Heidegger
Dalla fenomenologia all’esistenzialismo
all’ontologia
La scoperta husserliana della visione
d’essenze come gesto che non si ferma
alla superficie delle cose, ma ne coglie
l’essenza, costituisce per Heidegger
l’avvio della ricerca ontologica che
Husserl non ha potuto svolgere.
Oltre la coscienza trascendentale
• Heidegger critica Husserl perché secondo lui non è stato
pienamente fedele al principio dell’“andare alle cose
stesse”, limitandosi a considerare l’intenzionalità come
atto della coscienza senza chiedersi quale sia “l’essere
dell’ente intenzionale” che ha la coscienza. Ciò gli ha
impedito di porre il problema del senso dell’essere
stesso, limitandosi alle essenze oggettive costituitesi
all’interno della coscienza. Ma oltre la coscienza vi è la
questione
ontologica
dell’essere,
implicitamente
Il senso dell’essere
Se la fenomenologia ha lasciato fuori dall’indagine
propriamente l’essere di colui che ha coscienza, Heidegger
ritiene che questo vuoto vada colmato. Anzi egli ritiene
propriamente che per rispondere alla domanda
fondamentale della filosofia, quella relativa all’essere (per
lui infatti la filosofia è anzitutto ontologia), è necessario
in via preliminare indagare l’essere di colui che si pone la
domanda e che pertanto rappresenta il luogo più
adeguato per comprendere l’essere. Per capire il senso
dell’essere bisogna dunque indagare l’essere dell’uomo
come di quell’ENTE che si pone la domanda sull’essere.
In ESSERE E TEMPO (1927)
Heidegger sviluppa un’
ANALITICA ESISTENZIALE
finalizzata ad indagare l’ente che si pone la domanda
sull’essere
ESSER-CI
• L’uomo è per Heidegger da indicarsi come
l’ESSERCI (DA-SEIN). Tale formulazione indica
che l’essere dell’uomo è da sempre collocato
in un “ci”, cioè in una situazione, in un mondo,
in un contesto nel quale l’uomo stesso è come
gettato e verso il quale è originariamente
aperto.
Geworfenheit-gettatezza
• L’uomo è gettato in un mondo, cioè si trova ad
essere dentro un contesto di cose senza poter
sapere il come e il perché. Gettatezza significa
«trovarsi ad essere», ossia l’idea di essere stato
inserito in un contesto a prescindere da ogni
intenzione propria, da ogni propria decisione a
proposito: nessuno mi ha interrogato sul mio
essere al mondo, semplicemente «sono stato
messo al mondo», sono stato appunto gettato.
Non semplice presenza…
L’essere dell’uomo non si riduce però alla
semplice presenza in un mondo (od oggettività)
che caratterizza gli oggetti (Gegenstaende -
object: ciò che sta contro, ciò che sta davanti).
Egli non è mai semplice presenza poiché è
quell’ente PER CUI gli oggetti sono presenti.
Ma ek-sistenza e possibilità
• L’essenza dell’uomo è la sua esistenza. Egli sta
sempre fuori-di-sé (ek-sistere) proteso verso le
cose, il mondo, gli oggetti. Egli è sempre calato e
gettato in una determinata situazione. Ma tale
esser-ci dentro una situazione, quindi proteso
fuori di sé non è solo spaziale ma anche
temporale nel senso che in ogni suo rapporto con
il mondo egli realizza il proprio essere,
Semplice presenza e possibilità
L’oggetto semplicemente presente ha un suo essere
determinato e chiuso in sé, è lì nella sua oggettività.
L’uomo non ha un suo essere determinato, ma, nel
rapporto con il mondo realizza il suo essere, ha da
essere, muta se stesso giungendo ad essere qualcosa
(qualcuno) che prima non era.
L’esserci è dunque ek-sistente nella possibilità e DECIDE
del proprio essere nel senso dell’autenticità o della
dissipazione di sé.
Kierkegaard
Ecco qui ripresentarsi il tema kiekegaardiano dell’esistenza
come qualcosa di caratterizzato profondamente dalla
possibilità…la possibilità come categoria più «pesante»
della realtà significa per Heidegger che l’uomo è un
progetto, ha da essere, è nella possibilità, e che la semplice
presenza è semplicemente una categoria derivata: ciò che è
reale nel senso di semplicemente presente è qualcosa
considerato a prescindere dal progetto in cui trova il suo
senso, quindi qualcosa che è pensato in modo difettivo e
privativo.
PROGETTO
L’uomo è dunque un poter-essere, è un ente che progetta se stesso e gli oggetti del mondo si orientano in base a questo suo
progetto. Dentro il progetto anch’essi non possono essere considerati semplici presenze. Al contrario essi si qualificano
come degli UTILIZZABILI
È utilizzabile ciò che assume il suo senso perché viene considerato strumento per relaizzare una data forma di vita.
Quindi non si tratta di interpretare utilitaristicamente il termine, ma nel senso di un rapporto che viene a definirsi di volta in volta in
ESSERE-NEL-MONDO
(In-der-Welt-sein)
L’uomo, a partire dalla sua gettatezza, dal fatto che si trova ad essere, si progetta, cioè costruisce se stesso. Ciò significa che egli trascende (oltrepassa) – con il suo progettarsi – se stesso verso il mondo, è sempre proteso oltre se stesso in direzione del mondo, ma non nel senso contemplativo e intenzionale, come asseriva Husserl, bensì nel senso concreto dell’avere a che fare con le cose per trasformare, nel commercio con le cose, se stesso secondo il suo poter-essere. Se per Husserl per ritrovare le cose stesse bisogna analizzare l'esperienza, ma un'esperienza depurata dalla riduzione fenomenologica, per Heidegger così si cederebbe al teoreticismo (eccessiva esaltazione della dimensione conoscitiva). Per Heidegger bisogna cercare di capire la vita come si dà innanzitutto e per lo più, ovvero nella sua quotidianità. Così egli pone attenzione alla vita effettiva in cui ci sono uomini che sono quello che sono e si danno da fare per realizzare un futuro.
Esistenziali
Nella sua vita effettiva e concreta, cioè nella sua
esistenza gettata, l’uomo appare caratterizzato
da tre connotati:
Situazione emotiva
Comprensione
La situazione emotiva
L’Esserci è gettato ,è là in una vita, non sapendo
né il donde, né il dove, né il perché. Questo
trovarsi-ad- essere va a costituire la sua
fondamentale situazione emotiva, il suo umore,
il suo stato d'animo. L'uomo ha questa
autocoscienza che precede ogni conoscenza. Egli
si autoavverte, è assegnato al mondo e ne sente
il
contraccolpo
nei
sentimenti
dello
La comprensione
L’uomo si accosta al suo mondo con i suoi «sentimenti», le sue «passioni», le sue «paure» le sue «angosce». Questo è il primo approccio che apre le cose ad un ulteriore atto tipicamente umano, quello della comprensione. Il comprendere non è conoscenza, ma è quel modo di maneggiare le cose che è ricco di sapere, di una veduta sull'ente non di carattere teoretico, non formalizzato, non dichiarativo, ma di una certa visione ambientale preveggente, che è il sapere dove ci si trova e saper fare uso degli oggetti del nostro ambiente dissociando mezzi e scopi. Noi comprendiamo il senso e la comprensione si realizza nell' incontro pragmatco (da prassi = azione) col mondo. Quindi il comprendere è un sapere per agire e costruire il nostro progetto. È un sapere concretamente progettante.
Il discorso
Il discorso è qualcosa di simile all’articolazione di ciò che si è compreso. Il discorso ritaglia e articola l'insieme del compreso. Ergo il discorso non è niente di fonetico ed è preverbale, cioè ritaglia il significato della cosa rispetto al magma indistinto dell'ambiente. Esso esprime, mette assieme i significato. Il discorso ad un certo punto può mondanizzarsi, fonetizzarsi. La totalità di significati sfocia in parole, ai significati crescono le parole, i significati si rivestono di parole. Heidegger vuole mantenere la sfera della significazione al di qua di quella dell'espressione fonetica. Ergo l'uomo è discorrente prima di parlare.
Il suo parlare può articolare il progetto o può scadere nella chiacchiera che è il parlare per parlare, senza alcuna vera determinazione di significati rilevanti per la nostra vita.
L’esserci e la sua struttura
L’uomo si trova ad essere, è già in un mondo; comprende e
quindi progetta, articola i significati in discorsi sensati e
parla. Questi esistenziali, cioè questi caratteri fondamentali
dell’uomo, hanno come si vede un carattere temporale. La
situazione emotiva riguarda ciò che è già accaduto: siamo
stati gettati. Quindi attiene al passato. La comprensione è il
capire per agire e progettarsi e quindi implica un rivolgersi
al futuro. Il discorso come articolazione del compreso non
ha una precisa connotazione in avanti o indietro, ed è
quindi, per amore di simmetria, riconducibile al presente.
La cura (Sorge)
Essere nel mondo vuol dire essere gettati e progettarsi avendo a che fare con il proprio mondo. Questa è la descrizione di quello che è l’Esserci, dell’essere dell’Esserci. Tale struttura si riassume nel concetto di CURA: . La cura è l'essere avanti a sè, già in un mondo, presso l'ente di cui si prende cura. «Avanti a sé», «già in» e «presso» sono i tre momenti già incontrati nella comprensione, situazione emotiva, discorso... . La cura è quindi il modo in cui siamo aperti alle cose del mondo, come ci relazioniamo con il mondo. Noi lo sentiamo (e ne siamo inquietati) lo comprendiamo e ci progettiamo e vi prestiamo una certa attenzione con il rischio che questa attenzione scada in un rapporto scontato, irriflesso, superficiale.
Prendersi cura (cose) e aver cura (uomini)
Dunque il commercio dell’uomo con in mondo
degli utilizzabili è una CURA. Questa cura è
ulteriormente specificabile in una relazione con
le cose e con gli uomini: un prendersi cura delle
cose, un originaria pre-occupazione per tutto
ciò che ci sta attorno e che costituisce il nostro
mondo-ambiente (um-Welt, mondo attorno a
cui noi siamo) e un aver cura degli uomini.
Il prendersi cura
Il prendersi cura è quella relazione originaria che
l’uomo ha con gli oggetti utilizzabili nel suo
ambiente vitale. Egli utilizza gli oggetti e in
generale il mondo in vista di un proprio progetto
esistenziale cui quelle cose sono finalizzate in
qualità di strumenti. Questi sono anche i mezzi di
sopravvivenza, oppure ciò che permette la
normale vita associata, ciò che viene forgiato nel
lavoro, ciò che insomma costituisce il correlato di
beni necessari alla nostra quotidianità e nel
procurarsi il quale si impara a orientarsi nel
mondo e a ordinare l’esistenza.
Aver cura autentico
Secondo Martin Heidegger non è pensabile l’essere umano (Esserci) senza un mondo popolato da oggetti ma soprattutto da persone che interagiscono non in modo accidentale e fortuito, ma proprio in base alla loro essenza. Heidegger chiama il modo della loro interazione l’“aver cura”. Questo si declina in due ulteriori modalità.
La prima è quella dell’operare affinché l’altro giunga a realizzare
consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria
umanità. Si tratta, potremmo dire, di una forma materna e paterna di assistenza dell’altro, in cui questo viene aiutato a diventare ciò che è, a formarsi secondo una valorizzazione di ciò che costituisce la propria autentica e migliore personalità. Per far ciò bisogna attendere in generale al bene altrui, al sostegno del carattere, alla disciplina delle debolezze, alla costruzione di una sensibilità per il bello, il giusto e per la cultura nel senso più ampio, in un rapporto sano e liberante con se stesso e con il proprio ambiente umano e materiale.
Aver cura scaduto
Accanto all’aver cura autentico, vi è un aver cura che “solleva gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto”. Infatti il corredo di cose di cui ci si prende cura può essere fornito anche da altri, che possono sostituirsi ad un determinato soggetto nella sua fatica di stare al mondo, una fatica che è tuttavia sommamente educativa e formatrice. Sostituita da un altro in un compito che è proprio, la persona viene “aiutata”, in realtà non in vista del suo autonomo sviluppo, ma della sua dipendenza dall’altro che le fornisce i servizi e con l’esito di una sua sostanziale sottomissione (certe madri iperprotettive, senza volerlo, si comportano precisamente in questo modo con i loro figli).
L’aver cura autentico costituisce il modo autentico
di coesistere. L’essere dell’uomo, infatti, non è
solo nel mondo, ma con gli altri (Mit-sein =
essere-con, essere assieme).
L’essere con gli altri costituisce un’altra
determinazione essenziale della sua esistenza
(un ESISTENZIALE).
Il Verfallen (scadimento)
La possibilità connessa all’esistenza umana può comportare
lo smarrirsi negli enti di cui si prende cura, cioè il perder
se stesso nel vortice dei fatti della quotidianità,
mantenendo la propria comprensione del mondo al
livello ONTICO o ESISTENTIVO.
Ciò comporta uno scadimento della sua esistenza, un
VERFALLEN (che P. Chiodi traduce con scelta infelice con
“deiezione”). Questa condizione di smarrimento, anzi, è
in genere il punto di partenza della condizione media
della vita dell’uomo.
ONTICO-ONTOLOGICO
ESISTENTIVO-ESISTENZIALE
• Ontico = il piano immediato degli enti considerati come orizzonte ultimo di comprensione della vita. I fatti e le cose oltre i quali non si va, così come nel loro apparire quotidiano sono utilizzati senza una comprensione del loro essere.
• Ontologico = la riflessione sull’essere dei fatti e sulla loro significatività in ordine ad un progetto autenticamente umano. • Esistentivo = ciò che nell’esistenza è dato innanzitutto e per
lo più, sul piano della coscienza comune.
IL “MAN” (si)
L’esistenza scaduta è condotta sul piano della
chiacchiera, del “si” dice e “si” fa, della curiosità vana
e pettegola e dell’equivoco che non va mai al fondo
delle cose in una sorta di vita anonima e priva di
significato profondo, in cui più che vivere, ci si lascia
vivere nella presa del vortice delle preoccupazioni
quotidiane. Chiacchiera, curiosità ed equivoco sono
scadimenti del discorso e imprigionano l’uomo nel
presente quotidiano, annullando ogni suo autentico
progettarsi e possedersi.
La voce della coscienza
Ma nel mezzo della chiacchiera, quale condizione media e normale dell’uomo, non tarda a farsi sentire la voce della coscienza che richiama alla ricerca del senso del nostro vivere e del nostro esistere permettendoci di compiere il salto dall’esistentivo all’esistenziale.
Ciò significa riportare il nostro progettare umano alla sua radicalità ultima, alla sua possibilità insuperabile, allo scoglio contro il quale non si può non scontrarsi:
LA MORTE
come possibilità che tutte le possibilità divengano impossibili, come radicale naufragio di ogni progetto mondano,
ma anche come verità ultima e ineliminabile di ogni vita e progetto che è intrinsecamente FINITO.
La morte
La voce della coscienza, ponendo di fronte a noi la
morte come esito inaggirabile di ogni progetto,
relativizza la portata dei nostri stessi progetti,
impedendoci di conferire alla nostra quotidianità una
dimensione assoluta che essa non può avere. Solo così
il quotidiano è posto in una prospettiva AUTENTICA,
quella del nostro essere lì lì per morire, quella del
nostro essere-alla-morte (zum Tode sein) o
essere-per-la-morte.
Decisione anticipatrice
Ascoltando la voce della coscienza, noi possiamo
decidere di anticipare (non nel senso di suicidarsi, ma
in quello di aver sempre presente, di sapere
consapevolmente) la nostra morte, dimodoché:
“l’anticipante farsi liberi per la nostra morte affranc(hi)
dalla dispersione nelle possibilità che si intrecciano
casualmente, sì che le possibilità effettive […]
possano essere scelte autenticamente”.
Il nulla possibile
• L’anticipazione della morte ci rappresenta il nulla
possibile di noi e di tutti gli altri esseri e/o cose e
rimane la nostra possibilità più propria.
• Essa è decisa a partire da una particolare situazione
emotiva, quella dell’angoscia, che è paura senza
oggetto, cioè propriamente l’atteggiamento che
nasce di fronte al nulla possibile che essa intuisce e
che la decisione anticipatrice valorizza e pone di
fronte a noi.
Coraggio di fronte alla finitezza
• Assumendo per sé un atteggiamento risoluto, ci
si mette nelle condizioni di guardare in faccia
alla nostra mortalità per vivere nella
dimensione inaggirabile che ci è propria: quella
di essere progetti gettati e destinati a fallire.
Questo è il coraggio richiesto per vivere
autenticamente. Lo scadimento di tale coraggio
si ha quando si trasforma l’angoscia per il nulla
in paura di qualcosa che di volta in volta si può
fuggire
giungendo
ad
un’inautentica
tranquillità.
IL TEMPO futuro
L’Esserci è possibilità. Il suo essere è dunque temporale; la
dimensione più importante della sua temporalità è il
FUTURO, cioè l’essere sempre proteso in avanti verso il suo
ad-venire.
Ma ogni progetto che realizza noi stessi lo fa a partire dal
fatto che siamo stati gettati in un mondo. Questo è il nostro
passato: il fatto che noi siamo già in un mondo. Ogni
progetto riprende il nostro passato. Dalla nostra
protensione al futuro emerge quindi il nostro passato,
poiché se noi vogliamo veramente progettarci in avanti
dobbiamo prendere tutto quello che siamo, anche il nostro
essere-già, e RILANCIARLO NEL FUTURO.
Il TEMPO passato
Ma questo avvenire in quanto apertura alla possibilità
non può non tener conto che si è aperti in quanto
nessuno ha già pre-stabilito quello che noi saremo, in
quanto non vi è un da-dove che determina a priori
una direzione. Dunque l’avvenire si apre nella sua
possibilità in quanto noi siamo gettati, cioè in quanto
la gettatezza è il nostro passato: “è autenticamente
adveniente solo l’esserci che è autenticamente stato”
cioè assume la sua gettatezza come il suo autentica
IL TEMPO presente
Tra futuro e passato vi è quell’affaccendarsi con
le cose che è il presente, il quale è esposto
sempre al rischio di SCADERE nella quotidianità
indaffarata, oppure di assumere l’istante come
istante della DECISIONE.
Sono questi due modi di assumere il
venir-incontro delle cose nel presente e del nostro
stare presso esse.
Le estasi temporali
• La temporalità dell’esserci si caratterizza dunque come un “ad-per” che si protende nella possibilità progettuale, un “indietro verso” che riporta al proprio esser-stato originario, e in un “essere-presso” le cose che “vengono-incontro”. Questi elementi determinano l’esserci come tempo cioè come ciò che fa essere l’essere fuori di sé, dunque che lo fa essere in modo EK-STATICO.
• Il tempo è quindi l’EKSTATIKÒN: la determinazione dell’essere dell’esserci come essere costantemente fuori-di-sé. Da tale originaria determinazione nasce ogni possibilità di misurazione e concettualizzazione scientifica del tempo (che è derivata e inautentica).
ESISTENZA INAUTENTICA e no
• L’esistenza temporalmente inautentica fugge
la decisione anticipatrice e si preoccupa per le
cose assumendo il criterio della riuscita dei
progetti quotidiani con la cancellazione del
loro autentico sfondo temporale: la morte
(futuro), la gettatezza (passato), l’angoscia e la
decisione (presente).
L’incompiutezza di Essere e tempo
• Con Essere e tempo H. giunge a definire la
temporalità come essere dell’Esserci, ma non
arriva ancora a guadagnare il senso dell’essere in
generale. Infatti l’opera rimane incompiuta, dice
H., anche e soprattutto perché mancava un
linguaggio adatto. Inoltre H. si accorge che la
prospettiva dell’indagine sull’essere a partire
dall’Esserci è ancora insufficiente
.
Perché l’indagine dell’essere a partire dall’esserci è insufficiente? La differenza ontologica
(Introduzione a “Che cos’è la metafisica?”, 1935 - pubblicata nel 1953)
• L’insufficienza della prospettiva a partire
dall’Esserci è dovuta al fatto che tale indagine
sconta un residuo ontico, cioè rimane ancora
legata ad un ente e come tale rischia di
nascondere implicitamente la differenza tra
La differenza ontologica
L’ente è “ciò che è”. Tutte le “cose” che sono, sono enti.
L’essere è ciò che fa essere l’ente, è l’elemento, la
non-cosa, grazie a cui gli enti sono.
Negli enti si distingue il loro essere-cose e dietro di loro
l’essere ineffabile, incatalogabile e finora inesprimibile
che manifestandosi, concretizzandosi, “lasciandosi
essere” nelle cose le rende tali, le fa affiorare alla
presenza.
L’essere non è l’ente
• L’essere dunque non va confuso con
l’oggetto-ente, la cosa ente. L’ente è, l’essere è il ni-ente
(Che cos’è la metafisica? – 1929) cioè è il
niente di cose, il niente di oggettività concreta,
da cui però scaturisce l’ente.
• L’essere propriamente non “è” ma “si dà” (es
gibt) si offre, si manifesta nelle cose che sono,
L’Esserci è un ente
• Ora malgrado la particolare importanza che ha l’Esserci, in quanto ente che si pone la domanda sull’essere, esso rimane pur sempre un ente. Già Essere e tempo aveva avanzato questa idea, già lì era adombrata la differenza ontologica. Ma si manteneva una certa fiducia nella possibilità di esposizione del senso dell’essere a partire da un ente privilegiato.
• Successivamente H. ritiene che l’indagine vada svolta a partire dall’essere, che debba diventare un’indagine sull’essere dal punto di vista dell’essere e non dal punto di vista dell’uomo. Questo è il senso della SVOLTA (Kehre).
L’uomo in secondo piano
Nella Lettera sull’umanismo (1947) si afferma a chiare lettere tale nuova prospettiva: non più l’essere in rapporto all’ (a partire dall’) uomo, ma l’uomo in rapporto all’ (a partire dall’) essere.
Qui l’uomo diventa più passivo, diventa solo il tramite di una rivelazione dell’essere (che solo ci consente di comprenderne appieno il suo essere).
Così l’ontologia heideggeriana come ricerca sull’essere e non sull’ente, non può essere qualificata come un umanismo cioè come una filosofia che pone al centro del mondo il soggetto umano
.
LA METAFISICA E IL SUO ERRARE (L’essenza della
verità – 1931-32)
La metafisica da Platone in poi ha concepito l’essere
come ciò-che-sta-di-fronte, il Gegenstand, l’ob-jectum,
cioè propriamente l’oggetto. Così ha confuso l’essere
con l’ente, ha oggettivizzato e reificato l’essere. Anche
Dio, nella scolastica, è stato pensato come nient’altro
che l’ente supremo. Riflettendo sulla storia di questo
peculiare “scadimento” del pensiero metafisico, che
cercando l’essere ha vagato (errato) fra gli enti, H. è
riportato ad una visione più autentica.
La verità
Tale visione indica la verità non come
adaequato rei et intellectus, cioè come
adeguamento del nostro intelletto alla cosa
(l’ente-cosa) e nemmeno come certtudo
(certezza che le cose stanno come io le penso),
ma come alétheia (alfa privativo + lanthàno che
significa
velare,
quindi
svelamento,
La verità dell’essere
La verità non sta nel pensiero del soggetto che giudica ciò che vede (l’idea, dalla radice ID di ORÀO = vedere), ma nel manifestarsi dell’essere attraverso l’ente, al di là e oltre l’ente stesso (come ni-ente). I filosofi pre-socratici avevano pensato la verità in questo modo, prima che la razionalizzazione platonico-aristotelica avesse introdotto questo elemento “giudicante” (la verità, p. es. nel giudizio logico) che da un lato ha entificato l’essere, dall’altro lo ha fatto dipendere dall’uomo. L’esito di tale operazione è stato l’oblio dell’essere nella metafisica occidentale e la progressiva centralità in essa del soggetto (metafisica della soggettività). Il culmine di questa autoesaltazione soggettiva è stato Nietzsche e la sua metafisica della volontà di potenza.
Nietzsche (1961)
Con Nietzsche non emerge un pensiero antimetafisico,
come il filosofo di Röcken avrebbe voluto, ma poiché
l’essere è fatto dipendere dalla volontà di potenza del
soggetto, esso diventa più che mai oggetto di una
produzione, cioè della centrale volontà del soggetto. Ma la
volontà di potenza, chiusa nella dominio dell’ente risulta in
modo peculiare dimentica dell’essere. Essa, dimenticando
l’essere, vuole nient’altro che se stessa, come un motore
che gira a vuoto, e diventa una nichilistica volontà di
volontà. Questo è per H. il compimento nichilistico della
La tecnica (La questone della tecnica –
1950)
Esito ultimo della metafisica della soggettività è la peculiare visione dell’essere veicolata dalla tecnica. Essa non è neutra, non è strumento che si adatta a tutti i pensieri e i fini, ma già presuppone una data comprensione dell’essere dell’ente. Quest’ultimo dal pensiero della tecnica è visto come “fondo-risorsa” (Bestand) cioè come qualcosa che è “a disposizione” per essere calcolato, sfruttato, manipolato, strumentalizzato a prescindere dalla propria significatività. L’essenza della tecnica risiede allora nel “pretende(re) dalla natura che essa fornisca energia che possa essere estratta e accumulata”. Così la tecnica diviene im-posizione (Gestell), costrizione, atto inquisitoriale nei confronti della natura-oggetto, e ne disvela l’essere nella forma più nascosta e obliata possibile.
Un pensiero in ascolto
Invece che “padrone dell’ente” l’uomo deve
diventare “pastore dell’essere”, cioè mettersi in
ascolto (hörig), dell’essere che si disvela,
nascondendosi nelle cose (si disvela perché
l’essere è essere dell’ente, infatti l’ente è ciò che
è; si nasconde perché l’essere non coincide con
l’ente, ma il vedere tale coincidenza rappresenta
per noi una tentazione costante).
Dove è dato comprendere l’essere?
Il disvelamento dell’essere del mondo si coglie
nel LINGUAGGIO che è la “casa dell’essere”
(Lettera sull’umanismo), ma non nel linguaggio
scientifico che misura gli enti, né nel linguaggio
inautentico
della
chiacchiera,
bensì
nel
linguaggio poetico che dà nome alle cose, le
esprime nel loro presentarsi e nel modo in cui il
loro essere “colpisce il pensiero” senza volerne
diventare un dominatore.
Chi parla il linguaggio?
Ma il linguaggio è forse una creazione del
soggetto? E’ forse l’uomo che genera il
linguaggio? Bisogna farsi tale domanda
pensando a noi. Noi abbiamo prodotto la lingua
con cui parliamo? Oppure siamo da sempre
DENTRO un linguaggio. Il linguaggio è
semplicemente
uno
strumento
di
comunicazione? Oppure noi non possiamo fare a
meno di PENSARE con un linguaggio.
Poeticamente abita l’uomo
L’uomo non parla il linguaggio, ma è parlato da esso.
Nella poesia emerge un alludere all’essere delle cose, in
una plurivocità di significati mai esauribile, che ci mette
in contatto con la loro significatività ultima e mai
riducibile a formule logiche. Chi parla nella poesia? Non
certo il poeta come soggetto, ma la poesia sembra fare
del poeta lo strumento della rivelazione di un
Allora: che cos’è l’essere?
L’essere anzitutto NON è COSA (ente). Alla
luce delle riflessioni heideggeriane si può
dire che l’essere entifica l’ente, cioè lo
lascia essere, lo rende visibile, ma non
coincide con l’ente.
Allora: che cos’è l’essere? (2)
• In secondo luogo l’essere, che di per sé non è
definibile (definibili sono gli enti), può essere pensato
come EVENTO (cfr. Contribut alla filosofia.
Sull’evento – corsi 1936-1938)
• L’evento è ciò e-viene, viene da: l’essere si dà come
evento nella storia del mondo e del pensiero. E’ il
manifestarsi di tutto ciò che è (distinto da ciò che si
manifesta) che appare come un
Destino, storia e uomo
• L’essere come evento-destino sottolinea la sua dimensione temporale e storica. La storia del mondo e dell’uomo è quell’elemento che ci è stato inviato dall’essere come ciò che è da pensare. In particolare l’essere si invia nella storia di chi lo pensa, cioè dell’uomo e a lui si manifesta nel suo senso, provocandolo a corrispondervi (la storia della filosofia è manifestazione del senso dell’essere di volta in volta nei concetti di fýsis, lògos, en, enèrgheia, substantia, oggettività, soggettività, volontà di potenza (cfr. Identtà e differenza - 1957).
L’oblio necessario
• Meditando su tale concetto della manifestazione
storico-destinale dell’essere, si constata che l’uomo ogni volta è
stato chiamato a capire l’essere e che di volta in volta,
cercandone il senso, al tempo stesso lo ha obliato, come
è accaduto nella storia della metafisica. Ma il darsi come
obliato è pure una forma dell’evento dell’essere. Cioè
l’oblio era in qualche modo necessario perché era esso
L’evento che (si) appropria
• L’essere è il proprio dell’uomo. Ma, dell’uomo che lo pensa, l’essere si appropria, nel senso che l’uomo ne viene interrogato e coinvolto, cioè viene portato in una dimensione ulteriore, che non è più suo possesso, in un significato che egli non costruisce ma può solo ascoltare, nel pensiero che vi si rivolge e nel linguaggio poetico che lo dice. Così l’essere e l’uomo sono l’uno consegnati all’altro. Il “progetto” gettato di
Essere e tempo è allora approfondito come progetto gettato
dall’essere e compreso grazie all’ascolto di quell’essere che gettando, ci chiama, si appella a noi perché vi corrispondiamo con il pensiero e con la vita.
Abbandono (Gelassenheit)
L’essere che così si dona, lasciando essere l’ente,
non può a maggior ragione essere dominato. Al
suo senso che si offe nel linguaggio, nella storia,
nel pensiero, nell’arte
ci si abbandona.
L’atteggiamento dell’uomo deve qualificarsi come
un silenzio che ascolta il senso dell’essere e vi si
abbandona.
La comprensione dell’essere: ermeneutica
• Grazie al fatto che l’uomo ha da sempre compreso l’essere, è da sempre consegnato all’essere, egli può comprenderlo. Ciò giustifica ontologicamente quella prospettiva che già era emersa in Essere e
tempo sull’ ermeneutica. Già lì si era detto che in fondo noi
comprendiamo ciò che già sappiamo, e ogni ricerca parte sempre da ciò che è cercato. Infatti non esiste un atto del comprendere – che è un esistenziale cioè una caratteristica tipica dell’essere autentico dell’Esserci - che non abbia come punto di partenza ciò che noi già sappiamo dell’oggetto che noi vogliamo conoscere. Senza una pre-comprensione non vi può essere una comprensione, perché da una totale tabula rasa mentale non può venire alcuna domanda, né alcuna ricerca.
Nascita dell’ermeneutica come scienza del
comprendere e dell’interpretare
L’affermazione che ogni comprensione nasce da
un presupposto costituisce il punto di snodo
dell’ermeneutica contemporanea (che sarà
sviluppata dall’allievo di Heidegger Hans Georg
Gadamer nel suo testo Verità e metodo), la
quale sottolinea il fenomeno fondamentale del
circolo ermeneutico, già evidenziato in Essere e
Circolo ermeneutico
Ogni nostra conoscenza parte da un sapere, cioè da
un’idea che noi già abbiamo dell’oggetto che dobbiamo
conoscere (pre-comprensione). L’atto del conoscere non
è altro che un ritornare sulla conoscenza che noi già
abbiamo alla luce di nuove indicazioni di senso, la cui
lettura la nostra pre-comprensione orienta e definisce
preliminarmente.
Ciò significa che quando, per esempio ci accostiamo ad
un libro, noi già sappiamo di che cosa parla (anzi il più
delle volte ci accostiamo ad esso perché già sappiamo di
che cosa parla).
Un circolo virtuoso
Il testo viene letto alla luce della pre-comprensione che determina in anticipo una gamma di significati possibili e disponibili. Il circolo che così si dispiega non è però vizioso: «Se si vede in questo circolo un circolo vizioso e si si mira ad evitarlo o semplicemente lo si sente come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo» (ET, 32). Il testo è un’esperienza che può urtare contro la nostra pre-comprensione, in ogni caso la rinnova, e istituisce nuovi sensi. Così noi sappiamo già, ma ogni esperienza orienta nuovamente i significati, pur non prescindendo mai dai presupposti di partenza (ciò significa che rende questi ultimi espliciti in una determinata direzione).
Stare nel circolo
• «L’importante, dice Heidegger, non sta nell’uscir fuori
dal circolo, ma nello starvi nella maniera giusta [cioè
in modo che] l’interpretazione comprenda che il suo
compito primo, durevole e ultimo, è quello di non
lasciarsi mai imporre, pre-disponibilità, pre-veggenza
e pre-cognizione (cioè la pre-comprensione, n.d.r.)
dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle
emergere dalle cose stesse, garantendosi così la
scientificità del proprio tema» (ET, 32).
Non farsi imporre la precomprensione
• Non farsi imporre la pre-comprensione vuol
dire assumere consapevolmente la tradizione
in cui si è da sempre inseriti, e conoscerla in
modo critico, nei suoi snodi fondamentali e
nelle sue aporie, in modo che emerga sempre
il tentativo di costruire una scienza che faccia
emergere la verità dalle cose stesse e non da
un’ inconsapevole credulità
L’ultimo Heidegger
• Come abbiamo visto l’ultimo Heidegger, insiste sul linguaggio e dunque anche sulla questione ermeneutica, sulla poesia, sui temi dell’essere come e-vento e destino appropriante-espropriante. In tale fase della sua riflessione il nostro filosofo tende a promuovere un approccio molto evocativo, suggestivo ai problemi filosofici con un linguaggio denso di neologismi, talora esso stesso tendente ai toni poetici, molto lontano dallo stile apofantico della prosa filosofica normale.
• Esempio di questo modo di procedere è il testo, per molti versi oscuro, sul tema della «cosa»…
• Che cos’è realmente una «cosa». Heidegger tratta il tema partendo dalla comprensione di un oggetto di uso comune, una brocca e nel corso di una trattazione quasi oracolare giunge a definirne l’essenza.
LA COSA
L’essenza della brocca, in quanto cosa, cosa è “il puro offrente riunirsi della semplicità
della Quadratura in un permanere”. Forse alla luce di quanto si è detto è possibile
leggere questa criptica definizione heideggeriana (che come tale può essere interpretata nei modi più svariati, qui proviamo solo ad avanzare una tra le tante ipotesi possibili).L’essere della cosa può solo essere detto con il termine
coseggiare, perché è appunto indefinibile. MA nella sua essenza vi è la Quadratura
che si offre in un permanere. La quadratura sono i Quattro: cielo, terra, divini e mortali come immagine di tutto quanto è possibile pensare, il mondo immanente e qualsiasi immagine di trascendenza-profondità, significatività ulteriore, possiamo farci. Si tratterebbe dunque del Tutto, il tutto che viene al nostro pensiero “in un permanere” cioè in qualcosa di concreto come l’ente che sta qui davanti a noi. In ogni cosa vi è il mistero di una quadratura, di una totalità d’essere che si disvela nel suo senso nascosto e inesauribile, che non può essere detto con definizioni, ma può essere indicato, accennato con la parola poetica e l’arte su cui il pensiero riflette ascoltando.
Il tutto è nel frammento,il tutto dell’universo si dà nella più piccola delle cose, si offre a noi allo stesso tempo svelandosi e nascondendosi nel suo essere.