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Sulle tracce del Dio. Teonimi ed etimologia in Plutarco

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SCUOLA NORMALE SUPERIORE

CLASSE DI SCIENZE UMANE

A.A. 2016‒2017

Tesi di perfezionamento in

Discipline filologiche, linguistiche e storiche classiche

SULLE TRACCE DEL DIO.

TEONIMI ED ETIMOLOGIA IN PLUTARCO

Relatrice: prof.ssa MARIA SERENA MIRTO

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INDICE

INTRODUZIONE...7

PARTE PRIMA. Etymologia Graeca...27

1. Etimologia antica, etimologia moderna: caratteri e differenze...27

2. La nascita della tecnica etimologica: l’epica...35

a) Omero...35

b) Esiodo...41

c) Inni omerici...46

3. Teologia del nome: esperienze etimologico-religiose da Omero a Platone...48

4. Il consolidamento della mentalità allegorico-etimologica: la fase platonico-stoica...60

PARTE SECONDA. Al centro del mondo. Plutarco e gli dèi greci...77

I. Sulle tracce del dio...77

1. Tempo, consuetudine, eternità, memoria...89

2. Spazio e molteplicità...97

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4. Etimologie scientifiche, retoriche, filosofiche, teologiche...134

a) Hestia...137

b) Le Muse: conoscenza ed etica...142

b.1) Il nome Muse...142

b.2) I nomi delle Muse...144

c) Apollo e Dioniso...152

c.1) Apollo e il ‘monoteismo’ plutarcheo...153

c.2) Apollo nel De E...161

c.2.1) La prima ipotesi...164

c.2.2) La seconda ipotesi...172

c.3) Apollo e Dioniso...181

5 Conclusioni: indagine onomastica, limiti del linguaggio, presenza divina...195

PARTE TERZA. Mondi paralleli. I Greci e le altre culture...199

Dominio e subalternità, e ritorno...199

I. Sezione prima. Nomi stranieri, saggezza greca. I teonimi barbarici...201

1. Introduzione...201

2. Lo Zeus di Caria...205

3. Ebraismo e dionisismo...206

4. Teonimi egiziani...215

a) Iside e Teti, Seth e Tifone...219

b) Nomi bilingui e dèi bifronti: Anubis, Sarapide, Osiride...228

c) Horos e Harpocrates...234

5. Conclusioni sui teonimi barbarici...239

II. Sezione seconda. Dalla periferia dell’impero. I teonimi romani...241

1. Ossequio e appropriazione culturale: gli intellettuali Greci e Roma...241

2. Plutarco e gli etimologisti latini tra teoria e prassi...249

3. Teonimi latini...257

3.1. Le etimologie dei teonimi nelle Vitae: le origini di Roma...259

a) Rumina...259

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7

INTRODUZIONE

ὁ δὲ πατὴρ τὸν Πεμπτίδην ὀνομαστὶ προσαγορεύσας ‘μεγάλου μοι δοκεῖς ἅπτεσθαι’ εἶπεν ‘καὶπαραβόλου πράγματος, ὦ Πεμπτίδη, μᾶλλον δ’ ὅλως τὰ ἀκίνητα κινεῖν τῆς περὶ θεῶν δόξης ἣν ἔχομεν, περὶ ἑκάστου λόγον ἀπαιτῶν καὶ ἀπόδειξιν. ἀρκεῖ γὰρ ἡ πάτριος καὶ παλαιὰ πίστις, ἧς οὐκ ἔστιν εἰπεῖν οὐδ’ ἀνευρεῖν τεκμήριον ἐναργέστερον ‘οὐδ’ εἰ δι’ ἄκρας τὸ σοφὸν εὕρηται φρενός’·1

È questa la celebre risposta di Plutarco al più grave interrogativo che si possa porre a un sacerdote: cosa ci garantisce che gli dèi che veneriamo corrispondano all’immagine che noi ne abbiamo e che i sacrifici, le preghiere, i riti abbiano davvero validità ed efficacia e non siano invece frutto di un inganno collettivo? È nella πίστις consolidata dalla tradizione che va ricercato il fondamento della religione greca, ribatte il sacerdote delfico, con un’apparente tautologia. Se si volesse generalizzare la posizione di Plutarco, se ne dedurrebbe il cortocircuito di una cultura che si sente in trappola: incapace di proiettarsi verso il futuro, è condannata a ritornare su se stessa, stretta da ogni lato da domande che rischiano di minarne la stabilità. A ben guardare, nulla più che un atto di volontà può salvare il secolare patrimonio di credenze e abitudini su cui si regge il politeismo ellenico. Il lessico impiegato da Plutarco rivela infatti la precarietà del suo punto di approdo: τεκμήριον, δόξη, πίστις sono tutti termini connessi con la sfera dell’opinione e della congettura e denunciano l’intrinseca debolezza degli strumenti gnoseologici umani quando affrontino la natura del divino. Tuttavia, il dubbio non tocca tutti gli intellettuali greci nella medesima forma, o almeno non tutti lo esplicitano con altrettanta franchezza. Elio Aristide, spirito inquieto non meno di Plutarco, sosterrà ad esempio che conoscere gli dèi significa sapere ciò che un dio ha il potere di fare e ciò che un dio dona agli uomini: in questo si scorge la sua essenza e di questo si deve accontentare l’uomo comune – perciò Aristide aggiunge che il compito di indagare la natura degli dèi si può tranquillamente lasciare ai sacerdoti e ai sapienti

1 Amat. 756 A-B: «Mio padre allora disse, rivolgendosi a Pemptide per nome: “Mi sembra che tu, o

Pemptide, tocchi una questione grande e rischiosa, anzi che smuovi nel loro complesso le immutabili fondamenta dell’opinione che abbiamo riguardo agli dèi, se pretendi per ciascuno una spiegazione razionale e una dimostrazione. È sufficiente l’antica fede patria, rispetto alla quale non è possibile pronunciare né reperire una prova più evidente, “neppure se si arrivi alla conoscenza attraverso le acutezze dell’ingegno”».

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egiziani2. Il profilo intellettuale da cui Aristide prende le distanze si attaglia invece a Plutarco3, pur nell’apparente affinità dei loro presupposti. Entrambi prendono le mosse da un’impostazione descrittiva del divino, a partire da ciò che del dio si può riconoscere, ma la posizione di Plutarco è assai più profonda e articolata di quella di Aristide, che semplicemente rinuncia a indagare la dimensione che si trova al di là del dato tradizionale e ne è la motivazione.

Plutarco introduce un concetto innovativo, che è verosimilmente frutto della sua personale riflessione. Essa muove dal dubbio di matrice scettica da cui, possiamo esserne sicuri, anche Plutarco deve essere stato almeno scalfito nella sua vita4, e che nell’Amatorius è incarnato dal razionalista Pemptide, in risposta al quale Plutarco espone la sua teoria. Il dialogo rende conto del travaglio interiore dell’autore, che con la massima lucidità fa i conti con il problema dell’ateismo, definito altrove un “male della ragione”5

, da cui dunque Plutarco stesso non poteva dirsi immune. Quale appiglio è reperibile nel tumultuoso mare dell’incertezza, che non possa essere insidiato dalle acutezze della ragione scettica? La πίστις, che non è la fede in senso moderno, intesa come “affidamento di sé” verso qualcosa di altrimenti indimostrabile6, ma al contrario è il fondamento di un’evidenza inconfutabile. A partire dai fenomeni esperibili, quali i racconti mitici, i costumi religiosi, i nomi degli dèi tramandati dalla tradizione, essa testimonia una relazione, incontestabile nella sua evidenza, tra gli uomini e il divino.

2 Ael. Arist. In Serap. 15: Ὅστις μὲν δὴ καὶ ἥντινα τὴν φύσιν ἔχων ἐστὶν ὁ θεὸς ἱερεῦσί τε καὶ λογίοις

Αἰγυπτίων παρείσθω λέγειν τε καὶ εἰδέναι, ὅσων δὲ καὶ οἵων ἀγαθῶν αἴτιος ἀνθρώποις δείκνυται, ἀρκούντως τ’ ἂν ἐγκωμιάζοιμεν ὡς ἐν τῷ παρόντι λέγοντες καὶ ἅμα καὶ τὴν φύσιν αὐτοῦ διὰτῶν αὐτῶν τούτων ἔξεστιν ἐπισκοπεῖσθαι. ἂν γὰρ ἃ δύναταί τις καὶ διαδίδωσιν εἴπωμεν, καὶ τὸ ὅστις ἐστὶ καὶ τὸ ἥντινα ἔχει τὴν φύσιν σχεδὸν εἰρήκαμεν. οὐ γὰρ ἀλλοῖός ἐστιν ἢ οἷος ἐκ τῶν ἔργων ἐπιφαίνει καὶ δείκνυται.

3 Il riferimento ai sacerdoti egiziani è motivato in prima istanza dall’oggetto della lode di Aristide,

Sarapide, ma al lettore greco non poteva non venire alla mente anche il De Iside et Osiride di Plutarco.

4 Babut 1994b coglie questo movimento, ma manca di individuarne lo snodo centrale, la svolta in un certo

senso ‘fenomenologica’ cui Plutarco approda negli anni della maturità ed è forse troppo rigido nel parlare di «dépassement de la raison», poiché non è un abbandono della ragione, ma un suo diverso indirizzo quello che Plutarco mette in atto.

5 Cfr. § la sezione Sulle tracce del dio.

6 Van Kooten 2012, dopo avere presentato uno spoglio di tutte le occorrenze del termine nei Moralia,

sostiene a ragione che il concetto di πίστις in Plutarco vada apprezzato nella varietà di sfumature che esso implica nella cultura antica e non vada decostruito secondo uno spirito illuministico: «it also belongs to the domain of philosophy—as we have seen particularly in the present section—and for that reason often occurs together with philosophical and cognitive vocabulary. Not only can philosophical doctrines confirm expressions of πίστις, but particular philosophical views are also the object of faith and are, conversely, reinforced by initiation into the mysteries. Faith and philosophy are thus interrelated. [...] The notion of πίστις is deeply rooted in the relational sphere of trust and is also at home in the domain of rhetorical persuasion» (232).

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Essa è τεκμήριον ἐναργές, espressione in cui l’accento non va posto sul valore probabilistico della “prova”, ma sul suo carattere visibile7

, ovvero sul fatto che essa si dia costantemente nell’esperienza degli uomini: non a caso, la conseguenza della δεισιδαιμονία, l’altro male della religiosità contro cui Plutarco si scaglia, è proprio di “accecare” la fede (τυφλοῦν τὴν πίστιν), come la cispa davanti agli occhi8

. Quella che per Platone era una forma di conoscenza debole9, diviene per Plutarco il cardine di un pensiero rigoroso, che riconosce nella πίστις non la natura del vero, ma una struttura ricorrente, un modo in cui l’essere umano, a ogni generazione, si pone in rapporto con la divinità. Il passo successivo verso il riconoscimento che se ciò esiste, allora deve avere una sua motivazione logica non meno reale, è breve, tanto più che Plutarco si muove in una concezione teleologica provvidenziale dell’agire umano, ma non è questo l’elemento di maggiore originalità del suo pensiero. Non di meno, la teleologia plutarchea non indossa mai i panni del “progresso” verso l’obiettivo e nella sua analisi dell’anima umana mancano riferimenti a un destino oltremondano collocato in un “dopo” definitivo e inalterabile10

.

La πίστις è tuttavia anche un atto di volontà, per il quale l’interprete attiva il potenziale simbolico degli oggetti della sua ricerca e fa sì che essi rivelino una dimensione che sta al di là del visibile. Dal riconoscimento della πάτριος καὶ παλαιὰ πίστις come struttura costante nella vicenda umana assume dunque un rilievo inedito il rapporto con il passato, che non deve essere a nessun costo appiattito, nel caso di Plutarco, su un asfittico rimpianto per l’antica gloria della Grecia, perduta assieme all’indipendenza politica, perché in un certo senso trascende la storia stessa. Se è vero che Plutarco è attento a cogliere il carattere storico delle manifestazioni dell’agire umano, è altrettanto vero che il suo senso complessivo per lui non si esaurisce nella storia. Allo stesso modo, il fatto che la fede negli dèi esista non significa che essa sia sempre stata improntata alla

7 L’aggettivo ἐναργής nell’Iliade e nell’Odissea è connesso con le manifestazioni degli dèi in forma

corporea; esso può anche designare i sogni e altre manifestazioni soprannaturali.

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verità in ogni singola fase storica e per ogni popolo, ma essa dimostra piuttosto che una verità esiste, ed è proprio il dio a garantire che l’incontro con gli uomini pii si svolga nel suo solco11. Si può dire, a un primo livello, che la fede tramandata dai padri, consolidatasi nei culti e negli appellativi, costituisce uno sprone affinché la ragione, in accordo con essa, corregga le contraddizioni che l’uomo stesso ha creato con le sue false interpretazioni12. Ciò che si riceve νόμῳ va comunque sottoposto al vaglio della ragione13, che non svolge un ruolo passivo nel rapporto con ciò che è trasmesso in eredità dagli avi. Non bisogna però credere che Plutarco sia un razionalista tutto d’un pezzo, che escluda dal suo panorama qualunque manifestazione “irrazionale” – egli è anzi consapevole che non tutto ciò che si può spiegare con la logica è per questo irrazionale. Pemptide, razionalista “puro”14, è escluso dall’accesso alle verità prime, in quanto non è iniziato ai misteri del dio Eros. Plutarco lo riafferma in diverse occasioni: si tratti del “vero isiaco”, del seguace di Eros o dell’affiliato ai riti segreti di Dioniso (Plutarco assommava in sé tutte e tre queste figure, per non sbagliare), solo l’iniziato è capace, oltre che degno, di andare oltre il fenomeno e cogliere la sua motivazione metafisica, attraverso una filosofia tinta di misticismo.

Nel pensiero di Plutarco emerge dunque un secondo livello nel rapporto con il passato cui bisogna guardare senza pregiudizi15. La conoscenza ha per Plutarco, come del resto per Platone, una forte componente anamnestica: πολλάκις εἰς ταὐτὸ τῷ μανθάνειν τὸ ἀναμιμνήσκεσθαι καθίστησιν16

. Ciò vale a maggior ragione in ambito teologico, là dove Plutarco pone il processo anamnestico sotto il patrocinio del dio del desiderio, Eros. Il

11 Cfr. § la sezione Teonimi egiziani. 12

Plutarco sintetizza così le componenti della ricerca teologica: λύσεις ἐπιζητεῖν τὴν δ’ εὐσεβῆ καὶ πάτριον μὴ προΐεσθαι πίστιν (De Pyth. or. 402 E). Cfr. Babut 1994b, Burkert 1996.

13 De Is. 352 C.

14 Frazier 1999, 352n34, nota molto correttamente che «dans notre texte, la “raison” de Pemptidès n’est

pas la raison philosophique: c’est la ratiocination de l’athée».

15 Andando oltre le pur validissime analisi di Whitmarsh 2001 e di Klotz 2011, che si concentrano

principalmente su elementi del rapporto con il passato inteso come paideia, traendone anche conclusioni interessanti, come nel caso di Whitmarsh rispetto a una «secondary society» in cui la ricerca spasmodica di un modello antico determinerebbe lo sviluppo di nuove forme letterarie e il consolidamento di una pratica dell’imitazione, con ricadute ideologiche rilevanti, tra I e II secolo.

16 QC II, proem. (629 E): «spesso il ricordare conduce al medesimo risultato dell’apprendere». Per un

inquadramento del proemio nell’economia delle Quaestiones convivales, vd. Kechagia 2011b; riguardo al tema della conoscenza come memoria, si ricordino le discussioni platoniche in Phaed. 72e-77a e Meno 81c-85d. Colpisce che il binomio Mnemosyne-Pistis ricorra nel pitagorismo antico, precisamente nella speculazione di Filolao (DK 44A13), secondo il quale Pistis era la decade (ὅτι κατὰ τὸν Φιλόλαον δεκάδι καὶ τοῖς αὐτῆς μορίοις περὶ τῶν ὄντων οὐ παρέργως καταλαμβανομένοις πίστιν βεβαίαν ἔχομεν), Mnemosyne la monade.

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dio è qualificato come ἀνάμνησις, poiché contrastare l’oblio in cui cade l’anima incarnata è indubbiamente la sua funzione più importante17. La πίστις si rivela selettiva, nel senso che non qualunque cosa può essere oggetto di conoscenza – vengono scartate le percezioni causate ὑφ’ ἡδονῆς καὶ θαύματος18, queste ultime contra Aristotele – ma l’accento è posto sul recupero dell’antico segno tracciato dal dio nell’anima umana, che nel mondo sensibile si può percepire nell’ἴχνος τι τοῦ θείου19. È l’ambito teologico il campo in cui bisogna concentrare gli sforzi della filosofia, poiché da esso discende di conseguenza tutto il resto. L’indagine assume le vesti del ricordo, poiché l’azione benefica del dio nel mondo viene delineata come un ripristino dell’integrità perduta a seguito dell’incarnazione. La fede di Plutarco prevede dunque una componente attiva, di ricerca e scavo delle tracce del divino, attraverso le quali l’uomo può orientarsi e riprendere le fila di un rapporto traumaticamente interrotto sulla terra, e una componente passiva, di affidamento alle cure del dio, che guarisca la ferita dell’oblio mondano: ἂν μὴ τύχῃ θείου καὶ σώφρονος Ἔρωτος ἰατροῦ καὶ σωτῆρος, qualora si incontri il divino e temperante Eros, medico e salvatore, l’uomo potrà tenere sotto controllo ciò che è eccessivo nelle passioni e guarire la propria anima per tornare infine (è il caso di dirlo) all’origine20

. Ma Eros (come Iside) è appunto il desiderio e non la sua realizzazione; Plutarco lo divinizza, in controtendenza rispetto alla tradizione ellenica21, poiché in esso riconosce il motore dell’avvicinamento umano al trascendente, lo strumento di rammemorazione e slancio verso la pienezza perduta nella materia, che merita di essere posto al centro degli sforzi umani di assimilarsi al divino22.

Come si innesca il processo di “desiderio regressivo” e quale ruolo giocano in esso le «tracce del divino», che comprendono naturalmente i nomi degli dèi? La nascita al mondo è, secondo Plutarco, una punizione, dovuta a una debolezza intrinseca della ragione di alcune anime (ἀσθενείᾳ λόγου) e all’incontinenza di altre, ovvero alla voglia di soddisfare il loro desiderio materiale (τῷ ἀκολάστῳ δεομένη [scil. ἡ ψυχή] ποθεῖ τὰς ἐπιθυμίας συρράψαι)23

, desiderio per così dire “progressivo” che porta però a una

deminutio: «Geburt bedeutet Abstieg»24. Venire al mondo è un indebolimento della

17 Amat. 764 E. 18 Amat. 764 F.

19 Si veda § la sezione Sulle tracce del dio. 20

Amat. 764 F.

21

Cfr. Padovani 2015 b, 542 ss.

22 Su questo concetto vd. Becchi 1996 e Froidefond 1987, 210-211. 23 De sera 565 D.

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ragione, ma è soprattutto una forma di oblio. Nella visione di Plutarco, impregnata di platonismo ma anche di concezioni misteriche, il destino dell’anima è conteso tra due desideri e due forme di memoria e di oblio contrapposte: a ogni ciclo di incarnazione e disincarnazione, l’anima giunge al Λήθης τόπος25

, presieduto dal dio Dioniso, patrono dei misteri, figura di raccordo tra uomini e dèi; qui l’anima puramente intellettuale può dimenticare la sua esistenza mortale e assecondare il desiderio di ricongiungersi alla divinità, mentre l’anima ancora bramosa delle seduzioni della materia è destinata a incarnarsi nuovamente in un corpo mortale e a obliare ciò cui davvero dovrebbe tendere. La nascita, γένεσις, è – con acuta interpretazione etimologica – νεῦσις ἐπὶ γῆν, un accondiscendere alla materia, carattere comune a tutti gli esseri umani viventi sulla terra26. A seconda del grado di purificazione conseguito dall’anima, essa sarà a ogni ciclo più o meno attratta dalla materia o dalla trascendenza, ma in essa convivranno sempre entrambi i desideri. Il problema della memoria del divino si pone sulla terra, nella dimensione corporea che ne rappresenta l’oblio, dovuto specialmente alla consuetudine al piacere e alla sensazione27. Cosa può risvegliare il desiderio latente e distogliere l’anima dall’attenzione per la materia? Appunto la traccia del divino, che è segno storico e metafisico a un tempo, testimone di un incontro remoto e tuttavia rinnovabile nel presente: essa non è, platonicamente, εἰκών della dimensione superiore, ma è designata con termini concreti come εἴδωλον, ἴχνος e, ancor più incisivamente, περίκομμα τοῦ καλοῦ28. È una concretezza paradossale, che tuttavia corrisponde all’idea

di un’anima e di una realtà partecipi dell’intelligibile almeno quanto del materico: la traccia visibile del divino, frutto del desiderio umano di mettersi in contatto con il trascendente, non è dunque meramente una copia di quella realtà, ma ne costituisce la sezione visibile, grazie alla quale si può intuire l’esistenza di un altro versante, finalmente libero dai condizionamenti della materia. Il desiderio del divino viene dunque risvegliato nell’uomo da un simbolo che stimola la propria decifrazione attraverso la memoria.

25 De sera 566 A.

26 De sera 566 A e fr. 178 Sandbach su cui vedi § la sezione Sulle tracce del dio. 27

Alt 1993, 129: «Das Leben ein Dasein im Käfig, aber aus Gewohnheit auch angenehm. Dennoch gibt es jenseits die Freiheit». Nella Consolatio ad uxorem 10 (611 D-E), Plutarco, dopo avere dichiarato di essere stato istruito, come la moglie, ai sacri misteri di Bacco, paragona la condizione dell’anima nel corpo a quella degli uccelli in gabbia: ὡς οὖν ἄφθαρτον οὖσαν τὴν ψυχὴν διανοοῦ ταὐτὸ ταῖς ἁλισκομέναις ὄρνισι πάσχειν· ἂν μὲν γὰρ πολὺν ἐντραφῇ τῷ σώματι χρόνον καὶ γένηται τῷ βίῳ τούτῳ τιθασὸς ὑπὸ πραγμάτων πολλῶν καὶ μακρᾶς συνηθείας, αὖθις καταίρουσα πάλιν ἐνδύεται καὶ οὐκ ἀνίησιν οὐδὲ λήγει τοῖς ἐνταῦθα συμπλεκομένη πάθεσι καὶ τύχαις διὰ τῶν γενέσεων.

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Si sottovaluta l’affinità tra Plutarco e le religioni misteriche, cui pure questi temi sono a prima vista riconducibili29. Benché sia probabilmente impossibile giungere a una conclusione soddisfacente, a causa del carattere sfuggente dell’argomento, si può delineare la traccia di un dialogo tra Plutarco e le correnti misteriche, orfiche e pitagoriche, senza cadere nell’equivoco, derivante dalla sopravvalutazione ermeneutica del trattato De Iside et Osiride, che porta a ricondurre il lessico di matrice misterico-soteriologica all’influsso delle religioni ‘orientali’, che pure sono oggetto dell’interesse di Plutarco30: i misteri esistevano in Grecia, segnatamente in ambiente delfico, ben prima dell’arrivo dei culti orientali, che trovano in quella mentalità terreno fertile, ma vengono anche adattati all’esistente, come dimostra proprio il trattato plutarcheo sugli dèi egiziani31. Benché Plutarco non si possa iscrivere nella setta orfica o in quella pitagorica32 per la sua stessa smentita in tal senso33 – per i temi del pitagorismo egli

29 Il discorso vale particolarmente per i teonimi greci, ma il tema si rivela presente anche nell’analisi dei

teonimi barbarici e persino di quelli latini. I misteri eleusini ebbero un nuovo impulso sotto Adriano e per l’intero secondo secolo; riferimenti espliciti ad essi si trovano in Plutarco, Dione di Prusa, Epitteto, Luciano, Galeno, Massimo di Tiro, Elio Aristide (vd. Humbel 1994).

30 È quasi incredibile che questa ovvia considerazione non sia mai stata avanzata esplicitamente, se si

eccettuano studi francesi ormai molto datati, in cui se non altro è presente la consapevolezza del fenomeno, mentre tale nozione sembra estranea alla critica anglosassone. Il risultato della eccessiva concentrazione sul solo De Iside è stata la formulazione di ipotesi aberranti, come quella di Bianchi 1987, 362 (in un contributo per il resto validissimo): «Plutarch, ein Gnostiker?», dove il baricentro è spostato, come si può immaginare, sull’adesione di Plutarco alle religioni ‘orientali’, specie al culto di Mitra (che non può essere eletto a perno del pensiero plutarcheo, anche perché viene citato con una certa estensione solo nel De Iside, in cui svolge una funzione complementare). Eppure già Festugière, in apertura del suo quarto volume sulla rivelazione ermetica, aveva evidenziato che il concetto di dio ignoto «ne vient pas de l’Orient, mais qu’elle résulte de traditions platoniciennes et pythagoriciennes qu’on peut suivre depuis l’Ancienne Académie» (1954, vii).

31

Vd. § la sezione Teonimi egiziani. Di diverso avviso, più erodoteo, è Diodoro Siculo (I, 96, 4-5), che infatti riconosce dietro il mito di Dioniso la figura di Osiride e dietro Demetra Iside: Dioniso e Demetra costituiscono la “coppia” nei misteri greci ma secondo Diodoro tale schema binario deriverebbe dalla leggenda egiziana (per la mediazione di Orfeo!), con un semplice cambiamento dei nomi (cfr. anche I, 23, 6-7).

32 La sovrapposizione tra pitagorismo e orfismo ha radici antiche: si trova già in Ione di Chio (DK 36 B2)

ed Erodoto (II, 81). Giamblico, nella sua Vita di Pitagora, dice che il maestro attinse abbondantemente dall’esperienza dei misteri eleusini (XXVIII, 151); vd. Lamberton 1986, 31 ss. e Burkert 1972, 166 ss. Anche la prudente analisi condotta da West 1983 ammette che nell’antichità furono frequenti forme di ibridazione tra aspetti specifici di questi tre ambiti, mentre è più problematico stabilire se pitagorismo e orfismo siano mai esistiti in forma pura o siano piuttosto categorie seriori, modellate sulle personalità mitiche dei fondatori.

33

In QC II, 3 (635 E-F) egli ricorda di essere stato sospettato di pitagorismo o orfismo (ὑπόνοιαν μέντοι παρέσχον...ἐνέχεσθαι δόγμασιν Ὀρφικοῖς ἢ Πυθαγορικοῖς) per il suo regime alimentare, ma sembra negare la sua effettiva appartenenza a tali sette. Altri punti di convergenza si ritrovano nella predilezione per il culto di Apollo, tipicamente pitagorica, ma ci si deve sempre domandare se non sia il suo ruolo di sacerdote a Delfi a indurlo a cercare convergenze con queste antiche tradizioni, piuttosto che supporre

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confessa tuttavia una giovanile infatuazione34 – egli ricorre spesso alla retorica soteriologica delle religioni misteriche, ad esempio per rassicurare un amico sulla sorte delle anime dei figli morti35, ma anche in numerose riflessioni sul carattere benefico del divino per gli uomini. Se ai suoi contemporanei i misteri paiono attraenti per il dissolvimento delle amarezze passate nella speranza di una felicità futura, Plutarco sembra maggiormente interessato a propugnare il conseguimento della felicità durante l’esistenza per mezzo della conoscenza del divino, nell’attesa del ricongiungimento, ciò che si riconosce con sicurezza nella tradizione iniziatica ellenica36. Per quanto egli sia attento a favorire l’equilibrio dell’anima umana, non pensa che questo debba essere il fine della religione, ma che ciò garantisca invece le giuste condizioni per intraprendere un percorso verso una conoscenza più certa della sfera superiore, cui l’anima partecipa nella sua componente intellettiva37: la purificazione in terra prefigura il più lieto destino dell’anima dell’iniziato nel prossimo ciclo ed è al contempo riprova della sua superiorità nel presente. A Plutarco non sta dunque a cuore l’elaborazione del vissuto individuale in sé, ma la liberazione dell’anima dai gravami della vicenda materiale perché essa possa ricongiungersi, attraverso la memoria, alla sua più alta e nobile origine. Nulla di tutto ciò sarebbe possibile senza la garanzia della benevolenza divina. L’esperienza salvifica dei misteri, non ci stupirà apprenderlo, è allora strettamente connessa con l’atto del vedere: tre volte beati saranno οἳ ταῦτα δερχθέντες τέλη secondo Sofocle38

, e nelle etimologie plutarchee relative al nome di Apollo i temi della chiarità e della manifestazione del dio si fanno ossessivi, rivelando la necessità per l’uomo di una risposta tangibile alle sue inquietudini da parte del dio. Perciò, come la memoria, anche la vista conosce in Plutarco due diversi gradi: quello dell’indagine e quello della visione che coglierà l’iniziato al culmine del suo arduo percorso verso qualcosa di cui in

una sua adesione a qualche setta sapienziale. Sappiamo invece dal De Iside et Osiride che egli era iniziato ai misteri di Dioniso (cfr. Cons. ad ux. 10, 611 D) e degli dèi egiziani.

34 Cfr. la sezione Apollo nel De E. 35

Cons. ad Apollon. 120 C ss., con un’ampia citazione pindarica e l’esplicito richiamo all’iniziazione misterica.

36 Nell’Inno omerico a Demetra i versi 478-482 lasciano intendere grandi vantaggi per gli iniziati già in

vita.

37 Si veda Baltes 2000. Nota Sergio Givone, nella prefazione a Rohde 2006, vi: «Mentre ignoriamo che

cosa sia “anima” per i Greci in senso religioso, sappiamo che cosa invece essa sia in senso filosofico. Si tratta del principio spirituale che rende gli uomini capaci di partecipare dell’essenza divina del mondo e quindi li fa simili agli dèi».

38 Fr. 837 Radt, tramandato proprio da Plut. De poet. aud. 21 F, dove l’autore sembra contrariato per la

promessa sofoclea della felicità soltanto dopo la morte (ma sui problemi testuali del passo plutarcheo vd. Hunter-Russell 2011 ad locum).

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principio non ha piena contezza. In un certo senso, il linguaggio dei misteri fornisce a Plutarco una struttura riconoscibile di sostegno alla sua indagine, che prende le mosse dalle tracce ‘visibili’ del dio e conduce alla sua natura ineffabile.

Plutarco è infatti conscio che ciò che è invisibile e indicibile risulta spaventoso per l’uomo e forse lo è per lui stesso39

. Non a caso egli distingue implicitamente due livelli nella conoscenza del divino, riservando ai soli iniziati l’avvicinamento al dio ineffabile, ma ponendo alla base del processo qualcosa di visibile e concreto, che sia di sostegno alla fede e non spaventi gli esseri umani, ma li rassicuri rispetto alla volontà divina di una comunicazione con loro. Plutarco si rivela non soltanto un pensatore profondo e originale, ma anche un acuto psicologo della religione, vivendo verosimilmente in prima persona l’angoscia del fedele di fronte al mistero del divino. L’ansia di comprendere e razionalizzare la natura degli dèi non lo conduce certo alla presunzione teurgica di potere controllare parti della divinità o creature demoniche in virtù di formule, preghiere, riti; per quanto questi canali di comunicazione materiali forniscano un aiuto prezioso sulla strada della conoscenza, egli sa anche che non tutti hanno lo stesso potenziale simbolico: ‘πολλαῖς γὰρ οἱ θεοὶ μορφαῖς’ οὐ ‘σοφισμάτων’ ὡς Εὐριπίδης φησίν, ἀλλὰ πραγμάτων ‘σφάλλουσιν ἡμᾶς’40, poiché la ragione “pura”

conduce piuttosto a un distacco dalla divinità, mentre è nella cattiva interpretazione dei simboli, o in una loro selezione non accurata, che si annida l’errore, così come è sconveniente ἀποφαίνεσθαι, asserire qualcosa di certo, su simili questioni. È bene attenersi a τὰ νενομισμένα, poiché nella tradizione l’uomo ritrova da generazioni elementi capaci di risvegliare in lui il desiderio del divino. Non di meno, è proprio del divino nella sua manifestazione sublunare essere “detto” e “fatto”, avere un nome, essere oggetto di racconti e godere di riti in suo onore. L’oggetto di analisi di questa tesi consiste specificamente nel modo in cui Plutarco considera il divino in quanto “detto” attraverso nomi ed epiteti41, e nelle relative interpretazioni etimologiche che l’autore elabora di volta in volta.

39 Nel De sera 564 F la spaventosa punizione delle Erinni consiste nell’essere scagliati in un luogo

invisibile e privo di nome.

40

De def. or. 431 A: «Gli dèi infatti, come dice Euripide, ci ingannano attraverso molte forme non di ragionamenti, ma di fatti».

41 Il nome nasce per denotare, l’epiteto per connotare e qualificare, ma di frequente, nell’interpretazione

di Plutarco (ma in genere nella prassi cultuale greca), alcuni epiteti finiscono per essere equivalenti ai nomi.

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Lo sfondo di mentalità è costituito da quelle che Cleante sembra avere chiamato κλήσεις ἱεραί42, gli appellativi impiegati negli inni che ‘riconoscono’ gli dèi con il loro vero

nome e li spingono ad accondiscendere alle richieste degli uomini43, ma non bisogna dimenticare che le opere di Plutarco rappresentano una realtà esterna al culto e costituiscono pertanto un momento di razionalizzazione del sacro, benché secondo parametri gnoseologici non del tutto scevri di misticismo, da cui è esclusa qualunque forma di divina mania e di invasamento furente. Ciò che interessa a Plutarco, attraverso l’analisi di molti teonimi greci, barbarici e romani nelle sue opere, non è dunque raggiungere il contatto diretto con la divinità, ma illustrare le possibilità e i limiti di questo contatto, in base alle diverse tradizioni religiose, che si rivelano più o meno adatte al compito. Nel nome divino, secondo la felice intuizione di Hermann Usener, si cristallizza in una «conclusione provvisoria»44 la storia della formazione di un concetto, che l’analisi di Plutarco si sforza di ricostruire, perché il simbolo esprima tutto il suo potenziale. Per questo l’indagine sulla prassi etimologica di Plutarco assume anche il valore di contributo alla storia culturale del “simbolo”, inteso non tanto come atto passivo di lettura45, ma come strumento attivo di comprensione dell’esperienza umana, specificamente nella ricerca di un contatto con il divino e di una decifrazione della dimensione sovrumana46: insomma, come sede di una relazione. Manca in Plutarco una concezione analoga a quella orfica e pitagorica (e per certi versi anche platonica) che attribuisca a una auctoritas semidivina l’invenzione dei nomi, in cui un mitico onomaturgo avrebbe riposto gli arcani del cosmo47, a garanzia della loro veridicità; vi è

42 SVF I, 538.

43

Così Boyancé 1962, 471.

44 Usener 2008, 45.

45 Rispetto allo studio di Struck 2004, lettura peraltro illuminante per comprendere lo sviluppo del

simbolico nella letteratura antica, il mio obiettivo è evidenziare il ruolo del simbolo (escusivamente onomastico) nella formazione di un metodo di conoscenza del divino; la mia analisi limiterà dunque ai teonimi la gamma dei simboli presi in esame, ma d’altro canto esulerà da una loro considerazione interna ai soli testi letterari, cercando di definirne il ruolo nel pensiero e nell’esperienza religiosa dell’autore, nonché il loro impatto sull’impianto generale della teologia greca.

46 Struck (2004, 90-96) ritiene il simbolo, inteso come enigma interpretabile, una cifra caratteristica della

comunicazione divina, in quanto il termine symbolon porta in sé «a notion of meeting, as in bumping into someone or something».

47 Il contributo delle sette orfiche, pitagoriche e misteriche è di ardua definizione nella storia

dell’etimologia antica e fa perno essenzialmente sul papiro di Derveni, cui qui è dedicata qualche pagina, nella sezione relativa alla fase platonico-stoica (si veda anche Fresina 1991, 137-148, che si concentra sul rapporto tra etimologia e mentalità arcaica); una discussione dell’influenza che i misteri ebbero verosimilmente sulla concezione onomastica di Plutarco è sviluppata nella sezione relativa ai nomi di Apollo e Dioniso. Da rifiutare la posizione di Hardie 1992, 4782: «Plutarch’s ubiquitous use of

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invece la coscienza acuta di un processo storico di formazione dei teonimi, tuttavia tenacemente sostenuto dalla fede nella motivazione retrostante la forma: la fede si configura allora come un atto di razionalizzazione per ricondurre a unità e coerenza logica ciò che nell’esperienza comune sfugge e appare confuso, o è semplicemente frutto di sensibilità diverse, accomunate tuttavia nei secoli dal “richiamo” del divino. Nell’Alcibiade II Platone aveva messo in guardia gli uomini dal formulare richieste ambigue agli dèi nell’atto della preghiera, poiché le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili, non perché gli dèi siano malvagi, ma per un difetto di comunicazione da parte mortale. L’assunto è che il divino sia sostanzialmente inconoscibile. Plutarco, nonostante protesti la medesima incertezza, pone invece dei punti fermi, sia sotto il profilo teologico che sotto quello psicologico (la sua qualità di psicologo del sentimento religioso è stata spesso trascurata, mentre è uno dei dati più interessanti del suo pensiero): la presenza del divino nel mondo è visibile ed è positiva, e i nomi degli dèi a cui si rivolgono le preghiere confermano la benevolenza della natura divina; gli eventi negativi sono causati dai nefasti condizionamenti della materia oppure, come nel caso di Alessandro Magno48, dall’ignoranza presuntuosa degli uomini. Per chi abbia l’umiltà di porsi sulle tracce del dio, non mancheranno i riscontri della sua presenza nella vita umana, con una funzione benefica e rassicurante49. L’interpretazione etimologica assolve il ruolo di dimostrare fondata la fede nella bontà divina e di approfondirne i contenuti, poiché ogni nome rivela aspetti diversi della natura trascendente.

Se anche per Plutarco, in linea con la tradizione precedente, vale dire che l’interpretazione etimologica è uno “strumento”, l’analisi del suo pensiero rivela però una concezione della lingua sensibilmente diversa da quella dei suoi predecessori, in tratti non marginali. Non si troverà nelle sue opere un’asserzione simile a questa del Socrate platonico: Οἶσθα ὅτι ὁ λόγος τὸ πᾶν σημαίνει καὶ κυκλεῖ καὶ πολεῖ ἀεί, καὶ ἔστι διπλοῦς, ἀληθής τε καὶ ψευδής.50

Il λόγος plutarcheo, facoltà connaturata nell’essere

etymology to support an interpretation may owe something to the Pythagorean belief in a primeval ‘giver of names’».

48 Cfr. la sezione Satiro nella Vita di Alessandro.

49 I5.104 149.4erlutarco è9.4er2(as)-9(s)3(en)-7(te)] TJETBT1 0 0 1 180.98 133.22 Tm[( )] TJETBT1 0 0 1 184.58 133.22 Tm[(lo)-4( )-ercrupolo roprio i ssimo i iro ispetto scarsa moralità elle

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umano, non è circolare né duplice, ma è d’aspetto molteplice, frammentato sotto il profilo spaziale e cronologico. Può sembrare strano, ma un autore così attento a cogliere il carattere simbolico dei nomi quale è Plutarco si sofferma per il resto molto raramente a riflettere sulla logica e sulle caratteristiche del linguaggio; dimostra un interesse specifico soltanto verso la lingua tecnica della mantica e verso quei particolari prodotti della lingua che sono gli ὀνόματα divini, ma amplia i propri orizzonti grazie alla consapevolezza dell’esistenza di altre lingue, diverse dal greco, che in almeno due casi (egiziano e latino) cerca anche di imparare. Il suo rapporto con il linguaggio è per certi versi meno legato alle antiche categorie filosofiche e più improntato al contatto diretto ed esperienziale con le lingue parlate, senza che questo comporti la rinuncia a un più complesso quadro di riferimento. In effetti Plutarco non è un tecnico della filosofia, ma è un tecnico della religione e per molti aspetti il suo impegno intellettuale si serve di alcuni elementi della filosofia platonica per altri scopi, legati a problemi della religiosità del suo tempo51. Plutarco parte dalla realtà contemporanea, descritta da Luciano qualche decennio più tardi (ma già Erodoto ne era consapevole): in ogni paese, gli uomini imparano a conoscere per prima cosa la lingua locale e gli dèi epicori – καὶ φωνῆς ἐνταῦθα ἤρξατο τὰ ἐπιχώρια πρῶτα λαλεῖν μανθάνων καὶ θεοὺς ἐγνώρισεν52

. Questa non è un’opinione, ma un dato di fatto che Luciano documenta in base alla sua esperienza personale; le figure divine trovano un fondamento, o almeno una corrispondenza, nel codice linguistico entro il quale vengono nominate e anche un

51 Negli ultimi anni, si è tentato meritoriamente di valorizzare l’originalità del Plutarco filosofo (in Italia

specialmente ad opera di Franco Ferrari), che si esprime essenzialmente nella sua opera di esegeta delle opere platoniche, secondo le movenze tipiche di una società attenta a calibrare le proprie parole prendendo le mosse dagli idoli del passato greco mitizzato. C’è però un rischio implicito in questa operazione: l’eccessiva insistenza sulla ricerca di una coerente impostazione filosofica da parte di Plutarco rischia di non portare ai risultati sperati, trattandosi di un erudito con una indubbia preparazione filosofica, il cui profilo è tuttavia assai più sfumato ed eterogeneo. Preferisco adottare nel suo caso una proficua distinzione generale messa a punto, in tutt’altro contesto, dai contributi della ‘scuola di Leida’ (in particolare Meijer 1981, che parla di Crizia), e considerare il nostro non tanto un ‘filosofo’ in senso classico, quanto un ‘intellettuale’, ovvero un uomo che, pur prendendo le mosse da presupposti e cognizioni filosofiche – tendenzialmente elaborate da altri, ma anche con apporti originali – utili a orientare la propria condotta, abbia come mira principale quella di influenzare la politica, o nel nostro caso la religione e la mentalità della società contemporanea servendosi strumentalmente di precetti filosofici opportunamente corretti. Non vi è nulla di riduttivo nell’apprezzare il commentatore del Timeo platonico per ciò che egli sa fare emergere dal dialogo del venerato maestro, ma è senz’altro più interessante capire il perché di un simile interesse in rapporto alle altre opere e al loro obiettivo generale – ricavare insomma un profilo ideologico dell’autore piuttosto che una teoria filosofica.

52

Luc. Patr. enc. 6: «ognunò cominciò a parlare lì, apprendendo dapprima a pronunciare le parole locali, e imparò a conoscere gli dèi». Facella 2012, 88, ricorda le diverse possibilità interpretative per il termine τὰ ἐπιχώρια, ma il senso è tutto sommato chiaro: si tratta, a suo avviso, della lingua del paese d’origine dell’autore, e mi sembra di poter essere d’accordo.

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Greco deve ormai ammettere di essere parte, seppur eminente, di una realtà culturalmente molteplice ma politicamente unitaria (quello che è stato felicemente definito «empire gréco-romain»53) e prendere atto di una pluralità di credenze (tutte ugualmente riconosciute nella compagine imperiale) ancora più intricata rispetto a quella del politeismo ellenico, già di per sé piuttosto complicata.

I Greci ebbero sempre la tendenza a riconoscere i propri dèi dietro ai nomi di quelli degli altri, ma Plutarco non può servirsi di questo procedimento nella sua forma ingenua: gli altri popoli non sono più comprimari silenziosi di una messinscena a uso e consumo degli spettatori dell’Ellade, ma godono dei medesimi diritti politici e della medesima dignità dei provinciali d’Acaia. Plutarco deve allora adottare una strategia che passa per il recupero della tradizione e della dignità della lingua greca: la tradizione, anche straniera, opportunamente raccolta in chiave quasi enciclopedica54, dimostra l’influenza greca sugli altri popoli, grazie alla riprova offerta dall’analisi etimologica dei t03>] TJETBT/F1 12 4g 0.0241.03 Tm.024 on89(dimi;[(il)-3 )--11(l47 )-9(li)-3(ng)a greca

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Plutarco con la sua opera anticipa, non solo in campo religioso, la grande revisione critica del passato greco che è alle porte, prima con la Seconda sofistica e poco dopo con il Neoplatonismo. Ma a quel punto la cultura greca starà già diventando altro e la sua millenaria coerenza imboccherà di lì in avanti la via di un graduale sfaldamento. Plutarco vive invece il necessario adattamento a una realtà plurale in cui non si è ancora consumata una frattura netta con i valori antichi. D’altro canto, il suo pensiero mostra caratteri lontani dall’altra grande revisione della cultura ellenica, quella operata dalla filologia alessandrina, anzi per molti versi ne costituisce il controcanto, specialmente per quanto concerne la correzione degli eccessi razionalistici e formalistici della mentalità di quel periodo. La fase detta ellenistica aveva ridotto al silenzio anche i nomi degli dèi, le cui figure apparivano pienamente razionalizzate in concezioni come quella evemeristica, ma anche nella poesia e nella filosofia di scuola, per non dire dei commentari filologici ai poemi omerici e dell’ansia di normalizzazione ivi riscontrabile. Plutarco si misura con il problema di selezionare e rimodulare gli strumenti concettuali elaborati nei secoli dal pensiero greco per affrontare la questione del divino: è necessario correggere le questioni poste in una maniera sconveniente, smussare gli aspetti legati a un passato che non si può riproporre identico, riflettere criticamente sugli elementi in cui si potrebbe annidare l’origine dell’errore (in quest’ottica si spiega la sua accanita disputa con l’epicureismo). La strada da lui percorsa, sebbene lasci intravedere un sottofondo platonico, è sostanzialmente originale: mescolando nell’analisi dei teonimi dimostrazione razionale e fede, scavo etimologico e appello al dato extralinguistico, rispetto per la tradizione ellenica e interesse per gli altri popoli, Plutarco forma un metodo destinato a una ben scarsa fortuna, probabilmente a causa del suo carattere idiosincratico. La sua figura accoglie e sintetizza le tensioni tra razionalizzazione etica del divino e abbandono misterico alla sua natura segreta, ricerca di un fondamento visibile per la fede e speculazione astratta, desiderio di esprimersi filosoficamente e capacità di penetrazione psicologica del sentimento religioso, tra slanci verso una concezione personalistica del divino e tentativi di salvare la configurazione politeista, pur depurata dagli elementi antropomorifici viziosi e inquietanti; e ancora tra fierezza per l’identità greca e sincera curiosità antropologica verso tradizioni differenti, non ultima quella dei dominatori romani.

In quanto greco della élite, Plutarco può permettersi un atteggiamento abbastanza libero rispetto alle tradizioni religiose romane: lo stesso sguardo schietto e a tratti critico si trova già in Cicerone, per citare l’esempio più illustre. Roma è un termine di confronto

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ineludibile, non necessariamente in negativo. Se la polemica contro la δεισιδαιμονία ricorda incredibilmente i toni dell’invettiva ciceroniana contro la superstitio, si può dire che nella mente di Plutarco, che pure è attento a riconoscere le specificità religiose di ciascun popolo, il paradigma greco-romano che sta alla base della ‘romanizzazione’ della religione delle province55 possa essere facilmente volto a vantaggio della tradizione greca; di essa si possono additare la superiorità e la maggiore profondità rispetto a quella latina, qualora si persuadano le migliori intelligenze, tra i provinciali ma anche tra i Romani, dell’originaria grecità dei caratteri più validi della religione latina. Nell’incontro inevitabile con la cultura romana, Plutarco indossa spesso gli abiti del padrone di casa che accoglie benevolmente gli ospiti latini, i quali rivelano una impressionante affinità con le sue posizioni quando si parla di religione. L’armonia è un’arma insidiosa nelle mani di Plutarco, che sa farne il perno per una grecizzazione inattaccabile della romanità. Nonostante le apparenze, è quindi difficile parlare di effettivo universalismo plutarcheo, anche se non si può escludere che, almeno all’interno della sua cerchia, vi fosse una certa omogeneità di vedute tra Greci e Romani, al di là delle rappresentazioni tendenziose che l’autore ne offre. Il protettore romano di Plutarco, Mestrio Floro, diede una sera un banchetto e il discorso cadde sugli eventi inspiegabili razionalmente, che pure avvengono. Il romano dimostra un’incredibile affinità con il pensiero di Plutarco56

, se non in tutti i dettagli della sua impostazione filosofica, almeno nell’atteggiamento che egli sostiene si debba tenere di fronte al meraviglioso; ragiona propriamente ‘alla greca’. Il dubbio, che genera la filosofia, nasce là dove la logica non è in grado di offrire risposte soddisfacenti rispetto alle cause. Forse, suggerisce Mestrio Floro, si rivela erroneo lo sguardo adottato dal razionalista, poiché non tutti gli ambiti della conoscenza sono di esclusiva competenza della ragione. ὅλως δ’’ εἶπεν ‘ὁ ζητῶν ἐν ἑκάστῳ τὸ εὔλογον ἐκ πάντων ἀναιρεῖ τὸ θαυμάσιον· ὅπου γὰρ ὁ τῆς αἰτίαςἐπιλείπει λόγος, ἐκεῖθεν ἄρχεται τὸ ἀπορεῖν, τουτέστι τὸ φιλοσοφεῖν· ὥστε τρόπον τινὰ φιλοσοφίαν ἀναιροῦσιν οἱ τοῖς θαυμασίοις 55 Così Gordon 1990.

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ἀπιστοῦντες. δεῖ δ’’ ἔφη ‘τὸ μὲν διὰ τί γίνεται τῷ λόγῳ μετιέναι57, τὸ δ’ ὅτι γίνεται

παρὰ τῆς ἱστορίας λαμβάνειν.58

Quello sugli avvenimenti miracolosi è un discorso marginale, collaterale se vogliamo, ma chiude idealmente il ragionamento avviato dalla nozione di πίστις. La meraviglia, o stupore che dir si voglia, una volta che si superi lo “stordimento” iniziale di cui si parla nell’Amatorius59

(e non tutti lo superano), ha il merito di sfuggire al rigore della logica e

di aprire un dubbio, foriero di benefici per il pensiero60. Dal dubbio prende le mosse la filosofia, quella forma di desiderio che travalica l’esercizio angusto della coerenza logica, rimane aperta all’insoddisfazione e alla frustrazione, eppure è paradossalmente paga di questa sua condizione. Vi è un ambito di ricerca che compete alla sola ragione, ed è aristotelicamente la ricerca delle cause (lo stesso Plutarco perviene alla definizione della divinità suprema per questa via61); la ragione non va dunque cassata, ma aperta e, soprattutto, indirizzata. Vi sono uomini che non hanno speranza di pervenire alla conoscenza, e sono gli ἀπιστοῦντες, coloro che, non dando fede alla possibilità che qualcosa accada al di fuori della coerenza logica, si precludono un ampio orizzonte di indagine, sostanzialmente l’intera teologia. La πίστις dunque ritorna nell’argomentazione come atto di volontà, come facoltà strutturale che non tutti gli uomini attivano. Ma qual è la motivazione cui anch’essa risponde e che consente di scavalcare lo sguardo deformante della logica? È la constatazione che una cosa è accaduta proprio in quel modo, per quanto esso non quadri con le categorie della pura ragione. È l’affidamento al fenomeno, dietro il quale il filosofo-iniziato scorge il segno dell’incontro tra umano e soprannaturale: una traccia del dio. Non gli resta che cominciare a seguirla.

57 Il Turnebus corregge così la lezione dei manoscritti μετεῖναι, “partecipare”, dal significato

insoddisfacente.

58 QC V, 7,1 (680 C-D): «“In sostanza”, disse, “colui che ricerca in ogni cosa ciò che corrisponde alla

logica distrugge del tutto lo stupore: dove infatti la causa sfugge alla ragione, là comincia il dubbio, ovvero il filosofare; sicché coloro che non prestano fede allo stupore in un certo senso annichliscono la filosofia. Invece”, disse, “bisogna vagliare con la ragione il perché una cosa avvenga e accettare, in base all’osservazione, che una cosa è avvenuta”».

59 Amat. 764 F.

60 Cfr. De E 385 C e Plat. Theaet. 155 D, Arist. Met. 982b12. 61 Cfr. la sezione su Apollo e Dioniso.

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23 Metodologia, articolazione e obiettivi della tesi

L’indagine sulla prassi etimologica in Plutarco prende le mosse dalla mia tesi magistrale, dal titolo L’etimologia dei nomi divini: comparazione linguistica e religiosa

nel De Iside di Plutarco, in cui ho tentato di leggere l’opera di Plutarco dedicata agli dèi

egiziani seguendo il filo dell’analisi onomastica. I risultati di quella ricerca sono stati in parte pubblicati62 e per il resto, significativamente rielaborati, hanno fornito in questa sede la base per la sezione relativa ai teonimi egiziani. Prendendo le mosse da quell’esperienza, ho ampliato l’indagine all’intero corpus plutarcheo, seguendo il filo conduttore dell’etimologia dei nomi divini. Per la prima volta vengono qui presentate, ordinate e commentate sistematicamente tutte le etimologie dei nomi e degli epiteti divini presenti nell’opera di Plutarco, secondo un taglio argomentativo di ampio respiro. L’individuazione e la raccolta delle etimologie plutarchee nascono anzitutto da un’indagine sistematica sul vasto corpus delle sue opere. Inoltre, ho tratto giovamento (e conferme) dalla consultazione degli indici dei nomi degli dèi in Plutarco stilati (ciascuno secondo criteri, interessi e obiettivi differenti) da Strobach 1997, O’ Neil 2004 e Zucker 2016. Tuttavia, le premesse idiosincratiche della mia ricerca mi hanno portato a una presa di distanza in più punti da questi antecedenti, in particolare rispetto all’elenco di etimologie proposto da Strobach 1997, sia per sottrazione che per aggiunta. Per parte mia, ho considerato soltanto i passi in cui Plutarco dà sostegno alla sua lettura delle figure divine attraverso una interpretazione propriamente etimologica, alla maniera del Cratilo, mentre ho escluso dal mio orizzonte i casi di semplice allegoresi che non tengano conto dell’elemento onomastico, così come i casi di traduzione di un nome da una lingua straniera al greco; per converso, ho accolto all’interno del lavoro solo i passi in cui l’etimologia viene esplicitata dall’autore, o comunque in cui l’allusione a un altro termine è così evidente da non lasciare adito a dubbi; sono stato più cauto nei casi in cui l’associazione etimologica rischiava di sfociare in una sovrainterpretazione critica, rendendone conto in nota. Nella mia indagine, ho tralasciato il materiale pseudo-plutarcheo (o vi ho fatto riferimento solo in nota), poiché la presente tesi non vuole essere un elenco delle etimologie presenti nel corpus, ma un saggio interpretativo sull’uso di questo strumento analitico da parte dell’autore.

La mia ricerca nasce da una duplice insoddisfazione: da un lato, verso il pregiudizio che ancora grava sulla prassi etimologica antica, spesso considerata alla stregua di un ozioso

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passatempo; dall’altro, per l’idea che Plutarco fosse un “brav’uomo” dalle cognizioni confuse, quando non una figura irrilevante nella storia del pensiero. L’uno e l’altra sono convinzioni diffuse che rientrano nella categoria della petitio principii e si sono rivelate ancora più false alla fine della ricerca: spero di riuscire, nelle pagine che seguiranno, a renderne chiaro il perché. Il dubbio, la contraddittorietà, l’assenza di risposte sono generalmente giudicati, secondo i parametri ‘oggettivi’ e ‘sistematici’ tanto cari alla nostra epoca, in termini negativi, quando non di aperta condanna. Idola duri a morire attorno alla figura di Plutarco sono l’inconciliabilità di scetticismo e fede, una certa piattezza di pensiero, l’accusa di bigottismo, la definizione di eclettismo, che desta perplessità perché tiene in considerazione solo un aspetto esteriore dello stile dell’autore senza metterne a fuoco la mentalità. Del resto, non tutto è sempre coerente e suscettibile di un inquadramento sistematico, ma ciò non deve comportare un giudizio negativo su un’esperienza intellettuale; ciò che possiamo fare è apprezzare e fare risaltare la differenza, la singolarità del pensiero di Plutarco, consci del fatto che essa ha il suo radicamento nell’esperienza intellettuale e esistenziale dell’autore63

. L’ambizione è dunque di rendere giustizia alla complessità di Plutarco, riferendo i problemi del suo pensiero non solo ed esclusivamente al passato, ma anche alla sua contemporaneità, di cui egli si dimostra un attento osservatore e a tratti un critico. La tesi si apre con una indispensabile sezione introduttiva rispetto ai caratteri e all’evoluzione storica dell’etimologia antica, ma la maggior parte della ricerca è occupata dall’esperienza di Plutarco e dalle distinte analisi delle interpretazioni dei teonimi da lui avanzate. Partendo dalla constatazione che Plutarco si trovò a vivere in un mondo multietnico, ho suddiviso la trattazione dei teonimi su base “geografica” (greci, barbarici, latini), dopo avere evidenziato i tratti ricorrenti nella riflessione plutarchea sugli dèi e sulla lingua. La tesi è corredata di un indice dei nomi e degli epiteti divini etimologizzati da Plutarco e dei loci relativi.

Per i testi plutarchei, le edizioni critiche di riferimento da me seguite sono quelle teubneriane64, da cui mi sono distanziato ove necessario, sempre indicando la mia scelta

63 Ho trovato molte affinità con lo studio di Vernière 1977, di ampio respiro, che è centrato tuttavia

sull’uso del mito in Plutarco e non prende affatto in considerazione gli dèi latini (solo parzialmente quelli barbarici).

64 Per i Plutarchi Moralia, Leipzig 1888-1974, si considera la seconda edizione, in sette volumi, curata da

un ampio numero di studiosi e revisori (Bernardakis, Drexler, Häsler, Hubert, Paton, Pohlenz, Sandbach, Sieveking, Wegehaupt, Westman, Ziegler).

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divergente e dandone ragione. Le traduzioni dei passi discussi sono tutte mie, salvo diversa indicazione.

Plutarchi Vitae: l’edizione di riferimento rimane quella Lindskog-Ziegler, Leipzig 1914-1915, rivista ed

ampliata dallo Ziegler per la quarta edizione, stampata a partire dal 1969, cui va aggiunto il volume di indici curato da Hans Gärtner nel 1980.

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PARTE PRIMA: ETYMOLOGIA GRAECA

1. Etimologia antica, etimologia moderna: caratteri e differenze

Relativamente recente è la comparsa di studi specifici sul tema della pratica etimologica nell’antica Grecia. Mentre in ambito latino le elaborazioni teoriche e le applicazioni pratiche dell’etimologia in poesia e nella retorica hanno goduto di maggiore attenzione critica (Ennio, Varrone, Cicerone, Apuleio, Gellio, fino a Isidoro), la grecistica si è dimostrata più lenta nell’investire il problema della debita considerazione. Non che mancasse la consapevolezza dell’esistenza del fenomeno; per lungo tempo, il limite è consistito piuttosto nel non considerare l’etimologia greca come un dato storico-culturale da prendere sul serio, ma nel ridurlo a un gioco primitivo destinato a rivelare la sua inconsistenza a fronte delle luminose acquisizioni della scienza linguistica moderna. Sulla diffusissima prassi etimologica antica grava il pregiudizio per cui essa sarebbe poco seria e inaffidabile alla luce dei criteri messi a punto dalla linguistica storica. L’adozione di schemi di lettura contemporanei non può che produrre tuttavia una visione distorta di un fenomeno che per secoli ha caratterizzato il modo di considerare la realtà, tanto in ambito greco quanto in quello latino, in contesti sia poetici che filosofici, e che dunque deve essere affrontato in una prospettiva radicalmente diversa, rinunciando a proiettare all'indietro l’attuale sensibilità sulla lingua e sui meccanismi che ne guidano il funzionamento, per cogliere piuttosto le premesse e gli obiettivi dei singoli autori, se è vero che essi confidano di dare così più vigore ai loro argomenti65. Molto raramente è stata riservata attenzione critica coerente a questo ambito di ricerca nella cultura greca66. Negli ultimi trent’anni si è assistito a una significativa, benché molto parziale, inversione di tendenza: gli studi di Tsitsibakou-Vasalos67 hanno gettato luce sull’impiego dell’etimologia come tratto stilistico caratterizzante dell’epica

65

Si è ritenuto opportuno rinunciare alla stucchevole e sostanzialmente inutile distinzione tra “etimologia” e “paraetimologia”; queste etichette avrebbero la funzione di separare nettamente una seria pratica scientifica dal gusto antico per l'allitterazione e la parechesi; ma i confini tra le due categorie sono incerti e discutibili, come mostrano gli scoliasti a Omero. Non a caso i suoi versi continuano a fornire materiale prezioso agli studiosi delle epoche successive, per i quali parentela semantica e somiglianza fonica sono concetti che oscillano e spesso si confondono (un'ampia riflessione su questo problema si può vedere in Tsitsibakou-Vasalos 2007).

66

Per la Grecia, l’ultima panoramica in materia risale alla voce, molto parziale, della RE curata da Reitzenstein 1907.

67 Tsitsibakou-Vasalos 1998, 2000, 2001, 2003 e, per lo sviluppo dello stilema omerico nel genere

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omerica; Graziano Arrighetti68 ha cercato di illustrare lo sviluppo dell’analisi onomastica in Esiodo; Dawson69 ne ha messo in luce l’importanza nel contesto dell’allegoresi antica70

; anche in ambito glottologico la meritoria opera di Walter Belardi ha cercato di rendere giustizia all’etimologia antica in una equilibrata ricostruzione storica dell’interesse per le radici dei nomi nella cultura occidentale71

. L’etimologia antica, in particolare greca, poco o nulla ha in comune con il metodo storico di ricerca delle radici verbali sviluppatosi in età moderna72, ragion per cui i linguisti hanno spesso faticato a prendere sul serio le estrose derivazioni lessicali ipotizzate dagli antichi; la pratica etimologica era tuttavia diffusissima sia in Grecia che a Roma e veniva applicata da poeti, prosatori, filosofi e anche grammatici73. Questi ultimi, alessandrini e romani, coltivarono talvolta una concezione della ἐτυμολογία come pura ricerca dell’origine di un vocabolo, prescindendo dalle implicazioni semantiche74; tuttavia, per lo più la pratica antica non ricercava una radice a cui ricondurre storicamente parole tra loro imparentate, ma procedeva all’accostamento di vocaboli anche molto lontani tra loro per significato in base alla somiglianza fonica75. Il fine era quello di ampliare lo spettro semantico di un termine, ricavando da un altro che presentasse col primo affinità di suono un nuovo concetto. Nella sua fase aurorale, l’etimologia antica mescola l’aspetto analitico a quello poetico e creativo, riconoscendo

68 Arrighetti 1987.

69 Dawson 1992.

70 Su cui cfr. più recentemente Most 2016. 71

Belardi 2002.

72 Cfr. Del Bello 2007, 1-33 (Science of Etymology), in particolare 8 ss.: «Late nineteenth-century

scholars were convinced that etymology consisted of a thorough reconstruction of the chronological links a given word had entertained with other words over a period of time».

73 Una sintesi succinta, da Omero all’epoca alessandrina, è offerta da Lallot 1991.

74 Illuminante per la sua dichiarata singolarità è la prolusione di Varrone al quinto libro del De lingua

latina, su cui ritornerò in seguito: cum unius cuiusque uerbi naturae sint duae, a qua re et in qua re uocabulum sit impositum (itaque a qua re sit pertinacia cum requi<ri>tur, [h]ostenditur esse a perten<den>do; in qua re sit impositum dicitur cum demonstratur, in quo non debet pertendi et pertendit, pertinaciam esse, quod in quo oporteat manere, si in eo perstet, perseuerantia sit), priorem illam partem, ubi cur et unde sint uerba scrutantur, Graeci uocant ἐτυμολογίαν , illam alteram περ<ὶ> σεμαινομένων.

de quibus duabus rebus in his libris promiscue dicam, sed exilius de posteriore.

75

Sarebbe da discutere se anche nella cultura moderna e contemporanea il metodo scientifico, senz’altro maggioritario, abbia rappresentato l’unica maniera possibile di affrontare la questione etimologica: opere

(29)

29

nel nome una ‘capsula di realtà’ funzionale alla narrazione mitica76

. A partire da queste esperienze, l’etimologia diverrà uno strumento di lettura della tradizione precedente, tanto in campo filosofico quanto in quello critico-letterario – si pensi alla diffusa pratica di interpretazione onomastica presente negli scoli – senza che venga mai meno un ampio margine di libertà ermeneutica motivato di volta in volta dai contesti argomentativi specifici. Si comprende allora quanto l’etimologia degli antichi si allontani dalla moderna idea di scienza e si inquadri piuttosto in una concezione gnoseologica che ha ancora nella retorica77, nella persuasione più che nella dimostrazione, il suo fulcro.

Non per questo l’apporto conoscitivo dell’analisi onomastica antica dovrebbe essere trascurato. Potremmo affermare che essa fosse un pilastro della tecnica ermeneutica a disposizione degli antichi, il riflesso della loro mentalità, oltre che uno strumento di decifrazione del reale, la cui percezione è, a sua volta, circolarmente determinata dal tipo di messa a fuoco adottato. L’origine del termine “etimologia” giustifica di per sé l’impiego di questa pratica in ambito letterario e filosofico: esso è un composto di ἔτυμος, «vero», un aggettivo di origine ionica78

. La ricerca del vero senso della parola manifesta un interesse per l’origine intesa come «modo di relazione, connessione intrinseca d’ordine semantico»79

, che ruota attorno al significato più che alla forma significante. Ben prima di una sua codificazione teorica80, che avverrà a partire dal IV sec. a. C., il metodo etimologico venne applicato dai più antichi poeti e pensatori per ricercare «una specie di garanzia del significato delle parole»81 e della loro veridicità attraverso il confronto di un nome con altri termini a esso affini: differentemente dalla concezione moderna che fonda sull’arbitrarietà del segno, in una dimensione diacronica,

76 Tsitsibakou-Vasalos 1998, 118-119: «They [scil. ancient poets] make etymologies of anthroponyms an

organic part of their narrative, usually conditioned upon the requirements of their fiction; names are considered capsules of a ‘real’ entity and carriers of meaning».

77 Con questo termine intendo designare precisamente la subordinazione del metodo etimologico a

specifici contesti argomentativi, come emergerà chiaramente nel corso dell’analisi.

78

Reitzenstein 1907, 807: «ἔτυμος fehlt im Attischen». Le prime occorrenze di questa parola si addensano nelle opere di Omero e Esiodo; essa diviene comune nel lessico poetico del V sec., come dimostra il suo ampio utilizzo nelle tragedie di Euripide, ma non assumerà il senso tecnico di «valore vero della parola» prima dell’età aristotelica (Belardi 2002, I 21 ss.).

79 Zamboni 1976, 7.

80 Il termine ἐτυμολογία non si riscontra prima dell’età ellenistica, quando designerà precisamente

l’analisi dei nomi e della loro corrispondenza con la realtà; cfr. Chantraine 1999 s. v. ἔτυμος. La stessa funzione può essere ricoperta dall’aggettivo sostantivato τὸ ἔτυμον, come nel caso di Plut. Aetia Rom. et

Gr. 278 C: ἔστι δὲ τοῦ ὀνόματος τὸ ἔτυμον ‘ὑστερημένη νοῦ’. Il termine ἐτυμολογία è verosimilmente un

conio stoico; cfr. SVF II 146, 44

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