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HEIDEGGER:il darsi dell'essere

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(1)

Heidegger

(2)

Dalla fenomenologia all’esistenzialismo

all’ontologia

La scoperta husserliana della visione

d’essenze come gesto che non si ferma

alla superficie delle cose, ma ne coglie

l’essenza, costituisce per Heidegger

l’avvio della ricerca ontologica che

Husserl non ha potuto svolgere.

(3)

Oltre la coscienza trascendentale

• Heidegger critica Husserl perché secondo lui non è stato

pienamente fedele al principio dell’“andare alle cose

stesse”, limitandosi a considerare l’intenzionalità come

atto della coscienza senza chiedersi quale sia “l’essere

dell’ente intenzionale” che ha la coscienza. Ciò gli ha

impedito di porre il problema del senso dell’essere

stesso, limitandosi alle essenze oggettive costituitesi

all’interno della coscienza. Ma oltre la coscienza vi è la

questione

ontologica

dell’essere,

implicitamente

(4)

Il senso dell’essere

Se la fenomenologia ha lasciato fuori dall’indagine

propriamente l’essere di colui che ha coscienza, Heidegger

ritiene che questo vuoto vada colmato. Anzi egli ritiene

propriamente che per rispondere alla domanda

fondamentale della filosofia, quella relativa all’essere (per

lui infatti la filosofia è anzitutto ontologia), è necessario

in via preliminare indagare l’essere di colui che si pone la

domanda e che pertanto rappresenta il luogo più

adeguato per comprendere l’essere. Per capire il senso

dell’essere bisogna dunque indagare l’essere dell’uomo

come di quell’ENTE che si pone la domanda sull’essere.

(5)

In ESSERE E TEMPO (1927)

Heidegger sviluppa un’

ANALITICA ESISTENZIALE

finalizzata ad indagare l’ente che si pone la domanda

sull’essere

(6)

ESSER-CI

• L’uomo è per Heidegger da indicarsi come

l’ESSERCI (DA-SEIN). Tale formulazione indica

che l’essere dell’uomo è da sempre collocato

in un “ci”, cioè in una situazione, in un mondo,

in un contesto nel quale l’uomo stesso è come

gettato e verso il quale è originariamente

aperto.

(7)

Geworfenheit-gettatezza

• L’uomo è gettato in un mondo, cioè si trova ad

essere dentro un contesto di cose senza poter

sapere il come e il perché. Gettatezza significa

«trovarsi ad essere», ossia l’idea di essere stato

inserito in un contesto a prescindere da ogni

intenzione propria, da ogni propria decisione a

proposito: nessuno mi ha interrogato sul mio

essere al mondo, semplicemente «sono stato

messo al mondo», sono stato appunto gettato.

(8)

Non semplice presenza…

L’essere dell’uomo non si riduce però alla

semplice presenza in un mondo (od oggettività)

che caratterizza gli oggetti (Gegenstaende -

object: ciò che sta contro, ciò che sta davanti).

Egli non è mai semplice presenza poiché è

quell’ente PER CUI gli oggetti sono presenti.

(9)

Ma ek-sistenza e possibilità

• L’essenza dell’uomo è la sua esistenza. Egli sta

sempre fuori-di-sé (ek-sistere) proteso verso le

cose, il mondo, gli oggetti. Egli è sempre calato e

gettato in una determinata situazione. Ma tale

esser-ci dentro una situazione, quindi proteso

fuori di sé non è solo spaziale ma anche

temporale nel senso che in ogni suo rapporto con

il mondo egli realizza il proprio essere,

(10)

Semplice presenza e possibilità

L’oggetto semplicemente presente ha un suo essere

determinato e chiuso in sé, è lì nella sua oggettività.

L’uomo non ha un suo essere determinato, ma, nel

rapporto con il mondo realizza il suo essere, ha da

essere, muta se stesso giungendo ad essere qualcosa

(qualcuno) che prima non era.

L’esserci è dunque ek-sistente nella possibilità e DECIDE

del proprio essere nel senso dell’autenticità o della

dissipazione di sé.

(11)

Kierkegaard

Ecco qui ripresentarsi il tema kiekegaardiano dell’esistenza

come qualcosa di caratterizzato profondamente dalla

possibilità…la possibilità come categoria più «pesante»

della realtà significa per Heidegger che l’uomo è un

progetto, ha da essere, è nella possibilità, e che la semplice

presenza è semplicemente una categoria derivata: ciò che è

reale nel senso di semplicemente presente è qualcosa

considerato a prescindere dal progetto in cui trova il suo

senso, quindi qualcosa che è pensato in modo difettivo e

privativo.

(12)

PROGETTO

L’uomo è dunque un poter-essere, è un ente che progetta se stesso e gli oggetti del mondo si orientano in base a questo suo

progetto. Dentro il progetto anch’essi non possono essere considerati semplici presenze. Al contrario essi si qualificano

come degli UTILIZZABILI

È utilizzabile ciò che assume il suo senso perché viene considerato strumento per relaizzare una data forma di vita.

Quindi non si tratta di interpretare utilitaristicamente il termine, ma nel senso di un rapporto che viene a definirsi di volta in volta in

(13)

ESSERE-NEL-MONDO

(In-der-Welt-sein)

L’uomo, a partire dalla sua gettatezza, dal fatto che si trova ad essere, si progetta, cioè costruisce se stesso. Ciò significa che egli trascende (oltrepassa) – con il suo progettarsi – se stesso verso il mondo, è sempre proteso oltre se stesso in direzione del mondo, ma non nel senso contemplativo e intenzionale, come asseriva Husserl, bensì nel senso concreto dell’avere a che fare con le cose per trasformare, nel commercio con le cose, se stesso secondo il suo poter-essere. Se per Husserl per ritrovare le cose stesse bisogna analizzare l'esperienza, ma un'esperienza depurata dalla riduzione fenomenologica, per Heidegger così si cederebbe al teoreticismo (eccessiva esaltazione della dimensione conoscitiva). Per Heidegger bisogna cercare di capire la vita come si dà innanzitutto e per lo più, ovvero nella sua quotidianità. Così egli pone attenzione alla vita effettiva in cui ci sono uomini che sono quello che sono e si danno da fare per realizzare un futuro.

(14)

Esistenziali

Nella sua vita effettiva e concreta, cioè nella sua

esistenza gettata, l’uomo appare caratterizzato

da tre connotati:

Situazione emotiva

Comprensione

(15)

La situazione emotiva

L’Esserci è gettato ,è là in una vita, non sapendo

né il donde, né il dove, né il perché. Questo

trovarsi-ad- essere va a costituire la sua

fondamentale situazione emotiva, il suo umore,

il suo stato d'animo. L'uomo ha questa

autocoscienza che precede ogni conoscenza. Egli

si autoavverte, è assegnato al mondo e ne sente

il

contraccolpo

nei

sentimenti

dello

(16)

La comprensione

L’uomo si accosta al suo mondo con i suoi «sentimenti», le sue «passioni», le sue «paure» le sue «angosce». Questo è il primo approccio che apre le cose ad un ulteriore atto tipicamente umano, quello della comprensione. Il comprendere non è conoscenza, ma è quel modo di maneggiare le cose che è ricco di sapere, di una veduta sull'ente non di carattere teoretico, non formalizzato, non dichiarativo, ma di una certa visione ambientale preveggente, che è il sapere dove ci si trova e saper fare uso degli oggetti del nostro ambiente dissociando mezzi e scopi. Noi comprendiamo il senso e la comprensione si realizza nell' incontro pragmatco (da prassi = azione) col mondo. Quindi il comprendere è un sapere per agire e costruire il nostro progetto. È un sapere concretamente progettante.

(17)

Il discorso

Il discorso è qualcosa di simile all’articolazione di ciò che si è compreso. Il discorso ritaglia e articola l'insieme del compreso. Ergo il discorso non è niente di fonetico ed è preverbale, cioè ritaglia il significato della cosa rispetto al magma indistinto dell'ambiente. Esso esprime, mette assieme i significato. Il discorso ad un certo punto può mondanizzarsi, fonetizzarsi. La totalità di significati sfocia in parole, ai significati crescono le parole, i significati si rivestono di parole. Heidegger vuole mantenere la sfera della significazione al di qua di quella dell'espressione fonetica. Ergo l'uomo è discorrente prima di parlare.

Il suo parlare può articolare il progetto o può scadere nella chiacchiera che è il parlare per parlare, senza alcuna vera determinazione di significati rilevanti per la nostra vita.

(18)

L’esserci e la sua struttura

L’uomo si trova ad essere, è già in un mondo; comprende e

quindi progetta, articola i significati in discorsi sensati e

parla. Questi esistenziali, cioè questi caratteri fondamentali

dell’uomo, hanno come si vede un carattere temporale. La

situazione emotiva riguarda ciò che è già accaduto: siamo

stati gettati. Quindi attiene al passato. La comprensione è il

capire per agire e progettarsi e quindi implica un rivolgersi

al futuro. Il discorso come articolazione del compreso non

ha una precisa connotazione in avanti o indietro, ed è

quindi, per amore di simmetria, riconducibile al presente.

(19)

La cura (Sorge)

Essere nel mondo vuol dire essere gettati e progettarsi avendo a che fare con il proprio mondo. Questa è la descrizione di quello che è l’Esserci, dell’essere dell’Esserci. Tale struttura si riassume nel concetto di CURA: . La cura è l'essere avanti a sè, già in un mondo, presso l'ente di cui si prende cura. «Avanti a sé», «già in» e «presso» sono i tre momenti già incontrati nella comprensione, situazione emotiva, discorso... . La cura è quindi il modo in cui siamo aperti alle cose del mondo, come ci relazioniamo con il mondo. Noi lo sentiamo (e ne siamo inquietati) lo comprendiamo e ci progettiamo e vi prestiamo una certa attenzione con il rischio che questa attenzione scada in un rapporto scontato, irriflesso, superficiale.

(20)

Prendersi cura (cose) e aver cura (uomini)

Dunque il commercio dell’uomo con in mondo

degli utilizzabili è una CURA. Questa cura è

ulteriormente specificabile in una relazione con

le cose e con gli uomini: un prendersi cura delle

cose, un originaria pre-occupazione per tutto

ciò che ci sta attorno e che costituisce il nostro

mondo-ambiente (um-Welt, mondo attorno a

cui noi siamo) e un aver cura degli uomini.

(21)

Il prendersi cura

Il prendersi cura è quella relazione originaria che

l’uomo ha con gli oggetti utilizzabili nel suo

ambiente vitale. Egli utilizza gli oggetti e in

generale il mondo in vista di un proprio progetto

esistenziale cui quelle cose sono finalizzate in

qualità di strumenti. Questi sono anche i mezzi di

sopravvivenza, oppure ciò che permette la

normale vita associata, ciò che viene forgiato nel

lavoro, ciò che insomma costituisce il correlato di

beni necessari alla nostra quotidianità e nel

procurarsi il quale si impara a orientarsi nel

mondo e a ordinare l’esistenza.

(22)

Aver cura autentico

Secondo Martin Heidegger non è pensabile l’essere umano (Esserci) senza un mondo popolato da oggetti ma soprattutto da persone che interagiscono non in modo accidentale e fortuito, ma proprio in base alla loro essenza. Heidegger chiama il modo della loro interazione l’“aver cura”. Questo si declina in due ulteriori modalità.

La prima è quella dell’operare affinché l’altro giunga a realizzare

consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria

umanità. Si tratta, potremmo dire, di una forma materna e paterna di assistenza dell’altro, in cui questo viene aiutato a diventare ciò che è, a formarsi secondo una valorizzazione di ciò che costituisce la propria autentica e migliore personalità. Per far ciò bisogna attendere in generale al bene altrui, al sostegno del carattere, alla disciplina delle debolezze, alla costruzione di una sensibilità per il bello, il giusto e per la cultura nel senso più ampio, in un rapporto sano e liberante con se stesso e con il proprio ambiente umano e materiale.

(23)

Aver cura scaduto

Accanto all’aver cura autentico, vi è un aver cura che “solleva gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto”. Infatti il corredo di cose di cui ci si prende cura può essere fornito anche da altri, che possono sostituirsi ad un determinato soggetto nella sua fatica di stare al mondo, una fatica che è tuttavia sommamente educativa e formatrice. Sostituita da un altro in un compito che è proprio, la persona viene “aiutata”, in realtà non in vista del suo autonomo sviluppo, ma della sua dipendenza dall’altro che le fornisce i servizi e con l’esito di una sua sostanziale sottomissione (certe madri iperprotettive, senza volerlo, si comportano precisamente in questo modo con i loro figli).

(24)

L’aver cura autentico costituisce il modo autentico

di coesistere. L’essere dell’uomo, infatti, non è

solo nel mondo, ma con gli altri (Mit-sein =

essere-con, essere assieme).

L’essere con gli altri costituisce un’altra

determinazione essenziale della sua esistenza

(un ESISTENZIALE).

(25)

Il Verfallen (scadimento)

La possibilità connessa all’esistenza umana può comportare

lo smarrirsi negli enti di cui si prende cura, cioè il perder

se stesso nel vortice dei fatti della quotidianità,

mantenendo la propria comprensione del mondo al

livello ONTICO o ESISTENTIVO.

Ciò comporta uno scadimento della sua esistenza, un

VERFALLEN (che P. Chiodi traduce con scelta infelice con

“deiezione”). Questa condizione di smarrimento, anzi, è

in genere il punto di partenza della condizione media

della vita dell’uomo.

(26)

ONTICO-ONTOLOGICO

ESISTENTIVO-ESISTENZIALE

• Ontico = il piano immediato degli enti considerati come orizzonte ultimo di comprensione della vita. I fatti e le cose oltre i quali non si va, così come nel loro apparire quotidiano sono utilizzati senza una comprensione del loro essere.

• Ontologico = la riflessione sull’essere dei fatti e sulla loro significatività in ordine ad un progetto autenticamente umano. • Esistentivo = ciò che nell’esistenza è dato innanzitutto e per

lo più, sul piano della coscienza comune.

(27)

IL “MAN” (si)

L’esistenza scaduta è condotta sul piano della

chiacchiera, del “si” dice e “si” fa, della curiosità vana

e pettegola e dell’equivoco che non va mai al fondo

delle cose in una sorta di vita anonima e priva di

significato profondo, in cui più che vivere, ci si lascia

vivere nella presa del vortice delle preoccupazioni

quotidiane. Chiacchiera, curiosità ed equivoco sono

scadimenti del discorso e imprigionano l’uomo nel

presente quotidiano, annullando ogni suo autentico

progettarsi e possedersi.

(28)

La voce della coscienza

Ma nel mezzo della chiacchiera, quale condizione media e normale dell’uomo, non tarda a farsi sentire la voce della coscienza che richiama alla ricerca del senso del nostro vivere e del nostro esistere permettendoci di compiere il salto dall’esistentivo all’esistenziale.

Ciò significa riportare il nostro progettare umano alla sua radicalità ultima, alla sua possibilità insuperabile, allo scoglio contro il quale non si può non scontrarsi:

LA MORTE

come possibilità che tutte le possibilità divengano impossibili, come radicale naufragio di ogni progetto mondano,

ma anche come verità ultima e ineliminabile di ogni vita e progetto che è intrinsecamente FINITO.

(29)

La morte

La voce della coscienza, ponendo di fronte a noi la

morte come esito inaggirabile di ogni progetto,

relativizza la portata dei nostri stessi progetti,

impedendoci di conferire alla nostra quotidianità una

dimensione assoluta che essa non può avere. Solo così

il quotidiano è posto in una prospettiva AUTENTICA,

quella del nostro essere lì lì per morire, quella del

nostro essere-alla-morte (zum Tode sein) o

essere-per-la-morte.

(30)

Decisione anticipatrice

Ascoltando la voce della coscienza, noi possiamo

decidere di anticipare (non nel senso di suicidarsi, ma

in quello di aver sempre presente, di sapere

consapevolmente) la nostra morte, dimodoché:

“l’anticipante farsi liberi per la nostra morte affranc(hi)

dalla dispersione nelle possibilità che si intrecciano

casualmente, sì che le possibilità effettive […]

possano essere scelte autenticamente”.

(31)

Il nulla possibile

• L’anticipazione della morte ci rappresenta il nulla

possibile di noi e di tutti gli altri esseri e/o cose e

rimane la nostra possibilità più propria.

• Essa è decisa a partire da una particolare situazione

emotiva, quella dell’angoscia, che è paura senza

oggetto, cioè propriamente l’atteggiamento che

nasce di fronte al nulla possibile che essa intuisce e

che la decisione anticipatrice valorizza e pone di

fronte a noi.

(32)

Coraggio di fronte alla finitezza

• Assumendo per sé un atteggiamento risoluto, ci

si mette nelle condizioni di guardare in faccia

alla nostra mortalità per vivere nella

dimensione inaggirabile che ci è propria: quella

di essere progetti gettati e destinati a fallire.

Questo è il coraggio richiesto per vivere

autenticamente. Lo scadimento di tale coraggio

si ha quando si trasforma l’angoscia per il nulla

in paura di qualcosa che di volta in volta si può

fuggire

giungendo

ad

un’inautentica

tranquillità.

(33)

IL TEMPO futuro

L’Esserci è possibilità. Il suo essere è dunque temporale; la

dimensione più importante della sua temporalità è il

FUTURO, cioè l’essere sempre proteso in avanti verso il suo

ad-venire.

Ma ogni progetto che realizza noi stessi lo fa a partire dal

fatto che siamo stati gettati in un mondo. Questo è il nostro

passato: il fatto che noi siamo già in un mondo. Ogni

progetto riprende il nostro passato. Dalla nostra

protensione al futuro emerge quindi il nostro passato,

poiché se noi vogliamo veramente progettarci in avanti

dobbiamo prendere tutto quello che siamo, anche il nostro

essere-già, e RILANCIARLO NEL FUTURO.

(34)

Il TEMPO passato

Ma questo avvenire in quanto apertura alla possibilità

non può non tener conto che si è aperti in quanto

nessuno ha già pre-stabilito quello che noi saremo, in

quanto non vi è un da-dove che determina a priori

una direzione. Dunque l’avvenire si apre nella sua

possibilità in quanto noi siamo gettati, cioè in quanto

la gettatezza è il nostro passato: “è autenticamente

adveniente solo l’esserci che è autenticamente stato”

cioè assume la sua gettatezza come il suo autentica

(35)

IL TEMPO presente

Tra futuro e passato vi è quell’affaccendarsi con

le cose che è il presente, il quale è esposto

sempre al rischio di SCADERE nella quotidianità

indaffarata, oppure di assumere l’istante come

istante della DECISIONE.

Sono questi due modi di assumere il

venir-incontro delle cose nel presente e del nostro

stare presso esse.

(36)

Le estasi temporali

• La temporalità dell’esserci si caratterizza dunque come un “ad-per” che si protende nella possibilità progettuale, un “indietro verso” che riporta al proprio esser-stato originario, e in un “essere-presso” le cose che “vengono-incontro”. Questi elementi determinano l’esserci come tempo cioè come ciò che fa essere l’essere fuori di sé, dunque che lo fa essere in modo EK-STATICO.

• Il tempo è quindi l’EKSTATIKÒN: la determinazione dell’essere dell’esserci come essere costantemente fuori-di-sé. Da tale originaria determinazione nasce ogni possibilità di misurazione e concettualizzazione scientifica del tempo (che è derivata e inautentica).

(37)

ESISTENZA INAUTENTICA e no

• L’esistenza temporalmente inautentica fugge

la decisione anticipatrice e si preoccupa per le

cose assumendo il criterio della riuscita dei

progetti quotidiani con la cancellazione del

loro autentico sfondo temporale: la morte

(futuro), la gettatezza (passato), l’angoscia e la

decisione (presente).

(38)

L’incompiutezza di Essere e tempo

• Con Essere e tempo H. giunge a definire la

temporalità come essere dell’Esserci, ma non

arriva ancora a guadagnare il senso dell’essere in

generale. Infatti l’opera rimane incompiuta, dice

H., anche e soprattutto perché mancava un

linguaggio adatto. Inoltre H. si accorge che la

prospettiva dell’indagine sull’essere a partire

dall’Esserci è ancora insufficiente

.

(39)

Perché l’indagine dell’essere a partire dall’esserci è insufficiente? La differenza ontologica

(Introduzione a “Che cos’è la metafisica?”, 1935 - pubblicata nel 1953)

• L’insufficienza della prospettiva a partire

dall’Esserci è dovuta al fatto che tale indagine

sconta un residuo ontico, cioè rimane ancora

legata ad un ente e come tale rischia di

nascondere implicitamente la differenza tra

(40)

La differenza ontologica

L’ente è “ciò che è”. Tutte le “cose” che sono, sono enti.

L’essere è ciò che fa essere l’ente, è l’elemento, la

non-cosa, grazie a cui gli enti sono.

Negli enti si distingue il loro essere-cose e dietro di loro

l’essere ineffabile, incatalogabile e finora inesprimibile

che manifestandosi, concretizzandosi, “lasciandosi

essere” nelle cose le rende tali, le fa affiorare alla

presenza.

(41)

L’essere non è l’ente

• L’essere dunque non va confuso con

l’oggetto-ente, la cosa ente. L’ente è, l’essere è il ni-ente

(Che cos’è la metafisica? – 1929) cioè è il

niente di cose, il niente di oggettività concreta,

da cui però scaturisce l’ente.

• L’essere propriamente non “è” ma “si dà” (es

gibt) si offre, si manifesta nelle cose che sono,

(42)

L’Esserci è un ente

• Ora malgrado la particolare importanza che ha l’Esserci, in quanto ente che si pone la domanda sull’essere, esso rimane pur sempre un ente. Già Essere e tempo aveva avanzato questa idea, già lì era adombrata la differenza ontologica. Ma si manteneva una certa fiducia nella possibilità di esposizione del senso dell’essere a partire da un ente privilegiato.

• Successivamente H. ritiene che l’indagine vada svolta a partire dall’essere, che debba diventare un’indagine sull’essere dal punto di vista dell’essere e non dal punto di vista dell’uomo. Questo è il senso della SVOLTA (Kehre).

(43)

L’uomo in secondo piano

Nella Lettera sull’umanismo (1947) si afferma a chiare lettere tale nuova prospettiva: non più l’essere in rapporto all’ (a partire dall’) uomo, ma l’uomo in rapporto all’ (a partire dall’) essere.

Qui l’uomo diventa più passivo, diventa solo il tramite di una rivelazione dell’essere (che solo ci consente di comprenderne appieno il suo essere).

Così l’ontologia heideggeriana come ricerca sull’essere e non sull’ente, non può essere qualificata come un umanismo cioè come una filosofia che pone al centro del mondo il soggetto umano

.

(44)

LA METAFISICA E IL SUO ERRARE (L’essenza della

verità – 1931-32)

La metafisica da Platone in poi ha concepito l’essere

come ciò-che-sta-di-fronte, il Gegenstand, l’ob-jectum,

cioè propriamente l’oggetto. Così ha confuso l’essere

con l’ente, ha oggettivizzato e reificato l’essere. Anche

Dio, nella scolastica, è stato pensato come nient’altro

che l’ente supremo. Riflettendo sulla storia di questo

peculiare “scadimento” del pensiero metafisico, che

cercando l’essere ha vagato (errato) fra gli enti, H. è

riportato ad una visione più autentica.

(45)

La verità

Tale visione indica la verità non come

adaequato rei et intellectus, cioè come

adeguamento del nostro intelletto alla cosa

(l’ente-cosa) e nemmeno come certtudo

(certezza che le cose stanno come io le penso),

ma come alétheia (alfa privativo + lanthàno che

significa

velare,

quindi

svelamento,

(46)

La verità dell’essere

La verità non sta nel pensiero del soggetto che giudica ciò che vede (l’idea, dalla radice ID di ORÀO = vedere), ma nel manifestarsi dell’essere attraverso l’ente, al di là e oltre l’ente stesso (come ni-ente). I filosofi pre-socratici avevano pensato la verità in questo modo, prima che la razionalizzazione platonico-aristotelica avesse introdotto questo elemento “giudicante” (la verità, p. es. nel giudizio logico) che da un lato ha entificato l’essere, dall’altro lo ha fatto dipendere dall’uomo. L’esito di tale operazione è stato l’oblio dell’essere nella metafisica occidentale e la progressiva centralità in essa del soggetto (metafisica della soggettività). Il culmine di questa autoesaltazione soggettiva è stato Nietzsche e la sua metafisica della volontà di potenza.

(47)

Nietzsche (1961)

Con Nietzsche non emerge un pensiero antimetafisico,

come il filosofo di Röcken avrebbe voluto, ma poiché

l’essere è fatto dipendere dalla volontà di potenza del

soggetto, esso diventa più che mai oggetto di una

produzione, cioè della centrale volontà del soggetto. Ma la

volontà di potenza, chiusa nella dominio dell’ente risulta in

modo peculiare dimentica dell’essere. Essa, dimenticando

l’essere, vuole nient’altro che se stessa, come un motore

che gira a vuoto, e diventa una nichilistica volontà di

volontà. Questo è per H. il compimento nichilistico della

(48)

La tecnica (La questone della tecnica –

1950)

Esito ultimo della metafisica della soggettività è la peculiare visione dell’essere veicolata dalla tecnica. Essa non è neutra, non è strumento che si adatta a tutti i pensieri e i fini, ma già presuppone una data comprensione dell’essere dell’ente. Quest’ultimo dal pensiero della tecnica è visto come “fondo-risorsa” (Bestand) cioè come qualcosa che è “a disposizione” per essere calcolato, sfruttato, manipolato, strumentalizzato a prescindere dalla propria significatività. L’essenza della tecnica risiede allora nel “pretende(re) dalla natura che essa fornisca energia che possa essere estratta e accumulata”. Così la tecnica diviene im-posizione (Gestell), costrizione, atto inquisitoriale nei confronti della natura-oggetto, e ne disvela l’essere nella forma più nascosta e obliata possibile.

(49)

Un pensiero in ascolto

Invece che “padrone dell’ente” l’uomo deve

diventare “pastore dell’essere”, cioè mettersi in

ascolto (hörig), dell’essere che si disvela,

nascondendosi nelle cose (si disvela perché

l’essere è essere dell’ente, infatti l’ente è ciò che

è; si nasconde perché l’essere non coincide con

l’ente, ma il vedere tale coincidenza rappresenta

per noi una tentazione costante).

(50)

Dove è dato comprendere l’essere?

Il disvelamento dell’essere del mondo si coglie

nel LINGUAGGIO che è la “casa dell’essere”

(Lettera sull’umanismo), ma non nel linguaggio

scientifico che misura gli enti, né nel linguaggio

inautentico

della

chiacchiera,

bensì

nel

linguaggio poetico che dà nome alle cose, le

esprime nel loro presentarsi e nel modo in cui il

loro essere “colpisce il pensiero” senza volerne

diventare un dominatore.

(51)

Chi parla il linguaggio?

Ma il linguaggio è forse una creazione del

soggetto? E’ forse l’uomo che genera il

linguaggio? Bisogna farsi tale domanda

pensando a noi. Noi abbiamo prodotto la lingua

con cui parliamo? Oppure siamo da sempre

DENTRO un linguaggio. Il linguaggio è

semplicemente

uno

strumento

di

comunicazione? Oppure noi non possiamo fare a

meno di PENSARE con un linguaggio.

(52)

Poeticamente abita l’uomo

L’uomo non parla il linguaggio, ma è parlato da esso.

Nella poesia emerge un alludere all’essere delle cose, in

una plurivocità di significati mai esauribile, che ci mette

in contatto con la loro significatività ultima e mai

riducibile a formule logiche. Chi parla nella poesia? Non

certo il poeta come soggetto, ma la poesia sembra fare

del poeta lo strumento della rivelazione di un

(53)

Allora: che cos’è l’essere?

L’essere anzitutto NON è COSA (ente). Alla

luce delle riflessioni heideggeriane si può

dire che l’essere entifica l’ente, cioè lo

lascia essere, lo rende visibile, ma non

coincide con l’ente.

(54)

Allora: che cos’è l’essere? (2)

• In secondo luogo l’essere, che di per sé non è

definibile (definibili sono gli enti), può essere pensato

come EVENTO (cfr. Contribut alla filosofia.

Sull’evento – corsi 1936-1938)

• L’evento è ciò e-viene, viene da: l’essere si dà come

evento nella storia del mondo e del pensiero. E’ il

manifestarsi di tutto ciò che è (distinto da ciò che si

manifesta) che appare come un

(55)

Destino, storia e uomo

• L’essere come evento-destino sottolinea la sua dimensione temporale e storica. La storia del mondo e dell’uomo è quell’elemento che ci è stato inviato dall’essere come ciò che è da pensare. In particolare l’essere si invia nella storia di chi lo pensa, cioè dell’uomo e a lui si manifesta nel suo senso, provocandolo a corrispondervi (la storia della filosofia è manifestazione del senso dell’essere di volta in volta nei concetti di fýsis, lògos, en, enèrgheia, substantia, oggettività, soggettività, volontà di potenza (cfr. Identtà e differenza - 1957).

(56)

L’oblio necessario

• Meditando su tale concetto della manifestazione

storico-destinale dell’essere, si constata che l’uomo ogni volta è

stato chiamato a capire l’essere e che di volta in volta,

cercandone il senso, al tempo stesso lo ha obliato, come

è accaduto nella storia della metafisica. Ma il darsi come

obliato è pure una forma dell’evento dell’essere. Cioè

l’oblio era in qualche modo necessario perché era esso

(57)

L’evento che (si) appropria

• L’essere è il proprio dell’uomo. Ma, dell’uomo che lo pensa, l’essere si appropria, nel senso che l’uomo ne viene interrogato e coinvolto, cioè viene portato in una dimensione ulteriore, che non è più suo possesso, in un significato che egli non costruisce ma può solo ascoltare, nel pensiero che vi si rivolge e nel linguaggio poetico che lo dice. Così l’essere e l’uomo sono l’uno consegnati all’altro. Il “progetto” gettato di

Essere e tempo è allora approfondito come progetto gettato

dall’essere e compreso grazie all’ascolto di quell’essere che gettando, ci chiama, si appella a noi perché vi corrispondiamo con il pensiero e con la vita.

(58)

Abbandono (Gelassenheit)

L’essere che così si dona, lasciando essere l’ente,

non può a maggior ragione essere dominato. Al

suo senso che si offe nel linguaggio, nella storia,

nel pensiero, nell’arte

ci si abbandona.

L’atteggiamento dell’uomo deve qualificarsi come

un silenzio che ascolta il senso dell’essere e vi si

abbandona.

(59)

La comprensione dell’essere: ermeneutica

• Grazie al fatto che l’uomo ha da sempre compreso l’essere, è da sempre consegnato all’essere, egli può comprenderlo. Ciò giustifica ontologicamente quella prospettiva che già era emersa in Essere e

tempo sull’ ermeneutica. Già lì si era detto che in fondo noi

comprendiamo ciò che già sappiamo, e ogni ricerca parte sempre da ciò che è cercato. Infatti non esiste un atto del comprendere – che è un esistenziale cioè una caratteristica tipica dell’essere autentico dell’Esserci - che non abbia come punto di partenza ciò che noi già sappiamo dell’oggetto che noi vogliamo conoscere. Senza una pre-comprensione non vi può essere una comprensione, perché da una totale tabula rasa mentale non può venire alcuna domanda, né alcuna ricerca.

(60)

Nascita dell’ermeneutica come scienza del

comprendere e dell’interpretare

L’affermazione che ogni comprensione nasce da

un presupposto costituisce il punto di snodo

dell’ermeneutica contemporanea (che sarà

sviluppata dall’allievo di Heidegger Hans Georg

Gadamer nel suo testo Verità e metodo), la

quale sottolinea il fenomeno fondamentale del

circolo ermeneutico, già evidenziato in Essere e

(61)

Circolo ermeneutico

Ogni nostra conoscenza parte da un sapere, cioè da

un’idea che noi già abbiamo dell’oggetto che dobbiamo

conoscere (pre-comprensione). L’atto del conoscere non

è altro che un ritornare sulla conoscenza che noi già

abbiamo alla luce di nuove indicazioni di senso, la cui

lettura la nostra pre-comprensione orienta e definisce

preliminarmente.

Ciò significa che quando, per esempio ci accostiamo ad

un libro, noi già sappiamo di che cosa parla (anzi il più

delle volte ci accostiamo ad esso perché già sappiamo di

che cosa parla).

(62)

Un circolo virtuoso

Il testo viene letto alla luce della pre-comprensione che determina in anticipo una gamma di significati possibili e disponibili. Il circolo che così si dispiega non è però vizioso: «Se si vede in questo circolo un circolo vizioso e si si mira ad evitarlo o semplicemente lo si sente come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo» (ET, 32). Il testo è un’esperienza che può urtare contro la nostra pre-comprensione, in ogni caso la rinnova, e istituisce nuovi sensi. Così noi sappiamo già, ma ogni esperienza orienta nuovamente i significati, pur non prescindendo mai dai presupposti di partenza (ciò significa che rende questi ultimi espliciti in una determinata direzione).

(63)

Stare nel circolo

• «L’importante, dice Heidegger, non sta nell’uscir fuori

dal circolo, ma nello starvi nella maniera giusta [cioè

in modo che] l’interpretazione comprenda che il suo

compito primo, durevole e ultimo, è quello di non

lasciarsi mai imporre, pre-disponibilità, pre-veggenza

e pre-cognizione (cioè la pre-comprensione, n.d.r.)

dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle

emergere dalle cose stesse, garantendosi così la

scientificità del proprio tema» (ET, 32).

(64)

Non farsi imporre la precomprensione

• Non farsi imporre la pre-comprensione vuol

dire assumere consapevolmente la tradizione

in cui si è da sempre inseriti, e conoscerla in

modo critico, nei suoi snodi fondamentali e

nelle sue aporie, in modo che emerga sempre

il tentativo di costruire una scienza che faccia

emergere la verità dalle cose stesse e non da

un’ inconsapevole credulità

(65)

L’ultimo Heidegger

• Come abbiamo visto l’ultimo Heidegger, insiste sul linguaggio e dunque anche sulla questione ermeneutica, sulla poesia, sui temi dell’essere come e-vento e destino appropriante-espropriante. In tale fase della sua riflessione il nostro filosofo tende a promuovere un approccio molto evocativo, suggestivo ai problemi filosofici con un linguaggio denso di neologismi, talora esso stesso tendente ai toni poetici, molto lontano dallo stile apofantico della prosa filosofica normale.

• Esempio di questo modo di procedere è il testo, per molti versi oscuro, sul tema della «cosa»…

• Che cos’è realmente una «cosa». Heidegger tratta il tema partendo dalla comprensione di un oggetto di uso comune, una brocca e nel corso di una trattazione quasi oracolare giunge a definirne l’essenza.

(66)

LA COSA

L’essenza della brocca, in quanto cosa, cosa è “il puro offrente riunirsi della semplicità

della Quadratura in un permanere”. Forse alla luce di quanto si è detto è possibile

leggere questa criptica definizione heideggeriana (che come tale può essere interpretata nei modi più svariati, qui proviamo solo ad avanzare una tra le tante ipotesi possibili).L’essere della cosa può solo essere detto con il termine

coseggiare, perché è appunto indefinibile. MA nella sua essenza vi è la Quadratura

che si offre in un permanere. La quadratura sono i Quattro: cielo, terra, divini e mortali come immagine di tutto quanto è possibile pensare, il mondo immanente e qualsiasi immagine di trascendenza-profondità, significatività ulteriore, possiamo farci. Si tratterebbe dunque del Tutto, il tutto che viene al nostro pensiero “in un permanere” cioè in qualcosa di concreto come l’ente che sta qui davanti a noi. In ogni cosa vi è il mistero di una quadratura, di una totalità d’essere che si disvela nel suo senso nascosto e inesauribile, che non può essere detto con definizioni, ma può essere indicato, accennato con la parola poetica e l’arte su cui il pensiero riflette ascoltando.

Il tutto è nel frammento,il tutto dell’universo si dà nella più piccola delle cose, si offre a noi allo stesso tempo svelandosi e nascondendosi nel suo essere.

(67)

Una filosofia apofatica

L’essere, lo si evince da quanto abbiamo appena detto, è

insomma

l’indicibile

-

apofatico,

non

definibile

positivamente - che solo la poesia può dire, pur in modo

parziale e non in grado di esaurire la sua significatività. Il

mondo è un’immensa trama poetica di cui noi ci

dobbiamo mettere in ascolto, non con la voglia di

dominarlo, ma con l’intento di accoglierlo e di

corrispondervi. Corrispondere significa guardare ad un

significato che si disvela - come quando noi cerchiamo di

capire una terzina dantesca - e all’appello che viene da quel

significato per il nostro comportamento e la nostra vita.

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