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Figurae nominis et sententiae. Identità dell’autore e del dedicatario nella lirica italiana del Due-Trecento

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a cura di

Federico Saviotti e Giuseppe Mascherpa

L’espressione dell’identità

nella lirica romanza medievale

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[VIII], 150 p. ; 24 cm. (Scientifica)

http://purl.oclc.org/paviauniversitypress/9788869520471 ISBN 9788869520464 (brossura)

ISBN 9788869520471 (e-book PDF) © 2016 Pavia University Press – Pavia ISBN: 978-88-6952-047-1

In copertina: Pavia, Archivio Storico Diocesano, Frammento di canzoniere provenzale, c. 2v (particolare) Prima edizione: dicembre 2016

Pavia University Press – Edizioni dell’Università degli Studi di Pavia Via Luino, 12 – 27100 Pavia (PV) Italia

http://www.paviauniversitypress.it – unipress@unipv.it Printed in Italy

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Premessa

Federico Saviotti, Giuseppe Mascherpa ...VII Introduzione

Per un’identità nel genere lirico medievale

Federico Saviotti ... 1 Identité et duplicité

La signature comme dissimulation

Michel Zink ... 11 Figurae nominis et sententiae

Identità dell’autore e del dedicatario nella lirica italiana del Due-Trecento

Maria Sofia Lannutti ... 25 Identità, spirito e affetti in Giacomo da Lentini

Valentina Atturo ... 49 La questione dell’Io,

dal romanzo antico-francese alla lirica italiana

Roberto Antonelli ... 69 L’identità italiana nella poesia dei trovatori

Marco Grimaldi ... 81 Le chant du poète, entre convention et singularité

Christelle Chaillou-Amadieu 101

Raccogliere liriche, inventare poeti L’identità immaginaria dei primi trovieri

Davide Daolmi ... 115 Bibliografia

a cura di Giuseppe Mascherpa ... 127 Indice dei nomi

a cura di Giuseppe Mascherpa ... 141 Abstracts ... 147

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Federico Saviotti, Giuseppe Mascherpa

I contributi riuniti in questo volume hanno origine da un convegno internazionale dal titolo L’espressione dell’identità nella lirica romanza, tra testo e musica, da noi organizzato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Pavia il 19 e 20 maggio 2015.1

Tale evento s’inserisce tra le attività del progetto FIR – Programma “Futuro in ricerca 2013” su “Identità e alterità nella letteratura dell’Europa medievale: lessico, topoi, campi metaforici”, a cui collaborano anche Giovanni Strinna, ricercatore in Filologia romanza all’Università di Sassari, e, presso Sapienza-Università di Roma, Annalisa Perrotta, ricercatrice in Letteratura italiana, e Lorenzo Mainini, assegnista di ricerca in Filologia romanza. Ognuna delle tre unità di ricerca (Pavia, Sassari, Roma) concentra il proprio lavoro su uno o più dei generi letterari che si è scelto di prendere in esame, coerentemente con le competenze degli studiosi coinvolti: Pavia si occupa di poesia lirica, Sassari della produzione omiletica e odeporica, Roma di epica e romanzo. Lo scopo comune è quello di giungere alla realizzazione di un repertorio liberamente consultabile on-line del lessico e delle immagini topiche e metaforiche che esprimono l’identità e l’alterità all’interno di testi selezionati. Lo strumento informatico così concepito permetterà di attraversare, su un arco diacronico di tre secoli circa (XII-XIV), generi e aree linguistiche differenti (lingua d’oc, lingua d’oïl e italiano, con riscontri mirati su testi mediolatini, soprattutto per quanto riguarda la ricca tradizione del Devisement dou monde di Marco Polo). Si avrà così l’opportunità di individuare e distinguere, a partire dallo studio di opere considerate significative (lo stesso Devisement, la Chanson de Roland, le liriche di Bernart de Ventadorn e Giacomo da Lentini, per non menzionare che alcuni dei principali testi facenti parte del corpus), quanto può essere considerato comune all’immaginario medievale nel suo complesso e quanto, invece, costituisca un tratto specifico di ciascun genere, area o autore. I risultati di tale spoglio potranno, auspicabilmente, contribuire al progresso degli studi medievali in ambiti diversi: dall’analisi lessicografica all’ermeneutica letteraria, dalla storia della letteratura a quella del pensiero. Riteniamo, inoltre, che da un simile repertorio sarà possibile trarre significative indicazioni rispetto all’emergere già nel Medioevo delle basi culturali e delle radici di un immaginario che permea il presente della civiltà occidentale, in un momento di sua complessiva crisi, quale quello che stiamo vivendo. Una crisi che, in termini culturali, è evidentemente descrivibile anche come una crisi di identità, individuale e collettiva, che si riflette – com’è inevitabile – in una sempre più inquietante incapacità relazionale nei confronti dell’Altro.

1 Rispetto alle comunicazioni presentate in quella sede, non si sono potuti raccogliere nel volume due

importanti interventi, concepiti dai loro autori come riflessioni in forma soltanto orale: Trovatori e ironia redux: identità e voci di secondo grado nella lirica cortese di Simon Gaunt (King’s College London) e le Conclusioni di Maria Luisa Meneghetti (Università di Milano).

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Per un’identità nel genere lirico medievale

Federico Saviotti

Università degli Studi di Pavia

Il concetto filosofico di identità è, notoriamente, un’invenzione moderna. In particolare, le coordinate essenziali del discorso sull’identità sarebbero state tracciate dall’empirismo inglese tra Sei e Settecento, dapprima in termini positivi con Locke, che avrebbe posto in luce le basi teoriche per la discussione sull’identità personale, poi, con Hume, in termini negativi, aprendo la strada allo smantellamento dell’identità come permanenza, continuità, sostanza.1 In nuce, troveremmo dunque in questi pensatori già molte delle

tendenze che saranno in seguito ampiamente sviluppate dal pensiero moderno e post-moderno nella riflessione sull’identità: spesso all’interno dell’essenziale binomio con ‘alterità’, dove quest’ultima è di volta in volta la condizione dell’identità, il suo limite, la sua modalità di estrinsecazione, il suo stesso nucleo (e spesso tutte queste cose insieme e altre ancora), il termine ‘identità’ pare essere diventato una sorta di parola-chiave delle scienze umane. E non soltanto delle scienze umane: persino la biologia ha fatto largo uso del concetto di Self, eleggendo l’identità a carattere primordiale degli esseri viventi, quel carattere essenziale che permette «a ogni individuo di una specie di riconoscersi diverso da ogni altro della stessa specie»,2 a partire dalla risposta del proprio sistema

immunitario alle minacce provenienti dall’esterno.3 La definizione dell’identità, che ruota

naturalmente sempre intorno alla definizione del sé in rapporto con il mondo, rimane però fluttuante e mai identica nei suoi tratti discreti, che finiscono per dipendere in maniera determinante dall’ambito in cui il concetto viene declinato: si concentrano maggiormente, com’è prevedibile, su quanto concerne la costruzione della personalità gli approcci di tipo psicanalitico e psico-linguistico; insistono piuttosto sul rapporto dialettico tra componente individuale e componente collettiva la sociologia e l’antropologia culturale. Non intendo, naturalmente, proporre un abbozzo di storia critica del concetto di identità, che esulerebbe tanto dalle mie competenze quanto dagli scopi di questa succinta introduzione. Piuttosto, considerata la diversità di accezioni, più o meno contigue e complementari, previste

1 Cfr. ad es. Bauman Z., From Pilgrim to Tourist – or a Short History of Identity, in Hall S., P. du Gay

(ed. by), Questions of Cultural Identity, London-Thousand Oaks-New Delhi, SAGE Publications, 1996, pp. 18-36.

2 Monroy A., Alle soglie della vita, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 217.

3 Tali aspetti vengono sviluppati in particolare da Franco Prattico, nel capitolo I di L’io e l’altro, numero

monografico di «Sfera», 9, 1993, pp. 9-24. Si segnala, in un fascicolo globalmente assai interessante per l’originalità dell’approccio alla storia biologica dell’identità, l’utilissima Bibliografia ragionata sul tema, alle pp. 94-98.

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da un termine dall’impiego tanto generalizzato, sarà opportuno dare conto al lettore di che cosa s’intenda per identità, e in che senso si parli di «espressione dell’identità», in questo libro e, più in generale, nel progetto di ricerca “Identità e Alterità nella letteratura dell’Europa medievale: lessico, topoi, campi metaforici” di cui i saggi che qui si trovano riuniti costituiscono un importante momento di riflessione. La risposta a tali questioni non può, credo, essere immediata, pena lo svilimento della vitale complessità del tema posto.

Procedendo per avvicinamenti successivi, proprio il riconoscimento preliminare della modernità del concetto di identità aiuta a mettere a fuoco un paio di aspetti che mi paiono imprescindibili per inquadrare nella maniera più appropriata tanto le riflessioni che propongono gli autori dei contributi raccolti in questo volume, quanto le ambizioni del progetto di cui sono il coordinatore. Il primo aspetto costituisce un punto apparentemente tutto a sfavore di una ricerca come la nostra: non sembra che il Medioevo disponesse nella sua strumentazione teorica di nulla di simile al concetto di identità, quale lo utilizziamo oggi. Ciò non significa naturalmente che nel mondo medievale per come ci è dato conoscerlo non si possano individuare e descrivere istanze identitarie secondo gli schemi attuali. Significa piuttosto che per tentare di farlo occorre mantenere un prudente equilibrio tra, da una parte, l’applicazione di quelle che vengono considerate come costanti antropologiche – la costruzione e la definizione dell’identità (o, come preferiscono alcuni studiosi, ponendo l’accento sulla dimensione dinamica e diacronica del fenomeno, il «processo di identificazione»)4 e il necessario rapporto con l’alterità – e, dall’altra, l’aderenza a un

contesto sociale e culturale assai diverso da quello in cui e per cui tali categorie sono state concepite. Prima dell’alterità nel Medioevo, occorre dunque prendere in considerazione per quanto possibile l’alterità del Medioevo.5 Il corollario di quanto appena ricordato è

che, avendo a che fare con dei testi letterari, ci attenderemo di ritrovarvi non soltanto dei contenuti coerenti con questa alterità ben nota della cultura medievale – contenuti che andranno opportunamente maneggiati, con gli strumenti filologici e le competenze storico-culturali appropriati, a scanso di interpretazioni distorte – ma anche degli elementi formali funzionali ad esprimerla: componenti lessicali, stilistiche, registrali non necessariamente trasparenti alla nostra esegesi. Simili constatazioni, di validità generale, rappresentano un monito tanto più ineludibile per chi aspiri a studiare la presenza dell’identità e dell’alterità nella letteratura del Medioevo proprio a partire dal concreto materiale espressivo utilizzato dagli autori: vocaboli, formule, stilemi, metafore, motivi topici… Come dire: difficilmente troveremo nei testi medievali formulazioni quali il celeberrimo «je est un autre», ma, se anche lo trovassimo, non lo potremmo certo considerare sovrapponibile o equivalente a quello di Rimbaud.6 A tale difficoltà, si deve aggiungere l’evidenza che, per quanto riguarda

4 Cfr. Hall S., Introduction: Who Needs Identity?, in Hall, du Gay, Questions of Cultural Identity, pp.

1-17: 2-3.

5 Per cui non si può non rimandare all’importante raccolta di saggi di Jauss H.R., Alterità e modernità

della letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.

6 Il passo a cui si fa riferimento è, nella sua interezza, il seguente: «Car Je est un autre. Si le cuivre s’éveille

clairon, il n’y a rien de sa faute. Cela m’est évident: j’assiste à l’éclosion de ma pensée: je la regarde, je l’écoute: je lance un coup d’archet: la symphonie fait son remuement dans les profondeurs, ou vient d’un bond sur la scène. Si les vieux imbéciles n’avaient pas trouvé du Moi que la signification fausse, nous

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la bibliografia sull’argomento, ci si muove su un terreno assai poco dissodato: infatti, non solo i contributi espressamente dedicati alla ricerca dell’identità nella cultura medievale sono ad oggi assai limitati, ma, più in generale, nella ricca bibliografia su identità e alterità nel mondo moderno e contemporaneo, pare sia finora mancato un approccio che ambisca, come il nostro progetto, a considerare insieme le due polarità nella lettura comparata di opere letterarie e dati testuali diversi (linguistici, retorici, narrativi).

La seconda puntualizzazione che l’assunto iniziale pare suggerire è invece in positivo. Non trattandosi di una categoria propria della cultura medievale alla quale ci si propone di applicarla, è il caso che l’identità – e, va da sé, anche l’alterità – sia accolta in tutta l’ampiezza e varietà di declinazioni che la riflessione dell’ultimo secolo e più le ha conferito. Fedeli ad un approccio filologico saldamente ancorato al dato testuale ma attenti a suggestioni culturali diverse, i miei colleghi ed io non abbiamo dunque ritenuto di dover circoscrivere preliminarmente il campo d’indagine. Parimenti, gli autori dei contributi qui raccolti, che hanno generosamente accolto l’invito a porre la loro competenza al servizio della nostra ricerca, dimostrano non solo di problematizzare la questione focalizzandola da punti di vista differenti, ma anche di non assumere una definizione statica o restrittiva di identità e alterità. In tal senso, tanto questo volume quanto il repertorio in costruzione si propongono di ampliare l’impostazione prevalente negli studi sull’alterità nella lettura medievale, secondo cui l’Altro è quasi sempre soltanto lo straniero, rispetto ad un Io identificato in termini principalmente etnico-culturali e religiosi.7 È evidente – e mi

addentro finalmente nel tema dichiarato fin dal titolo di questa introduzione – che, se una simile impostazione può essere proficua, ad esempio, per lo studio della chanson de geste o, a maggior ragione, per la letteratura di viaggio, per la poesia lirica essa si rivelerebbe del tutto inadeguata.

I testi oggetto dello spoglio nell’ambito del nostro progetto appartengono a generi quantomai diversi tra loro, per impostazione ideologica, finalità culturali ed elementi formali distintivi: dalla poesia lirica a quella narrativa, dalla predicazione religiosa alla letteratura di viaggio. Va da sé che sono assai diverse, nelle opere analizzate, le modalità secondo le quali si trovano sviluppate discorsivamente la raffigurazione e la costruzione di un soggetto individuale o collettivo, nel confronto o in aperta opposizione con ciò che è ‘altro’. Le peculiarità della lirica medievale, giustamente ma problematicamente riconosciuta come momento aurorale della moderna poesia dell’io,8 sono troppo note

n’aurions pas à balayer ces millions de squelettes qui, depuis un temps infini, ont accumulé les produits de leur intelligence borgnesse, en s’en clamant les auteurs! (…) La première étude de l’homme qui veut être poète est sa propre connaissance, entière; il cherche son âme, il l’inspecte, il la tente, l’apprend. Dès qu’il la sait, il doit la cultiver». Rimbaud A., Lettera a Paul Demeny (“Lettre du Voyant”), Charleville, 15 maggio 1871.

7 Si veda, ad es., l’importante volume miscellaneo Cassarino M. (a c. di), Lo sguardo sull’altro, lo sguardo

dell’altro: l’alterità in testi medievali, introduzione di A. Pioletti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011.

8 Già Henri-Pascal de Rochegude, tra i primi cultori moderni della poesia trobadorica, sottolineava il

merito essenziale dei trovatori come “creatori del Parnaso moderno” (cfr. Frank I., Il ruolo dei trovatori nella formazione della poesia lirica moderna, in Formisano L. (a c. di), La lirica, Bologna, Il mulino, 1990, pp. 93-118: 94), nozione ribadita unanimemente anche dagli studiosi più recenti. Sulla ‘scoperta

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per dover spendere eccessive parole a rammentarle. Mi limito quindi a una breve rassegna di tratti rilevanti (e da sempre problematici per la critica), in quanto di per sé suscettibili di vedere implicata, esplicitamente o sotto traccia, l’espressione poetica di un’identità.

– In primis, la centralità di un “io” che ama e canta, fulcro grammaticale e retorico di un’ostentata ma sempre labile sintesi di autore, locutore e personaggio.

– Sul piano formale, l’istituzionalizzazione di un idioletto assai connotato e stereotipato, rispetto al quale gli spazi di libertà espressiva delle individualità autoriali paiono a tratti ridursi a delle mere variazioni sul tema.9

– Un legame sostanziale con la musica, della quale almeno nei primi tempi gli stessi poeti sono anche i compositori; ciò che fa di essa un elemento espressivo cruciale, ancorché assai difficile da decifrare nella sua concreta esecuzione e nel suo reale significato.

– La centralità dell’amore, principio fondante dell’universo cortese e della poesia che ne è l’espressione, ma al tempo stesso entità dai caratteri sfuggenti: idolo, ipostasi allegorica, entità quasi divina, alter-ego dell’amata, cifra espressiva di un discorso che ha la tendenza a ripiegarsi su se stesso (è la «circolarità del canto», secondo l’icastica definizione di Paul Zumthor).10

– Il rapporto ambivalente con la tradizione, tra protestazioni di originalità o eccezionalità dei singoli autori e diffusa aderenza al canone delle auctoritates mediante la pratica di una più o meno raffinata intertestualità.

– La questione di un’ironia pervasiva o addirittura costitutiva, forse affiorante talvolta anche laddove il tono si fa ostentatamente più serioso e grave.

E la rassegna potrebbe continuare. Da una parte, dunque, la lirica medievale, con la sua estrema formalizzazione, pare prestarsi magnificamente ad una ricerca che privilegi l’analisi degli elementi espressivi: dal momento della fondazione con le prime generazioni

dell’interiorità’ nella lirica italiana a partire da Giacomo da Lentini e, soprattutto, da Guido Cavalcanti, si vedano soprattutto gli interventi di Roberto Antonelli: Antonelli R., Cavalcanti o dell’interiorità, «Critica del testo», 4, 2001, pp. 1-22; Id., Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca, in Bruni F. (a c. di), «Vaghe stelle dell’Orsa...»: l’«io» e il «tu» nella lirica italiana, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 41-75; Id., Giacomo da Lentini e l’‘invenzione’ della lirica italiana, «Critica del testo», 12, 2009, pp. 1-24.

9 A questo jeu formel tendono a ridurre la lirica – a partire dal fondamentale saggio di Guiette R., D’une

poésie formelle en France au moyen âge, «Revue des sciences humaines», 54, 1949, pp. 61-68 – studiosi, soprattutto della poesia dei trovieri, come Roger Dragonetti e Paul Zumthor. Più equilibrata, in tal senso, la posizione di chi, come Maria Luisa Meneghetti, pur riconoscendo l’incontestabile rilievo delle costanti formali nella composizione lirica, ritiene più proficuo concentrarsi sul valore degli altrettanto evidenti rapporti intertestuali tra autori e componimenti (si vedano in particolare Meneghetti M.L., Il pubblico dei trovatori. La ricezione della poesia cortese fino al XIV secolo, Torino, Einaudi, 19922, e Ead., I confini

del ‘grand chant courtois’, in Brugnolo F., F. Gambino (a c. di), La lirica romanza del Medioevo: storia, tradizioni, interpretazioni, Padova, Unipress, 2009, pp. 295-312).

10 Zumthor P., De la circularité du chant (à propos des trouvères des XIIe-XIIIe siècles), «Poétique», 2,

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trobadoriche, il suo lessico, i suoi stilemi, il suo corredo iconico sembrano infatti trasferirsi con aggiustamenti quasi impercettibili ai poeti successivi, resistendo ai mutamenti della lingua (dal provenzale al francese, al galego e all’italiano) e dei tempi (dal XII secolo cortese e aristocratico, al XIII sempre più urbano e borghese). Dall’altra parte, però, ci si trova costretti a fare i conti con un’autentica deriva ermeneutica che, dagli studi sul primo trovatore fino a quelli su Dante, non cessa di ribadire la problematicità di questa poesia. Una poesia che, come solo la grande poesia sa fare, è capace di giocare con i livelli di senso – in pieno accordo, in questo, con il pensiero del suo tempo – e di parlare in modo diverso a chiunque si accosti ad essa. E ancora non è del tutto chiaro se ciò avvenga più per la sua congenita polisemia, che reclama fin dal tempo in cui fu composta un pubblico di bos entendedors, o per la distanza cronologica e culturale dal lettore odierno. In ogni caso, è indubbio che lo studio dell’identità nella lirica risulti, per tutte le ragioni appena evocate, sostanzialmente più complesso e problematico, ma anche, forse, più appassionante, che per gli altri generi del sistema letterario medievale, generi nei quali un’ispirazione ben riconoscibile e l’impiego di un apparato espressivo meno connotato e denso offrono innegabilmente maggiori appigli per un’indagine.

In particolare, una serie di domande si rivelano cruciali per la messa a punto di una descrizione complessiva dell’espressione poetica dell’identità nella lirica romanza medievale.

– Quale rapporto intercorre fra espressione dell’‘identità’ ed espressione della ‘soggettività’, quale è stata finemente descritta dalle monografie di Michel Zink e di Sarah Kay?11 Qual è la parte dei connotati identitari nella costruzione di un

‘io-lirico’, concetto ormai acquisito per gli studi sulla lirica medievale, grazie soprattutto ai contributi di Roberto Antonelli?12 Come si possono, insomma, collocare le nuove

ricerche sull’identità nella lirica medievale rispetto alla ricca ed autorevole bibliografia pregressa sull’espressione, nel medesimo genere, di un’individualità e di una soggettività poetica?

– Come e in quale misura l’identità che si manifesta nella lirica può rinviare – come è la norma per altri generi letterari (su tutti l’epica) – a una dimensione collettiva (individuabile ad esempio su base sociale, culturale, religiosa, etc.)? È su questo piano che si gioca il fondamentale confronto tra soggetto e mondo, un confronto che non mi pare risolubile né uniformandosi a tesi troppo rigidamente sociologiche, né, al contrario, appiattendo l’io-lirico a una mera espressione di se stesso o, addirittura, a un’esistenza soltanto formale nel discorso amoroso. L’impressione è che la lirica medievale sappia esprimere meglio di altri generi, pur semanticamente più trasparenti, la complessità dei rapporti in un mondo in grande evoluzione, solo che si voglia avere la pazienza di leggere i testi con attenzione alla lettera e al contesto, ed evitando ogni partito preso ideologico.

11 Si vedano Zink M., La subjectivité littéraire. Autour du siècle de Saint Louis, Paris, P.U.F., 1985, e Kay

S., Subjectivity in Troubadour Poetry, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.

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– A quale/quali ‘alterità’ si trova confrontata l’‘identità’ poetica così definita? Come il concetto di identità, così anche quello correlativo di alterità non sembra essere stato produttivamente applicato alla lirica medievale. Eppure, è evidente che una poesia tanto marcatamente egocentrica non possa che giovarsi di una precisa individuazione e definizione degli ‘altri’ che, di volta in volta, favoriscono, ostacolano, esaltano, irritano, opprimono o deprimono il soggetto, sempre condizionandone la personale espressione: la donna amata, i confratelli e rivali, i lausengiers, i mecenati, la stessa personificazione di Amore...

– Quali sono gli strumenti espressivi – grammaticali, retorici, stilistici, ritmici e melodici – impiegati dagli autori per inscrivere la propria identità nel discorso poetico? Quale rilevanza può assumere tale argomento nell’economia del testo e della musica? Quale la funzione, nel discorso identitario, di senhal e pseudonimi (due etichette che, come ho provato a dimostrare in un paio di contributi recenti, non indicherebbero affatto lo stesso espediente poetico nella produzione trobadorica)?13

Tali le questioni che si sono volute proporre all’approfondimento degli autori dei saggi raccolti in questo volume. Ma si tratta, com’è ovvio, di un elenco soltanto indicativo che i colleghi, tra i più competenti specialisti della materia, hanno sapientemente e opportunamente integrato secondo le proprie rispettive inclinazioni, ampliando l’orizzonte della riflessione ben al di là e degli spunti di partenza, e di quanto i titoli stessi dei contributi denuncino.

Privilegiando la dimensione individuale, con l’analisi in parallelo dei concetti di ‘identità’ e ‘duplicità’, ciascuno dei quali portatore a sua volta di una fondamentale ambivalenza – rispettivamente tra identificazione e identicità, e tra raddoppiamento e dissimulazione –, Michel Zink (Identité et duplicité. La signature comme dissimulation) propone una chiave di lettura estremamente significativa della lirica medievale. Tra queste funzioni in apparenza antitetiche ma inscindibilmente interrelate, il trovatore può giocare a nascondino, fingere di svelare la propria identità servendosi degli strumenti linguistici e retorici che la tradizione o la fantasia gli suggeriscono, non diversamente dal poeta moderno. In tal senso, lo studio delle modalità di firma attestate dai componimenti lirici conforta la lettura della poesia del Medioevo come poesia tout court, al di là della già ricordata alterità contestuale: Zink lo dimostra attraverso una carrellata di esempi emblematici, che vanno dal semplice antroponimo al senhal, dall’eteronimo all’acrostico, tratti non soltanto dalla produzione dei secoli XII e XIII, ma anche da un autore quale François Villon, in cui un soggetto ancora per molti versi medievale si apre a nuove dimensioni espressive.

Gli acrostici, abbondanti in Villon, per il quale rappresentano una modalità privilegiata di ostentare il proprio nome, celandolo nelle pieghe del discorso poetico, rientrano in una più vasta categoria di espedienti formali, complessivamente definibili come «figure di

13 Saviotti F., L’énigme du senhal, «Medioevi», 1, 2015, pp. 101-121; Id., Senhals et pseudonymes, entre

Raimon de Cornet et Raimbaut de Vaqueiras, in Buchi É., J.-P. Chauveau et J.-M. Pierrel (éd. par), Actes du XXVIIe Congrès international de Linguistique et de Philologie romane (Nancy, 15-20 juillet 2013), 2

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lettere», comprendenti anche mesostici e telestici, che caratterizzano, tra gli altri, la lirica medievale come gioco. Gioco di società per chi ne possegga la chiave, la poesia italiana del Due e del Trecento offre una serie cospicua di esempi di omaggio a un dedicatario il cui nome è smembrato e distribuito lettera per lettera tra i versi del componimento. Su questi casi si concentra il contributo di Maria Sofia Lannutti (Figurae nominis et sententiae. Identità dell’autore e del dedicatario nella lirica italiana del Due-Trecento), alla ricerca di un’identità declinata in senso rigorosamente formale e intesa come strategia di ‘identificazione’; un’identità che tende in effetti a tradursi spesso («identità del dedicatario») nella rappresentazione di un’alterità, confermando così una volta di più come nel discorso lirico i due poli non siano mai effettivamente separabili.

Quest’ultimo assunto è richiamato esplicitamente da Valentina Atturo (Identità, spirito e affetti in Giacomo da Lentini), che ne fa la base per una ricerca condotta all’interno del corpus poetico del primo grande lirico in lingua di sì. L’alterità è qui prioritariamente quella femminile, plasticamente raffigurata nelle canzoni del Notaro, dove «l’io può parlare di sé solo alla presenza» di lei, presenza il cui eventuale venir meno determina «la cessazione del canto». Il discorso si trova ribaltato nei sonetti, invenzione lentiniana di cui si valorizza, come già notato dalla critica, l’intima corrispondenza di forma e contenuti. Qui l’amata tende fisicamente a sparire, e tale autentica rimozione di un corpo lascia campo libero all’ostentazione di un altro corpo: quello, sconvolto dalla passione, del soggetto lirico. A partire da questa sorta di scambio che rende evidente la crisi del tópos della richiesta d’amore su cui si fondava prioritariamente la lirica trobadorica, l’identità dell’amante può così manifestarsi nell’interiorizzazione del sentimento e trovare compiuta espressione poetica nel sonetto mediante le categorie e la terminologia della «fisiologia spiritale».

Per le stesse ragioni, l’esperienza di Giacomo da Lentini e l’invenzione del sonetto costituiscono una tappa fondamentale nel percorso di rappresentazione, o, per meglio dire, di costruzione poetica dell’identità personale tracciato da Roberto Antonelli (La questione dell’Io, dal romanzo antico-francese alla lirica italiana), che attraversa in profondità la letteratura medievale dal romanzo del XII secolo, con i suoi eroi tipizzati, ancora non troppo diversi dai protagonisti della chanson de geste ma già aperti ad una aventure individuale, fino alla «nascita del soggetto» in senso moderno con Petrarca. La descrizione unitaria di un simile cammino dell’Io, al di là delle evidenti barriere di genere, lingua e contesti socio-culturali, è giustificata dalla comunanza tematica delle opere prese in considerazione: Antonelli mostra infatti come, dalla «nuova società cortese» in avanti, l’amore, portando con sé il problema dei rapporti interpersonali, assurga a «fatto identitario» e tema letterario predominante. E se è con la produzione italiana, dal Notaro in poi, che il discorso lirico sull’identità si riduce precipuamente, se non esclusivamente, al discorso sull’identità del singolo individuo, giova ricordare che presso i trovatori – quelli delle prime generazioni soprattutto – la refrattarietà a fare della donna amata un’interlocutrice del discorso poetico (manca quasi del tutto, almeno fino a Bernart de Ventadorn, l’uso del pronome ‘tu’) va di pari passo con una tangibile apertura a dimensioni identitarie collettive, più o meno socialmente o culturalmente connotate (i companhos di Guglielmo IX, i soudadiers di Marcabru e così via).

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L’espressione di un’identità personale e collettiva al tempo stesso, fondata sul sentimento di ‘italianità’, è quella che ricerca all’interno del corpus trobadorico Marco Grimaldi (L’identità italiana nella poesia dei trovatori), nell’ambito di un progetto di ricerca FIR – Programma “Futuro in Ricerca 2013” dal titolo “L’Italia dei trovatori: per un nuovo repertorio delle poesie occitane relative alla storia d’Italia (secc. XII-XIV)”. Anche in questo caso l’indagine, che coinvolge alcuni toponimi ed etnonimi sensibili – quali «Italia» e «Italiani», «Lombardia» e «Lombardi», «Latini» – muovendo da un preliminare tentativo di precisa definizione di termini la cui accezione, com’è noto, è spesso mutata proprio nel corso del Medioevo, dimostra di valorizzare, fin dalle riflessioni teoriche che aprono il saggio, il dialogo tra il polo dell’identità (laddove l’autore è un ‘italiano’) e quello dell’alterità (autore d’Oltralpe che parla dell’Italia e degli Italiani). Le conclusioni di Grimaldi quanto alla possibilità di individuare nella poesia trobadorica le tracce di una solida «identità italiana» quale quella che «sembra legata in primo luogo all’affermazione del volgare nel corso del XIII sec.», sono in gran parte negative: si riscontra, semmai, episodicamente, il ricorso ad una vaga categoria collettiva qualora (è il caso del famoso sirventese di Peire de la Caravana) si tratti di chiamare a raccolta il «volgo disperso» contro un nemico comune.

Si occupa di poesia trobadorica anche il contributo di Christelle Chaillou-Amadieu (Le chant du poète, entre convention et singularité), che prova a fornire una risposta alla domanda: «La musique des troubadours contient-elle une expression de l’identité?». Il punto di partenza è ben noto: i repertori melodici dei trovatori sono assai più omogenei di quelli testuali e maggiore è anche il loro tasso di formularità. Sembrerebbe, dunque, assai arduo poter riconoscere nella produzione di singoli autori dei tratti che rimandino alla loro precisa identità di compositori, quali una determinata maniera o addirittura delle formule riconoscibili dal pubblico in funzione di firma. Malgrado le premesse poco incoraggianti, l’esame approfondito dei corpora musicali di Gaucelm Faidit e Bernart de Ventadorn permette alla studiosa di far emergere degli elementi interpretabili in questa direzione, dei sigilli melodici che trovano peraltro la loro giustificazione nell’esigenza di far riconoscere l’arte dell’autore in un contesto di riproduzione e riuso incontrollato delle partiture da parte degli esecutori. In tal senso, si potrà parlare anche di una «identità della melodia» che contribuisce a garantire l’«identità della canzone» nell’estrema variabilità della tradizione.

L’importanza del fattore ‘tradizione’ nel conferimento di attributi identitari è questione centrale nel contributo di Davide Daolmi (Raccogliere liriche, inventare poeti. L’identità immaginaria dei primi trovieri), il quale pone in discussione, sulla base di numerosi argomenti di varia natura, l’identità biografica di due tra i principali trovieri delle prime generazioni: il Castellano di Coucy e Blondel de Nesle. La genericità onomastica – peraltro ambiguamente testimoniata dai canzonieri più antichi – di entrambi, che gli studiosi moderni hanno in effetti faticato non poco a far corrispondere a figure storicamente riconoscibili, e la loro parallela attestazione come personaggi romanzeschi, l’uno accanto alla dama di Fayel, l’altro al fianco di Riccardo Cuor di Leone (cui Daolmi è propenso a negare l’attività poetica che i manoscritti e la critica gli riconoscono): questi gli indizi principali a sostegno dell’ipotesi, interessante quanto provocatoria nei confronti del

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presunto dogmatismo di taluni settori della medievistica, che l’identità dei due poeti sia stata creata ad arte. Responsabili dell’operazione sarebbero, a partire dalla metà del XIII secolo, i compilatori delle grandi antologie, che avrebbero voluto garantire il successo editoriale dei loro prodotti riconducendo una serie di componimenti anonimi omogenei per ideologia e contenuto al nome di personalità letterarie celeberrime ma fittizie.

Mi sono limitato a segnalare, per ognuno dei contributi raccolti, gli aspetti più significativi rispetto allo sviluppo del tema proposto, cercando di porre in luce i punti di reciproca tangenza, senza avere l’ambizione di riassumerne la ricchezza di argomenti e di aperture. Come si può giudicare da questa pur sintetica e limitata panoramica, le riflessioni teoriche di grandi maestri si accompagnano a nuove e originali ricerche di giovani studiosi in un volume che l’ampiezza di prospettive e la diversità dei soggetti affrontati concorrono a rendere, mi pare, un punto di riferimento importante in vista delle investigazioni future.

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Identità dell’autore e del dedicatario

nella lirica italiana del Due-Trecento

Maria Sofia Lannutti

Università degli Studi di Pavia

1. Il Duecento: ser Pace, Dello da Signa, Dante da Maiano

Dispositivi enigmistici di vario genere fanno parte della tecnica poetica sin dall’epoca ellenistica. Ne fecero in seguito uso autori cristiani come Ausonio, Venanzio Fortunato, Rabano Mauro. Specifico della poesia romanza è invece il senhal, che cela allusivamente l’identità, reale o simbolica, dell’amata, del dedicatario, dell’autore. Alcuni poeti italiani, che appartengono alla «corrente ermetica di ascendenza tardo-romana e, poi ancora, altomedievale»,1 incarnata soprattutto da Guittone d’Arezzo e dalla sua scuola, affiancano

al senhal artifici più complessi, analoghi a quelli impiegati dagli autori mediolatini, da cui si ricavano autentici nomi propri.2 Se ne occupa da ultimo Marco Berisso in un lavoro

sulle crittografie in ser Pace e Dello da Signa, guittoniani attivi nella seconda metà del Duecento e partner in uno scambio di sonetti. Berisso riprende e sviluppa le analisi di Claudio Giunta, per Dello da Signa, e di Rossana Giorgi, per ser Pace.3 Giorgi tiene

conto a sua volta del precedente studio di Deborah Contrada.4 Nel caso del sonetto Certi

elementi diraggio presente di Dello da Signa, i nomi si ricavano dalla corrispondenza che è possibile stabilire tra i numeri menzionati nel testo e l’ordine delle consonanti e delle vocali nell’elenco alfabetico. Lo stesso artificio è adottato da ser Pace nel sonetto In decima e terç’à lo cominciare, che ha identica virtuosistica struttura metrica con rime interne.5

Ser Pace è autore anche di sonetti con giochi enigmistici di altra natura, che riguardano la veste grafica del testo e che possiamo definire figure di lettere. Si tratta di figure i cui elementi, sempre singole lettere, non si trovano in tutti i versi, ma sono comunque distribuiti in modo razionale, non casuale. È razionale ad esempio la distribuzione delle lettere che formano in acrostico il nome NARDUCIO nel sonetto Nessum pianeto doveria parere, a patto di apportare una piccola correzione, già suggerita da Deborah Contrada,

1 CLPIO, p. 839.

2 Berisso M., Crittografie predantesche, «L’immagine riflessa», 19, 2010 (= Lecco M. [a c. di], L’enigma

nella letteratura europea dall’antichità e dal medioevo all’età moderna), pp. 157-175.

3 Giunta C., La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino,

1998, pp. 40-45; Giorgi R., 2.4.5.3., in CLPIO, p. ccix.

4 Contrada D.L., The Resolution of Ser Pace’s «nome secreto», «Italica», 66, 1989, pp. 281-292. 5 Berisso, Crittografie, pp. 158-164.

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che consiste nel sostituire l’articolo Lo al v. 12 con Il.6 I versi coinvolti sono così il primo

e l’ultimo delle quartine e il primo e l’ultimo delle terzine.

Nessum pianeto doveria parere,

poic’ànno im me perduta lor vertude. Venus, c’amor congiunge di piacere,

Ad amaror per força mi conchiude. Ralegrami Mercurio in vedere

e subito in gran pene mi ’nfude. Mars mi conbacte e feremi a podere,

Di gravi colpi m’à dati e ferude. Volge Saturno, e non pare, nel’altura

per no mostrare sua gran benignitade;

Con lui contasta ciascuno elemento. Il Sol perde sprendore e la calura.

Tucti sono per me in diversitade,

Oi lasso!, sol per mio distrugimento.

Come annuncia l’incipit, nel sonetto In vista oculto ciò ke dentro pare, sempre di ser Pace, il nome del dedicatario è rivelato da un mesostico. Contrada e Giorgi ricavano la forma NARDUCO dai versi dispari.7

IN vista oculto ciò ke dentro pare per no mostrare ke sente lo core; tAl ò temença ke, se li dispare, ver’ me obliare poria suo valore. OR con’ firagio? S’io degio durare, più sormontare mi vegio il dolore. ADonqua è meglo, s’io posso campare, a lei contare degia lo mio ardore. AVerà forse pietança del mio male la naturale natura benigna, e Ciò è degna per corso di sole. Neente a sua simigla crescie e sale, cOtanto e tale di lei pare insegna; poi li sovegna di merçé, se vole.

Per Berisso, che presuppone un’originaria mise en texte per distici e per distici più un verso isolato, la lettera conclusiva sarebbe invece la seconda dell’ultimo verso.8

IN vista oculto ciò ke dentro pare per no mostrare ke sente lo core;

tAl ò temença ke, se li dispare, ver’ me obliare poria suo valore.

6 Contrada, The resolution, p. 284 e nota 7 a p. 292. 7 Ivi, p. 286; Giorgi, CLPIO, p. ccix.

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OR con’ firagio? S’io degio durare, più sormontare mi vegio il dolore.

ADonqua è meglo, s’io posso campare, a lei contare degia lo mio ardore.

AVerà forse pietança del mio male la naturale natura benigna,

e Ciò è degna per corso di sole.

Neente a sua simigla crescie e sale, cotanto e tale di lei pare insegna;

pOi li sovegna di merçé, se vole.

Appare tuttavia preferibile una terza soluzione, che presuppone la forma niente in luogo di neente in apertura del v. 12 e implica il coinvolgimento dei versi dispari delle quartine e parallelamente, come nell’altro sonetto, del primo e dell’ultimo verso di ogni terzina. Se ne ricava ancora la forma NARDUCIO, in luogo del meno plausibile NARDUCO, dove manca il digramma per il suono palatale.

IN vista oculto ciò ke dentro pare per no mostrare ke sente lo core; tAl ò temença ke, se li dispare, ver’ me obliare poria suo valore. OR con’ firagio? S’io degio durare, più sormontare mi vegio il dolore. ADonqua è meglo, s’io posso campare, a lei contare degia lo mio ardore. AVerà forse pietança del mio male la naturale natura benigna, e Ciò è degna per corso di sole. NIente a sua simigla crescie e sale, cotanto e tale di lei pare insegna; pOi li sovegna di merçé, se vole.

Un analogo gioco di lettere si trova nel sonetto Di ciò ch’audivi dir primieramente di Dante da Maiano. L’ultima terzina invita la dedicataria a cercare «per testa» il nome dell’autore, che si ricava in effetti componendo le lettere iniziali dei versi dispari fino al nono. Secondo Rosanna Bettarini, il nome sarebbe completato dalla e iniziale della seconda terzina, da intendersi come voce verbale (DANTE È).9 Ma anche in questo caso è

possibile un’altra interpretazione, se si prendono in considerazione le prime sillabe degli altri due versi dispari dopo il nono, che formano la voce SAPER. La plausibilità della figura è assicurata dal ricorrere nel testo del concetto di sapienza/saggezza, principale attributo dell’amata e Leitmotiv dell’intero sonetto, come dimostrano le voci saver, saggia, sovrasaccente, sacciate, savere.

Di ciò ch’audivi dir primieramente,

gentil mia donna, di vostro laudore,

Avea talento di saver lo core

se fosse ver ciò ben compitamente.

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Non come audivi il trovo certamente,

ma per un cento di menzogna fore,

Tanto v’assegna saggia lo sentore

che move e vèn da voi, sovrasaccente.

E poi vi piace ch’eo vi parli, bella,

s’el cor va da la penna svarïando,

SAcciate mo ca ben son d’un volere.

E se v’agenza, el vostro gran savere

PER testa lo meo dir vada cercando,

se di voler lo meo nome v’abbella.

2. Il Trecento: Fazio degli Uberti, Cecco Nuccoli, Petrarca

Il gusto per le figure di lettere è proprio anche di alcuni poeti della generazione successiva. Come indicato nel distico finale, nella canzone di Fazio degli Uberti Grave m’è a dire come amaro torna, le lettere iniziali di ogni stanza producono l’acrostico GIDDA, rivelatore del nome della donna amata da Fazio, Ghidda Malaspina, evocata anche dal senhal SPINETTA, figura situata all’interno di un solo verso, nello specifico il terzultimo della prima stanza, e interpretatio nominis: «…quella spinetta / crudele e aspra nata tra que’ pruni…». Spinetta è anche il nome del padre di Ghidda, signore della Lunigiana.10

Grave m’è a dire come amaro torna

quel dolce che d’amor si sente in prima, ma pur quanto si stima

nel cuor penso trattar con vera prova. Dico ch’Amore in vista tanto adorna dello intelletto mio prese la cima, ch’a figurarlo rima

sì degna alcuna el mio pensier non trova: perché con ciò che giova

vedere altrui o che sentir diletta, con tutto Amore ne l’anima giunse; ma, lasso, poi la punse,

sì trasformato in quella spinetta crudele e aspra nata tra que’ pruni, che sparti son sopra i monti di Luni.

In cotal modo il dolce mi vien agro

[…]

Di me, lasso, non veggio alcuno scampo

[…]

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Dice un pensier fra me quand’io la miro

[…]

Ad Orbino, canzon, vo’ che tu passi

ché là è ’l nostro amore e ’l nostro dio; là è quella per ch’io

sanza cuor vado per lo mondo vivo. E, giunta inanzi a lei, ferma tuo’ passi con ogni riverenza e atto pio; alfin dira’le in privo:

«Chi m’ha creata a star con voi mi manda». E s’ella ti domanda:

«Che fé di ciò mi dai?», con un sospir dirai:

«Gentil madonna, le letter ch’io mostro per capitane qui del nome vostro».

All’incirca contemporaneo di Fazio degli Uberti è il perugino Cecco Nuccoli, autore di un sonetto omoerotico, probabilmente parodico, in cui sono compresenti ben cinque figure, quattro acrostici e un senhal compreso nel verso finale. I primi due acrostici rivelano il nome e il cognome del dedicatario, TREBALDINO MANFREDINO, che si ricavano dall’inizio rispettivamente dei versi dispari e dei versi pari delle quartine. Il terzo rivela il nome dell’autore, SER CECO, che si ricava dall’inizio dei versi dispari delle terzine. Il quarto rivela il nome RABELUCCIA, che si ricava dall’inizio dei versi pari delle terzine e che secondo Franco Mancini apparterrebbe alla madre dell’autore.11 Nell’ultimo verso, il

bisillabo LUCCIA, diminutivo di Rabeluccia e allotropo di lucciola, costituisce una figura a sé stante, analoga a SPINETTA nella canzone di Fazio e forse anch’essa interpretatio nominis, se si considera la possibilità che il diffuso motivo della luminosità dell’amata sia qui parodiato, forse anche con riferimento al dantesco lucciole, lemma raro nella lingua antica e immagine delle «tante fiamme» di cui «risplendea l’ottava bolgia», dove scontano le loro pene i consiglieri fraudolenti.

TRE anni e più fa mo ch’Amor mi prese,

MA ’N ben so’ certo che mai non mi lassa.

BALlenò uno splendor c’ogn’altro passa:

FREdd’era il tempo, di callor m’acese.

DI morte in vita mia alma sospese:

DItelme, donque, Amor se mai s’abassa.

NOn vede tu ch’io sto co’ pesce i·nassa?

NO po’ fuggir da lui né far defesa.

SERvir ce puoi, Amore, e toglier doglie!

RAmo fiorito, che stai in sul Monte,

11 Cfr. Mancini F., L.M. Reale (a c. di), Poeti perugini del Trecento, 2 voll., Perugia, Guerra, 1996, vol. 1,

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CEllatamente fa che tu ne coglie.

BEn puoi saper qual nome io porto in fronte:

COlui che già dinanze fe’ menzione,

LUCCIA, ferito, al figliuol pon cagione.

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

(Inf. XXVI, vv. 25-33)

I due tipi di figure di lettere, in un verso e su più versi, sono descritti in alcuni capitoli della Summa artis ritmici vulgaris dictaminis di Antonio da Tempo, che risale al 1332. Nei capitoli LXXIV e LXXV Antonio descrive il primo tipo, che può coincidere con un’intera parola, come nel caso di spinetta nella canzone di Fazio degli Uberti e di luccia nel sonetto di Cecco, ma può anche doversi desumere dalla combinazione di più parole. Nell’esempio proposto da Antonio, il nome Catarina è parte del nesso «acatar in amor».12

LXXIV De compositione nominis in una dictione

Aliquando dicitur compositio alio modo, videlicet quia in rithimo, et maxime in ballatis, apponitur nomen unius dominae. Et hoc potest fieri pluribus modis, quod patebit inferius in exemplis quae significata sunt de rubro. Nam potest uno modo poni nomen integrum, idest in una dictione integra; et hoc procedit ex proprietate nominis, quod erit valde generale vel equivocum; ut in hoc nomine

Fiore, quod potest poni in repilogatione sive represa unius ballatuzae; ut in hoc exemplo:

Perché la fiore el verde fa parere, non è più bella cosa da vedere.

Et sic de caeteris similibus complendo ballatuzam. Quod etiam nomen posset poni in quacunque parte rithimi, regula servata.

LXXV De compositione divisa per sillabas plurium dictionum

Hoc fit propter prolixitatem nominis, et ne forte omnes intelligant voluntatem eius qui rithimaverit, vel ad cuius instantiam rithimatum erit. Ut hoc nomine Catarina, quod nomen non posset in una dictione poni, quin statim intelligeretur; sed bene potest dividi per sillabas aliarum dictionum consecutive, et habilius apponitur in bisillabis quam in polysillabis. Et potest poni in verbis cuiuslibet vulgaris rithimi; sed magis convenit verbis unius represae sive repilogationis ballatuzae cuiusdam; ut in hoc exemplo:

12 Antonio Da Tempo, Summa artis ritmici vulgaris dictaminis, a c. di Andrews R., Bologna, Commissione

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Convienmi d’acatar in amor luoco, ove possa fuzir da grave fuoco.

Secondo Antonio da Tempo, l’altro tipo di figura, distribuita su più versi, può essere costituita da lettere o da sillabe («aut per literas aut per sillabas»), può essere in latino («Quae potest fieri etiam literaliter, licet alia verba sint vulgaria»), le lettere o le sillabe che la costituiscono possono trovarsi anche al mezzo del verso e in qualsiasi parte del componimento («et posset fieri etiam in medio versuum sicut in principio et in qualibet parte rithimi»). Oltre ai nomi femminili, queste figure possono rivelare nomi maschili («posset componi nomen hominis quemadmodum et mulieris»), o anche alia sententia, parole di diverso significato («Et etiam alia sententia posset componi»). In retorica la sententia definisce la categoria delle figure di pensiero (figurae sententiae), tra le quali è compreso anche l’enigma inteso come allegoria in regime di obscuritas, e in rapporto alla littera e al sensus può indicare il significato nascosto di un testo poetico.13

LXXVI De compositione nominis in capiversibus

Potest etiam fieri alia compositio, ut ponere nomen vel sententiam in capiversibus, aut per

litteras aut per sillabas. Quae potest fieri etiam literaliter, licet alia verba sint vulgaria; et posset fieri etiam in medio versuum sicut in principio et in qualibet parte rithimi. Nec subiciam

nisi exemplum de capiversibus in sillabis literaliter, quia quilibet sani capitis ex hoc satis alias

poterit colligi compositiones. Hanc autem compositionem, secundum quod de precedentibus dixi

ex rubro significavi (...). Nota quod in praedictis nominum compositionibus sic posset componi

nomen hominis quaemadmodum et mulieris; licet de mulieribus magis exemplificaverim, gratia

amoris venerei, qui multotiens dat rithimatorum materia rithimandi. Et etiam alia sententia

possit componi per modum supraproxime scriptum, componendo in principio et medio vel pluribus locis, ut comprehenditur per supra significata.

Antonio da Tempo non offre esempi di quest’accezione più libera delle figure di lettere su più versi, confidando nelle capacità deduttive e immaginative dei lettori («quilibet sani capitis ex hoc satis alias poterit colligi compositiones»). Se ne trova però uno eccellente nel Canzoniere di Petrarca. Si tratta del sonetto 5, incentrato sul nome dell’amata e parte del cosiddetto prologo allargato.

Quando io movo i sospiri a chiamar voi, e ’l nome che nel cor mi scrisse Amore,

LAUdando s’incomincia udir di fore

il suon de’ primi dolci accenti suoi.

13 Lausberg H., Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969, pp. 234-236; Eco U., La metafora nel

medioevo latino, «Doctor virtualis», 3, 2004, pp. 35-75: 54: «Tutti gli autori insistono sulla necessità primaria di esaminare la lettera, per esporre il significato delle parole difficili, giustificare le forme grammaticali e sintattiche, indicare le figure e i tropi. Dopodiché si passa al sensus inteso dall’autore, così come la lettera lo suggerisce. Quindi alla sententia, e cioè al senso nascosto per cui aliud dicitur et aliud demonstratur».

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Vostro stato REal, che ’ncontro poi, raddoppia a l’alta impresa il mio valore; ma: TAci, grida il fin, ché farle honore è d’altri homeri soma che da’ tuoi. Cosí LAUdare et REverire insegna la voce stessa, pur ch’altri vi chiami, o d’ogni REverenza et d’onor degna: se non che forse Apollo si disdegna ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami lingua mortal presumptüosa vegna.

(Rvf 5)

Come si vede, le figure sono due, una nelle quartine, l’altra nelle terzine. Secondo Rosanna Bettarini, la prima sarebbe compiuta (3 LAUdando, 5 REal, 7 TAci), la seconda sarebbe invece incompiuta (9 LAUdare et REverire, con eco in 11 REverenza), in obbedienza al divieto imposto dal Taci del v. 7.14 Diversamente Santagata ritiene che la seconda figura

sia completata dall’iniziale di Apollo al v. 12.15 A sostegno dell’interpretazione di Bettarini,

si può notare che la supposta figura doppia LAURETA LAURE... RE... è distribuita sui versi dispari con esclusione del primo e dell’ultimo, e che le sillabe coinvolte occupano una sempre differente posizione nel verso: v. 3: prima; v. 5: quinta; v. 7: seconda; v. 9: terza e sesta; v. 11: quarta. La parola Apollo sarebbe invece l’unica situata in un verso pari e la sua sillaba iniziale, considerando la sinalefe, ripeterebbe la quinta posizione già di REal.

È possibile interpretare la posizione delle sillabe nel verso alla luce della numerologia di matrice platonico-agostiniana, che tanta parte ha nell’economia del Canzoniere. Non mi soffermo sulle posizioni prima e terza di LAUdando e LAUdare ai vv. 3 e 9 (Dio e Trinità). A TAci nel v. 7 corrisponde la seconda posizione. Per Agostino il due è simbolo della conseguenza del peccato sull’uomo, che provoca la duplice morte dell’anima e del corpo ed è annullata dall’unica morte di Cristo. Rappresenta pertanto l’uomo nel suo rapporto con Dio, che è un rapporto di semplice a doppio.16 Non a caso, nel sonetto, il tacere è

14 Petrarca F., Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a c. di Bettarini R., 2 voll., Torino, Einaudi, 2005,

vol. 1, pp. 22-23: 23: «La prima terzina rilancia infatti il fonetismo significante di LAUdando e di REal (vv. 3 e 5), sciolto nelle due azioni dei verbi LAUdare e REverire (v. 9), ulteriormente raddoppiate dalla parola-chiave reverenza, nonché da quel duplicato semantico di laus che è onor (v. 11) dentro un gioco sottile a chiasmo; dopodiché l’invocazione s’interrompe, perché il poeta, pur duplicando la tensione (v. 6), parlando della sua donna dantescamente non crede «sua laude finire» (Donne ch’avete, 3) né raggiungere a parole l’oggetto desiderato» (p. 23).

15 Petrarca F., Canzoniere, a c. di Santagata M., Milano, Mondadori, 20042, pp. 26-27.

16 De Trinitate Dei, libro iv, cap. 3.5, intitolato Simplum Iesu Christi duplo nostro concinit ad salutem:

«Verum quod instat in praesentia quantum donat Deus edisserendum est, quemadmodum simplum Domini et Salvatoris nostri Iesu Christi duplo nostro congruat et quodam modo concinat ad salutem. Nos certe, quod nemo Christianus ambigit, et anima et corpore mortui sumus, anima propter peccatum, corpore propter poenam peccati, ac per hoc et corpore propter peccatum. Utrique autem rei nostrae, id est et animae et corpori, medicina et resurrectione opus erat ut in melius renovaretur quod erat in deterius

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associato al gridare per evocare l’inadeguatezza della parola umana («lingua mortal» al v. 14) a esprimere la lode dell’amata, chiarendo la ragione dell’incompiutezza del nome. La posizione di REverire, che accompagna LAUdare al v. 9, corrisponde al numero sei, che per Agostino è il primo dei numeri perfetti ed è il numero da cui dipende il rapporto di semplice a doppio.17 L’aggettivo REal, che qualifica lo stato dell’amata, chiama in causa

il numero cinque, che corrisponde alla posizione del sonetto nel macrotesto ed è numero mariano per eccellenza. Si pensi alla sua importanza nell’architettura della canzone alla Vergine, «del ciel regina» ... «già coronata nel superno regno» ... «donna del Re» (Rvf 366, vv. 13, 39, 49).

Non è escluso che nelle relazioni numeriche entri in gioco anche la posizione dei versi. Si consideri il raddoppiamento della quinta posizione nel caso di REal, o il fatto che la seconda posizione di TAci è associata al sette, numero mistico legato innanzitutto alla creazione. Per Agostino il sette è simbolo dell’uomo, la cui natura corporea, rappresentata dal numero quattro, è in simbiosi con la natura incorporea che partecipa del divino, rappresentata dal numero tre.18 O ancora che il numero undici, in rapporto con la

ripetizione della sillaba RE, sulla quale s’interrompe la seconda formulazione del nome, è per Agostino simbolo dell’eccesso e del peccato.19 Mentre i versi terzo e nono accolgono

commutatum»; trad.: «Per il momento urge spiegare, per quanto Dio lo concede, come tra noi e Gesù Cristo, Signore e Salvatore nostro, esista il rapporto di due a uno e come esso contribuisca alla nostra salvezza. Noi certamente, e nessun cristiano ne dubita, siamo morti nell’anima e nel corpo: nell’anima per il peccato, nel corpo per il castigo del peccato e perciò anche nel corpo a causa del peccato. Queste nostre due realtà, l’anima e il corpo, necessitavano di una medicina e di una risurrezione per rinnovare in meglio ciò che era stato mutato in peggio» (Sant’Agostino, La Trinità, introduzione di Trapè A. e M. F. Sciacca, trad. di Beschin G., Roma, Città Nuova, 1987, pp. 180-183).

17 De trinitate Dei, libro iv, cap. 4.7, intitolato Ratio simpli ad duplum ex perfectione senarii numeri:

«Haec autem ratio simpli ad duplum oritur quidem a ternario numero; unum quippe ad duo tria sunt. Sed hoc totum quod dixi ad senarium pervenit; unum enim et duo et tria sex fiunt. Qui numerus propterea perfectus dicitur quia partibus suis completur»; trad.: «Questo rapporto del semplice al doppio ha la sua origine nel numero tre. Uno più due fanno tre e la somma dei numeri di cui ho parlato dà come totale sei: infatti uno più due, più tre, fanno sei. Il numero sei si chiama perfetto perché si compone delle sue parti» (ivi, pp. 186-187).

18 Si può vedere ad esempio un passo delle Quaestionum Evangeliorum libri duo, libro II, Quaestiones

in Evangelium secundum Lucam, cap. 6.2: «Ternario enim numero incorporea pars hominis significatur, unde est quod ex toto corde et ex tota anima et ex tota mente diligere iubemur Deum, quaternario vero corpus; multis enim modis quadripartita invenitur natura corporis. Ex his ergo coniunctis homo constans non absurde septenario numero significatur»; trad.: «Col numero tre infatti si rappresenta la sua parte incorporea di cui è detto che, nell’amare Dio, dobbiamo farlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. Col numero quattro invece si designa il corpo, e molti sono i modi secondo i quali riscontriamo che la natura del corpo si può ripartire in quattro componenti. Risultando dunque l’uomo composto dei due elementi, corporeo e incorporeo, non è assurdo che lo si designi col numero sette» (Sant’Agostino, Opere esegetiche, introduzione di Caruana S., B. Fenati e M. Mendoza, trad. di Gentili D. e V. Tarulli, 2 voll., Roma, Città Nuova, 1997, vol. 1: Discorso del Signore sulla montagna; Questioni sui vangeli; Diaciassette questioni sul Vangelo di Matteo; Alcune questioni sulla Lettera ai romani; Esposizione della Lettera ai galati; Inizio dell’Esposizione della Lettera ai romani, pp. 346-347).

19 Sermo 83, cap. 6. 7: «Videte ergo, fratres: quisque incipit a Baptismo, liber exit, dimissa sunt illi decem millia

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le posizioni prima, terza e sesta di LAUdando, LAUdare e REverire, rafforzando la serie dei numeri propri della divinità.

Anche la doppia figura di lettere del sonetto 5 dei Rvf comporta un’interpretatio nominis, soprattutto se si prende per buona l’ipotesi di Guglielmo Gorni, ripresa da Fredi Chiappelli, che LAURETA sia plurale del latino lauretum.20 Questa ipotesi ci permette

infatti di presumere che il plurale laureta evochi le numerose rappresentazioni del luogo edenico abitato da «l’aura», definito proprio dall’hapax «laureto» nel congedo della canzone 129, Di pensier in pensier, di monte in monte.21

Canzone, oltra quell’alpe, là dove il ciel è più sereno et lieto, mi rivedrai sovr’un ruscel corrente, ove l’aura si sente

d’un fresco et odorifero laureto. Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola; qui veder pôi l’imagine mia sola.

Sia come sia, questo sonetto non è l’unico del Canzoniere che riveli dispositivi enigmistici. Ce n’è almeno un altro, segnalato in primis da Claudio Giunta,22 il cui gioco

è assimilabile, se ho visto bene, alla categoria delle sententiae non nominali o figurae sententiae descritta da Antonio da Tempo. Commentando il sonetto 25 nella trascrizione per coppie di versi dell’idiografo, Furio Brugnolo ha fatto notare la disposizione simmetrica delle lettere iniziali dei versi dispari nelle quartine.23 Una disposizione speciale hanno però

anche le lettere iniziali dei versi dispari delle terzine.

numerus undenarius transgressio legis est. Lex enim denarius, peccatum undenarium. Lex enim per decem, peccatum per undecim. Quare peccatum per undecim? Quia transgressio denarii est, ut eas ad undenarium. In lege autem modus fixus est: transgressio autem peccatum est. Iam ubi transgrederis denarium, ad undenarium venis»; trad.: «Vedete dunque, fratelli: ogni uomo che ha ricevuto il battesimo ne esce esente dal peccato; gli sono stati rimessi diecimila talenti, e quando ne esce incontrerà il compagno suo debitore; consideri allora lo stesso peccato poiché il numero undici significa la trasgressione della legge. Il numero dieci infatti rappresenta la legge, mentre il numero undici il peccato; poiché la legge è costituita da dieci comandamenti, il peccato invece si commette a causa dell’undici. Perché si commette a causa dell’undici? Perché è la trasgressione del dieci per arrivare all’undici. Nella legge invece la misura è fissa, mentre la trasgressione è il peccato. Allorché dunque tu oltrepassi il numero dieci, arrivi al numero undici» (Sant’Agostino, Discorsi 2,1 [51-85] sul Nuovo Testamento, a c. di Carrozzi L., Roma, Città Nuova, 1982, pp. 640-641).

20 Gorni G., recensione alle Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca, a c. dell’Ufficio

lessicografico dell’Opera del Vocabolario, Firenze, Accademia della Crusca, 1971, «Metrica», 1, 1978, pp. 284-285: 285; Chiappelli F., L’esegesi petrarchesca e l’elezione del «sermo laurano» per il linguaggio dei «Rerum vulgarium fragmenta», «Studi petrarcheschi», 4, 1987, pp. 47-85: 65-67, con la nota 21.

21 Cfr. Lannutti M.S., Laureta novata. L’alieniloquium nei madrigali dei «Rerum vulgarium fragmenta»,

«Giornale storico della letteratura italiana», 192, 2015, pp. 172-208 e 321-360: 175-180.

22 Giunta C., Codici. Saggi sulla poesia del medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 13.

23 Brugnolo F., Libro d’autore e forma-canzoniere: implicazioni grafico-visive nell’originale dei «Rerum

vulgarium fragmenta», in Belloni G., F. Brugnolo, H. W. Storey e S. Zamponi (a c. di), «Rerum vulgarium fragmenta». Codice Vat. lat. 3195. Commentario all’edizione in fac-simile, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 105-129: 105-107.

(26)

AMOR piangeva, et io con lui talvolta, dal qual miei passi non fur mai lontani,

MIRando per gli effecti acerbi et strani l’anima vostra de’ suoi nodi sciolta.

OR ch’al dritto camin l’à Dio rivolta, col cor levando al cielo ambe le mani,

Ringratio lui che ’ giusti preghi humani benignamente, sua mercede, ascolta.

ET se tornando a l’amorosa vita, per farvi al bel desio volger le spalle,

Trovaste per la via fossati o poggi, fu per mostrar quanto è spinoso calle,

ET quanto alpestra et dura la salita, onde al vero valor conven ch’uom poggi.

Nel caso della figura delle quartine, siamo di fronte, in termini matematici, a una matrice quadrata triangolare, affine al cosiddetto quadrato latino, il cui esempio più celebre è costituito dall’iscrizione latina palindroma Sator Arepo Tenet Opera Rotas. Mentre la figura delle terzine sembra data dalla combinazione di due matrici binarie triangolari, speculari e sovrapposte per un elemento (la T centrale). Se si combinano le lettere senza salti, all’interno delle due figure è possibile ricavare per quattro volte e specularmente le parole AMOR e MIROR, la congiunzione ET e il pronome TE. MIROR riprende il «mirando» del v. 3, il pronome TE traduce in seconda persona il «lui» riferito ad Amore nel v. 7 «Ringratio lui che ’ giusti preghi humani», e può essere considerato oggetto di MIROR, quindi AMOR potrebbe essere vocativo. La congiunzione ET va vista in rapporto ai vv. 3-4, dove l’oggetto del verbo mirare è «l’anima» del dedicatario del sonetto: «mirando per gli effecti acerbi et strani / l’anima vostra de’ suoi nodi sciolta». Ne ricaviamo la frase AMOR, MIROR ET TE, che ci permette di precisare il senso del verbo mirare, non semplicemente ‘guardare’, ma per latinismo semantico ‘guardare con meraviglia’ un fenomeno doloroso e straordinario: oggetto di meraviglia sono sia l’anima del dedicatario trasformata dagli effecti di Amore sia Amore stesso. Viene in mente il topos dei mirabilia Dei, che si rivela pertinente anche alla luce del commento di Agostino al sesto versetto del salmo 39. In esso la vita terrena è paragonata a un viaggio in un mare di amarezze, tribolazioni e tentazioni, equivalente allo «spinoso calle» e alla salita «alpestra et dura» del sonetto, e il cristiano è spronato a diventare lui stesso spectaculum secondo l’insegnamento paolino.24

Ambula et tu non in illis aquis, ubi Petrus aliquid significans ambulavit, sed in aliis; quia hoc saeculum mare est. Habet amaritudinem noxiam, habet fluctus tribulationum, tempestates tentationum; habet homines velut pisces de suo malo gaudentes, et tamquam se invicem devorantes; hic ambula, hoc calca. Spectare vis, esto spectaculum. Ne deficias, vide praecedentem et dicentem: Spectaculum facti sumus huic mundo, et Angelis, et hominibus.

Cammina anche tu, non su quelle acque su cui, per simboleggiare un’altra cosa, camminò Pietro, ma su altre acque, poiché questo secolo è un mare: un mare che ha la sua nociva amarezza, ha l’ondeggiare delle tribolazioni, le tempeste delle tentazioni; ha nel suo seno uomini che, come i pesci, godono del male altrui e a vicenda si divorano; qui cammina, calca questo mare. Vuoi guardare, sii tu lo spettacolo. Non venir meno, guarda colui che ti precede e dice: Siamo divenuti

spettacolo per questo mondo, per gli angeli e per gli uomini.

(27)

Un’altra figura di lettere, doppia come nel sonetto 5, s’individua poi nel madrigale Nova angeletta sovra l’ale accorta, numero 106 dei Rerum vulgarium fragmenta. Si tratta di un telestico da leggersi in senso ascendente, che forma la voce latina NOVATA. La possibilità di una lettura ascendente della figura non è prevista da Antonio da Tempo, ma la sua attendibilità mi sembra dimostrata dal fatto che NOVATA riprende la prima parola del testo, come nel caso dell’acrostico AMOR del sonetto 25.25

Nova angeletta sovra l’ale accorTA

scese dal cielo in su la fresca riVA, là ’nd’io passava sol per mio destiNO. Poi che senza compagna et senza scorTA mi vide, un laccio che di seta ordiVA tese fra l’erba ond’è verde il camiNO. Allor fui preso, et non mi spiacque poi, sì dolce lume uscia degli occhi suoi!

(Rvf 106)

Tra i componimenti estravaganti di Petrarca, infine, la canzone Quel ch’a nostra natura in sé più degno (E 21), dedicata ad Azzo da Correggio, presenta l’interpretatio nominis COR REGIO, che compare al v. 49: «COR REGIO fu, sì come suona il nome, / quel che venne sicuro a l’alta impresa...».26

3. Il Trecento: due madrigali intonati

Il madrigale semiletterato Lo lume vostro, dolce mio segnore, musicato da Jacopo da Bologna e dedicato a Luchino Visconti e a sua moglie Isabella Fieschi, contiene tutt’e due i tipi di figura di lettere, quello in un solo verso e quello su più versi, come nella canzone di Fazio degli Uberti e nel sonetto di Cecco Nuccoli. Che il madrigale sia dedicato a Luchino Visconti è indicato dall’acrostico LUCHINUS, mentre la frase «è sì bella» in rima al primo verso del ritornello non è altro che un’interpretatio in funzione elogiativa del nome Isabella.27

Lo lume vostro, dolce mio segnore, Virtute sic perfecte est ornatum,

Ch’a’ rei non luce, a’ boni sempr’è chiaro. Hoc est notum et satis [est] probatum In quegli c’han sentito il gusto amaro

25 Ivi, pp. 203-208.

26 Cfr. Petrarca F., Frammenti e rime estravaganti, a c. di Paolino L., in Petrarca F., Trionfi, Rime

estravaganti, Codice degli abbozzi, a c. di Pacca V. e L. Paolino, Milano, Mondadori, 1996, pp. 739-754.

27 Un’analisi del madrigale, in relazione ad altri tre componimenti dedicati a Luchino Visconti, tra cui

il mottetto Laudibus digni, anch’esso con l’acrostico LUCHINUS, si trova ora in Abramov-van Rijk E., Luchino Visconti, Jacopo da Bologna and Petrarch: Courting a Patron, «Studi Musicali», n.s., 3, 2012, pp. 7-62: 9-13.

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