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Recensione a Pian de’ Campi a Poggibonsi. Santi, tesori e battaglie in un territorio di confine fra Siena e Firenze, a cura di R. Merli, Siena, Il Leccio, 2019.

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e Firenze, a cura di R. Merli, Siena, Il Leccio, 2019.

Il volume segna una tappa fondamentale entro un più esteso progetto di ricerca e di valorizzazione che affonda le radici nei primi anni del nostro secolo, quando nel 2001 l’Antico Borgo di San Lorenzo a Pian de’ Campi ospitò un incontro di studio sul tema Sulle strade degli antichi. Pian dei Campi dagli Etruschi alla Francigena, al quale dettero il proprio fondamentale contributo Italo Moretti, Gianni Resti e Rossella Merli. A questa seguirono altre iniziative, tra cui spicca il meritorio restauro dell’affresco con-servato nella locale chiesa di S. Lorenzo, realizzato dal pittore fiorentino quattrocentesco Pier Francesco di Bartolomeo, operazione impegnativa, ma condotta felicemente a ter-mine da Sergio Begliardi, sotto la supervisione storico-artistica di Alessandro Bagnoli. Proprio in occasione della presentazione al pubblico di tali restauri, presero nuovo slancio le ricerche sui beni culturali locali, che si riallacciarono direttamente a quelle esposte nell’incontro del 2001, arricchendosi di nuove tematiche e di contributi di prima mano. Frutto di questi pluriennali lavori, pertanto, è questa pubblicazione curata da Rossella Merli, autrice anche di due contributi, dedicati il primo alla ricostruzione del rinvenimen-to settecentesco di un’importante rinvenimen-tomba etrusca a Pian de’ Campi e il secondo alla figura di s. Lucchese e alla tradizione agiografica, secondo la quale sarebbe avvenuto in questa località l’incontro provvidenziale tra l’asceta locale e S. Francesco, da cui sarebbero sca-turite in Valdelsa importanti esperienze spirituali di ispirazione francescana.

Questi due contributi catalizzano altre rassegne, relazioni tecniche e ricerche origi-nali di carattere archeologico, storico e storico-artistico, che consentono di far luce su una molteplicità di questioni, accomunate dalla pertinenza a una località solo apparentemente ‘minore’ come, appunto, Pian de’ Campi.

Paolo Castellani apre la raccolta di saggi offrendo una circostanziata panoramica circa i caratteri geologici e geomorfologici dell’area. Un approccio territoriale caratte-rizza pure alcuni dei più interessanti contributi presenti nel volume, come quello di Ita-lo Moretti, dedicato ai segni materiali che tracciano la geografia storica della regione, nonché i due testi collegati di Barbara Gelli, vale a dire un affondo dettagliato e ben documentato sulla società locale nel momento di passaggio dal Medioevo alla Prima età Moderna e l’analisi delle informazioni circa la chiesa e il podere di S. Lorenzo, presenti nel prezioso cabreo settecencesco relativo ai beni della commenda gerosolimitana di S. Giovanni a Poggibonsi.

Su un registro più prettamente storico artistico si muovono gli altri saggi, a par-tire da quello di Sabina Spannocchi, sul cosiddetto ‘tesoro di Galognano’, vale a dire uno straordinario contesto liturgico di età gota, che rappresenta una delle più importanti

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testimonianze di questo genere rinvenute nella Penisola. Risultati di grande originalità e rilievo emergono da uno studio impostato con raffinato acume critico sulle emergenze architettoniche medievali relative alla chiesa di S. Lorenzo, delle quali Fabio Gabbrielli propone una contestualizzazione a fasi diverse, comprese tra l’età protoromanica e il romanico maturo, arricchendo ulteriormente le conoscenze sull’architettura religiosa me-dievale dell’area valdelsana. Stesso approccio critico accorto e saldamente documentato viene adottato per il contributo dedicato da Alessandro Bagnoli all’affresco quattrocente-sco realizzato nella singolare terminazione absidale della medesima chiesa, che va a inte-grarsi, oltre che con lo studio precedente, con quello del restauratore, autore del recupero dell’opera d’arte, vale a dire Sergio Begliardi.

Corredano il volume due fondamentali appendici - che consentono al lettore di prendere visione di un’interessante documentazione inedita senza appesantire i testi dei contributi con note eccessivamente estese -, un elenco complessivo delle fonti e della bibliografia utilizzate e, infine, due preziosi indici di nomi e di luoghi.

Nel suo complesso, si tratta di un volume fondamentale per il contesto di Poggi-bonsi e dell’intera Valdelsa, che senza pretendere di esaurire l’argomento ‘Pian de’ Cam-pi’ (si rileva, ad esempio, la mancanza di un contributo di carattere storico-archeologico sulla fase romana), risponde pienamente agli intenti dei promotori, nel senso di costituire un imprescindibile punto di riferimento per coordinare e divulgare le conoscenze già acquisite, ma anche uno strumento indispensabile per impostare le future ricerche sulla vasta congerie dei temi toccati in questa sede dagli studiosi, come pure su quelli rimasti esclusi in questa fase del progetto.

roberto Farinelli

I monaci Silvestrini e la Toscana (XIII-XVII secolo), a cura di Francesco Salvestrini («Studi sulle Abbazie storiche e Ordini religiosi della Toscana» 5), Firenze, Ol-schki, 2020, pp. VI, 200, con 32 tavv. f.t.

Empoli, novecento anni. Nascita e formazione di un grande castello medievale, 1119-2019, a cura di Francesco Salvestrini («Studi sulle Abbazie storiche e Ordini re-ligiosi della Toscana» 6), Firenze, Olschki, 2020, pp. XIX, 234, con 22 tavv. f.t. L’ho già fatto in precedenti occasioni, ma non si può non ricordare come l’Istitu-to per la valorizzazione delle Abbazie Sl’Istitu-toriche della Toscana, associazione fondata nel gennaio 2016, a cui aderiscono 33 Comuni, 3 Diocesi e 3 Ordini religiosi della Toscana, e presieduta fin dall’inizio dall’avv. Paolo Tiezzi Mazzoni della Stella Maestri, abbia messo in campo una nutrita serie di iniziativa volte allo studio della storia della Toscana e del suo patrimonio artistico e religioso. Infatti, in poco più di 4 anni, considerando

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che per buona parte del 2020 non è stato possibile svolgere alcuna attività pubblica, ha organizzato più di 74 fra incontri, convegni, presentazioni di libri, mostre, in media più di un appuntamento al mese. Indubbiamente, però, è assai più rilevante la sua attività editoriale, costituita, oltre che da alcuni volumi fuori collana, a partire dalla monografia di Vincenzo Di Gennaro, Arte e industria a Siena in età barocca. Bartolomeo Mazzuoli e la bottega di famiglia nella Toscana meridionale, pubblicata a pochi mesi dalla costituzione dell’Ente, da cataloghi di mostre (ad es. quelle de Il Segno del Sacro, tenutesi in varie parti della regione, e le 3 sullo Ximenes, ma anche altre, sulle Chiese di Montefollonico, su libri e documenti antichi), dai «Quaderni dell’Istituto per la valorizzazione delle Ab-bazie Storiche della Toscana», pubblicazione semestrale giunta al n. 4, dalla collanina Ad Loca Mariana, una serie di placchette (dal francese plaquette, opuscolo di poche pagine), pieghevoli di 8 pagine che descrivono pievi e cappelle sparse nelle campagne toscane ed in piccoli centri, con scopo divulgativo, ma realizzate con serietà scientifica, come si può dedurre dal fatto che gli autori sono sempre storici e storici dell’Arte o dell’Architettura; attualmente ne sono uscite 13.

Il fiore all’occhiello dell’attività editoriale dell’Istituto, però, è costituita dalla col-lana « Studi sulle Abbazie storiche e Ordini religiosi della Toscana» diretta da Francesco Salvestrini dell’Università di Firenze e pubblicata dalla Casa Editrice Olschki, che ha visto il suo inizio nel marzo 2018 con La chiesa di San Vigilio a Siena. Storia e arte. Dalle origini monastiche allo splendore dell’età barocca, a cura di Alessandro Angelini e Mi-chele Pellegrini, che conteneva gli atti della Giornata di studi “La chiesa di San Vigilio a Siena. Storia e arte”, tenutasi all’interno della chiesa stessa il 15 novembre del 2016 e con i presenti due volumi è giunta alla sesta uscita. La collana è frutto della collaborazione con la cattedra di Storia Medievale del Dipartimento di Storia Archeologia Geografia Arte e Spettacolo (SAGAS) dell’Università di Firenze e si inserisce nell’ambito degli studi che la storiografia medievistica internazionale dedica allo studio della presenza monastica e degli Ordini mendicanti nelle varie regioni e diocesi italiane, per approfondire la cono-scenza di queste realtà in relazione al territorio toscano.

Il primo libro, I monaci Silvestrini e la Toscana (XIII-XVII secolo), curato dallo stesso direttore della collana, Francesco Salvestrini, raccoglie gli atti della giornata di studi tenutasi a Montepulciano il 7 ottobre 2017 e promossa dall’Istituto per la valorizza-zione delle Abbazie Storiche della Toscana, in occasione del 750° della morte del fonda-tore dell’ordine, Silvestro Guzzolini da Osimo, avvenuta nel 1267. Il nome di Silvestro fu inserito nel Martirologio Romano, al 26 novembre, suo dies natalis, nel 1598 dal papa – anche lui marchigiano – Clemente VIII.

La pubblicazione, di taglio specialistico, si configura come la prima indagine com-plessiva sulla presenza dei monaci silvestrini dell’Ordine di san Benedetto nella Toscana medievale e moderna. Il volume si apre con un saggio introduttivo di carattere generale del curatore (Dai romitori della Marca alle città toscane. Silvestro da Osimo e la prima diffusione del monachesimo silvestrino), che indaga il contesto storico nel quale si colloca la figura di Silvestro e ne ricostruisce la vita e l’opera, indagando anche sulla

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diffusio-ne dei Silvestrini, sui rapporti con gli altri Ordini e sulla loro espansiodiffusio-ne in Toscana. I successivi contributi si configurano come altrettanti studi monografici, che analizzano la presenza silvestrina ed i rapporti che essa intesse con la società civile e le istituzioni ec-clesiastiche nelle singole località in cui l’Ordine si stabilisce. Si inizia con i centri urbani maggiori, Firenze (Isabella Gagliardi, I Silvestrini a Firenze) e Siena (Michele Pellegrini, Conventus et fratres Sancti Spiritus de Senis: monaci silvestrini e novae religiones nella società senese del Trecento, tra integrazione e proposta religiosa), per proseguire con i centri minori, Chiusi (Giovanni Mignoni, I monaci silvestrini a Chiusi) e Montepulciano (Francesco Sebastianelli, I monaci silvestrini a Montepulciano, Petroio e San Lorenzo di Percena dal XIV al XVII secolo, e Riccardo Pizzinelli, I Silvestrini a Montepulciano). Fra i due saggi relativi a Montepulciano si colloca quello di Ugo Paoli, Fra Marche e Toscana. L’unione dei Silvestrini con i Vallombrosani (1662-1667), unione decretata da Alessandro VII nel quadro della riforma degli ordini religiosi conseguente al Concilio di Trento. Potrebbe sembrare più opportuno che il saggio fosse stato posposto, per non interrompere l’analisi relativa a Montepulciano, o posto ad inizio volume dopo quello di Francesco Salvestrini, visto che riguarda una problematica generale, ma questo non incide più di tanto nell’equilibrio complessivo del volume, anche perché lo studio di Pizzinelli si distacca dall’altro, costituendo un’analisi documentaria e bibliografica sulla presenza silvestrina a Montepulciano. Il libro si conclude con un altro saggio relativo a Montepulciano (Raffaele Argenziano, Le Storie di Sant’Antonio Abate negli affreschi dell’oratorio di San Giovanni in Poggiolo a Montepulciano), ma l’ottica in questo caso è diversa, è quella dello storico dell’Arte. Questa analisi iconografica, sia dal punto di vista stilistico, sia da quello narrativo, è corredata dalla maggior parte delle tavole fuori testo, che sono collocate intorno alla metà del volume, fra il saggio di Mignoni e quello di Sebastanelli, e prende in esame una serie di affreschi del primo Quattrocento collocati a destra ed a sinistra della controfacciata, che sono emersi in maniera inaspettata soltanto nel 1988 durante dei lavori di restauro dell’edificio.

Il secondo volume, Empoli, novecento anni. Nascita e formazione di un grande castello medievale, 1119-2019, è curato anch’esso da Francesco Salvestrini ed è un’altra raccolta di atti di un convegno, “Empoli. Novecento anni. Nascita e formazione di un castello medievale (1119-2019)”, tenutosi ad Empoli nel Cenacolo degli Agostiniani il 28 e 29 marzo del 2019. Questo rispetto al precedente libro ha una struttura più ampia ed articolata, come è logico che sia, perché la nascita di una cittadina costituisce un pro-cesso complesso con implicazioni politiche, economiche e sociali, come dimostra anche l’alto numero di Istituzioni che sono alle spalle dell’organizzazione del convegno, che è stato promosso dalla Società Storica Empolese e patrocinato dal Comune di Empoli e dall’Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo (SAGAS), sostenuto dalla Città Metropolitana Fiorentina e dalla Re-gione Toscana, con la collaborazione dell’Associazione Archeologica Medio Valdarno, della Fondazione Centro Studi sulla Civiltà del Tardo Medioevo in San Miniato, della Propositura di Sant’Andrea apostolo di Empoli, del Rotary Club Empoli, della

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Vene-rabile Arciconfraternita della Misericordia di Empoli e reso possibile con il contributo finanziario di alcuni privati e soprattutto dei soci della Società Storica Empolese. Ampio e significativo è anche il Comitato scientifico costituito per la pubblicazione: Roberto Delle Donne, Mauro Guerrini, Paola Guglielmotti, Adriano Prosperi, Max Seidel, Guido Vannini, Stefano Zamponi e Andrea Zorzi. Come si vede, in questo caso l’Istituto per la valorizzazione delle Abbazie Storiche della Toscana non fa parte degli organizzatori, quindi ci si può chiedere il motivo che l’ha spinto ad inserire questi atti nella propria col-lana e la risposta si trova in due fatti: il primo è che il suo direttore Francesco Salvestrini è stato colui che ha definito il programma del convegno e ne è stato coordinatore scientifico ed il secondo è che l’inizio dell’incastellamento di Empoli avviene intorno ad un edificio religioso, quando nel 1119 viene concesso il diritto di costruire case intorno alla pieve di S. Andrea e di circondarle con mura difensive.

Prendendo spunto dai novecento anni dall’incastellamento della pieve, il volume ripercorre i primi secoli della storia di Empoli con un’analisi a tutto tondo, che prende in esame gli aspetti politici, sociali, economici, religiosi ed artistici; viene messa in luce l’importanza della sua posizione, strategica per i commerci fra Valdarno e Valdelsa e fra Pisa e Firenze, che vede oltre all’incrociarsi di importanti arterie viarie, la presenza di quella fluviale navigabile dell’Arno. Si mettono in luce le dinamiche insediative fin dal periodo tardo antico, lo sviluppo urbanistico, il ruolo svolto dagli enti ecclesiastici, il pas-saggio dell’egemonia sul territorio dalle grandi famiglie comitali al Comune di Firenze e gli aspetti artistico-architettonici. La struttura della pubblicazione, divisa in quattro capi-toli, rispecchia la sequenza delle sessioni del convegno, compresa la relazione di presen-tazione di Mauro Guerrini, Presidente della Società Storica Empolese, L’incastellamento della Pieve di Sant’Andrea: la contessa Emilia e il pievano Rolando, 10 dicembre nel 1119..., e l’Introduzione di Francesco Salvestrini.

Il primo capitolo, Empoli prima di Empoli, corrisponde alla prima sessione del convegno, però, contiene soltanto il saggio di Lorella Alderighi e Leonardo Giovanni Terreni, Empoli in epoca romana e tardo antica, mentre non sono presenti le altre due relazioni; del resto succede molto spesso che qualche testo non venga presentato in tem-po per la pubblicazione degli atti. Lo studio dei due autori rappresenta per l’argomento del volume quello che oggi chiamerebbero un prequel; ci presenta la storia precedente all’incastellamento, con un vasto corredo di immagini b/n di reperti e siti archeologici, che testimoniano un centro romano fiorente ed attivo economicamente per la produzione di ceramiche ed anfore, ma non solo. Il successivo capitolo, L’aristocrazia, raccoglie quattro contributi; il primo, di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, Empoli e le terre nuove del Valdarno inferiore, fa un quadro generale dei nuovi insediamenti costituiti nel Valdarno inferiore fra XII e XIV secolo, dovuti inizialmente ad iniziativa comitale, come Empoli, oppure vescovile, come Cascina e Bientina, mentre dal XIII secolo saranno i Comuni di Firenze e Pisa a creare nuovi centri fortificati per garantire il loro predominio sul territo-rio. Alberto Malvolti, Prodromi del castello nuovo di Empoli. I conti Cadolingi tra Val-darno e Valdelsa (XI-XII secolo) e Simone M. Collavini, Empoli e i conti Guidi tra alto e pieno Medioevo: premesse e contesto della ‘fondazione’ del 1119, analizzano, attraverso

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la scarsa documentazione disponibile il ruolo ed i rapporti sul territorio dell’aristo-crazia comitale nel periodo immediatamente precedente alla fortificazione di Empoli, mentre l’ultimo saggio della sezione analizza in particolare le vicende dei conti Alberti (Maria Elena Cortese, Conti Alberti nel Valdarno: patrimonio e strategie politiche (se-coli XI-XIII). Con il terzo capitolo, Vita di una comunità, l’analisi affronta il periodo successivo alla fondazione di Empoli: Fausto Berti, La realtà sociale ed economica (secoli X-XIII), mette in luce la struttura sociale e le attività economiche, scontrandosi anche in questo caso con la penuria di documenti al riguardo; la vita religiosa è stu-diata puntualmente da Francesco Salvestrini, Vita religiosa e istituzioni ecclesiastiche a Empoli in età comunale. La pieve di Sant’Andrea Apostolo e le origini del convento degli Agostiniani (secoli XII-XIII), che prende le mosse dal periodo precedente l’in-castellamento e sottolinea anche i difficili rapporti che si sono instaurati fra il clero secolare e quello regolare. L’ultimo studio di questa sezione, quello di Marco Frati e Walter Maiuri, L’assetto urbanistico e architettonico di Empoli Nuovo (secoli XI-XIII), riguarda lo sviluppo urbanistico di Empoli: grazie ai progressi delle ricerche storiche ed archeologiche degli ultimi anni, riesce a delineare un quadro più chiaro e capace di fugare molti dei dubbi che in passato si avevano sull’assetto urbano del periodo più antico. Idealmente questo intervento introduce al quarto ed ultimo capitolo, L’eredità artistica e architettonica, tutto dedicato – ça va sans dire – agli aspetti artistico-archtet-tonici collegati alla Pieve di Sant’Andrea di Empoli; questa sezione contiene quattro interessantissimi contributi: Guido Tigler, II problema della datazione della facciata della Pieve di Sant’Andrea, riesaminato nel contesto della storia di Empoli fra la do-minazione dei Guidi e quella del Comune di Firenze; Alessandro Naldi, Iconografia, architettura e decorazione nel complesso plebano di Sant’Andrea a Empoli tra XI e XII secolo; Andrea De Marchi, II Maestro del 1310 riconsiderato: un raro frammento di un pittore pistoiese a Empoli; Stella Sonia Chiodo, Nuovi studi sui corali della collegiata di Sant’Andrea a Empoli. Quest’ultimo saggio è quello che ha suscitato in maniera particolare la mia attenzione, per ovvi motivi di carattere professionale; lo studio di Sonia Chiodo si incentra su due graduali ed in particolare su quello senza segnatura, che l’autrice riconosce essere non un codice gemello di quello conservato nel museo d’arte sacra di Santa Verdiana di Castelfiorentino, come era stato sempre considerato in precedenza, bensì una delle due parti in cui in tempi recenti è stato smembrato quello che in origine era un solo manoscritto. L’altro codice che l’autrice analizza è il Corale L, che fino ad oggi era stato erroneamente considerato un antifonario, mentre si tratta di un altro graduale; la Chiodo ci spiega anche il motivo per cui si era generato l’equivoco.

In conclusione, siamo di fronte a due nuovi volumi, che vanno non solo ad accre-scere la collana «Studi sulle Abbazie storiche e Ordini religiosi della Toscana», ma anche la conoscenza di aspetti non secondari della storia e della cultura toscana; entrambi sono di grande interesse e frutto di analisi originali ed approfondite, condotte con estremo rigo-re scientifico. I due libri trattano argomenti diversi e lontani fra loro e, per questo motivo, sono rivolti ad un pubblico di studiosi o di semplici appassionati differente: il primo

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inte-resserà soprattutto chi si occupa della storia ecclesiastica e degli ordini religiosi, mentre il secondo può attrarre, oltre agli addetti ai lavori, anche semplici cittadini, curiosi della storia della propria terra.

enzo Mecacci

rosa Parlavecchia, Il Fondo ‘Chigi’. Descrizione catalografica e analisi bibliologica dei volumi conservati alla Biblioteca Alessandrina di Roma (Cargeghe, Editoriale Documenta, 2019), pp. 733.

Cercare di ricostruire nella sua integrità un fondo all’interno di una biblioteca si rivela sempre un’operazione ardua, perché al suo ingresso o in successivi riordini il com-plesso dei volumi di un’unica provenienza viene spesso smembrato e si disperde per crea-re nuove aggcrea-regazioni in base alla materia o anche alle dimensioni in modo da ottimizzacrea-re l’uso degli spazi negli scaffali; se si aggiunge che in fase di schedatura o catalogazione antica non sempre vengono presi in considerazioni gli ex-libris o le note di possesso, ecco che si perde la visione dell’origine dei libri e la loro provenienza.

Questi sono i problemi cui si è trovata di fronte Rosa Parlavecchia nel suo lavoro di ricerca – affrontato egregiamente, bisogna dire – sul Fondo ‘Chigi’ della Biblioteca Alessandrina di Roma.

Il libro, che è la pubblicazione, avvenuta grazie alla vittoria della 10a edizione del Premio Bibliographica, della sua tesi di dottorato, Donum Sancti Domini Nostri Alexan-dri VII. Il Fondo Chigi della Biblioteca Universitaria AlessanAlexan-drina - Roma. Catalogo, è diviso in due parti, Il Fondo e Il Catalogo, che sono, per forza di cose, complementari, ma che potrebbero vivere anche separatamente, in quanto, se la seconda concretizza la ricerca con l’esposizione delle schede dei volumi provenienti dalla donazione Chigi, la prima parte con le sue riflessioni storiche sulla formazione delle biblioteche seicentesche, sull’analisi dell’origine della Biblioteca Alessandrina e sulla relativa bibliografia recente e passata ed anche con le riflessioni sulla formazione culturale dei personaggi che vi sono legati, effettuata attraverso l’esame dei testi posseduti, ha una sua completezza e potrebbe costituire una monografia autonoma.

Parte prima Il Fondo

Cap. I All’origine della biblioteca Alessandrina.

Se il ‘500 è il secolo della diffusione del libro – dice la Parlavecchia, il ‘600 è quello della costituzione delle grandi biblioteche, costruite sull’esempio di quella dell’E-scorial. Una testimonianza della vastità delle biblioteche ecclesiastiche la trova nei codd. Vat Lat. 11266-11326, redatti fra il 1598 ed il 1603, che contengono gli inventari di quelle

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degli ordini religiosi imposto dalla Congregazione dell’Indice, per verificare la presenza di libri proibiti.

L’analisi della Parlavecchia mette in luce come molte fossero anche le biblioteche private, che personaggi illustri aprirono alla consultazione degli studiosi; fra queste spic-cano quella del naturalista Ulisse Aldovrandi e quella di Lucas Holstenius (bibliotecario della famiglia Barberini dal 1636, primo custode della Biblioteca Vaticana – 1653 – e bibliotecario della regina Cristina di Svezia dal 1658). Molte erano anche le biblioteche cardinalizie, che si arricchivano spesso dei volumi presi alle istituzioni religiose che i loro proprietari erano chiamati a governare; naturalmente erano diffuse anche le biblioteche delle accademie e delle università. La mappatura di quelle romane (in ordine alfabetico per istituzioni e cognomi di privati) fu fatta nel 1664 da Giovanni Pietro Bellori nella sua Nota delli musei, librerie, gallerie [...] di Roma; fra le pubbliche le più rilevanti risul-tano la Vaticana, l’Angelica e la Vallicelliana; tra le private quelle cardinalizie di Otta-vio Acquaviva, Francesco Albizzi, Carlo Bonelli, Francesco Maria Brancaccio, Scipione Borghese, Angelo Celsi, Giacomo Franzoni, Pietro Ottoboni, Sforza Pallavicino, Giulio Rospigliosi, Federico Sforza; notevoli risultano anche quelle di Leone Allacci (custode della Vaticana dal 1661), Girolamo Casanate, della famiglia Barberini, dei Farnese, dei Pamphilij, del duca Giovanni Angelo Altemps, della regina Cristina di Svezia, oltre a quella del Sant’Uffizio.

L’idea di fondare una biblioteca per lo Studio – continua l’autrice – viene nel 1658 (già ci avevano pensato gli Avvocati Concistoriali nel 1587, ma il periodo di decadenza della Sapienza li aveva fatti desistere) a Carlo Cartari in viaggio da Orvieto a Roma in compagnia dei monsignori Camillo Piazza e Carlo Emanuele Vizzani. Determinante per la realizzazione fu l’adesione – entusiastica – al progetto di papa Alessandro VII, biblio-filo, promotore di cultura e desideroso di gloria personale.

Sant’Ivo alla Sapienza era stata iniziata nel 1642 da Francesco Borromini, sotto Urbano VIII, ma viene portata a conclusione nel 1660 con l’intervento economico di Alessandro VII, volto alla realizzazione di tutto il complesso, ivi compreso il salone della biblioteca, per il quale Borromini fece diversi sopralluoghi in altre, quella dei Gesuiti, quella dei Trinitari a San Carlo alle Quattro Fontane, la biblioteca Chigiana e quella della famiglia Barberini. Il giorno precedente l’inaugurazione, sabato 13 novem-bre, fu effettuata la traslazione in Sant’Ivo delle reliquie di Sant’Alessandro; in questo modo la biblioteca della Sapienza si legava, oltre che al papa Chigi, ad un santo che portava il suo nome e al contempo si richiamava a quella di Alessandria d’Egitto, la più famosa dell’antichità. Conclusi i lavori di decorazione, nel 1665 Borromini passò alla realizzazione delle scaffalature, per le quali si rifece alla sua precedente esperienza del-la Biblioteca Vallicelliana, realizzata un ventennio prima. A questo proposito Rosa Par-lavecchia mette in evidenza un fatto singolare, che dimostra lo scrupolo dell’architetto: i restauri effettuati negli anni Trenta del secolo scorso hanno mostrato che Borromini aveva realizzato nelle pareti disegni di scala 1:1 per la costruzione delle scaffalature, quasi una sinopia.

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Per riempire gli scaffali velocemente, oltre alle donazioni si ricorse anche a vaste espropriazioni di collezioni esistenti; inoltre lo stesso Alessandro VII, pochi giorni prima di morire fissò le norme per la gestione della biblioteca e proibì, pena la scomunica, l’a-sportazione di qualsiasi libro.

Cap. II Storia degli studi.

Per mostrare quanto interesse abbiano rivolto gli eruditi al complesso della Sapien-za, l’autrice passa in rassegna lo spazio che gli è stato dedicato già dal ‘600 nelle Guide di Roma, destinate ad un pubblico dotto, a partire dalla già citata Nota del Bellori. Quindi la Parlavecchia prende in esame gli studi scientifici che se ne occuparono nell’Ottocento, iniziando dalla Storia dell’Università degli Studj di Roma di Filippo Maria Renazzi, pubblicata in 4 volumi tra il 1803 ed il 1806; insieme ad altre, la Biblioteca Alessandrina si trova citata anche nel volume 4 di Roma nell’anno MDCCCXXXVIII, pubblicata fra il 1838 ed il 1841. Punto di partenza per studi analitici sui fondi della biblioteca l’autrice ritiene che sia la monografia che le ha dedicato Enrico Narducci nel 1872, Notizie della Biblioteca Alessandrina nella R. Università di Roma, in cui compie uno studio comparato – purtroppo non privo di errori – delle fonti bibliografiche ed archivistiche. Venendo al sec. XX, Parlavecchia nota come l’interesse degli studiosi si sia focalizzato sia sui fondi bibliografici conservati, sia sulle vicende costruttive. Il primo contributo di cui ci parla è quello del bibliotecario Emilio Calvi, La R. Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma del 1907, in cui si descrivono i singoli locali, si passano in rassegna i 13 cataloghi della biblioteca e ci si sofferma su 29 incunaboli, ritenuti i più preziosi, dei quali ven-gono offerti i dati bibliografici; questa analisi si conclude con le collezioni, i doni e gli acquisti. All’inizio degli anni ’30 si ha un articolo sulla rivista «Accademie e biblioteche d’Italia» dello storico Tommaso Valenti, Le vicende della Libreria impressa dei duchi d’Urbino e l’Alessandrina di Roma, nel quale si ricostruiscono le vicende che spinsero Alessandro VII a trasferire all’Alessandrina la libraria impressa – 13040 volumi – che l’ultimo duca di Urbino aveva lasciato alla Casa Religiosa del SS. Crocefisso de’ Chie-rici Regolari Minori di Urbania, dopo che un decennio prima aveva già portato a Roma, alla Biblioteca Vaticana, i manoscritti del duca, che ne costituirono il Fondo Urbinate. Addirittura Ludwig von Pastor dedica un capitolo della Storia dei Papi all’istituzione di questa biblioteca. Nel 1945 esce uno studio di Emilio Re tutto dedicato alla costruzione, alle trasformazioni ed al restauro dell’Alessandrina, nel quale si analizzano documenti e si presentano foto dei disegni del Borromini, dando un contributo significativo alla storia della Sapienza. Un’altra ricostruzione della nascita della biblioteca è offerta nel 1960 da Carola Ferrari e Antonietta Pintor, La Biblioteca Universitaria Alessandrina. Sul finire degli anni ’80 si hanno tre saggi di Peter Rietbergen dell’Università di Nijmegen, sostanzialmente simili fra di loro, che ripercorrono la storia della biblioteca. L’analisi dei fondi storici e le difficoltà nel ricostruire le collezioni a causa di numerosi spostamenti e di smarrimenti emergono nello studio di Patrizia Nuccetelli del 2002, mentre i momenti più significativi della storia dell’Alessandrina sono ricordati da Alfredo Serrai in un

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pa-ragrafo della sua Breve storia delle biblioteche in Italia del 2006. Fra il 1997 ed il 2012 si pubblicano alcuni importanti studi di Giovanni Rita sulla Biblioteca della Sapienza, nei quali vengono ripercorsi i momenti salienti della sua storia attraverso l’analisi critica delle testimonianze archivistiche e bibliografiche.

Nel complesso, però, conclude la Parlavecchia, l’unico fondo dettagliatamente in-dagato è quello Urbinate, grazie alla collaborazione fra la Biblioteca Comunale di Urba-nia e l’Alessandrina su un progetto coordinato da Alfredo Serrai.

Quello che emerge da questa rassegna di studi è che sono stati esaminati molti aspetti della storia della biblioteca, ma si è tralasciata l’analisi dei volumi del Fondo An-tico: solo un’indagine dettagliata può consentire la ricostruzione dei nuclei che lo com-pongono, grazie alle note di possesso e di provenienza. Il lavoro di Rosa Parlavecchia va proprio in questo senso, iniziando la ricerca dal Fondo Chigi, cioè dai libri donati da Alessandro VII e da suo nipote, il cardinale Flavio.

Cap. III I protagonisti.

Qui vengono delineate dall’autrice, con una dovizia di rimandi bibliografici, le figure di Alessandro VII e del ‘cardinal nepote’, che contribuì in maniera determinan-te ad accrescere la raccolta libraria di famiglia. Dall’analisi delle nodeterminan-te di possesso nei frontespizi emergono, però, altri due personaggi ai quali erano appartenuti molti dei libri dell’Alessandrina: Vincenzo Preti e Giovanni Uterlusci, dei quali la scarsità di documenti e testimonianze ha reso difficile ricostruire la biografia ed i legami con il papa. Non di meno la Parlavecchia qualcosa riesce a trovare: il primo, Preti, sepolto a Santa Maria sopra Minerva, era originario della provincia di Pavia e doveva essere nato nel 1587; era entrato nell’Ordine dei Predicatori e dal 1650 alla morte (1664) fu Commissario Gene-rale del Sant’Uffizio. Certamente il Preti conosceva personalmente Fabio Chigi, perché entrambi, sotto il pontificato di Innocenzo X, facevano parte di una commissione che doveva esaminare l’Augustinus di Giansenio, che fu condannato nel 1653. Molto meno definita è la figura dell’Uterlusci; in pratica dalle scarne notizie nell’Archivio di Stato di Roma e da ciò che indicano alcuni dei precedenti studi sulla Biblioteca Alessandrina si apprende solo che fu condannato a morte dall’Inquisizione nel 1666 e che aveva una libreria nel suo studio in via della Croce.

Cap. IV Il Fondo ‘Chigi’ della Biblioteca Universitaria Alessandrina.

Con questo ultimo capitolo della prima parte si entra nel vivo dello studio con l’a-nalisi puntuale dei volumi donati dai Chigi all’Alessandrina. Particolare attenzione è stata data alle note di possesso, utili per ricostruire la storia degli esemplari.

Bisogna, a questo punto, aprire anche una parentesi: noi siamo abituati a consi-derare dei pezzi unici i manoscritti, perché realizzati singolarmente. Anche nel caso che due o più contengano la stessa opera e, magari, siano scritti dallo stesso copista, ciascu-no conterrà sempre delle particolarità nella distribuzione del testo, nei possibili errori,

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nell’apparato decorativo, che lo renderà diverso ed originale. I libri, invece, li riteniamo prodotti seriali e, di conseguenza, quelli che appartengono ad una stessa tiratura sono tanti esemplari tutti uguali. In realtà questa osservazione è vera solo parzialmente; vale soprattutto oggi, per i libri che acquistiamo, leggiamo e riponiamo negli scaffali delle nostre librerie domestiche; se si va indietro nel tempo ci accorgiamo che non è così. Anche senza pensare agli incunaboli, che venivano realizzati sul modello dei manoscritti (l’unico esempio di libro a cui potevano ispirarsi), lasciando spazi dedicati con letterine di guida per la realizzazione di capilettera decorati ed anche per miniature, un libro antico contiene sempre elementi che lo differenziano dalle altre copie e lo rendono un unicum, che si tratti di varianti editoriali, di dediche o note di possesso (che sono importantissime per ricostruirne le vicende) o di semplici anonime annotazioni marginali o interlineari, che ne attestano una lettura od uno studio accurato.

Tornando al lavoro di Rosa Parlavecchia, l’autrice spiega in questa parte come ha proceduto nel lavoro d’individuazione e schedatura dei volumi donati dai Chigi alla biblioteca universitaria.

Una prima riflessione è sui doppioni della biblioteca Chigiana, 73 volumi in tut-to, donati dal ‘cardinal nepote’ il 9 dicembre 1664. Il 3 ottobre 1666 Flavio dona una copia dei Fasti Senenses dell’Accademia degli Intronati, ai quali il registro d’ingresso del bibliotecario Carlo Cartari aggiunge anche i 13 volumi del Repertorium di Giovanni Bertacchini. L’analisi dei volumi, inoltre, permette alla Parlavecchia di appurare che al-cune opere in più volumi sono il risultato dell’assemblaggio di edizioni diverse, mentre altre incomplete sono state integrate successivamente. I volumi donati da Alessandro VII nel febbraio 1666 sono, invece, doppioni della Biblioteca Vaticana, per un totale di 423 pezzi, fra i quali si trovano anche alcuni libri proibiti; i contenuti spaziano fra argomenti di vario genere, funzionali alle cattedre dello Studio: si va dalla storia ecclesiastica al diritto canonico, dalle controversie dogmatiche alla teologia, dall’agiografia alla liturgia, dalla filosofia all’astronomia. Per i libri provenienti dalla biblioteca di Vincenzo Preti Alessandro VII applica il diritto di spoglio, che prevedeva la possibilità di confisca dei beni di un ecclesiastico alla sua morte; così dei 760 libri posseduti dal Preti 612 entrano a far parte della biblioteca dello Studio (gli altri – proibiti – andarono al Sant’Uffizio). Anche in questo caso le opere, che vanno dalla teologia al diritto canonico, a quello civile e criminale, dalla medicina all’astronomia, dalla matematica alla storiografia, dai trattati di retorica alle grammatiche greche e latine, testimoniano la vastità di interessi del padre domenicano. La confisca dei libri di Giovanni Uterlusci deriva, invece, dalla sua condanna a morte; dall’inventario stilato al passaggio risultano 507 volumi, anche questi di vari argomenti: storia, filosofia, testi religiosi, diritto canonico, matematica, geometria, medicina. A differenza dei libri del Preti, questi non portano note di possesso, ma solo quella apposta al momento dell’ingresso all’Alessandrina: Ex bibliotheca Jo: Uterlusci dono data ab Alex. Vij.

A conclusione della sua ricerca Rosa Parlavecchia ha individuato e catalogato 395 opere divise in 530 volumi, che portano una nota che li ricollega ai doni dei Chigi, con questa distribuzione:

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Doppioni della Chigiana donati dal cardinale Flavio 51 Doppioni della Vaticana donati da Alessandro VII 285 Provenienti dalla biblioteca di Vincenzo Preti 144 Provenienti dalla biblioteca di Giovanni Uterlusci 50 Totale 530

Come si può vedere le mancanze rispetto a quanti erano entrati a far parte della biblioteca della Sapienza sono rilevanti; dei doppioni ne mancano 36 della Chigiana e 138 della Vaticana, mentre ben più consistenti sono le lacune fra quelli delle due biblioteche private, 468 del Preti e 457 dell’Uterlusci, per un totale di 1099, più dei 2/3 del totale.

Questa dispersione, secondo l’autrice, può essere stata generata da cause diverse come la cessione di doppioni, la vendita di alcuni libri o il loro scambio per acquisirne altri, i furti (innumerevoli sono quelli avvenuti nella prima metà del sec. XVIII), gli smar-rimenti, in parte anche dovuti al trasferimento dalla biblioteca negli anni ’30 da S. Ivo alla Cittadella universitaria, la mancanza di indicazione delle note di possesso da parte dei catalogatori nell’immissione dei dati in SBN.

Dal momento che durante la schedatura ha trovato esemplari che non erano emersi dal catalogo, perché rilegati insieme a quello rinvenuto in fase di ricerca, ed altri li ha in-dividuati durante la ricognizione nei magazzini grazie alle rilegature, Rosa Parlavecchia ritiene che molti ancora potrebbero emergere da una ricerca a tappeto sul Fondo Antico, ma trattandosi di 40/50.000 volumi servirebbe la costituzione di una specifica équipe di lavoro (che potrebbe essere diretta dalla stessa Parlavecchia, vista la competenza dimo-strata e l’esperienza fatta in questo lavoro), che però dovrebbe essere supportata da un adeguato finanziamento del Miur – cosa che al momento sembra francamente fuori dalla realtà.

Che questa ipotesi formulata dall’autrice sia veramente realistica lo dimostra il fatto che in una banale ricerca fatta su Google, per capire chi fosse Giovanni Uterlusci, che – lo ammetto – mi era del tutto sconosciuto, sono emerse altre quattordici edizioni (per un totale di 21 volumi), una delle quali è un unicum, di quelle donate alla Biblioteca da Alessandro VII dopo la confisca. Il fatto che la nota di possesso non fosse presente nei cataloghi ha fatto sì che la loro provenienza restasse sconosciuta prima dell’intervento di digitalizzazione.

A questo punto, una volta che fosse accertato definitivamente quanto del dono Chi-gi è effettivamente restato nella biblioteca universitaria, sarebbe possibile anche effettua-re ulteriori ricerche per individuaeffettua-re eventuali esemplari in altri fondi librari. Tanto per fare un esempio, un volume di quelli provenienti dalla biblioteca dell’Uterlusci si trova oggi presso la biblioteca di Palazzo Falson a Malta ed è sicuramente uscito dall’Ales-sandrina dopo il 1770, come dimostra il timbro presente nel frontespizio, senza però che sia possibile sapere come vi sia giunto, se per cessione, o scambio, o per quali altre vie; si tratta di Justus liPsius, Iusti Lipsii Poliorceticon siue De machinis. Tormentis. Telis. Libri quinque. Ad historiarum lucem, Antuerpiae : ex Officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum, 1605.

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Queste prime 110 pagine del volume di Rosa Parlavecchia sono di grandissimo interesse, da una parte perché ci permettono di ripercorrere le vicende che hanno portato alla formazione della Biblioteca Alessandrina, dall’altra perché, attraverso l’analisi dei volumi confluitivi, permettono di delineare il profilo culturale ed intellettuale del pon-tefice (oltre che confermare il ruolo determinante svolto da lui nella formazione della biblioteca dello Studio) e del ‘cardinal nepote’, ma anche dei meno noti Vincenzo Preti e Giovanni Uterlusci; per estensione, inoltre, ci consentono di capire quali fossero i testi su cui si formavano le élites intellettuali fra Cinque e Seicento. Indubbiamente, però, non sono di minor importanza le ultime 70 pagine, che contengono un’accurata bibliografia divisa per argomenti, l’indicazione delle fonti archivistiche e dei siti consultati ed una serie di indici (intestazioni principali e secondarie; luoghi di edizione; editori, tipografi e librai; cronologico delle edizioni; dei dedicatori; dei dedicatari; dei possessori e delle provenienze), determinanti per rendere il volume un prezioso strumento di ricerca. Parte seconda Il catalogo

Questa è la parte più ampia del libro, quella in cui si concretizza il lavoro di ricerca di Rosa Parlavecchia; scorrendo le schede, non si può che osservare, come visto anche in precedenza, che le opere presenti nel Fondo ‘Chigi’ appartengono a generi assai vari, rispecchiando, così da una parte l’eterogeneità della sua costituzione e dall’altra l’esi-genza di rispondere alle varie necessità dei corsi di studio dell’Università. Dal punto di vista delle edizioni, vi troviamo copie di alcune diffusissime a fianco di altre piuttosto rare, almeno a stare da quanto emerge dal Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale. In particolare si può osservare che ve ne sono 50 delle quali in Italia sono conosciute soltanto un’altra copia o al massimo due, oltre questa dell’Alessandrina, ma soprattutto è di rilievo il fatto che vi siano conservati ben 44 esemplari in unicum, dei quali, cioè non si conoscono altre copie nelle biblioteche italiane; queste 94 edizioni di estrema rarità costituiscono quasi un quarto delle 395 elencate (23.79%) e questo è un’ulteriore testimonianza della grandissima importanza che riveste il Fondo ‘Chigi’ della Biblioteca Alessandrina di Roma.

A conclusione credo interessante indicare le edizioni emerse da Google, a cui fa-cevo riferimento prima.

Argoli, Andrea

Andreae Argoli ... De diebus criticis, et de aegrorum decubitu libri duo Patauij : apud Paulum Frambottum, 1639

Testo - Monografia [IT\ICCU\UFIE\000375] (2 voll.; la nota è poco leggibile, perché tagliata)

Historiae romanae scriptores latini veteres, qui extant omnes. Regum, consulum, imperatorum romanorum res gestas ab Urbe condita continentes: in vnum redacti corpus: idque ipsum duobus tomis distinctum, copiosissimoque non rerum modo, verum etiam

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iurisconsultis, politicis, medicis, mathematicis, rhetoribus, grammaticis, quin & theolo-gis, atque adeo omnium pene disciplinarum professoribus, quod vsibus ipsorum inseruire queat, complurima occurrent

Aurelianae : apud Viduam & Haeredes Petri de la Rouiere, 1623 Testo - Monografia [IT\ICCU\CAGE\012351] (2 voll.)

Campora, Serafino <menz.1553>

Il Perpetuale delle feste mobile, e lunario composto per Serafino de Campora ... In Roma, 1553 (In Roma : per Antonio Blado impressore apostolico, 1553) Testo - Monografia [IT\ICCU\RMLE\007789]

Chacón, Alfonso <1540-1599>

Vitae et res gestae pontificum Romanorum et s.r.e cardinalium ab initio nascentis Ecclesiæ, vsque ad Vrbanum 8. pont. max. auctoribus m. Alphonso Ciaconio ... Francisco Cabrera Morali ... & Andrea Victorello ... Alia plura Victorellus, et Ferdinandus Vghellus ... ex mss. præsertim monumentis addiderunt. Hieronymus Aleander i.c. & alij Ciaconia-num opus recensuerunt

Romæ : typis Vaticanis, 1630

Testo - Monografia [IT\ICCU\TO0E\028926] (2 voll.)

Cinquiesme et dernier tome du Recueil general des questions traittees es confe-rences du bureau d’addresse, sur toutes sortes de matieres; par les plus beaux esprits de ce temps. Non encore mises au iour

A Paris : chez la veusue Guil. Loyson, au Palais, dans la Gallerie des Prisonnier, au Nom de Iesus, 1655

Fa parte di: Recueil general des questions traittees es conferences du Bu-reau d’Addresse, sur toutes sortes de Matieres; par les plus beaux esprits de ce temps Testo - Monografia [IT\ICCU\RMLE\029898] (è un unicum)

Colombo, Cristoforo <1451-1506>

Epistola Christofori Colom: cui etas nostra multum debet: de insulis Indie supra Gangem nuper inuenkhtis ... ad ... Gabrielem Sanchis ... missa, quam ... Leander de Cosco ab Hispano idiomate in Latinum conuertit tertio Kalendas Maii 1493 ...

Testo - Monografia [IT\ICCU\RMLE\061594] (Si trova all’interno di una miscel-lanea e non è attestato in SBN)

Historiae romanae scriptores latini veteres, qui extant omnes. Regum, consulum, imperatorum romanorum res gestas ab Urbe condita continentes: in vnum redacti corpus: idque ipsum duobus tomis distinctum, copiosissimoque non rerum modo, verum etiam iurisconsultis, politicis, medicis, mathematicis, rhetoribus, grammaticis, quin & theolo-gis, atque adeo omnium pene disciplinarum professoribus, quod vsibus ipsorum inseruire queat, complurima occurrent

Aurelianae : apud Viduam & Haeredes Petri de la Rouiere, 1623

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Lipsius, Justus <1547-1606>

Iusti LipsI Epistolarum selectarum centuria prima \- quinta! miscellanea Antuerpiae : ex officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum, 1605-1607 Testo - Monografia [IT\ICCU\BVEE\045880] (5 voll. in 2 tomi) Lipsius, Justus <1547-1606>

Iusti Lipsii sapientiæ et litterarum antistitis fama postuma

Antuerpiæ : ex Officina Plantiniana, apud Viduam & Filios Ioannis Moreti, 1613 Testo - Monografia [IT\ICCU\UM1E\008197]

Manzini, Giovanni Battista <1599-1664>

Il seruitio negato al sauio libri due di Gio. Batt.a Manzini al serenissimo principe il card. di Sauoia

In Bologna : appresso Nicolò Thebaldini, 1626 Testo - Monografia [IT\ICCU\TO0E\002729] Montebruno, Francesco <1597-1644>

Ephemerides nouissimae motuum coelestium Francisci Montebruni i.v.d. patritij Genuensis ad longitudinem inclytae vrbis Bononiae ab anno 1641. [-1651.] ad annum 1650. [-1660.] Cum catalogo insigniorum fixarum ad annum 1650. earumque ortu, & occasu pro altitudine Poli grad. 44. Ex Philippi Lansbergi mathematici celeberrimi re-centissimis, & exactissimis obseruationibus summo studio supputatae, & iuxta authoris exemplar quam diligentissime emendatae ... Pars prima [-secunda] ...

Bononiae : typis Io. Baptistae Ferronij, 1650 (Bononiae : typis Io. Baptistae Fer-ronij, 1650)

Testo - Monografia [IT\ICCU\VEAE\002811] (2 voll.) Petau, Denis <1583-1652>

Dionysii Patauii Aurelianensis e Societate Iesu, Opus de doctrina temporum pars altera: in qua temporum ta historoumena disputantur

Lutetiae Parisiorum : sumptibus Sebastiani Cramoisy, viâ Iacobaeâ, sub Ciconiis, 1627

Testo - Monografia [IT\ICCU\BVEE\052343] Romoli, Domenico <sec. 16.>

La singolar dottrina di M. Domenico Romoli ... nelqual si tratta dell’officio del scalco; del condimento di ogni viuanda; delle stagioni d’ogni animale, vccelli, & pesci; del far banchetti d’ogni tempo ... Nel fine un breue trattato del regimento della sanita. Di nuouo con somma diligenza ricorretta, & ristampata. Con la tauola copiosissima di tutto quello che in essa si contiene

In Venetia : appresso Lucio Spineda, 1610 Testo - Monografia [IT\ICCU\VIAE\000816] Vossius, Gerhard Johann <1577-1649>

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censura in grammaticos præcipuè veteres exercetur; caussæ linguæ Latinæ eruuntur; scriptores Romani illustrantur, vel emendantur

Amstelædami : ex officina Ioannis Blaeu, 1662 Testo - Monografia [IT\ICCU\BVEE\036184] (2 voll.)

enzo Mecacci

Le pergamene del Comune di Montalcino (1193-1594). Regesti, a cura di Maria assunta

cePPari ridolFi e Patrizia turrini, con un saggio di Mario ascheri, Siena,

Extem-pora Edizioni, 2019, pp. 784, tavole e illustrazioni XXII.

Il regesto è per gli archivisti lo strumento di ricerca specifico per la descrizione del documento singolo. Se infatti, come suggerito da Antonio Romiti, devono considerarsi «tipici» dell’Archivistica gli inventari, le guide e gli elenchi – ovvero quei mezzi di cor-redo in grado di cogliere il fondamento della ‘serialità’ documentaria o, in altre parole, di esaltare il così detto ‘vincolo archivistico’ –, è necessario che la stessa disciplina ricorra a strumenti peculiari di altri ambiti culturali laddove si ritenga utile un’analisi che vada a toccare il contenuto particolare del documento: un aspetto questo che può dirsi ‘acces-sorio’ per l’Archivistica, essendo connesso ad aspetti valutativi che la dottrina tende a tenere al di fuori dai confini specifici della disciplina. In quest’ottica il regesto, che può definirsi invece «tipico» della Diplomatica, diviene comunque per l’archivista funzionale a esplorare elementi pur sempre presenti nella documentazione, elementi che altrimenti resterebbero al di fuori delle proprie competenze scientifiche. Detto questo, non si può neppure trascurare che ogni mezzo di corredo o strumento di ricerca in uso nel contesto archivistico deve considerarsi sempre – coerentemente con la lezione di Schiaparelli – un tramite fra lo studioso e il documento, non potendosi cioè sostituire ad esso. Di qui, in riferimento ai regesti, la difficoltà di concepire esattamente il livello di descrizione e la metodologia con cui estrarre gli ingredienti formali che connotano il documento preso in esame, così da fornire uno strumento effettivamente in grado di rispondere a quella funzione di intermediazione testé richiamata.

Venendo quindi al caso in questione, si riconosce con vera soddisfazione che le due curatrici hanno saputo coniugare ottimamente il livello di sintetica analiticità (il lettore perdoni l’ossimoro) con il recupero di tutte le informazioni essenziali che possono dare allo studioso il senso effettivo del contenuto dei documenti analizzati. S’intende cioè che l’asciuttezza delle descrizioni consente di comprendere tutte le componenti identificative dell’atto (data topica e cronica, natura giuridica, attori, dettagli specifici, rogatario), senza ridondanze o eccessi di particolari che avrebbero finito per nuocere alla consultazione. Un altro aspetto preme rimarcare, cioè l’attenzione che Ceppari e Turrini hanno posto alla tradizione del fondo e alla individuazione della provenienza delle 1255 pergamene

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regestate – comprese fra il 1193 e il 1594 cui si aggiunge un privilegio del 1801 –, at-tualmente distribuite in 12 contenitori (si veda in particolare il capitolo Nota di lettura introduttiva ai regesti del Diplomatico del Comune di Montalcino, pp. 151-164). È stato perciò notato che, per quanto esse provengano senz’altro da archivi diversi (Comune di Montalcino, Casa della Misericordia, ospedali locali), oggi (p. 159) «le pergamene appaiono assemblate in maniera casuale». Di qui la decisione, del tutto condivisibile, di proporre i regesti secondo un unitario andamento cronologico che prescinde dalla col-locazione dei documenti, relativamente ai quali è stata mantenuta la colcol-locazione nella ‘busta’ originaria, collocazione indicata nella sezione iniziale di ogni regesto, laddove – ancora molto opportunamente – sono riportate le note tergali esistenti nel verso di ogni pergamena, da quelle coeve ad altre successive, dal secolo XVI al XIX. Un imponente ed eccellente apparato di indici (pp. 701-784) di nomi, luoghi, notai, cose notevoli, cui si aggiunge una preziosa (tav. I) «Pianta dei toponimi citati», permetterà agli studiosi di utilizzare al meglio i materiali archivistici proposti.

È infine da rimarcare che il volume contiene, dopo le note di saluto e un denso saggio di Mario Ascheri di taglio storiografico (Montalcino: le sue pergamene tra storia e storiografia, pp. 20-35), due corposi articoli introduttivi delle stesse curatrici – articoli di taglio soprattutto storico-politico e istituzionale, ma con elementi di natura storico-e-conomica, sociale e di analisi storico-geografica – che, fondandosi sulle stesse carte del Diplomatico, offrono il contesto complessivo in cui porre questa documentazione di stra-ordinario interesse e finora pressoché inutilizzata dai ricercatori (M.A. cePPari ridolFi, Il Comune di Montalcino nei secoli XIII e XIV, pp. 37-75; P. turrini, Testimonianze medie-vali per la storia di Montalcino nel suo Fondo Diplomatico, pp. 77-148).

steFano Moscadelli

leonardi bigolli Pisani vulgo Fibonacci, Liber Abbaci, edidit enrico giusti adiuvante

Paolod’alessandro (Biblioteca di Nuncius «Studi e Testi» 79), Firenze, Olschki,

2020, pp. cxvii, 822, con tavole a colori f.t.

La rinascita delle città ed il conseguente sviluppo della civiltà comunale, che han-no caratterizzato l’Occidente europeo, ma sopratutto l’Italia centro settentrionale, dal Medioevo al Rinascimento, anzi, potremmo dire che hanno traghettato il Medioevo nel Rinascimento, sono stati sicuramente effetto, ma al tempo stesso causa, del progressivo indebolimento del potere imperiale, ma soprattutto sono stati generati dalla ripresa dell’e-conomia a partire dal secolo XI, dall’agricoltura alle produzioni artigianali, dagli scambi commerciali all’attività bancaria. Comune a tutti questi settori economici era la necessità di operazioni matematiche per convertire le unità di misura, effettuare cambi monetari, calcolare interessi o sconti. Il sistema matematico allora in vigore, basato sull’uso dei

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numeri romani, rendeva complicato lo svolgimento delle operazioni, che potevano essere eseguite solo con l’ausilio dell’abbaco. In questo quadro il Liber Abbaci di Leonardo Fibonacci costituisce una vera e propria rivoluzione, con l’adozione delle cifre arabiche, le figurae indorum, le quali consentivano di fare i calcoli secondo nuovi algoritmi basa-vati sul concetto di posizione, che era sconosciuto ai Romani; la possibilità di mettere in colonna i numeri era dovuta all’introduzione dello zero, ignoto anche questo ai Romani, come alla maggior parte delle civiltà antiche, che sta alla base del nuovo sistema aritme-tico, perché in grado di esprimere un’assenza di quantità indispensabile per l’incolonna-mento delle cifre. Per calcolare a mente, o scrivendo il meno possibile, Fibonacci insegna anche una tecnica, per la verità piuttosto complessa, per rappresentare i numeri con le mani: le unità e le decine, cioè i numeri da 1 a 99, con la mano sinistra e le centinaia e le migliaia, ossia quelli da 100 a 9900 con la destra; in questo modo usando ambedue le mani possono essere registrati i numeri fino a 9999, come illustrato dalla tabella di c. 3r del codice L.IV.20 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena.

Costituisce indubbiamente una curiosità il fatto che venga chiamato Liber Abbaci il libro che insegna proprio ad operare senza questo strumento di calcolo, ma il titolo ha l’indubbio vantaggio di far capire immediatamente qual è l’argomento trattato.

Questa non è la sola incongruenza che riguarda il Fibonacci e la sua opera, a partire dal nome stesso dell’autore, Leonardo Bigollo Pisano vulgo Fibonacci, come si intitola il primo paragrafo dell’Introduzione, oltre che il volume stesso. L’uso riconosciuto e gene-ralizzato del cognome Fibonacci si diffonde non prima del secolo XVIII; in precedenza Leonardo era semplicemente indicato come Bigollo, o Pisano, anche se, per la verità, nei manoscritti compariva già il patronimico; si veda ad esempio il già citato codice L.IV.20, che, come vedremo, è uno dei testimoni più attendibili: a c. 1r leggiamo Incipit abbacus Leonardi de domo filiorum Bonacii pisani compositus anno M°CC°II° et correptus ab eodem anno M°CC°XX°VIII° ed a c. 224v Explicit liber arismeticie Leonardi Bigholli de Pisis. La prima cosa da osservare è che Fibonacci deriva dalla fusione della parola figlio con Bonacci; quest’ultima sarebbe forse la forma cognominale più corretta ed ha portato a lungo a pensare che Bonaccio fosse il nome del padre, fatto però sconfessato da un documento del 1226, che il Giusti riporta nell’Introduzione, nel quale Leonardo Bigollo quondam Guilielmi acquista la dodicesima parte pro indiviso di un terreno con torre e casa a nome del fratello Bonaccingo; il venditore è Bartolomeo del fu Alberto Bonacci, un cugino, quindi, visto che Alberto era uno dei fratelli di Gugliemo e Bonaccio era il loro padre (forse, trovandoci a Pisa, sarebbe più corretto dire babbo).

A lungo è stato mal interpretato anche il significato del soprannome di Leonar-do, quel Bigollo, che si voleva ricollegare a bighellone, quasi che i suoi concittadini, operosi mercanti, lo ritenessero uno sciocco ed inetto perditempo con il suo applicarsi allo studio teorico della matematica e sviluppare operazioni che non rivestivano alcuna utilità per le loro attività commerciali. In effetti solo i capitoli 8-11 del Liber Abbaci si occupano di matematica mercantile; in questi vengono affrontati i problemi che pote-vano presentarsi nell’esercizio della mercatura: acquisti e vendite, baratti, società, mo-nete. I primi sette capitoli forniscono i fondamenti dell’aritmetica con le cifre arabiche

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ed insegnano gli algoritmi delle operazioni con i numeri interi e le frazioni e gli ultimi quattro si riferiscono a situazioni prive di utilità pratica od a questioni astratte. La corretta interpretazione del soprannome, però, è un’altra e il Giusti ce la spiega citando un verso di un sonetto di Cecco Angiolieri, e sì mi giro, che paio un bigollo; a rinforzo si potrebbe aggiungere anche un passo dell’Eneide volgarizzata di Ciampolo di Meo Ugurgieri, Come il pigollo vollendosi sotto le ricevute battiture: almeno a Siena a ca-vallo fra XIII e XIV secolo bigollo aveva il significato di trottola e questo nomignolo ben si attaglia al Fibonacci, che molto viaggiò nella giovinezza. Anche noi oggi, del resto, diciamo “gira come una trottola” riferendosi ad una persona che viaggia molto e si sposta in continuazione fra un luogo ed un altro.

A dispetto dell’importanza della sua opera, scarsissime sono le notizie che ab-biamo sulla vita del Fibonacci; per lo più abab-biamo solo quelle che lui stesso racconta nei suoi scritti. Fra queste ci sono le indicazioni dei suoi viaggi: sappiamo che poco più che fanciullo seguì il padre Guglielmo, inviato come publicus scriba, cioè notaio che offriva assistenza ai mercanti pisani, presso la dogana dell’importante porto di Bugia (Béjaïa in Algeria); qui iniziò lo studio della matematica, apprendendo l’uso delle cifre arabiche, e continuò ad approfondirne la conoscenza in Egitto, Siria, Grecia, Sicilia e Provenza, dove si recò per commercio. Sicuramente andò anche a Costantinopoli, come si arguisce da una quaestio contenuta nel citato codice L. IV. 20 della Biblioteca Comunale degli Intronati a c. 85r. Il suo ritorno definitivo a Pisa avvenne intorno al 1200, all’età circa di 30 anni, subito prima della composizione del Liber Abbaci; nel 1226 incontrò l’imperatore Federico II, che probabilmente aveva sentito parlare di lui da matematici e studiosi della corte siciliana, con i quali Fibonacci era in contatto.

Molto incerta è anche la datazione delle opere del Fibonacci; se è assodata la data del 1202 per la prima stesura del Liber Abbaci, non è certissima quella del 1228 per la seconda e definitiva. Fra questii due anni si deve collocare la Pratica Geometrie, forse composta nel 1220 o nel 1221. A proposito delle datazioni, bisogna tenere presente che il calendario pisano seguiva lo stile dell’Incarnazione, quello che faceva iniziare l’an-no, con il conseguente cambio di data, il 25 marzo, ma, a differenza di quanto accadeva a Siena e in tutte le altre città toscane, a Pisa si anticipava di un anno il computo; per intendersi, l’attuale 2020 sarebbe terminato con il 24 marzo e dal 25 sarebbe iniziato il 2021, nove mesi e sette giorni prima rispetto al nostro sistema. Anche il Liber Quadra-torum deve essere stato pubblicato in questo intervallo di tempo; la sua datazione è resa incerta dal fatto che l’unico manoscritto è datato 1225, ma riporta un avvenimento del 1226. Tale contraddizione potrebbe essere da attribuirsi al calcolo dell’anno secondo lo stile pisano. Successiva deve essere l’Epistola ad magistrum Theodorum, difficilmente databile. Per il Flos Leonardi Bigolli Pisani super solutionibus quarundam questioni-bus ad numerum et ad geometriam, vel ad utrumque pertinentium, che è una silloge di testi realizzati in più momenti diversi, è praticamente impossibile indicare il momento della composizione.

Un altro dato che emerge dall’Introduzione è che i manoscritti che riportano il testo del Liber Abbaci sono soltanto 19, dei quali unicamente 9 lo trasmettono in

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ma-niera completa o quasi. Esiste anche un ventesimo codice, che però appartiene ad un collezionista privato e non si sa dove attualmente si trovi. Questo è un numero estre-mamente basso ed in contrasto con la portata storico scientifica del lavoro; di un’opera ugualmente rivoluzionaria, in campo letterario questa, la Commedia dantesca, esistono più di 820 manoscritti. È evidente che non può essere fatto un paragone, vista la dif-ferente popolarità e, soprattutto, attrattiva dei testi, ma la disparità è veramente esa-gerata: i testimoni del Liber Abbaci sono meno del 2,5% di quelli della Commedia. Uno dei motivi della sua bassa diffusione potrebbe essere da riscontrarsi nel fatto che il Fibonacci scrive in latino, cosa del tutto logica, visto che questa era la lingua della cultura e degli studi, ma il problema era che il principale utilizzatore delle teorizzazioni di Leonardo era il ceto mercantile, che con questa non aveva molta dimestichezza ed infatti si trovano molti volgarizzamenti delle parti che rivestivano maggior interesse, magari inserite in codici miscellanei, contenenti anche scritti di altri matematici, o loro rielaborazioni; un esempio lo abbiamo nel manoscritto L.IV.21 sempre della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, che contiene un Trattato di praticha d’arismetrica tratto de libri di Lionardo Pisano e d’altri auctori conpilato da B[enedetto da Firenze]. Non è migliore la situazione se si guarda alle edizioni a stampa del Liber Abbaci, come viene ben messo in luce dal Giusti. C’è da stupirsi che un’opera di questa impor-tanza sia rimasta dimenticata per secoli: si pensi che la prima pubblicazione dell’opera completa è del 1854 ed è esemplata su di un solo manoscritto e non è neppure priva di scorrettezze, come lo è anche la recente (2002) traduzione approntata in Inglese. La spiegazione di questa scarsezza di edizioni va individuata forse nell’enorme mole del testo e nella difficoltà di trovare un curatore che possedesse le competenze matematiche, storiche e filologiche con le quali allestire un’edizione critica basata sull’intera tradizione manoscritta; uno dei problemi, infatti, con cui si sono sempre scontrati gli editori delle – poche – precedenti edizioni, è stato quello delle conoscenze matematiche, che non hanno consentito di evidenziare eventuali errori contenuti nei manoscritti. È per questo motivo che il Museo Galileo e l’Università degli Studi di Pisa hanno accolto con entusiasmo la proposta di Enrico Giusti, uno dei più noti matematici italiani e al tempo stesso uno storico delle matematiche di fama internazionale, di approntare la presente edizione cri-tica, che è la prima in assoluto dell’intero testo del Liber Abbaci e vuole colmare questa lacuna bibliografica, come lo stesso curatore ci dice: «Lo scopo principale della presente edizione è di fornire agli studiosi un testo attendibile sia dal versante matematico che da quello filologico. Allo scopo ho esaminato tutti i manoscritti disponibili, quelli completi o quasi completi come quelli che contengono solo parti dell’opera, e ho collazionato i più significativi. Quanto alla matematica, ho controllato tutti i calcoli e ho sistematicamente corretto gli errori quando questo era possibile, o altrimenti li ho segnalati in apparato e nelle Note al testo».

Dopo essersi occupato dell’autore, il Giusti prosegue con un’accurata analisi de-scrittiva delle caratteristiche dei singoli manoscritti e con la loro suddivisione in famiglie; un intero paragrafo è dedicato a L.IV.20, Il codice S, che, come già accennato, è di grande importanza, in quanto «pur tradendo una certa tendenza alla normalizzazione linguistica e

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stilistica e non mancando di numerose lezioni deteriori, da noi sistematicamente registra-te in apparato, restituisce spesso la lezione dell’originale dove il resto della tradizione si rivela corrotta». I Criteri editoriali e le Note al testo completano questa parte introduttiva, che il curatore conclude con i ringraziamenti a tutti coloro che lo hanno coadiuvato nelle varie fasi del lavoro, compresi il Museo Galileo e l’Università di Pisa, il cui contributo ha reso possibile la realizzazione del volume. All’Introduzione fa seguito l’Introduction, cioè lo stesso testo tradotto in Inglese; questo risponde perfettamente allo scopo di rivol-gersi agli studiosi a livello internazionale, a quelli non italofoni. Ci si potrebbe chiedere perché due introduzioni, quando per la comunità scientifica sarebbe stata sufficiente la seconda; questa “duplicazione”, se da una parte si dimostra rispettosa nei confronti de-gli studiosi italiani, visto che questa è la patria del Fibonacci, dall’altra rende il volume accessibile anche ad un pubblico più vasto, anche se, bisogna dirlo, può limitarne la diffusione l’elevato prezzo, che è però giustificato dal fatto di trattarsi di un volume non solo ben curato da un punto si vista editoriale, osservazione superflua trattandosi di una pubblicazione di Olschki, ma veramente di pregio con la legatura telata con impressioni in oro sul piatto e sul dorso e dotato di cofanetto.

Può sembrare inconsueto – e sicuramente lo è – basare la recensione ad un libro sulla parte introduttiva, ma in realtà sull’edizione critica dell’opera del Fibonacci rea-lizzata da Enrico Giusti c’è ben poco da dire; la meticolosità e la correttezza del lavoro sono garantite dal curriculum stesso del curatore, studioso e docente di Analisi Mate-matica presso varie università italiane e straniere, che si è occupato più volte anche in passato dell’opera del Fibonacci. Enrico Giusti attualmente è il Presidente del Giardino di Archimede. Un Museo per la Matematica, un consorzio di Università ed Enti pubblici, finalizzato alla creazione e alla gestione di un Museo matematico con sede in Firenze; sono soci del consorzio La Scuola Normale Superiore di Pisa, le Università degli Studi di Firenze, di Pisa e di Siena, la Città metropolitana di Firenze, l’Unione Matematica Italia-na, l’Istituto Nazionale di Alta Matematica ed il Consorzio Irpino per la Promozione della Cultura della Ricerca e degli Studi Universitari - Avellino.

enzo Mecacci

Johnny l. bertolio, Il trattato De interpretatione recta di Leonardo Bruni, («Fonti per la

Storia dell’Italia Medievale – Antiquitates» 52), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2020, pp. CLXIII, 53.

Se si dovesse valutare un’opera dalla sua fortuna editoriale, sicuramente questa del Bruni si dovrebbe considerare di scarsissimo valore, in quanto non solo se ne conoscono soltanto una dozzina di manoscritti, ma, soprattutto, non ci sono né incunaboli, né

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cinque-centine e per avere un’editio princeps bisogna attendere gli inizi del secolo scorso, antici-pata unicamente da una trascrizione di alcuni passi fatta da Karl Wotke in un articolo sui «Wiener Studien» 11 (1889), pp. 291-308.

In realtà l’opuscolo di Leonardo Bruni è un lavoro di grande importanza; si tratta del primo saggio sulla traduzione di età moderna; è alla base della filologia umanistica ed è stato redatto circa seicento anni fa, agli inizi degli anni ’20 del Quattrocento. Bruni critica la superficialità e l’approssimazione che riscontra nelle traduzioni del periodo me-dievale e la loro scarsa aderenza al contenuto. Per lui non esiste una contrapposizione fra traduzione letterale e artistica, più attenta alla forma che alla rispondenza del contenuto, che tende, più che a tradurre, ad interpretare per ottenere un nuovo testo letterario, ma la dicotomia è fra traduzione corretta o sbagliata. Sostanzialmente per il Bruni chi traduce deve possedere una perfetta conoscenza e padronanza di entrambe le lingue, quella da cui e quella in cui traduce, ed avere una grande eleganza nello stile della scrittura, oltre, naturalmente, ad una assoluta capacità di comprensione dei testi. Comunque l’Aretino non può disconoscere che, non ostante tutto, i traduttori medievali sono quelli che hanno consentito la conoscenza di tante opere, che altrimenti sarebbero andate perdute o dimen-ticate; i suoi punti di riferimento sono Cicerone e san Girolamo. Il primo nel De optimo genere oratorum (V, 14) indica come abbia tradotto due discorsi di Eschine e Demostene restando fedele ai testi ed alla loro comprensibilità, agendo da oratore, non da interprete (nec converti ut interpres, sed ut orator); per san Girolamo è da prendere in considera-zione l’Epistola LVII ad Pammachium. De optimo genere interpretandi, nella quale si indica che optimum genus interpretandi [...] hoc est, quo sensus e sensu, non verbum e verbo transfertur.

Nel lavoro di Leonardo Bruni, così, fra polemica nei confronti delle traduzioni let-terali e deprecazione dell’eccessiva attenzione alla forma della traduzione, da una parte, ed indicazione dei modelli da seguire, dall’altra, emergono le indicazioni teoriche per una corretta versione dal greco in latino, nella quale si deve cercare anche di mantenere inalterato l’equilibrio espositivo e quasi la sua sonorità, superando le difficoltà create dal fatto che frequenter enim verba latina vel plus vel minus syllabarum habent quam greca, neque par sonum auribus faciliter correspondet. L’odierna edizione critica, la prima di questo trattato, propone al lettore un’opera ingiustamente dimenticata, dando ragione del-la modernità delle intuizioni del Bruni. L’importanza dello studio di Bertolio, però, non si trova soltanto nell’accurata ricostruzione testuale, ma anche – e soprattutto, vorrei dire – nella lunga parte introduttiva, che ha una duplice valenza, quella di fare un’analisi par-ticolareggiata ed approfondita del lavoro del Bruni e quella di costituire un modello per l’edizione di un testo. Questa parte del libro è quella più consistente con le sue 163 pagine (il De interpretatione recta ne occupa solo 24, a cui fanno seguito altre 30, che conten-gono la bibliografia e gli indici), suddivise fra Introduzione e Nota al Testo. Nella prima viene descritta minuziosamente l’opera dell’Aretino – quasi vivisezionata, si potrebbe dire – ed all’interno di questa analisi l’autore si sofferma sulla dedica ad Bertum Senen-sem che accompagna il titolo in molti manoscritti. Tutta la parte finale dell’Introduzione è dedicata alla ricostruzione della vita, politica e culturale, di questo dedicatario, che viene

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