• Non ci sono risultati.

Utilizzo di sottoprodotti agroalimentari nell'allevamento del suino pesante in Garfagnana: effetti sulle caratteristiche dei prodotti freschi e trasformati

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Utilizzo di sottoprodotti agroalimentari nell'allevamento del suino pesante in Garfagnana: effetti sulle caratteristiche dei prodotti freschi e trasformati"

Copied!
100
0
0

Testo completo

(1)
(2)

2

Indice

Parte generale

Capitolo 1. Il sistema produttivo del suino pesante ... 5

1.1 I costi di produzione... 5

1.2 Sistemi di allevamento e qualità dei prodotti in Europa ... 7

1.3 I sistemi di allevamento in Italia ... 9

Capitolo 2. Il bioterritorio della Garfagnana ... 10

2.1 Localizzazione e principali caratteristiche del territorio ... 10

2.2 Il comparto agro-zootecnico ... 10

2.3 L’allevamento del suino ... 11

2.4 I sottoprodotti del farro e della castagna ... 12

2.5 I prodotti della norcineria ... 15

Capitolo 3. La qualità della carne suina ... 16

3.1 Il concetto di qualità ... 16 3.2 La qualità igienico-sanitaria... 16 3.3 La qualità dietetico–nutrizionale ... 17 3.4 La qualità tecnologica ... 18 3.5 La qualità organolettica ... 20 3.6 Le proprietà sensoriali ... 20

Capitolo 4. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo ... 27

4.1 Istologia del tessuto adiposo ... 29

4.2 Lipidi esogeni ... 29

4.3 Lipidi endogeni ... 29

4.4 L’importanza dei lipidi nella produzione del suino ... 29

4.4.1 La deposizione degli acidi grassi ... 37

4.4.2 Il profilo acidico delle carcasse suine ... 37

4.4.3 La composizione lipidica in relazione alla razza ... 38

4.4.4 Le variazioni del tessuto adiposo in relazione al sesso ... 39

4.4.5 Effetto della dieta sulla composizione in acidi grassi ... 39

4.4.6 Il livello energetico apportato con la dieta ... 41

(3)

3 Parte Sperimentale

Capitolo 5. Lo scopo della ricerca ... 45

Capitolo 6. Materiali e metodi ... 47

6.1 Descrizione dell’azienda sperimentale ... 47

6.2 Layout sperimentale ... 47

6.3 Rilievi ed analisi ... 50

6.4 Analisi di laboratorio ... 52

6.5 Analisi statistica ... 54

Capitolo 7. Risultati e discussione ... 56

7.1 Prima prova sperimentale ... 54

7.1.1 Rilievi post-mortem ... 56

7.1.2 Composizione chimica del muscolo ... 57

7.1.3 Composizione acidica del muscolo ... 59

7.1.4 Composizione acidica del lardo superficiale ... 63

7.1.5 Composizione acidica del lardo profondo ... 66

7.1 Seconda prova sperimentale ... 69

7.2.1 Rilievi post-mortem ... 69

7.2.2 Composizione chimica di muscolo e lardo ... 70

7.2.3 Composizione acidica del muscolo ... 72

7.2.4 Composizione acidica del lardo superficiale ... 77

7.2.5 Composizione acidica del lardo profondo ... 80

7.2.6 Composizione acidica del salame ... 83

Capitolo 8. Conclusioni ... 86

(4)

4

Parte generale

(5)

Capitolo I. Il sistema produttivo del suino pesante

5

Il sistema produttivo del suino pesante

1.1 I costi di produzione

La produzione del suino pesante, in Italia, è basata sull’ottenimento di animali destinati ad essere introdotti nella filiera di trasformazione.

L’attitudine alla produzione, nel caso del prosciutto crudo, può essere definita come “la capacità della materia fresca di mantenere le peculiari caratteristiche qualitative e sensoriali sino alla fine del processo di stagionatura, che può avere una durata variabile a seconda dei disciplinari di produzione”; ad esempio, nel Prosciutto di Parma il disciplinare prevede un periodo di stagionatura almeno di 12 mesi.

In Italia, a differenza degli altri paesi della Comunità Europea, la produzione del suino pesante prevede una lunga fase di finissaggio che incide notevolmente sul costo di produzione; infatti, i suinicoltori italiani, rispetto al resto d’Europa, sostengono un costo di produzione superiore mediamente del 19% (CRPA, 2007). Le cause sono da attribuire in modo particolare a due aspetti: oneri maggiori (data la differenza del peso vivo di macellazione) e minor livello di efficienza tecnica rispetto agli allevamenti stranieri. Infatti, nei paesi del nord Europa gli elevati investimenti in attrezzature ed impianti sono compensati da spese inferiori di alimentazione (Olanda, Danimarca). La realtà suinicola francese vanta performance di eccellenza, al pari di quella danese o olandese, e rientra tra i paesi più competitivi a livello comunitario. Il Regno Unito, al contrario dei precedenti, ha una situazione simile a quella italiana a causa del basso livello di efficienza tecnica nelle fasi di riproduzione e di ingrasso (CRPA, 2007). Analizzando i costi di produzione a livello di UE, espressi come €/kg di peso morto, i valori più bassi si rilevano in Danimarca e in Francia rispettivamente con 1,41 e 1,37 contro il dato di 1,73 dell'Italia. La forte competitività dei produttori menzionati è in primis da attribuire all'elevata produttività delle scrofe, che arrivano a produrre 27 suinetti svezzati all’anno (Corradini, 2010).

Inoltre, a livello nazionale, il settore si trova in una condizione economica molto difficile per il forte incremento delle quotazioni dei cereali e della farina di soia. I dati relativi alla situazione del comparto, evidenziano come nel 2010, i costi di produzione della carne suina in allevamenti a ciclo chiuso siano mediamente cresciuti del 4,6%, rispetto all’anno precedente, in seguito all'aumento dei costi di alimentazione (+6,6%), raggiungendo un costo complessivo pari a 1,36€/kg peso vivo.

Un aspetto da non sottovalutare sono le importazioni italiane di carne suina, che ultimamente hanno raggiunto un nuovo record, pari a 1,04 milioni di tonnellate, con un incremento del 12,8% rispetto al 2009. L'aumento riguarda in prevalenza le cosce fresche per la produzione del prosciutto crudo non D.O.P. e del prosciutto cotto (+15% rispetto al

(6)

Capitolo I. Il sistema produttivo del suino pesante

6 2009); anche l'export dei prodotti lavorati è aumentato in modo rilevante (+8,2%), soprattutto per prodotti come il prosciutto crudo (+7,4%), il salame (+13,8%) e la mortadella (+15,9%).

Grafico 1. Andamento dei prezzi (inizio 2007-fine 2009) €/kg nei principali paesi Europei

(7)

Capitolo I. Il sistema produttivo del suino pesante

7

1.2 Sistemi di allevamento e qualità dei prodotti in Europa

A livello Europeo la produzione del suino pesante segue principalmente due indirizzi produttivi: i paesi del centro-nord Europa destinano tutta la produzione al mercato delle carni fresche, mentre i paesi dell’area del Mediterraneo destinano la maggior parte della produzione alla trasformazione. Questi due indirizzi prevedono generalmente l’utilizzo di razze convenzionali che vengono macellate quando raggiungono il peso vivo di circa 100-120kg.

La situazione è diversa per i paesi come Spagna, Francia e Italia, dove si raggiungono pesi anche più elevati, spesso utilizzando le razze autoctone come ad esempio il Suino Iberico, Suino Corso e la Cinta Senese.

Un altro fattore decisivo per la produzione del suino pesante è il sistema di allevamento; attualmente è sempre più valorizzato il sistema all’aperto che gli anglosassoni definiscono con il termine generale “outdoor” (Honeyman, 2005).

Esistono differenti sistemi di allevamento all’aperto: nei paesi del nord Europa è diffuso il “plein-air”, mentre nei paesi del bacino Mediterraneo viene comunemente attuato il sistema silvo-pastorale.

In paesi come Regno Unito e Francia, l’allevamento all’aperto è una realt{ consolidata da anni; basti pensare che intorno alla metà degli anni novanta nel Regno Unito circa il 30% delle scrofe da riproduzione era già allevato all'aperto (Sheppard, 1996).

La produzione all’aperto comporta una serie di vantaggi, primo fra tutti quello di natura economica, poiché tale sistema di allevamento necessita di modesti investimenti iniziali, di bassi costi di gestione e, da un punto di vista etico, presenta un valore aggiunto per il consumatore (Edwards, 2005).

Negli stati del nord Europa i sistemi di allevamento all’aperto hanno una gestione ben definita: alte densità di carico animale, dipendenza diretta dalla produzione di mangimi composti, utilizzo di razze selezionate.

Il sistema silvo-pastorale prevede che gli animali vengano allevati in spazi più ampi, rappresentati da pascoli naturali o boschi. In genere, tutte le fasi della produzione si svolgono all'aperto, spesso in condizioni estreme e in zone di montagna; di conseguenza gli animali raggiungono il loro peso di macellazione in età avanzata e questo aspetto conferisce particolari caratteristiche organolettiche alle carni prodotte.

Il generale non esistono sistemi di allevamento standardizzati per il suino “Mediterraneo”, ma ogni realtà ha le sue peculiarità derivanti dalla tipologia dell’agroecosistema e dalle tradizioni locali, sociali ed economiche (sistema Dehesa, penisola Iberica).

(8)

Capitolo I. Il sistema produttivo del suino pesante

8 Gli animali appartengono spesso a razze rustiche caratterizzate da minor tasso di crescita, grande accumulo di massa adiposa e predisposizione a depositare acido oleico superiore rispetto alle razze selezionate (Casabianca e Luciani 1989; Gandemer et al., 1990).

Le razze rustiche mostrano una maggiore capacità di depositare acidi grassi monoinsaturi con il progredire dell’et{, mentre i genotipi selezionati tendono a depositare più acidi grassi saturi (Girard et al., 1983).

Inoltre, i suini allevati all’aperto hanno la possibilit{ di cibarsi di svariati alimenti, ciò costituisce un vantaggio poiché un regime alimentare eterogeneo incide favorevolmente sulla qualità del prodotto (Edwards, 2003). Negli ultimi anni sono stati studiati gli effetti dell’attivit{ pascoliva in bosco sulle performance in vita e sulla qualità dei prodotti freschi e trasformati. Molte ricerche hanno dimostrato, in tal senso, come il sistema outdoor comporti una serie di effetti positivi sulla qualità delle carni, in particolare riguardo ad un maggior livello di acidi grassi insaturi e di sostanze antiossidanti.

Altre ricerche hanno evidenziato che tali carni mostrano livelli più elevati di acidi grassi polinsaturi (PUFA), di acidi grassi della serie ω-3 e di vitamina E (Nilzen et al., 2001; Hogberg et al., 2002). Questo è un grande vantaggio per il prodotto fresco poiché gli aspetti nutrizionali hanno una valenza sempre più determinante nella scelta del consumatore.

Dai suini di razze autoctone alimentati con ghiande o castagne, che contengono un elevato contenuto in amido (Edwards e Casabianca, 1997), è possibile ottenere carni fresche e prodotti trasformati con pregiate caratteristiche qualitative. Ricerche sul suino Iberico hanno confermato che da animali allevati con il sistema Montanera (alimentati con ghiande), si ottengono prosciutti crudi con maggior sapore e aroma, oltre ad un minor irrancidimento del grasso (Rodríguez Estévez, 2009; Cava et al., 1999).

Tuttavia, è importante sottolineare che un uso eccessivo di ghiande o castagne nell’alimentazione del suino può favorire i processi di ossidazione dei lipidi di deposito, specialmente nei prodotti trasformati (prosciutto crudo, lardo), determinando effetti negativi sulla qualità organolettica degli stessi.

In ogni caso l’interazione tra genotipo e ambiente rappresenta sicuramente uno dei principali fattori che influiscono sulle caratteristiche finali del prodotto. Prove condotte su suini allevati all’aperto hanno evidenziato come una razza selezionata (Large White), pur essendo stata alimentata con ghiande nel periodo di finissaggio, non abbia superato il 2,5% di grasso intramuscolare, mentre una razza autoctona (Suino Corso), dopo una lenta fase di crescita possa arrivare alla fine del periodo di ingrasso a livelli dell’11% (Casabianca e Luciani, 1989). Pertanto non è soltanto l’alimentazione a influire sulle

(9)

Capitolo I. Il sistema produttivo del suino pesante

9 caratteristiche del prodotto finale, bensì l’interazione tra vari fattori quali tra i più importanti, il genotipo, il sistema di allevamento, l’età di macellazione.

1.3 I sistemi di allevamento in Italia

Si po’ osservare come negli ultimi quarant’anni, la consistenza di capi suini allevati in Italia è rimasta piuttosto costante, salvo una lieve diminuzione nel 1990 per poi aumentare di nuovo nel 2000, fino a tornare ai circa 9 milioni di capi allevati nel 2009. Il dato appena descritto potrebbe portare a facili conclusioni e trarre in inganno, mostrando un settore che si è mantenuto stabile nel corso degli anni. In realtà se si considera anche la variazione del numero delle aziende nel medesimo periodo, si osserva che il comparto suinicolo è stato interessato da una forte contrazione a proposito del numero di aziende; infatti da circa un milione di aziende suinicole nel 1961, ne sono state censite poco più di 100.000 nel 2009. Esaminando la distribuzione del patrimonio suino a livello regionale emerge una forte concentrazione nell’Italia settentrionale, in particolare nelle quattro regioni maggiormente estese quali Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. In queste regioni si concentra circa il 75% dei suini italiani ma è presente solo il 12% degli allevamenti (Rassegna Suinicola, 2011). Ciò è spiegato dal fatto che la dimensione media aziendale è molto più elevata nelle regioni dell’Italia settentrionale, mentre nel resto d’Italia la situazione è variabile, con regioni che hanno una dimensione media aziendale molto elevata e altre in cui questa è molto bassa (Rassegna Suinicola, 2011). In Italia esistono evidentemente due diverse realtà, una fatta di grandi allevamenti che producono per l’industria della macellazione e per i salumifici, l’altra legata alle tradizioni del passato che consiste nell’allevamento per autoconsumo e in parte per il mercato locale.

Nel complesso, la struttura della suinicoltura italiana è allineata alla media dei paesi dell’Ue, dove oltre l’85% delle aziende sono di piccole dimensioni e solo il 2% alleva più di 100 capi. Occorre però rilevare che la media Comunitaria appare fortemente influenzata dai membri dell’Est Europa che, pur avendo un peso considerevole in termini di unità produttive e capi allevati, sono caratterizzati da una suinicoltura costituita da aziende di piccole dimensioni.

(10)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

10

Il bioterritorio della Garfagnana

2.1 Localizzazione e principali caratteristiche del territorio

Il territorio della Garfagnana è situato nella parte nord-occidentale della Toscana, in corrispondenza dell’alta Valle del fiume Serchio e delle Alpi Apuane. Proprio per la sua posizione geografica, storicamente è stata terra di confine tra due ambienti tradizionalmente e socialmente diversi: la regione apuana e l'Appennino. La difficoltà nei collegamenti nel corso dei secoli scorsi ha contribuito a conservare tradizioni, usi e costumi che probabilmente, sarebbero scomparsi. Gli insediamenti umani si sono sviluppati su pendii o terrazze fluviali, che si elevano su promontori terrazzati destinati alla coltivazione di modeste colture. La Garfagnana si estende su una superficie di circa 535 km2 includendo 16 comuni e ultimamente è stata definita dagli economisti “esempio di

bioterritorio” per le caratteristiche dell’ ambiente e delle attivit{ agro-zootecniche connesse. La notevole variabilit{ dell’esposizione e soprattutto il notevole gradiente altimetrico (dai 200 ai 2000 m.), caratterizzano il clima di tipo montano con abbondanti precipitazioni durante l’anno, spesso nevose in inverno, a causa della vicinanza al mare ed al suo orientamento trasversale rispetto alla direzione dei venti dominanti portatori di piogge.

Le escursioni termiche sono molto marcate e, dal punto di vista bioclimatico, si riscontrano le zone del Castanetum, Fagetum e oltre il limite superiore della vegetazione arborea anche il Picetum.

Un elemento distintivo d’identit{, come altri territori lungo l’Appennino centrale, è la bassa densità abitativa, che in Garfagnana risulta pari a 56 abitanti per kmq, dato inferiore rispetto alla media provinciale (212 ab./kmq), regionale (153 ab./kmq) e nazionale (189 ab./kmq). La bassa densità di popolazione, dovuta in parte alla morfologia del territorio, è il risultato del fenomeno di emigrazione registratosi soprattutto nel periodo postbellico.

2.2 Il comparto agro-zootecnico

La Garfagnana presenta caratteristiche di ruralità tipiche delle aree montane, quali la frammentazione fondiaria, l’orografia del territorio e la debolezza economica, che condizionano gli investimenti nell’attivit{ agricola. La distribuzione dell’uso del suolo vede largamente prevalere la superficie forestale (71 %), seguita dai pascoli (15 %), dalle aree seminative (8 %) e da altre colture (6 %). Il 70 % delle aziende agricole è censito come “attività economicamente residuale e nei complessivi interessi economici della famiglia”, pertanto il settore è considerato abbastanza marginale (ISTAT, 2001). Questi dati spiegano la natura delle imprese agricole presenti sul territorio, contraddistinte da superfici

(11)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

11 limitate e scarsa necessità di unità lavorative esterne. Le difficoltà del settore hanno spinto molte aziende a cercare di sviluppare attività collaterali (agriturismo), o in settori trainanti come il turismo. Il territorio della Garfagnana presenta delle potenzialità produttive che, se opportunamente valorizzate, potrebbero avere una ricaduta importante sul rilancio delle aziende del comparto primario. Talune produzioni, come il “Farro della Garfagnana” (I.G.P.) e i prodotti derivati delle castagne come la “Farina di Neccio della Garfagnana” (D.O.P.), offrono garanzia di alta qualità e sono già affermate sul mercato; altre, come le produzioni zootecniche, nonostante l’elevata qualit{ (formaggi e salumi tipici), non hanno ancora trovato la giusta valorizzazione.

Il comparto zootecnico nella provincia di Lucca è caratterizzato dalla presenza di allevamenti di piccole dimensioni e nel complesso risultano: 3569 bovini, 8654 ovini e 1545 suini (Banca Dati I.Z.S.). Le strutture aziendali in molti casi sono inadeguate, non soltanto per la scarsa innovazione tecnologica e produttiva, ma anche per l’inadeguatezza nei riguardi degli obblighi sanitari richiesti dalla legge.

Tuttavia sembrano aprirsi nuove prospettive per il rilancio del settore; infatti, le amministrazioni locali (Comunità Montana, provincia di Lucca) e la Regione Toscana, da diversi anni stanno attuando una politica di rilancio, sviluppo e valorizzazione del comparto zootecnico attraverso il recupero della biodiversità animale, come ad esempio il recupero della pecora Garfagnina bianca (utilizzata per la produzione di formaggio, carne e lana) e della razza bovina Garfagnina (utilizzata per la produzione di carne).

2.3 L’allevamento del suino

I numerosi boschi di castagni e faggi hanno da sempre rappresentato un habitat ottimale per l’allevamento dei suini all’aperto. La Garfagnana, come la Lunigiana e altre zone montane presenti sulla dorsale dell’Appennino Centrale, ben si prestano ad una tipologia di allevamento all’aperto.

Fino all’inizio del XX secolo, il maiale viveva gran parte dell’anno nei pascoli e nei boschi, “solo nell’inverno veniva ritirato nel porcile, in genere piccoli locali, angusti, senz’aria e senza

luce..” e tre erano le principali razze presenti nella zona oggetto di studio: la Genovese, la

Parmigiana e la Lucchese (Ballarini, 2000). Quest’ultima veniva allevata nella zona della valle del Serchio e in Garfagnana, presentava pellame nero, la testa e parte delle spalle bianche, ed era caratterizzata da rusticità e robustezza (Giuliani, 1940). Un tempo i suini erano allevati dalle famiglie contadine per autoconsumo, ed alimentati con prodotti del sottobosco, come le castagne, oppure con gli scarti di lavorazione della macinatura delle stesse, insieme a crusche o farina di farro. Nel periodo postbellico, le necessità dettate soprattutto da motivi economici, hanno portato al declino di questa tipologia di allevamento, e ad una sua evoluzione e trasformazione verso un sistema intensivo con

(12)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

12 utilizzo di razze selezionate, più prolifiche e produttive. La rivalutazione delle razze autoctone italiane ha dato nuove prospettive di impiego ad alcuni sottoprodotti e, a tal proposito, in Garfagnana i residui di lavorazione di farro e castagna potrebbero rappresentare fonti alimentari nelle razioni da destinare agli animali.

2.4 I sottoprodotti del farro e della castagna

Negli ultimi decenni, conseguentemente alla valorizzazione della cucina tipica, alla rivalutazione della dieta mediterranea, ed in generale alla maggiore richiesta di cibi ricchi di fibra e con valenze salutistiche, c’è stata una riscoperta dei cereali minori, tra i quali, il farro. Il farro è un cereale autunno-vernino, come il frumento e l’orzo; rispetto però alle suddette specie si adatta meglio ai terreni poveri, collinari ed è resistente alle temperature rigide, nonché a condizioni di aridità o umidità. Per questi motivi viene spesso coltivato in aree marginali, generalmente in montagna o alta collina dove risulta difficile la coltivazione di specie maggiormente produttive.

Le caratteristiche che lo rendono un cereale rustico sono il forte potere di accestimento (capacità di formare foglie e culmi laterali), un ciclo di sviluppo tardivo e una cariosside vestita. Il seme, infatti, è ricoperto da glume che lo proteggono contro i parassiti, le malattie fungine e le possibili alterazioni della granella. Il farro si adatta ai terreni più poveri e non ha particolari esigenze di concimazione e diserbo, utilizzando efficacemente quella parte di fertilità del terreno che altre specie non sono in grado di sfruttare.

La raccolta deve essere effettuata al momento in cui le cariossidi hanno raggiunto il giusto grado di umidità; in genere risulta più tardiva rispetto al grano, e deve essere eseguita con un’adeguata regolazione della trebbiatrice per ridurre al minimo le perdite. Una volta raccolte, le cariossidi seguono una serie di operazioni di pulizia dagli involucri esterni (decorticatura e perlatura). La resa in granella vestita è in funzione del tipo di farro coltivato; mediamente le produzioni oscillano tra 20 e 25 q/Ha con una resa del 50-55%. La conservazione della granella richiede alcuni accorgimenti, infatti, durante le fasi di conservazione è facile incorrere nel decadimento qualitativo, dovuto a temperature e umidità di stoccaggio idonee allo sviluppo di microflora fungina sui tegumenti. La granella decorticata, in particolare, è più suscettibile agli attacchi dei parassiti (tignole) e richiede un controllo più attento dei locali. Esistono impianti di conservazione in grado di regolare la temperatura o modificare la composizione atmosferica degli ambienti di conservazione (utilizzo di CO2), in modo da creare condizioni sfavorevoli allo sviluppo dei parassiti. La

granella ricoperta da glume e glumelle, prima di essere utilizzata va sottoposta a decorticatura, ottenendo così le cariossidi intere, che possono essere sottoposte ad un processo più o meno approfondito di perlatura. Questa operazione consiste nell’eliminare lo strato esterno del chicco che successivamente verrà macinato.

(13)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

13 Figura 1. Spiga di farro matura e impianto di lavorazione del farro

Il castagno ha caratterizzato la storia sociale della montagna italiana, dove la castanicoltura è sempre stata considerata un'attività di primaria importanza. In Garfagnana costituiva la principale fonte di sostentamento, tanto che il castagno veniva definito anche “albero del pane" (Mariotti et al., 2009). La produzione di castagne interessa un’importante zona del territorio regionale Toscano e la produzione annua è tra le più rilevanti a livello nazionale: 35.000 q di marroni e 45.000 q di castagne (ISTAT, 2004).

A differenza di altre specie da frutto, che nel corso del tempo hanno subito un profondo miglioramento genetico, nel castagno la selezione non è stata molto spinta e rimane una delle poche specie arboree da frutto capaci di conservare un'elevata biodiversità. Attualmente il germoplasma di castagno in Toscana, annovera più di 100 varietà; all'interno della specie si suole distinguere le "marroni" dalle "castagne"; le differenze principali riguardano: la percentuale di frutti doppi o settati, il colore della buccia, la facilità di rimozione della pellicola esterna e il sapore (Paradisi et al., 2005).

Il castagno è presente nelle regioni montuose temperate e temperato-calde, ed è coltivato tra i 300 e i 1000 m s.l.m. E' una pianta eliofila, però predilige le esposizioni più settentrionali, perché meno soggette alla siccità estiva e con minori escursioni termiche. Sopporta molto bene le basse temperature e richiede un pH del suolo neutro o sub alcalino; i terreni migliori sono quelli di medio impasto, sciolti e fertili. La forma di coltura più adottata per il castagno, è quella naturale perché permette di ottenere la maggiore produzione di frutti. Le castagne si raccolgono normalmente da terra, o dopo una leggera abbacchiatura. Una volta raccolte vengono messe in acqua per alcuni giorni in modo da favorirne la conservazione se non devono essere macinate. Altrimenti dopo la raccolta si essiccano in caratteristici luoghi chiamati “metati" (seccatoi). I metati sono costruzioni in pietra costituiti da due ripiani: uno inferiore dove c’è un focolare a legna, mentre nel

(14)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

14 superiore si pongono strati di castagne fino a circa 50 cm di altezza. Il soffitto del ripiano inferiore è fatto con listelli di legno (graticcio), distanziati quel tanto da non lasciar passare neanche una piccola castagna. Il locale può essere costruito appositamente nel bosco e nel passato poteva essere anche la stessa cucina del contadino.

Figura 2. Caratteristico metato nella zona di Pieve Fosciana (Lucca)

Per oltre un mese viene mantenuto acceso il fuoco usando legno di castagno stagionato; le castagne, una volta essiccate, presentano un calo di peso di circa il 60% rispetto al peso fresco. Successivamente vengono battute (operazione un tempo fatta a mano) per separare l’endocarpo dalla buccia e dalla “pecchia” (episperma), poi vengono selezionate e suddivise in base all’aspetto e alla conformazione. I frutti senza difetti sono destinati all’industria alimentare oppure venduti freschi, mentre quelli con evidenti caratteristiche indesiderate rappresentano uno scarto di lavorazione e possono essere destinati agli animali tal quali.

Dopo le operazioni di cernita, le castagne vengono portate ai mulini locali (zona di Careggine) dove viene sfruttata la forza della corrente d’acqua per azionare le macine in pietra.

I frutti, una volta liberati dall’involucro esterno, e privati dell’endocarpo vengono macinati, ottenendo così una farina di colore bianco avorio e consistenza finissima. La farina che non ha i requisiti minimi per essere commercializzata insieme ad altri scarti del processo di lavorazione (pericarpo ed episperma) possono rappresentare un fonte di alimento negli allevamenti suini.

(15)

Capitolo II. Il bioterritorio della Garfagnana

15

2.5 I prodotti della norcineria

I salumi tipici del territorio rappresentano un esempio di elevata qualità: alcuni di essi sono ormai riconosciuti anche a livello nazionale, come il “bilordo”, la “mondiola” ed il prosciutto“bazzone”. Gli animali destinati alla produzione di questi salumi sono allevati fino a pesi vivi elevati, generalmente superiori ai 200 kg, e la loro alimentazione è caratterizzata dall’utilizzo dei sottoprodotti descritti in precedenza.

La tradizione di produrre il prosciutto Bazzone nei territori della media valle del Serchio e della Garfagnana risale al XIX secolo e si ricollega all’abitudine, tipica di quest’area, di allevare maiali locali dal mantello grigio allo stato semi-brado. Il termine “bazzone” deriva dalla forma particolarmente allungata del prosciutto, con una distanza tra l’osso e la parte inferiore che varia dai 12 ai 18 cm, questa caratteristica ricorda la“bazza”, parola dialettale per indicare un mento molto pronunciato. Le caratteristiche di allevamento e alimentazione stanno alla base delle qualità che si ritrovano poi nel prosciutto che al termine del periodo di stagionatura arriva a pesare anche 16-18 kg.

(16)

Capitolo III. La qualità della carne suina

16

La qualità della carne suina

3.1 Il concetto di qualità

La definizione del concetto di qualit{ data dall’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione è in continua evoluzione: mentre la norma ISO 9000 del 2000 aveva definito la qualit{ di un alimento come “l’insieme delle caratteristiche adatte a soddisfare le esigenze espresse e implicite del consumatore”. La definizione, rivista nell’ultima versione della medesima norma, la descrive come “il grado in cui un insieme di caratteristiche intrinseche soddisfano i requisiti” (ISO 9000, 2005).

Uno standard qualitativo che sta assumendo sempre maggiore importanza è l’ISO 22000:2005 che pone, come punto di riferimento per gli operatori, l’applicazione dei regolamenti comunitari in materia di igiene e sicurezza alimentare.

La definizione di “qualit{ della carne” è quindi associata a particolari caratteristiche in base alle quali può essere apprezzata principalmente in due modi: l’allevatore parla di qualità in termini di incremento medio giornaliero, peso vivo, indice conversione alimentare etc.; mentre il macellatore ed il trasformatore danno maggior rilievo ad aspetti come la copertura adiposa e lo sviluppo muscolare delle carcasse, l’andamento del processo di rigor mortis, le perdite di liquidi durante la refrigerazione e l’andamento delle trasformazioni post-mortali. Il consumatore è interessato ad aspetti ancor diversi che può apprezzare al momento dell’acquisto, della conservazione, della preparazione e durante il consumo; tali aspetti sono molteplici e riguardano principalmente il colore, la tenerezza, il sapore e il valore nutritivo. È difficile assegnare una definizione di qualità al prodotto

carne e, nell’accezione più comunemente diffusa , la descrizione della qualit{ di un

alimento è la sintesi tra le caratteristiche igienico-sanitarie, dietetico-nutrizionali, organolettiche, tecnologiche e sensoriali.

3.2 La qualità igienico-sanitaria

La sicurezza igienico-sanitaria è da considerare la conditio sine qua non affinché la carne possa rappresentare un alimento destinato al consumo umano e principalmente riguarda l’assenza di: parassiti, germi patogeni, carica batterica, residui di pesticidi, residui di additivi, farmaci, anabolizzanti e composti nocivi da inquinamento ambientale come i metalli pesanti. La carica microbica totale e i germi patogeni condizionano il processo di frollatura, maturazione e trasformazione delle carni; tra i parametri di qualità sanitaria si possono includere anche il contenuto in grassi saturi e in colesterolo. La qualità igienico-sanitaria è di stretta competenza del servizio veterinario del mattatoio, ma è comunque

(17)

Capitolo III. La qualità della carne suina

17 importante garantirla in tutte le fasi della filiera: dall’allevamento alla macellazione e durante la conservazione, il confezionamento, lo stoccaggio e la vendita. Il lardo rappresenta uno dei prodotti freschi più importanti e da un punto di vista sanitario è un prodotto sicuro poiché la sua carica batterica stabile e trascurabile. Tale carica batterica è rappresentata principalmente da Micrococcaceae il cui sviluppo, sebbene mostri un lieve aumento nel periodo intermedio della salatura, subisce poi un decremento non essendo promosso dal substrato che è quasi esclusivamente costituito da lipidi.

3.3 La qualità dietetico–nutrizionale

La qualità nutrizionale di un prodotto alimentare è rappresentata dalla sua capacità di fornire al consumatore i nutrienti necessari al fine di mantenere o addirittura migliorare le condizioni di salute, ed è strettamente dipendente dalla composizione chimica del prodotto. Nel caso della carne suina è intesa come il corredo dei costituenti della carne, in particolare di proteine nobili e di alcuni precursori per molte attività metaboliche. Per molto tempo è stata opinione comune che la carne suina avesse scarse qualità dietetiche, in realtà il contenuto in colesterolo e acidi grassi saturi è minore rispetto alla carne bovina. Inoltre, la componente adiposa corporea per circa due terzi rientra nella frazione facilmente separabile, mentre la frazione intramuscolare può essere ritenuta confrontabile a quella di altre specie. La frazione proteica della carne ha un elevato valore biologico dovuto alla notevole presenza di aminoacidi essenziali, e risulta altamente digeribile dall’uomo (Dell’Orto et al., 1999). La carne è inoltre fonte di importanti vitamine e minerali, fornendoli in forma organica e assicurando buona disponibilità ed elevata tolleranza per l'organismo. Riguardo alle caratteristiche nutritive della carne, le attuali conoscenze hanno messo in luce la presenza di alcune sostanze ad effetto bioregolatore come l’arginina, che stimola la produzione dell’ormone somatotropo, responsabile dell’accrescimento nei giovani e della tonicit{ muscolare nell’adulto; e il triptofano, che stimola la produzione di serotonina che, oltre ad avere funzioni antidepressive, stimola la risposta immunitaria dell’organismo.

Ma la carne non contiene solo elementi salutari per l’uomo, tanto che è stato più volte screditato il suo ruolo nella dieta umana a causa del suo contenuto in acidi grassi saturi, ed in particolare dell’acido stearico. L’eccessivo consumo di grassi saturi e di colesterolo è ritenuto responsabile dell’aumento dei lipidi ematici predisponenti alle cardiopatie coronariche e all’arteriosclerosi.

Tuttavia, è ormai noto che, grazie alla genetica e ai sistemi di allevamento, vengono prodotte carni più magre, con ridotto contenuto in colesterolo e buona composizione acidica. Per valutare l’effetto che gli acidi grassi saturi e insaturi hanno sull’organismo umano sono stati messi a punto gli indici aterogenico e trombogenico, che vengono

(18)

Capitolo III. La qualità della carne suina

18 calcolati in base alla percentuale di acidi grassi saturi, polinsaturi e monoinsaturi, tenendo in debita considerazione i benefici effetti degli ω-3 e ω-6 (Ulbricht e Southgate, 1991).

Composizione acidica del tessuto adiposo e del muscolo Longissimus dorsi di suino (g/100 g FA) (Enser et al., 1996)

Tessuto adiposo Muscolo

C14:0 1,60 1,30 C16:0 23,90 23,20 C18:0 12,80 12,20 C18:1 35,80 32,80 C18:2 14,30 14,20 C18:3 1,40 0,95 C20:4 0,20 2,21 ω-6/ω-3 7,60 7,20 PUFA/SFA 0,61 0,58

3.4 La qualità tecnologica

Qualit{ tecnologica può essere definita come l’attitudine di un alimento alla conservazione e alla trasformazione in prodotti derivati. Nella produzione suinicola, il pH ed il potere di ritenzione idrica sono caratteristiche della carne di fondamentale importanza in quanto influiscono sulle rese, sui tagli, sull’attitudine alla trasformazione, sulla capacità di conservazione (shelf-life) ed in maniera determinante sulla qualità finale del prodotto (Lopez Bote et al., 2001). Per questi motivi l’industria richiede carni suine con elevata capacità di ritenzione idrica e con intervalli di pH idonei alla trasformazione.

Capacità di ritenzione idrica

È la capacità della carne di trattenere la propria acqua di costituzione al suo interno. È una caratteristica con ampia variabilità, importante da un punto di vista commerciale perché da essa dipendono i cali di peso durante la conservazione della carne e durante processi di trasformazione; inoltre, influisce sull’aspetto della carne cruda, sulle perdite di liquidi durante la cottura e sulla succulenza; pertanto, assume importanza per il grado di accettabilità da parte del consumatore. Le perdite per sgocciolamento, nelle carni suine, possono arrivare anche a valori del 3,9% (Nanni Costa, 2005). Il potere di ritenzione idrica è in stretta relazione con il pH e diminuisce al suo diminuire, raggiungendo i valori minimi quando il pH raggiunge un valore di 5.4-5.5. Inoltre, è influenzato anche dal contenuto in grasso e dal tipo di muscolo. La carne ha normalmente un contenuto d'acqua molto alto, pari a circa il 65-70% del peso; più giovani sono gli animali macellati e più alto è il contenuto d'acqua nelle loro carni. Le perdite di cottura, che sono sostanzialmente perdite d’acqua ed in piccola parte di grasso, dipendono soprattutto dal grado di maturit{

(19)

Capitolo III. La qualità della carne suina

19 dell'animale alla macellazione e dal suo stato di ingrassamento. È per questo motivo che anche il ceppo genetico assume importanza sul potere di ritenzione idrica. Infatti, generalmente le carni ottenute da suini di razze precoci, altamente selezionate per raggiungere il peso di macellazione in minor tempo, saranno più ricche di acqua e pertanto avranno anche una minore capacità di trattenere i liquidi in esse contenute. Al contrario da animali rustici a lento accrescimento e pertanto macellati a età mediamente maggiori, si otterranno carni più mature e con un potere di ritenzione idrica maggiore. L’acqua della carne è in parte legata alle proteine e in parte libera negli spazi extracellulari: solo quest'ultima viene rapidamente perduta. La frazione d’acqua legata alle proteine viene persa durante la cottura, in seguito alla denaturazione delle proteine per effetto del calore. Il potere di ritenzione idrica viene misurato tramite la quantificazione del fluido che si libera:

- senza l’aiuto di forze esterne, per gocciolamento (drip loss);

- con l’aiuto di forze esterne (con presse, centrifughe, o per capillarità); - attraverso congelamento e scongelamento;

- tramite cottura in forno (cooking loss).

Alcuni autori hanno ottenuto risultati positivi riguardo l’influenza che ha il sistema di allevamento all’aperto sul potere di ritenzione idrica (Nanni Costa, 2005). Da suini allevati in condizioni outdoor sono state ottenute carni con una maggiore capacità di trattenere liquidi rispetto alle carni ottenute da suini allevati con sistema intensivo (Lebret et al., 2003, Enfalt et al., 1997).

pH

Il pH, pur non essendo un vero e proprio parametro di qualità, influisce direttamente su alcune caratteristiche qualitative: nel muscolo in vivo è neutro (7.0), ma dopo la morte dell’animale, mediante glicolisi e trasformazione del glicogeno muscolare in acido lattico, si abbassa progressivamente fino a raggiungere un valore compreso tra 5.4 e 5.9.

La progressiva caduta del pH caratterizza il processo di trasformazione del muscolo in carne ed influisce sull’attitudine della carne ad essere conservata e trasformata; variazioni anomale nel processo di acidificazione post-mortem possono comportare i ben noti fenomeni di PSE e DFD. Il difetto PSE si manifesta qualora la diminuzione del pH sia eccessivamente rapida a causa di una glicolisi altrettanto rapida, con accumulo notevole di acido lattico. Il fenomeno DFD può manifestarsi qualora la diminuzione di pH risulti lenta o insufficiente a causa di un forte stress a cui l’animale può essere stato sottoposto nelle fasi che precedono la macellazione; ciò può indurre alterazioni nella caduta del pH a causa

(20)

Capitolo III. La qualità della carne suina

20 della riduzione delle riserve di glicogeno muscolare. In quest’ultimo caso la produzione di acido lattico sar{ insufficiente e pertanto, con un’acidificazione contenuta, il pH delle carni si fermerà a valori elevati anche dopo 24 ore; le carni così ottenute saranno difficilmente trasformabili in quanto un pH così elevato favorirà lo sviluppo batterico.

3.5 La qualità organolettica

La qualità organolettica della carne comprende la composizione chimica, la struttura fisico-meccanica e le modalit{ di interazione con i sensi dell’uomo. I fattori qualitativi che interessano il consumatore riguardano soprattutto le caratteristiche organolettiche osservabili all’atto dell’acquisto (colore, grana e tessitura, perdita di essudato dalle superfici di taglio, marezzatura) e quelle che il consumatore può apprezzare mangiando la carne (tenerezza, succulenza, sapidità, ed assenza di odori e sapori sgradevoli).

I fattori che possono condizionare tali caratteristiche sono suddivisibili in tre categorie:  fattori legati al soggetto: tipo genetico, sesso ed età;

 fattori legati alla gestione: tipo di allevamento, programmazione e scelta dei soggetti da macellare, trattamento pre-macellazione, trasporto e scarico dei suini al macello, macellazione e fenomeni post-macellazione (raffreddamento della carcassa, evaporazione, frollatura);

 fattori nutrizionali: alimentazione in relazione all'età e allo stato di ingrassamento del soggetto.

Colore

Fra le caratteristiche della carne, il colore è uno dei fattori qualitativi più importanti e pertanto è determinante nella scelta da parte del consumatore al momento dell’acquisto, poiché è direttamente associato alla freschezza del prodotto (Renerre, 1990).

Il colore della carne è una caratteristica complessa in quanto può essere determinata da moltissimi fattori e la sua percezione può essere facilmente influenzata: un substrato può assumere infinite tonalità di colore in base al tipo e alla direzione della fonte di luce che lo illumina, e in base alle caratteristiche stesse del materiale.

Nella carne, il colore dipende principalmente dalla presenza di alcuni specifici pigmenti e dal loro stato chimico: è dato prevalentemente dalla quantità di un pigmento contenuto nel muscolo che si chiama mioglobina, la cui funzione è quella di immagazzinare l'ossigeno trasportato dal sangue da un altro pigmento simile contenuto nei globuli rossi, l’emoglobina; il colore della carne dipende anche dalla quantità di pigmenti citocromici e flavine (Lucifero e Giorgetti, 1988).

(21)

Capitolo III. La qualità della carne suina

21 Generalmente la concentrazione di mioglobina nella carne oscilla tra un minimo di 1 a un massimo di 20 mg/g e dipende da numerosi fattori, come l’et{, l’intensit{ ed il tipo di attività muscolare, il tipo di alimentazione, il sesso, etc. Tuttavia non è soltanto la percentuale di mioglobina presente nel muscolo a determinare il colore della carne, ma anche il suo stato chimico, che è strettamente legato a fenomeni di ossido-riduzione, a loro volta fortemente influenzati dalle modalità di conservazione e di trasformazione della carne (Renerre, 1990). La mioglobina è una proteina formata da una componente globulinica e da un gruppo prostetico non polipeptidico definito eme; questo è formato da una parte organica, la protoporfirina, costituita da un anello tetrapirrolico, al centro del quale è legato un atomo di ferro: a seconda che il ferro si trovi in forma ridotta od ossidata, la molecola sarà in grado di legare o meno ossigeno, determinando in questo modo le diverse forme chimiche della mioglobina: la forma ossigenata l’ossimioglobina (Fe++) e la

metamioglobina (Fe+++) che è la forma ossidata della mioglobina (Caserio e Stecchini,

1992).

I complessi noti dell'eme, della globina e dei ligandi possono essere raggruppati in due tipi di legami: ionici e covalenti, ed in essi il ferro si presenta nella forma ferrosa o nella forma ferrica.

Per quanto concerne il colore della carne, i complessi covalenti sono di maggior interesse poiché è in questa classe che si trovano i pigmenti rosso vivo tanto desiderati nella carne fresca e nei prodotti di salumeria.

Infatti, mentre l’ossimioglobina è un esempio di complesso ferroso covalente della mioglobina con l'ossigeno, la metamioglobina è il pigmento nella forma ossidata (ferrica), e non è in grado di legare l'ossigeno.

La struttura e la chimica dell'atomo di ferro sono la chiave per capire le reazioni e le alterazioni a cui viene sottoposta la mioglobina, e che influenzano il colore della carne. Il ferro è un metallo di transizione della prima serie, ciò significa che ha un insieme di elettroni del livello 3d incompleto: il numero di ossidazione massimo è +6 ma generalmente compare solamente negli stati +2 e +3.

A causa della sua bassa elettronegatività può perdere due elettroni di valenza (4s) per formare il catione ferroso (Fe++) o tre elettroni di valenza (due del livello 4s e uno del

livello 3d) per formare il catione ferrico (Fe+++). L'allontanamento dei due elettroni 4s con

formazione dello stato +2 è relativamente facile, mentre, il successivo allontanamento di un elettrone 3d provoca la formazione dello stato +3. Nel caso del ferro ciò avviene facilmente poiché con ciò il livello 3d rimane semicompleto. La disposizione degli elettroni negli orbitali 3d è responsabile dell'assorbimento della luce visibile e, quindi, del colore dei complessi della mioglobina.

(22)

Capitolo III. La qualità della carne suina

22 Oltre alla concentrazione ed allo stato chimico della mioglobina, numerosi altri fattori, quali la quantit{ di grasso e di connettivo presente nel muscolo, il pH e l’umidit{ della superficie di taglio, possono influenzare il colore della carne .

Per esempio, per quanto riguarda il pH finale della carne, è stato osservato che quando è troppo elevato, favorisce un rapido scadimento delle carni, che appaiono più scure (Dell’Orto et al., 1999). Per quanto riguarda il colore del tessuto adiposo, può oscillare dal bianco al bianco-rosato e varia in base alla composizione in acidi grassi e allo stato ossidativo dei lipidi: un elevato grado di insaturazione dei lipidi conferisce un colore grigiastro ai tessuti. Questo fenomeno si verifica in particolare nel suinetto, i cui depositi lipidici sono relativamente insaturi (Wood, 1984). Quando si osserva un colore del tessuto adiposo che vira all’arancione, è l’effetto derivante dalla perossidazione degli acidi grassi polinsaturi.

Esistono tre tipi di misurazioni per il colore della carne:

 Metodi soggettivi: valutato da un corpo di esperti tramite l’uso di una scala di punteggio ai cui valori corrisponde l’intensit{ ed il tipo di colore.

 Metodi chimici: attraverso il dosaggio della mioglobina, distinguendone le forme chimiche. Si ricorre ad un’analisi spettrofotometrica in assorbanza, però il sistema richiede la distruzione del campione che quindi non può più essere utilizzato per successive analisi.

 Metodi strumentali: se il campione da analizzare deve conservare la sua integrità, viene misurata la riflettanza attraverso l’impiego di strumenti costituiti da una lampada che emette un flash di luce standard per intensità e composizione, che prendono il nome di colorimetri. Il colorimetro valuta il fascio di luce riflessa dalla superficie della carne: questa luce costituisce la parte dello stimolo luminoso, emesso dal colorimetro, che non viene assorbita dalla superficie della carne, ed è quella che poi viene percepita dal nostro occhio. Il colorimetro analizza il fascio luminoso riflesso e lo esprime tramite una serie di codici numerici accettati a livello internazionale: il più conosciuto di questi sistemi è il cosiddetto tristimolo, che permette di specificare il colore con riferimento allo spazio-colore della C.I.E. Del 1976. Il tristimolo deve il suo nome al fatto che il colore viene espresso servendosi di tre grandezze o coordinate:

(23)

Capitolo III. La qualità della carne suina

23 L* : indice della luminosità o quantità di luce, distingue i colori in chiari e scuri;

a* : indice del rosso, esprime il colore rosso se positivo e verde se negativo; b* : indice del giallo, esprime il colore giallo se positivo e blu se negativo.

Le coordinate a* e b* permettono di ottenere altri due valori:

C o Croma: indice di intensità di colore o cromaticità; equivale alla radice quadrata della somma dei quadrati di a* e b* ed indica la percentuale del colore puro presente, ossia la forza con cui un colore si stacca dal colore neutro. Distingue i colori in intensi o spenti;

H o Tinta: indice del rapporto, o grado di miscelazione, tra la componente rossa e la

componente gialla, equivale all’arcotangente del rapporto b/a, esprime cioè con una

misura angolare, la tonalità del colore. Ad un minore valore di tinta, corrisponde un colore più rosso della carne.

Tenerezza

La tenerezza può essere definita come l’attitudine della carne a lasciarsi tagliare o masticare ed è una caratteristica determinante per la soddisfazione del consumatore. È la risultante dell’elemento genetico, dell’et{ dell’animale e del processo di maturazione della carne; si può parlare di due tipi di tenerezza: di base e miofibrillare.

La tenerezza di base

Dipende direttamente dalla percentuale di connettivo del muscolo, ovvero dalla quantità e dalla qualità delle fibre collagene. Varia in base all’et{ dell’animale, infatti il collagene, con l’avanzare dell’et{, infittisce la sua molecola con doppi legami inter ed intra-muscolari. La cottura può influire sulla tenerezza di base, mentre la frollatura non ha alcun effetto sulla molecola del collagene.

La tenerezza miofibrillare

Dopo la macellazione, la muscolatura dell’animale è flaccida, pastosa ed elastica, ma progressivamente i muscoli tendono a diventare duri, contratti, iniziando dalla testa e proseguendo fino agli arti posteriori; tale processo, causato dalla contrazione post-mortem delle miofibrille muscolari, si completa nelle 24 ore successive alla macellazione e si risolve con la frollatura.

Il muscolo, durante la frollatura subisce una serie di modificazioni che ne determinano la "maturazione", in particolare alcuni enzimi proteolitici ne attaccano le proteine riducendo la tenacità delle strutture fibrose e aumentandone considerevolmente la tenerezza. La

(24)

Capitolo III. La qualità della carne suina

24 tenerezza dipende anche dallo stato di ingrassamento dell’animale e può variare da un taglio all’altro. Si può misurare con diverse metodologie:

- metodi chimici, che quantificano il collagene e la sua solubilità;

- metodi fisici, che misurano lo sforzo necessario a tagliare, o a comprimere un campione di carne;

- analisi sensoriale (panel test), che, pur essendo di difficile realizzazione, rappresenta il metodo migliore per valutare la tenerezza della carne.

Figura 3. Strumento Instron mod. 1011 per la misurazione della tenerezza

Consistenza del tessuto adiposo

La trama del tessuto adiposo dipende dalla sua composizione chimica. Sebbene possa rientrare nella qualità organolettica di un prodotto, questa può essere vista anche come un elemento di qualità tecnologica (Lebret e Mourot, 1998). La qualità tecnologica del tessuto adiposo corrisponde alla sua attitudine alla trasformazione e alla conservazione, vale a dire la consistenza, la coesione e la sensibilit{ all’ossidazione.

La consistenza dipende dal tenore in lipidi e in acqua, dal sostegno del collagene e dal tipo di acidi grassi che costituiscono i trigliceridi. Un basso contenuto di grassi e, di conseguenza, un’elevata quantit{ di acqua può portare ad una mancanza di consistenza del tessuto adiposo. Una base importante di proteine fornisce un certo grado di compattezza al tessuto a temperatura ambiente e impedisce la fusione dei lipidi in seguito ad un aumento di temperatura. Infatti, sotto l’influenza del calore, il collagene si contrae e quindi diventa gelatinoso e cattura e “protegge” i lipidi all’interno di una rete (Girard et al., 1988). La natura degli acidi grassi svolge un ruolo importante nel determinare la consistenza del tessuto adiposo. È noto, infatti, che il loro punto di fusione è tanto più basso quanto più sono insaturi. Gli acidi grassi C16 e C18, che rappresentano più del 90% degli acidi grassi saturi nel tessuto adiposo del maiale, incidono maggiormente sul punto di fusione dei lipidi, quindi sulla consistenza di questi tessuti (Wood, 1984).

Secondo Enser (1983), il punto di fusione dei lipidi del grasso sottocutaneo, è determinato principalmente dal contenuto di acido stearico nel tessuto lipidico stesso.

(25)

Capitolo III. La qualità della carne suina

25

3.6 Le proprietà sensoriali

La produzione di carne suina in Italia è destinata prevalentemente all’industria di trasformazione e la scelta del consumatore è principalmente influenzata dalla qualità organolettica del prodotto finito, che dipende in primis dal contenuto lipidico: molte delle caratteristiche organolettiche, infatti, dipendono dalle trasformazioni che la componente lipidica subisce durante la stagionatura. Ad esempio il colore di un prodotto a lunga stagionatura come il prosciutto crudo è condizionato dal contenuto di lipidi intramuscolari, infatti ad un maggiore contenuto di essi corrisponde una minore luminosità ed un minore indice del rosso (Gandemer, 2002). Naturalmente alla base del risultato delle caratteristiche organolettiche dei prodotti trasformati ci sono fattori endogeni ed esogeni di fondamentale importanza quali: il tipo genetico, il regime alimentare e il sistema di allevamento.

Il genotipo influenza caratteristiche come la tessitura e l’aroma: prosciutti prodotti con razze ad elevato livello di lipidi intramuscolari hanno un aroma più intenso poiché i trigliceridi rappresentano un substrato ideale per lo sviluppo dell’aroma (Gandemer, 2002). I sapori derivano da una serie di reazioni enzimatiche o biochimiche che interessano i principali componenti della matrice dovute all’intervento di processi enzimatici e microbiologici spontanei o indotti, come l’ossidazione, la reazione di Maillard e la degradazione di Strecker.

Le componenti che subiscono tali reazioni sono soprattutto proteolisi e lipolisi (Toldrà, 1998) causate da un basso livello di attività degli enzimi microbici (Molina e Toldrà, 1993).

Odore

Per quanto riguarda l’odore, non è facile darne una definizione e ancor più complessa è la sua determinazione; ogni specifico odore è la risultante di una sensazione olfattiva dovuta ad una diversa combinazione di numerosi componenti volatili ai quali, con la cottura, si associano altre sostanze costituenti tipici della carne cotta (Crocker, 1948).

La carne di ciascuna specie animale possiede un suo specifico odore, che diviene più intenso in seguito al raffreddamento della carcassa ed ancor più in seguito alla frollatura. La conservazione prolungata della carne fresca in ambienti non idonei provoca la comparsa di odori sgradevoli: odore di guasto per contaminazione batterica, odore

(26)

Capitolo III. La qualità della carne suina

26 Infatti l’odore è legato al tipo di acidi grassi presenti nella sostanza muscolare ed è influenzato dal sesso e dal tipo di alimentazione a cui gli animali sono stati sottoposti.

Sapore

Il sapore della carne, similmente all’odore, è di difficile valutazione, inoltre risulta assai arduo separare questi due caratteri, dal momento che molte proprietà del sapore sono sensazioni odorose. L’et{ dell’animale, il tipo di alimentazione, le condizioni di macellazione e la durata della frollatura possono influire sul sapore della carne cotta. Il fattore endogeno più rilevante ai fini della percezione del sapore della carne è dato dal suo contenuto di grasso intramuscolare: le carni con il maggior contenuto di grasso si presentano infatti più sapide e gustose rispetto a quelle magre. Un certo ingrassamento degli animali è, quindi, essenziale se si vogliono ottenere carni di qualità, ma non deve essere eccessivo; infatti il sapore dei prodotti della carne può essere modificato negativamente dall’ossidazione di acidi grassi insaturi e dalla presenza di composti maleodoranti nella frazione insaponificabile dei lipidi. Reazioni di ossidazione oltre certi limiti, portano alla produzione di aldeidi e chetoni che sono responsabili di sapori sgradevoli come il sapore di rancido; la presenza di composti maleodoranti possono essere invece di origine esogena (oli o farine utilizzati nei mangimi), o di origine endogena come gli odori sessuali. L’androsterone (steroidi di origine testicolare) e lo scatolo (prodotto dalla degradazione del triptofano), si trovano nel tessuto adiposo del suino di sesso maschile, sono responsabili dei difetti di odore e possono manifestarsi nella cottura o nel consumo diretto (Bonneau 1988). È da considerare tuttavia che un livello di ossidazione degli acidi grassi entro certi limiti, costituisce un elemento che può condizionare positivamente la qualità organolettica con la produzione di sostanze che conferiscono al prodotto odori e sapori, tipici e peculiari

(27)

Capitolo IV. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo

27

I fattori che influenzano le caratteristiche

del tessuto adiposo

4.1 Istologia del tessuto adiposo

I lipidi, più di ogni altra sostanza dispongono di alta capacità di immagazzinamento temporaneo di materiale ad alto contenuto energetico, in quanto pesano meno e occupano meno volume per caloria di energia chimica immagazzinata rispetto ai carboidrati e alle proteine (Fawcett, 2005).

Il tessuto adiposo, costituito da cellule adipose o adipociti è specializzato nell’accumulo di lipidi; è un tessuto funzionalmente attivo le cui cellule sintetizzano attivamente lipidi a partire dai carboidrati, accumulano i grassi provenienti dalla dieta e sono altamente sensibili a stimoli nervosi e ormonali (Molinaro et al., 2007).

Il tessuto adiposo suino è dislocato in diversi siti: nella cavità addominale, nello spazio perirenale, a livello sottocutaneo, intermuscolare e intramuscolare. Esistono nei Mammiferi due tipi di tessuto adiposo che differiscono per colore, caratteri citologici, distribuzione, vascolarizzazione ed attività metabolica: il tessuto adiposo bianco o giallo o uniloculare, ed il tessuto adiposo bruno o multiloculare (Molinaro et al., 2007).

Il tessuto adiposo nel suino è costituito soprattutto da lipidi (75–80%) e da acqua (5– 15%), mentre le proteine cellulari e della trama connettivale rappresentano una parte trascurabile. Le proporzioni di tali componenti variano a seconda della localizzazione anatomica e a seconda di diversi fattori di allevamento. I trigliceridi rappresentano più del 95% della frazione lipidica che per il resto è formata da composti minori saponificabili e non (Girard et al., 1988).

Il suino deposita circa il 70% dei lipidi nello strato sottocutaneo, mentre a livello perirenale e periviscerale il contenuto lipidico è inferiore. Nel tessuto sottocutaneo è ampiamente distribuito il grasso uniloculare, anche se con differenze quantitative che dipendono dall’et{ e dal sesso; infatti, punti di deposizione selettiva, sono in gran parte responsabili delle caratteristiche differenze morfologiche tra maschi e femmine (Fawcett, 2005).

Il tessuto adiposo di questo tipo varia per quel che riguarda il colore dal bianco al giallo, in relazione, almeno parzialmente, al contenuto di carotenoidi nella dieta. I carotenoidi sono pigmenti liposolubili, contenuti nelle carote e in altri vegetali, che si possono accumulare nelle gocciole lipidiche delle cellule adipose (Fawcett, 2005).

Le cellule costitutive di tale tessuto hanno un diametro superiore a 100 μm e presentano di solito una forma sferica. Sono spesso fittamente accostate tra loro con l’interposizione

(28)

Capitolo IV. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo

28 di scarsa sostanza fondamentale; in tali casi per l’effetto derivante dalla pressione assumono una forma ovale o poliedrica. La maggior parte del volume della cellula è occupato da un’unica goccia lipidica ed il nucleo è sospinto alla periferia assieme allo scarso citoplasma che è ridotto ad un sottile anello periferico. Nel digiuno prolungato o nel decadimento organico dovuto a malattie croniche, il tessuto adiposo perde la maggior parte dei lipidi accumulati e si trasforma in un tessuto altamente vascolarizzato costituito da piccole cellule ovoidali o poligonali con numerose gocciole lipidiche intracitoplasmatiche. La membrana plasmatica sovrabbondante non è più adatta alla forma della cellula, e si ripiega lassamente intorno ad essa (Fawcett, 2005).

Nel suinetto i depositi adiposi rappresentano solo l’1–2% del peso vivo (Henry, 1977), successivamente la massa adiposa si sviluppa in maniera considerevole: già dopo 12 giorni di età è 10 volte più elevata rispetto alla nascita. Lo sviluppo del tessuto adiposo è caratterizzato da tre fasi successive: da 7 a 10 kg di peso vivo prevale un aumento del numero di cellule (iperplasia); da 20 a 70 Kg lo sviluppo avviene sia per iperplasia che per ipertrofia, vale a dire un aumento delle dimensioni cellulari. Oltre i 70 Kg di peso l’aumento del tessuto adiposo avviene quasi esclusivamente per ipertrofia (Anderson e Kauffman, 1973). Con l’aumento dell’et{ e del peso vivo si osserva un aumento dei tessuti adiposi e della carcassa determinato da un aumento del numero e della taglia degli adipociti. L’aumento del volume degli adipociti nel corso della crescita varia in base alla localizzazione anatomica del tessuto (Anderson et al., 1972): i depositi adiposi si sviluppano prima a livello sottocutaneo, poi mesenterico e perirenale, intermuscolare e infine intramuscolare (Henry, 1977). L’ipertrofia degli adipociti si accompagna a una diminuzione del contenuto proteico del tessuto, mentre il contenuto lipidico aumenta fortemente (Camara et al., 1994).

La membrana plasmatica delle cellule adipose appare cosparsa di numerose vescicole di micropinocitosi che sembrano intervenire nel trasporto degli acidi grassi dal sangue alla cellula durante la fase di accumulo dei lipidi come nel trasporto inverso, dalla cellula adiposa al sangue, durante la fase di mobilizzazione dei lipidi (Molinaro et al., 2007). Nel trasporto di acidi grassi, dal sangue verso la cellula e dalla cellula verso i capillari sanguiferi, l’assunzione di una proteina, l’albumina plasmatica, potrebbe rappresentare un carrier specifico in grado di entrare e di uscire liberamente dal tessuto adiposo, scaricando e caricando gli acidi grassi (Rosati e Colombo, 2003).

(29)

Capitolo IV. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo

29 I lipidi accumulati nelle cellule adipose hanno diverse origini:

 dal sangue circolante:

- esogeni se derivano dalla demolizione dei lipidi alimentari, e trasportati come chilomicroni ( dalla mucosa intestinale) o VLDL (dal fegato);

- endogeni se derivano dalla neosintesi a livello del fegato e trasportati mediante VLDL.

 da un processo di neosintesi.

4.2 Lipidi esogeni

I lipidi, assunti con l’alimentazione, sono scarsamente solubili in acqua e per il loro trasporto nel sangue sono legati a specifiche proteine trasportatrici: le lipoproteine. Una volta raggiunto il duodeno, grazie all’azione emulsionante della bile, vengono emulsionati a formare micelle globulari, costituite da un nucleo non polare di triacilgliceroli e di esteri del colesterolo, circondati da un rivestimento anfifilico di proteine, fosfolipidi e colesterolo (Voet et al., 2001) (figura 2).

Figura 4. Lipoproteina

Le lipoproteine sono suddivise in cinque classi in base a differenti densità: chilomicroni, VLDL, LDL, IDL, HDL. Il fegato e l’intestino sono i siti principali di formazione delle apoproteine ed anche della costruzione delle lipoproteine, esse non sono soltanto trasportatrici inerti di lipidi, ma svolgono un ruolo di rilievo nel metabolismo del colesterolo nel rischio di danni cardiaci (Ritter, 1998). Tali complessi micellari possono essere facilmente attaccati dagli enzimi pancreatici, che vengono immessi a livello del duodeno. La lipasi pancreatica, grazie all’azione di un cofattore prodotto dallo stesso pancreas (colipasi), provvede a idrolizzare i trigliceridi a livello delle posizioni 1 e 3 con la apolipoproteina

fosfolipide Colesterolo libero

Colesterolo esterificato

(30)

Capitolo IV. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo

30 formazione di 1,2–diacilgliceroli e 2–acilgliceroli. Con queste reazioni a valle del duodeno si accumulano acidi grassi liberi e monogliceridi (Rosati e Colombo, 2003). Gli enterociti, le cellule che costituiscono la parete intestinale, sono il sito primario di assorbimento dei lipidi provenienti dalla dieta (Gurr e Harwood, 1991). La mucosa dell’intestino tenue assorbe per micropinocitosi gli acidi grassi che a livello del REL sono ritrasformati in trigliceridi. All’aumentare del loro numero si uniscono a una piccola porzione proteica andando a costituire i chilomicroni.

La biosintesi dei trigliceridi negli enterociti può procedere attraverso due vie, di cui una dipendente dall’acil–CoA e l’altra indipendente (Levy et al., 1995).

La principale via biosintetica dei trigliceridi nella formazione dei chilomicroni è probabilmente la via dell’acilazione del 2–monogliceride a digliceride grazie all’azione dell’enzima monoglicerideaciltransferasi. A questo segue l’acilazione del digliceride neoformato dalla diglicerideaciltransferasi, con i gruppi acilici donati dall’enzima acil–CoA aciltransferasi (Brindley e Hubscher, 1965), piuttosto che da acil–CoA liberi (Lehner e Kuksis, 1993). L’acil–CoA aciltrasferasi, originariamente conosciuto come idrolasi (Lehner e Kuksis, 1993), agisce come un intermediario nel trasferimento di gruppi acilici da acil– CoA ad accettori glicerolipidici.

Nella via acil–CoA indipendente agisce l’enzima transacilasi. Questo utilizza due molecole di digliceride per formare una molecola di digliceride e una di monogliceride. Tuttavia, la funzione di tale enzima negli enterociti è poco chiara (Lehner e Kuksis, 1993). La formazione di trigliceridi intracellulari negli enterociti avviene in specifiche regioni del reticolo endoplasmatico e probabilmente procede con un meccanismo che coinvolge enzimi coeluenti l’un con l’altro come trigliceridi sintetasi. Questo complesso include acil– CoAsintetasi, acil–CoAtrasferasi, 2–monoglicerideaciltrasferasi e diglicerideaciltrasferasi ed è capace di eseguire la formazione di trigliceridi da acidi grassi non esterificati e 2– monogliceride (Lehner e Kuksis, 1993).

I chilomicroni si spostano all’interno della cellula grazie a una complessa rete di vescicole transfer, che li conducono verso le porzioni basolaterali, dove vengono riversati negli spazi intercellulari. Da qui passano nei capillari linfatici del villo intestinale e, transitando attraverso il sistema linfatico, raggiungono il sistema venoso. Nei capillari sanguiferi, a livello delle cellule endoteliali del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo, esistono enzimi idrolitici, le lipasi lipoproteiche, che liberano dai trigliceridi gli acidi grassi; questi vengono così messi a disposizione delle varie popolazioni cellulari dell’organismo, che li utilizzano per la produzione di energia o, alternativamente, li riconvertono in trigliceridi. Quei trigliceridi assunti con la dieta che non vengono utilizzati, sono immagazzinati nel tessuto adiposo.

(31)

Capitolo IV. I fattori che influenzano le caratteristiche del tessuto adiposo

31 Oltre agli acidi grassi, anche i monogliceridi e i digliceridi, assorbiti come tali, entrano a far parte dei chilomicroni e raggiungono, tramite i liquidi interstiziali, i capillari linfatici. La maggior parte dei grassi assorbiti a livello intestinale segue dunque la via linfatica per poi riversarsi nel torrente sanguigno. Tuttavia, gli acidi grassi con un numero di atomi di C compreso tra 8 e10, denominati a catena corta, pur pinocitati dalle cellule intestinali, non vengono trasformati in chilomicroni; come tali essi fuoriescono dalla cellula assorbente e raggiungono direttamente i capillari sanguigni legandosi alle albumine plasmatiche, per essere smistati al fegato che provvede a immetterli di nuovo nel sangue sotto forma di lipoproteine (Rosati e Colombo, 2003).

Il fegato gioca un ruolo chiave nel metabolismo lipidico dei mammiferi. A livello della ghiandola epatica i trigliceridi immagazzinati o secreti dagli epatociti possono aver origine da acidi grassi importati, da acidi grassi sintetizzati de novo o da lipidi di membrana (Wiggins e Gibbons, 1996).

Le cellule epatiche possono sia immagazzinare significative quantità di trigliceridi come gocce lipidiche nel citosol che diffonderli nel sistema circolatorio come VLDL (Gibbons et

al., 2000) (figura 3).

Figura 5. Trasporto dei trigliceridi e del colesterolo

Colesterolo endogeno LDL Recettori per le LDL Colesterolo alimentare FEGATO Lipidi alimentari Acidi biliari e colesterolo Recettori per i residui

INTESTINO Tessuto extraepatico

HDL IDL VLDL Residui Chilomicroni Capillari Lipoproteina lipasi Capillari Lipoproteina lipasi Acidi grassi liberi Acidi grassi liberi ADIPOCITA

Figura

Figura 2. Caratteristico metato nella zona di Pieve Fosciana (Lucca)
Figura 4. Lipoproteina
Figura 5. Trasporto dei trigliceridi e del colesterolo
Figura 6. Schema della sintesi de novo degli acidi grassi
+7

Riferimenti

Documenti correlati

Per riguadagnare la fiducia del consumatore e per evita- re qualsiasi inganno è necessario istituire un sistema di identificazio- ne e di registrazione dei bovini nella fase

Certificazione di qualità di prodotti ortofrutticoli freschi e trasformati di interesse del territorio della provincia di

Qualità e caratteristiche nutrizionali dei prodotti ottenuti da allevamento biologico di bovini in area

Ottimizzazione dei sistemi di alimentazione degli ovini da latte: effetti dell'introduzione degli insilati nei piani alimentari e riflessi sulla.. produttività e sulle caratteristiche

1.valutare la possibilità di utilizzare alimentazione ad libitum per i suini all’ingrasso allevati all’aperto 2.valutare i principali parametri di qualità dei prodotti

Definire le rese alla macellazione e le caratteristiche organolettiche della carne caprina sia fresca che trasformata; verificare la possibilità di utilizzare le carni di giovani

Nelle fasi connesse alla riproduzione il contatto diretto con gli animali è molto più intenso rispetto all’ingrasso, dato che sono molte e frequenti le manovre da compiere:

mente molto sensibili alle più comuni malattie, ha portato alla distruzione della quasi totalità degli im- pianti e da allora la produzione non si è più ripresa, pur mantenendo