embraced the ethical component of social responsibility and should be thought of as principles, social responsiveness should be thought of as processes, and social issue management should be thought of as policies”.46

44 Carroll (1999), p. 287. 45 Tantalo C.(2010), p. 83. 46 Carroll (1999), ibidem.

(24)

24

Dagli anni Novanta in poi il concetto di Responsabilità sociale d’impresa si arricchisce ulteriormente con altre tematiche e prospettive analitiche sia a livello internazionale che europeo.

La caduta delle tensioni ideologiche dovuta alla crisi dei Paesi socialisti dell’Europa dell’est e la loro apertura al libero mercato significa, infatti, per le imprese ridisegnare il loro ruolo nell’attuale scenario economico globalizzato per rispondere efficacemente alle nuove problematiche e tendenze che sorreggono la domanda di responsabilità sociale.

Ritengo, pertanto, utile analizzare la tendenza alla globalizzazione economica e la problematicità dei processi di sviluppo in una chiave di lettura che dia conto del loro impatto ambientale e sociale oltreché dell’evoluzione dei sistemi di welfare.

(25)

25 1.3 La Globalizzazione e la terza generazione del welfare

L’espressione globalizzazione definisce l’integrazione di tutti i Paesi in un unico sistema planetario, caratterizzato dall’interdipendenza degli stessi sul piano economico, tecnologico, culturale e politico. Tale termine traduce l’estendersi delle relazioni a tutti i Paesi del mondo, causato dall’aumento impressionante delle transazioni finanziarie e degli scambi internazionali di beni e servizi, dalla diffusione generalizzata delle telecomunicazioni e della tecnologia e dall’accresciuta mobilità territoriale delle persone su scala planetaria. E’ forse il fenomeno più rilevante e complesso della nostra epoca storica, perché coinvolge la sfera politica così come l’economia e il lavoro, ma anche la cultura di gran parte della popolazione mondiale ed è per tale ragione che risulta alquanto difficile tentarne una esaustiva comprensione.

Gli studiosi di differenti discipline hanno, specie negli ultimi anni, fornito svariate elaborazioni e generalizzazioni che, pur presentando un indubbio valore, non hanno contribuito ad esaurire i quesiti di riflessione critica sul tema.

Il fenomeno va, a mio parere, inquadrato secondo varie prospettive: sociale, tecnologica, politica e, ovviamente, economica. Nel mio lavoro privilegerò, ovviamente, quest’ultima ma mi sembra opportuno analizzare comunque il processo socio - politico che ne costituisce il substrato.

Già nel 1964 Marshall McLuhan, studioso delle comunicazioni di massa, usava nel suo libro “Understanding Media: The Extensions of Man” la locuzione “villaggio globale”per indicare la comunità globale in cui tutti sono interconnessi ed immaginava una dimensione in cui il globale viene racchiuso in un unico guscio grazie alla tecnologia.

La globalizzazione può, però, dirsi nata storicamente con la caduta del muro di Berlino che ha comportato la crisi e la fine dei sistemi socialisti dell’Europa orientale insieme alla caduta delle tensioni ideologiche e all’apertura dei Paesi dell’est al libero mercato ed è stata, quindi, l’applicazione a tutti i settori dell’economia del modello neo liberista. L’emergere di una economia globale è stato favorito dall’evoluzione dei mezzi di trasporto, che ha facilitato enormemente la circolazione delle persone e delle merci,

(26)

26

dalla rivoluzione tecnologica delle telecomunicazioni e dell’informatica che hanno intensificato i flussi di immagini e di informazioni.

Le conseguenze di tali rivoluzioni tecnologiche insieme ai cambiamenti economici paiono segnare non solo la dimensione materiale della vita bensì tutti gli aspetti politici, culturali e sociali.

A livello politico l’equilibrio spesso conflittuale tra gli Stati- nazione si è trasformato in un nuovo modello dove i diversi sistemi politici tendono ad uniformarsi a livello istituzionale ed ideologico e non possono più prescindere dagli altri protagonisti della scena mondiale quali le regioni, le altre istituzioni nazionali e internazionali e le imprese multinazionali.

La società oscilla tra il globale e il locale: si parla infatti di “processo di “glocalizzazione” nel quale l’individuo oscilla tra due poli, quello locale e ristretto della propria cerchia di amici e familiari e quello virtuale universale nel quale le distanze si annullano e diventa possibile una comunicazione istantanea con persone in qualunque parte del mondo”.47

Assistiamo ad una omologazione linguistica, materiale e culturale che sta profondamente modificando le culture tradizionali di tante aree del Pianeta che tendono, pertanto, a uniformare strutture economiche, tecnologia, consumi e codici di comportamento ad un unico modello. D’altra parte si assiste, in alcuni contesti territoriali, a forme di reazione, anche violente, a questa omologazione, come dimostra il diffondersi di atteggiamenti fondamentalisti, così come la nascita di nazionalismi e localismi.

A livello economico, il modello neo liberista ha promosso la liberalizzazione degli scambi, la trasformazione internazionale del mercato del lavoro oltreché la finanziarizzazione dell’economia.

I flussi economici, commerciali e finanziari si sono moltiplicati in maniera rapidissima, rendendo molto difficile il loro controllo da parte delle istituzioni statali, anzi “si verificano situazioni in cui i governi e la burocrazia locale, per incapacità, corruzione, mancanza di chiara legislazione nazionale, spesso per attirare nel loro paese gli

(27)

27

investimenti finanziari o gli ordinativi, hanno ceduto una rilevante fetta di potere al management aziendale straniero.

Si configura così quella che viene definita la perdita di potere degli stati nazionali a vantaggio della grande finanza, che ne espropria la capacità di dirigere le politiche economiche e sociali attraverso i classici strumenti di politica economica e sociale come i tassi di cambio e di interesse, le politiche industriali, fiscali e commerciali, le competenze giudiziarie, il Welfare”.48

Il ruolo dello Stato viene ridimensionato sia dalle organizzazioni sovranazionali ed internazionali, sia da soggetti non statali: la “governance” del mondo globalizzato passa attraverso i concetti di società civile, di cittadinanza e di responsabilità sociale

Tali considerazioni portano a guardare la globalizzazione in termini critici, valutandola in rapporto con le varie problematiche sociali ed ambientali sopra prospettate.

Il mondo globalizzato aveva “promesso” di emancipare le zone del Pianeta ancora depresse, di ridurre lo spaventoso gap tra Paesi ricchi e Paesi poveri, di eliminare le condizioni di povertà estrema, di cancellare gli squilibri e lo spreco di risorse naturali ed umane.

Ma, come afferma Becchetti (2005), tali promesse non si sono realizzate e la globalizzazione “è accusata di non aver dispiegato le sue enormi potenzialità in termini di sostenibilità sociale ed ambientale dello sviluppo”.49

Attualmente la globalizzazione esprime una grande dinamicità ma al tempo stesso produce effetti economici a doppio taglio, perché mentre consente la crescita della ricchezza aumenta i divari tra ricchi e poveri, tra quelli che riescono a inserirsi nel processo e quelli che ne rimangono inesorabilmente esclusi.

Infatti la mondializzazione del mercato del lavoro ha prodotto un aumento delle disuguaglianze nelle condizioni di vita sia a livello globale sia all’interno di uno stesso Paese tra diverse classi sociali contestualmente ad una crescita considerevole del benessere per le fasce di popolazione più ricche: sono, cioè, aumentate le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.

48 Musumeci U.(2005), p.561. 49 Becchetti L. (2005), p. 71.

(28)

28

I lavoratori sono certamente liberi di muoversi ma il cambiamento del mercato penalizza sicuramente di più quelli meno specializzati il cui potere contrattuale è molto limitato e che si trovano in concorrenza con i loro colleghi di altre aree geografiche. L’apertura degli scambi e la delocalizzazione di molte imprese in aree con basso costo della manodopera dovrebbe teoricamente aumentare le opportunità occupazionali in quei Paesi: ma l’aumento dei posti di lavoro non significa automaticamente crescita dei redditi o migliore qualità della vita. Le realtà locali, infatti, vengono ad essere inserite in quadri produttivi funzionali ai disegni delle imprese transnazionali.

D’altronde le cosiddette imprese globali si muovono delocalizzando continuamente gli impianti, allo scopo di trovare il rapporto ottimale tra i fattori della produzione (capitale, lavoro, materie prime) e massimizzare i suoi vantaggi.

I Paesi poveri difficilmente possono godere dei benefici legati alla liberalizzazione dei mercati dato che, nell’attuale divisione internazionale del lavoro, fungono soprattutto da serbatoio di manodopera non qualificata.

Inoltre spesso sono in competizione tra loro per le esportazioni e per il reclutamento degli investimenti stranieri: accade che istituzioni statali corrotte e incapaci e/o personaggi dell’élite politica e affaristica gestiscono enormi capitali e ricchezze naturali come patrimonio personale cedendo parte del potere al management straniero.

Altro fattore fondamentale della globalizzazione è la finanziarizzazione dell’economia: in seguito alla riduzione delle restrizioni sulla circolazione monetaria (deregulation) degli anni Ottanta, la mobilità dei capitali è in continua crescita e le transazioni dell’economia finanziaria hanno un’intensità di molto superiore agli scambi dell’economia materiale. La rete finanziaria globale lega tutte le piazze del Pianeta e i mercati valutari sono collegati 24 ore al giorno per mezzo delle transazioni elettroniche spostando masse di denaro enormi.

A fronte di tali, profondi, cambiamenti, però, il reale problema consiste nel fatto che “la globalizzazione è un fenomeno non controllabile e non regolato dai governi delle singole Nazioni, che appaiono spesso impotenti di fronte alle “libere leggi del mercato”, anche quando queste ultime provocano distorsioni e squilibri non desiderati”.50

(29)

29

La globalizzazione sta rendendo ogni Paese e ogni attore economico più piccolo, più interdipendente e per certi versi più vulnerabile agli shock esterni,come afferma Lorenzo Bini Smaghi nel suo intervento per il 253° Anno Accademico dei Georgofili a Firenze.

“I cittadini europei ritengono che la globalizzazione vada regolata” sostiene Bini Smaghi, ma “Chi definisce le regole del gioco? Chi le fa rispettare?” E’ cambiato il ruolo delle istituzioni internazionali ma non sempre in maniera equa. “La globalizzazione tende a far emergere un numero limitato di “giocatori” globali, di importanza sistemica, come gli Stati Uniti, la Cina, l’India, e a favorire raggruppamenti regionali, come l’Unione Europea” mentre rimane insuperato il problema della rappresentatività dei Paesi più poveri nelle trattative sul commercio internazionale. In una tale scacchiera i vari Paesi hanno abdicato alcuni strumenti di governo, le decisioni di politica economica degli Stati sono state in gran parte trasferite ad organismi sovranazionali che hanno ormai il controllo della politica monetaria e fiscale. D’altronde, la macroeconomia classica ritiene che l’azione dei policy maker in economia deve essere sostanzialmente “indiretta, cioè volta ad eliminare tutti gli eventuali ostacoli che non permettono al mercato di funzionare efficientemente ed ha obiettivi prettamente di riallocazione e di stabilizzazione”.51 Anche settori quali la sanità, l’istruzione, l’alimentazione considerati diritti fondamentali, da garantire a tutti, si trasformano in beni privati il cui accesso dipende dalle condizioni di mercato. Ciò è compatibile con una concezione dello Stato minimale le cui politiche, tese al contenimento dell’inflazione, alla stabilità dei conti pubblici e dei conti con l’estero, devono perseguire la privatizzazione oltreché delle imprese pubbliche anche dei servizi sociali.

E’ chiaro, dunque, che, esiste un problema di governance della politica economica che ha il compito di rimodulare gli obiettivi di benessere sociale formulati sulla base di opportune scale di valori.

Il vecchio welfare è oggi incapace di affrontare le nuove povertà e le disuguaglianze sociali in continuo aumento: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale

(30)

30

hanno oggi maggiore difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti: si tratta di ciò che gli analisti chiamano “la trappola della povertà”.

Il sistema del welfare si è retto sino ad ora, innanzitutto, sulla cosiddetta logica del “pianificatore sociale”. Le istituzioni, hanno, cioè, il compito di analizzare attentamente la realtà sociale, individuarne i bisogni e le aspettative, valutare le condizioni concrete del territorio e, poi, mettere in atto gli opportuni correttivi ( quali tassazioni o incentivazioni) per allineare obiettivi privati e obiettivi sociali.

Un intervento di tal genere è la cosiddetta “tassa di Pigou”, utilizzata nei confronti di imprese private che producono esternalità negative per la società.

Tale approccio al welfare è alquanto semplicistico in quanto non tiene conto dei possibili conflitti di interesse all’interno delle istituzioni o di disallineamento tra gli interessi dell’organo istituzionale e di coloro che vi operano: basti pensare all’assistenzialismo erogato a pioggia per ottenere consensi. In tal caso il policy maker agisce per il suo personale tornaconto in contrasto con il benessere della collettività. La seconda frontiera dell’economia del benessere, come sostenuto da Becchetti (2005), è quella della riforma della governance, ovvero della ricerca di regole ottime in grado di orientare gli incentivi degli agenti economici al perseguimento del benessere collettivo e di ridurre o eliminare gli effetti perversi delle asimmetrie informative.52

Le istituzioni dovrebbero fornire regole che siano in grado di dissuadere o limitare al massimo i danni prodotti da coloro che perseguono unicamente il proprio benessere anziché quello della società.

Anche questo approccio che mira a conseguire gli obiettivi della sostenibilità sociale ed ambientale deve, purtroppo, fare i conti con i vari scandali che interessano, spesso, il mondo finanziario ed imprenditoriale.

E’ evidente che le regole, le punizioni e gli incentivi non bastano: quindi, è necessario qualcosa che possa bilanciare il rapporto tra le istituzioni e le imprese.

Questa può essere la nuova, terza generazione del welfare, quella che deve ripartire dal basso, dai cittadini che, tra le istituzioni e le imprese, diventano l’ago della bilancia nell’ideale “equilibrio dei poteri”.(Becchetti 2005)

(31)

31

I cittadini possono esercitare un’attenta azione di controllo e di supporto nei confronti delle imprese e delle istituzioni spingendo le prime ad implementare la propria responsabilità sociale e le seconde ad adottare provvedimenti atti ad una migliore sostenibilità sociale ed ambientale.

Un concreto esempio di questa terza generazione di welfare la si può trovare nel commercio equo e solidale che permette a prodotti agricoli provenienti da Paesi in via di sviluppo e da aree del Pianeta gravate da piaghe sociali ed ambientali, di entrare nel nostro mercato, tramite circuiti alternativi di distribuzione.

L’acquisto di tali prodotti, che vengono pagati a costi lievemente superiori rispetto a quelli tradizionali, rivela nei consumatori una particolare sensibilità e prova la solidarietà e la vicinanza nei confronti di quelle popolazioni. Responsabilità sociale viene dimostrata anche dai negozianti, piccoli e grandi che accettano di esporre nei loro scaffali tali merci : è uno dei modi per ridurre il gap tra il Sud e il Nord del mondo, tra chi subisce e chi detta le regole.

All’economia liberista di mercato che si poggia sul principio del libero commercio internazionale si può, senz’altro, opporre un’economia solidale e civile che trova nella solidarietà, appunto, la sua forza.

Ma il welfare può ripartire anche dalle imprese che, adottando scelte socialmente responsabili, talvolta costose o difficili, si avvicinano ai consumatori e ai propri dipendenti, mettendo al centro della propria mission la persona e i suoi bisogni più profondi, pur senza perdere di vista la natura economica della propria attività, anzi scoprendo un nuovo ruolo all’interno della società dei consumi per perseguire la possibilità di uno sviluppo sostenibile a garanzia delle future generazioni.

(32)

32 1.4 La Sostenibilità sociale ed ambientale

The global economy is now so large that society can no longer safely pretend it operates within a limitless ecosystem. Developing

an economy that can be sustained

within the finite biosphere requires new ways of thinking.53

A partire dagli anni ’70 ha iniziato a farsi strada l’esigenza di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse in un nuovo modello di sviluppo in seguito alla presa di coscienza del fatto che il concetto di sviluppo classico, legato esclusivamente alla crescita economica, avrebbe causato entro breve il collasso dei sistemi naturali.

Nel 1972 nella Conferenza Onu sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma, per la prima volta la Comunità internazionale adottava alcuni principi che saranno alla base del concetto di sviluppo sostenibile. “Le risorse naturali della Terra, devono essere salvaguardate a beneficio delle generazioni presenti e future attraverso una programmazione e una gestione appropriata e attenta".

Una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1983 istituiva la WCED (World Commission on Environment and Development), che aveva l’obiettivo di elaborare una “Agenda globale per il cambiamento”: esaminare, cioè, le problematiche relative ad ambiente e sviluppo in un’ottica integrata su scala planetaria e con la formulazione di proposte realistiche per risolverle; proporre nuove forme di cooperazione internazionale sui temi dell’ambiente e dello sviluppo, in modo da influenzare le politiche nazionali e limitare il prevalere degli interessi dei singoli stati; favorire la diffusione di una coscienza e di un impegno collettivi circa queste problematiche; creare un’agenda globale per il cambiamento. I temi chiave esaminati sono stati: popolazione e risorse umane, sicurezza alimentare, specie ed ecosistemi, energia, industria, ambiente urbano, gestione dei beni comuni, conflitti e degrado ambientale.

(33)

33

Nel 1987 la Commissione pubblicava il rapporto Brundtland ( dal nome della presidente norvegese Gro Harlem Brundtland) dal titolo “Our common future”, che introduceva la famosa teoria dello sviluppo sostenibile “Humanity has the ability to make development sustainable to ensure that it meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs”.

Che cos’è dunque lo sviluppo sostenibile?

Il concetto di sviluppo sostenibile si fonda sull'integrazione di varie componenti: ambiente, economia, socio-cultura (dimensioni dello sviluppo), equità sociale, equità interlocale, o intragenerazionale, equità intertemporale o intergenerazionale (dimensioni di equità), diversità, sussidiarietà, partnership e networking, partecipazione (principi di sistema).

E’, in altri termini, l’unica forma di sviluppo possibile a lungo termine: indica il miglioramento della capacità della comunità nel soddisfare le esigenze umane, materiali e non, attuato in modo da garantire alle generazioni future le nostre stesse possibilità di soddisfarle.

La sostenibilità va, pertanto, intesa come un continuo processo che richiama la necessità di coniugare le tre dimensioni fondamentali e inscindibili dello sviluppo: ambientale, economica e sociale.

La sostenibilità dello sviluppo si fonda su due requisiti: la sostenibilità sociale e la sostenibilità ambientale che “sono fondati sui principi etici di equità, libertà, uguaglianza e pari opportunità ma ciò non deve far ritenere che essi siano in contrasto con i più prosaici, ma vitali obiettivi economici. Infatti, l’accesso di tutti alle opportunità economiche è condizione imprescindibile di efficienza”.54

Lo sviluppo sostenibile cioè “implica un impegno per l’equità sociale tra generazioni che per coerenza … deve essere esteso all’equità nell’ambito di ogni generazione”. Si sostiene la necessità di una solidarietà diacronica, dunque una solidarietà tra le diverse generazioni; il reddito, la ricchezza e le risorse del Pianeta vanno gestite e tutelate affinché le future generazioni possano ereditarli. E’ questa la condizione di sostenibilità intergenerazionale55: le risorse rappresentano dunque per l’umanità (passata, presente e futura) il patrimonio su cui si fondano tutte le sue attività, il capitale

54 Vercelli A. (2005), p.58. 55 Vercelli A. (2005), p. 57.

Figura

Figura  4: Le fasi della gestione eticamente e socialmente responsabile
Figura 5: Il modello di gestione strategica Q-RES e i suoi passi

Riferimenti

Documenti correlati

The independent association of MMP/TIMP ratio and ischemic stroke subtypes was analyzed with binary logistic regression models adjusting for age, sex, onset-to-treatment

La scelta definitiva di Caproni va in ogni caso alla nuance, alla sfumatura che si nutre del contrasto, delle contrapposizioni tra bianco e nero, giorno e notte… (sì che

 A sustainable, efficient, versatile functionalization method was developed for the chemical modification of carbon black using pyrrole compounds  The introduction of

The chemistry of substituted 1,2,4-benzothiadiazine 1,1dioxides is extensively studied because such compounds represent an important scaffold in pharmaceutical chemistry that can

Le scienze cognitive e le tecniche di simulazione sono da qualche tempo entrate nel settore della sanità e delle cure mediche, muovendo dal versante dell’errore e della

ITAM: immunoreceptor tyrosine-based activation motif; Itk: inducible T cell kinase; LN: lymph nodes; LPL: lymphoplasmacytic lymphoma; MAPK: mitogen- activated protein kinase;

Dall’altra parte però vi è una certa declinazione della soggettività, come quella Transumanista, che visualizzando solo il potenziale ottimizzante dell’ibrido

In quel «libro casalingo del nostro popolo», al dipinto di Ussi venne consacrata una nota siglata assai eloquente sul significato politico del quadro appena esposto: