Ὅθεν δὲ ἐγένετο ἕκαστος τῶν θεῶν, εἴτε δὴ αἰεὶ ἦσαν πάντες, ὁκοῖοί τέ τινες τὰ εἴδεα, οὐκ ἠπιστέατο μέχρι οὗ πρώην τε καὶ χθὲς ὡς εἰπεῖν λόγῳ. Ἡσίοδον γὰρ καὶ Ὅμηρον ἡλικίην τετρακοσίοισι ἔτεσι δοκέω μέο πρεσβυτέρους γενέσθαι καὶ οὐ πλέοσι· οὗτοι δέ εἰσι οἱ ποιήσαντες θεογονίην Ἕλλησι καὶ τοῖσι θεοῖσι τὰς ἐπωνυμίας δόντες καὶ τιμάς τε καὶ τέχνας διελόντες καὶ εἴδεα αὐτῶν σημήναντες· οἱ δὲ πρότερον ποιηταὶ λεγόμενοι τούτων τῶν ἀνδρῶν γενέσθαι ὕστερον, ἔμοιγε δοκέειν, ἐγένοντο. Τούτων τὰ μὲν πρῶτα αἱ Δωδωνίδες ἱρήιαιλέγουσι, τὰ δὲ ὕστερα τὰ ἐς Ἡσίοδόν τε καὶ Ὅμηρον ἔχοντα ἐγὼ λέγω.186
Sempre di più la forma di riflessione linguistica dei Greci si distacca dal proprio oggetto, sicché i teonimi non sono più il frutto di una lingua creativa, ma divengono un documento linguistico sul cui statuto ci si deve interrogare con le armi critiche dell’interpretazione. Certamente gioca la tendenza alla secolarizzazione tipica del V secolo187, che nelle parole di Erodoto pone alcuni termini ricorrenti nelle riflessioni del
186 Hdt. 2, 53: «Da dove ebbe origine ognuno degli dèi, se c’erano tutti da sempre, come fossero
d’aspetto, non si sapeva, per così dire, fino a tempi molto recenti. Credo infatti che Esiodo e Omero fossero di quattrocento anni più antichi di me, non di più; proprio loro hanno forgiato una teogonia per gli Elleni e hanno attribuito agli dèi gli appellativi e hanno suddiviso i loro onori e le loro competenze e ne hanno delineato la fisionomia; invece, i poeti che si dice siano vissuti prima di questi uomini, nacquero in seguito, io credo. Tra queste cose, le prime le narrano le sacerdotesse di Dodona, mentre le successive, che riguardano Esiodo e Omero, sono io stesso ad affermarle».
187 Il V secolo è stato definito un periodo di ‘illuminismo’, cui sarebbe seguito il ritorno all’ordine durante
il secolo successivo (Dodds 1951). Ricordiamo i casi di Crizia e Prodico, propensi a considerare la nascita del culto nell’ottica umana dell’utile. Crizia è l’autore cui tradizionalmente si attribuisce il celebre frammento del dramma satiresco Sisifo, in cui la creazione degli dèi viene ricondotta all’astuzia di un uomo saggio (π υ κ ν ό ς τ ι ς κ α ὶ σ ο φ ό ς ) il quale, resosi conto che il rispetto della autorità politica si poteva ottenere facilmente attraverso la paura, ritenne utile plasmare l’immagine del divino in termini punitivi per meglio assoggettare gli uomini alla legge (DK 88 B25). Prodico insiste sulla divinizzazione di ciò che è utile per la vita (τὸ ὠφελοῦν τὸν βίον, utilitas ad vitae cultum), cui gli antichi avrebbero
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secolo successivo: nella datazione delle esperienze di Omero ed Esiodo, che Erodoto considera contemporanei tra loro e colloca quattrocento anni prima della sua generazione, si riconosce in nuce la teoria dei nomoteti, i primi impositori dei nomi vissuti in un’epoca remota ma non mitica, cui si deve l’organizzazione di un insieme coerente di denominazioni (ἐπωνυμίας) e specifici tratti degli dèi in seno alla cultura greca (Ἕλλησι)188. Benché dunque l’origine prima degli dèi rimanga misteriosa – l’attribuzione della loro ‘invenzione’ agli Egiziani non è che il trasferimento sul piano storico del dubbio altrimenti espresso dai filosofi e dai primi teologi: per ciò che concerne la responsabilità di avere plasmato i loro nomi e le loro figure nella cultura greca sono individuabili Omero ed Esiodo. Erodoto non si esprime sulla veridicità degli appellativi tramandati dall’epica e dal culto, non specifica insomma se la sua visione sia meramente convenzionalista o presupponga una forma di ispirazione, ma dimostrandone la storicità li rende a tutti gli effetti degli oggetti d’indagine passibili di libera interpretazione. Il che non significa che dopo di lui l’interesse antropologico sia la motivazione preponderante nell’analisi dei teonimi, anzi.
Il saggio etimologico di Socrate nel Cratilo si apre proprio con la consapevolezza che ‘da Omero si deve imparare’ (παρ’ Ὁμήρου χρὴ μανθάνειν καὶ παρὰ τῶν ἄλλων ποιητῶν189
). Per la verità, e questo è un elemento significativo, Omero non viene considerato da Platone il primo impositore dei nomi divini, ma piuttosto il loro primo interprete, colui che ha distinto i nomi pronunciati dagli dèi, che sono conformi alla natura delle cose (φύσει), e dunque corretti (πρὸς ὀρθότητα), da quelli pronunciati dagli uomini190. In effetti il principio autoritativo riconosciuto ai predecessori è piuttosto labile, vista la disinvoltura con cui Platone procede a distorcere sistematicamente i dati provenienti dalla tradizione epica; l’unico argine alla sua libertà interpretativa è
attribuito i nomi degli dèi: il vino diviene Dioniso, il pane Demetra e così via. Per questa sua visione, Sesto Empirico, Adv. math. IX 51, lo annovera tra gli atei, assieme a Evemero di Messene e Diagora di Melo (cfr. DK 84 B5).
188
La medesima opinione, seppure sotto una luce negativa, è condivisa da Senofane, che accusa Omero ed Esiodo di avere attribuito agli dèi atteggiamenti vergognosi e menzogne ma di avere in questo fatto scuola tra i Greci (DK 21 B10-11). Poco prima, Erodoto aveva però affermato che la maggior parte degli οὐνόματα τῶν θεῶν sarebbe giunta in Grecia dall’Egitto (Hdt. 2, 50). Erodoto si contraddice? In realtà, quando parla dell’origine egiziana degli οὐνόματα, egli pensa presumibilmente alla definizione delle figure divine e delle loro caratteristiche generali, che risalirebbe agli Egizi; in un certo senso, la codificazione del pantheon e dei domini degli dèi sarebbe riconducibile a un altro popolo. Proprio questo sarà il principale capo dell’accusa di filobarbarismo mossagli da Plutarco molti secoli dopo.
189 Plat. Cr. 391d. Cfr. anche Resp. 606e ὡς τὴν Ἑλλάδα πεπαίδευκεν οὗτος ὁ ποιητὴς.
190 Plat. Cr. 391d-392b, in cui viene affrontato il problema della doppia denominazione umana e divina
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costituito dallo scrupolo religioso, dal timore di offendere gli dèi proponendo una lettura blasfema del loro nome. È anzi cura del suo Socrate affrontare di petto quei teonimi la cui errata interpretazione dà luogo alla paura degli dèi: è il caso di Ade, Persefone, soprattutto Apollo191. Il Cratilo si muove su due binari: da un lato coltiva la razionalizzazione delle figure divine attraverso lo strumento etimologico192, dall’altro cerca di ancorare questa rischiosa operazione al sentimento religioso delle élites. È forte l’impressione che il suo progetto risenta della visione aristocratica e sapienziale della religione, come denuncia la tendenza a intellettualizzare gli dèi omerici e l’allusione a purificazioni rituali che sarebbe opportuno condurre dopo la discussione su tale materia193. Mentre in altri dialoghi, in particolare nell’Eutifrone, l’attacco alla mitologia e al tentativo di ricavarne insegnamenti morali è duro e diretto, nel Cratilo prevale invece un’altra tattica, che porta a rileggere le figure divine senza allegorizzare la versione omerica, ma fondandosi sui nomi e sulla loro interpretazione, secondo l’esempio dello stesso Omero, cui di fatto viene negato il rango di impositore degli appellativi. D’altro canto, postulare dei nomoteti anonimi in un’epoca remota svincola ulteriormente l’argomentazione dal principio di autorità e permette a Platone di esprimere nuovi contenuti attraverso l’analisi etimologica, solo apparentemente neutra e oggettiva.
Ci si interroga spesso su “che cosa voglia dire il Cratilo”, ovvero su quale soluzione proponga rispetto al problema dei nomi, ma nel caso specifico il dialogo ci interessa non in quanto argomentazione di una tesi, peraltro di ardua individuazione, ma quale collettore di tensioni e posizioni contrapposte: più interessante delle soluzioni ai problemi è talvolta la loro storia. Illustrare le dinamiche in atto nel Cratilo e confrontarle con esperienze coeve può aiutare a comprendere la vicenda della sua influenza nei decenni e nei secoli successivi per la maturazione dello strumento
191 Plat. Cr. 402e ss.
192 È da rifiutare l’interpretazione offerta dal più recente commentatore del Cratilo, il quale rileva nel
«tono pomposo» del riferimento a Omero un indizio della potenzialmente inesauribile ironia socratica (Ademollo 2011, 151). L’estesa trattazione dei versi omerici e l’impegno con cui essi vengono affrontati escludono un atteggiamento sarcastico da parte di Socrate, che ha invece liquidato in poche battute il nuovo sapere propugnato dai Sofisti. L’interpretazione di Omero deve essere presa sul serio, se non altro per l’antichità e il prestigio della tradizione che a lui fa capo: lo stesso Ademollo riporta una serie di passi che dimostrano la diffusione dell’esegesi omerica già nel V sec., senza contare che «Plato’s reference to the Homeric distinction between human and divine names was taken very seriously by the Neoplatonics (Procl. LXVIII, 29.6-12; LXXI, 33.7)» (Ademollo 2011, 151 n. 17). Già Aristotele dà credito a queste distinzioni, come ricorda sempre Ademollo, rimandando il lettore a Arist. HA 519a18-20.
193 Plat. Cr. 396e τὸ μὲν τήμερον εἶναι χρήσασθαι αὐτῇ καὶ τὰ λοιπὰ περὶ τῶν ὀνομάτων ἐπισκέψασθαι,
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allegorico-etimologico. Io credo, con David Sedley194, che il tema centrale posto nel dialogo riguardi il regolamento dei conti con Eraclito, attraverso la confutazione delle tesi del suo allievo più radicale, Cratilo appunto195. Cratilo rappresenta l’istanza naturalista, così come Ermogene, il convenzionalista, è incaricato di sostenere la controparte parmenidea. La conclusione del dialogo, che sancisce la superiorità del λόγος articolato in base alle cose in sé sull’analisi dei singoli nomi, che vengono di fatto degradati al rango di imitazioni, è in fondo il superamento, non libero da una schematizzazione forzata, del contrasto che separa Parmenide ed Eraclito. Eppure, nel corso dell’argomentazione, la ricerca dell’unità della sostanza divina rispetto alla molteplicità delle sue manifestazioni non sembra la principale preoccupazione di Platone. Non è questo l’obiettivo della sua filosofia, dal momento che la conclusione propugnerà la superiorità della conoscenza delle cose in sé rispetto ai loro nomi. Paradossalmente, questo spostamento di focus accentua un atteggiamento cautelare verso la religione tradizionale, che non è il bersaglio polemico dell’argomentazione e gode anzi di incondizionato rispetto. Innanzitutto non assistiamo a una drastica condanna dei poeti, differentemente da quanto faranno alcuni Stoici e lo stesso Platone in altre sue opere, ma a un tentativo di accordo. L’inconoscibilità della lingua divina e delle sue parole di verità costringe Socrate a rivolgere l’attenzione a una seconda via di ricerca, quella dei nomi degli dèi consacrati nelle preghiere tradizionali. La matrice prettamente umana di queste invocazioni non sfugge agli interlocutori del dialogo: essi si volgono a esaminare i frutti della δόξα dei mortali riguardo a un argomento la cui comprensione profonda è preclusa al loro intelletto. Eppure la conclusione non è così radicalmente pessimista come ci si potrebbe attendere.
ΣΩ. Ναὶ μὰ Δία ἡμεῖς γε, ὦ Ἑρμόγενες, εἴπερ γε νοῦν ἔχοιμεν, ἕνα μὲν τὸν κάλλιστον τρόπον, ὅτι περὶ θεῶν οὐδὲν ἴσμεν, οὔτε περὶ αὐτῶν οὔτε περὶ τῶν ὀνομάτων, ἅττα ποτὲ ἑαυτοὺς καλοῦσιν· δῆλον γὰρ ὅτι ἐκεῖνοί γε τἀληθῆ καλοῦσι. δεύτερος δ’ αὖ τρόπος ὀρθότητος, ὥσπερ ἐν ταῖς εὐχαῖς νόμος ἐστὶν ἡμῖν εὔχεσθαι, οἵτινές τε καὶ ὁπόθεν χαίρουσιν ὀνομαζόμενοι, ταῦτα καὶ ἡμᾶς αὐτοὺς καλεῖν, ὡς ἄλλο μηδὲν εἰδότας· καλῶς γὰρ δὴ ἔμοιγε δοκεῖ νενομίσθαι. εἰ οὖν βούλει, σκοπῶμεν ὥσπερ προειπόντες τοῖς θεοῖς ὅτι περὶ αὐτῶν οὐδὲν ἡμεῖς σκεψόμεθα—
194 Sedley è stato il primo a rivalutare il ruolo filosofico delle etimologie nel Cratilo di Platone, in una
serie di contributi (1998, 2003a e da ultimo, più compiutamente, 2003b).
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Secondo la notizia di Aristotele (Met. 1010 a12 ss.), Cratilo sarebbe stato più eracliteo del maestro, pervenendo a una totale rinuncia della comunicazione verbale [Κρατύλος] ὃς τὸ τελευταῖον οὐθὲν ᾤετο δεῖν λέγειν ἀλλὰ τὸν δάκτυλον ἐκίνει μόνον, καὶ Ἡρακλείτῳ ἐπετίμα εἰπόντι ὅτι δὶς τῷ αὐτῷ ποταμῷ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι· αὐτὸς γὰρ ᾤετο οὐδ’ ἅπαξ. Sull’argomento cfr. Berrettoni 2001.
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οὐ γὰρ ἀξιοῦμεν οἷοί τ’ ἂν εἶναι σκοπεῖν—ἀλλὰ περὶ τῶν ἀνθρώπων, ἥν ποτέ τινα δόξαν ἔχοντες ἐτίθεντο αὐτοῖς τὰ ὀνόματα· τοῦτο γὰρ ἀνεμέσητον.196
I soli nomi per natura sono quelli adoperati dagli dèi. La concezione sottesa a tale pensiero non potrebbe essere più vicina al sentimento tradizionale di pietas religiosa, nel sottrarre all’uomo l’accesso pieno alla verità. Eppure agli appellativi utilizzati tradizionalmente viene riconosciuto un valore di attendibilità (καλῶς...νενομίσθαι) perché ciò che è più antico, in quanto più vicino cronologicamente all’epoca dei νομοθέται, i primi impositori dei nomi, è anche più autorevole. Non viene tratta una conclusione rispetto allo statuto ontologico dei nomi, come è tipico della cultura antica che mantiene sostanzialmente una visione naturalista del linguaggio. Piuttosto, in una concezione strumentale del nome197, se ne mettono in questione i limiti gnoseologici, e non l’origine. Quando Platone si accosta, con rispetto, ai nomi degli dèi, si allinea allo spirito degli innografi, ossessionati dalla corretta forma di invocazione per garantirsi un contatto fruttuoso con la dimensione superiore; per evitare errori, era frequente il ricorso a più nomi e epiteti che identificassero la stessa divinità198, in forma precauzionale199. Per Platone, la molteplicità non è quindi una fonte di confusione, ma anzi una risorsa per l’indagine; è questo un tratto arcaico del suo pensiero, ma in contraddizione con la teologia precedente, e pure con quella contemporanea che si attesta su posizioni ancora eraclitee.
196 Plat. Crat. 400d-401a: «Ma noi, per Zeus, o Ermogene, se avessimo senno, ammetteremmo che uno è
il modo più bello, poiché nulla sappiamo degli dèi, né su di loro né sui nomi con cui essi chiamino se stessi; chiaramente essi adoperano i nomi veri. Una seconda strada della correttezza è che noi, che null’altro sappiamo, li chiamiamo come è per noi tradizione che si invochino nelle preghiere, quali che essi siano in realtà e comunque amino essere chiamati; mi pare proprio che ciò sia stato ben stabilito. Se vuoi, consideriamo queste cose con attenzione, premettendo agli dei che non indagheremo su di loro – non riteniamo di essere capaci di condurre l’indagine – ma sugli uomini, secondo quale opinione imposero loro i nomi; questo non è biasimevole».
197 Plat. Crat. 388b-c διδασκαλικόν τί ἐστιν ὄργανον καὶδιακριτικὸν τῆς οὐσίας.
198 Cfr. Furley-Bremer 2001, 52: «the precise naming of the god addressed was important both from the
point of view of politeness and courtesy, so as not to offend a sensitive power, and from the point of view of establishing the precise channel along which one wished divine succor to flow. The composers of Greek hymns often used more names than one to address and identify a god; their motive may have been partly to avoid the sin of omission, and partly to demonstrate technical proficiency to their divine and human listeners». L’adeguatezza degli appellativi divini poteva dipendere dalla connessione del dio con un luogo di culto determinato: questa pratica da un lato rinsaldava la fede dei partecipanti alla preghiera, che si convincevano della presenza del dio tra di loro, dall’altro rivolgeva un invito preciso al dio, chiamato a raggiungere gli oranti dalla sua sede prediletta (Furley-Bremer 2001, 55).
199
Di «precautionary formulae» parla Rowett 2013, che analizza i seguenti passi platonici, in cui emerge chiaramente una forma di angoscia a proposito del giusto appellativo per gli dèi: Crat. 400 d-401 a6;
Symp. 212 b; Phil. 12 b7-c6; Prot. 358 a. La seconda parte del saggio è dedicata a rintracciare lo stesso
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Un documento verosimilmente coevo alle riflessioni platoniche200, stilato dal così detto allegorista di Derveni, muove dalla concezione simbolica del nome eraclitea201 ma se ne distanzia – forse inavvertitamente – per l’impostazione ormai compiutamente allegorica che emerge nel suo approccio alla questione dei teonimi. La sua attenzione, nel commentare un più antico poema orfico, si concentra sulla interpretazione della nascita del cosmo in quanto onomatogonia. L’onomaturgo, primo nomoteta, non è anonimo come in Platone, ma è riconoscibile in Orfeo, figura liminare tra mito e storia, cui l’interprete di Derveni attribuisce la volontà di comunicare, attraverso un linguaggio consueto e aderente alle opinioni correnti (ὁ δὲ σημαίνει τὴν αὑτοῦ γνώμην ἐν τοῖς λεγομέν[ο]ις καὶ νομιζομένοις ῥήμ ασι202
), una visione unitaria della sostanza divina, identificata con l’aria e coincidente con l’entità suprema detta Zeus203
, sottesa ai molti nomi che ne rispecchierebbero le diverse funzioni, ma non esprimerebbero invece personalità divine distinte. Fino a questo punto l’esperienza racchiusa nel papiro mostra una tensione eraclitea verso la parte nascosta e intimamente unitaria del nome e inoltre l’idea che i nomi siano stati imposti da un nomoteta, questa volta di carattere semidivino, che in certo modo si fa garante della naturalità del nome, intesa come corrispondenza tra significante e (un) significato, tratto riconosciuto già dai primi studi del documento204. Tuttavia, l’importante novità che caratterizza la ricerca della motivazione del nome sta proprio nella ricerca del significato appropriato al significante su base fisica, secondo i principi della dottrina anassagorea degli elementi. Emblematico di questo modus operandi è l’appellativo Kronos, che l’allegorista connette alla forza che fa cozzare gli enti tra loro (κρούων νοῦς), sicché la sua lotta con il padre Urano, narrata in termini mitici, nasconderebbe invece un fenomeno fisico, la separazione del sole dall’aria205
; νοῦς è il termine che designa anche nel papiro di Derveni, come in
200 Molto dibattuta è la possibilità di attribuire il commentario di Derveni a Eutifrone, protagonista
dell’omonimo dialogo platonico, evocato anche nel Cratilo. La proposta è stata avanzata da Kahn 1973, con ulteriori precisazioni in un contributo del 1986; da ultimo è stata rilanciata da Bergomi 2014, che sostiene la conoscenza di prima mano del commentario di Derveni da parte di Platone e evidenzia le affinità con il Cratilo. Un’altra corrente critica, facente capo a Burkert 1986, ha preferito individuare il possibile autore in Stesimbroto di Taso. In ogni caso, si tratterebbe di personaggi legati alla cerchia platonica.
201
Il nome di Eraclito viene citato nella col. IV.
202 Col. XXIII 7-8, laddove il commentatore cerca di dimostrare che Oceano è Zeus in quanto aria, benché
Orfeo l’abbia descritto come ‘qualcosa che scorre’, ciò che potrebbe trarre in inganno gli ignoranti e farli propendere per un’interpretazione acquea del dio.
203
Il criterio è enunciato nella col. XIX: Zeus è principio, criterio, in quanto ogni cosa è denominata in base a ciò che la domina ed egli domina il cosmo.
204 In particolare Burkert 1970. 205 Coll. XIV-XV.
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Anassagora, il principio supremo. O ancora, nella colonna XXII, la dea madre dai molti nomi, Rea, Demetra, secondo l’allegorista è chiamata anche Deò poiché fu devastata (ἐδῃώθη) dai molteplici parti, in quanto procreatrice di tutte le cose; la denominazione Demetra è invece scomposta nei termini γῆ e μήτηρ, là dove il primo elemento, γῆ, è legato alla convenzione (νόμος)206, il secondo giustifica la sua funzione di generatrice del reale. I nomi sono frutto di una imposizione non arbitraria, che ricerca la corrispondenza con la realtà fisica, senza giungere allo scontro con la consuetudine religiosa, in base al principio per cui Orfeo diede i nomi ὡς κ άλλιστα ἠ[δύν]ατο (XXII 1): la precisazione non chiama in causa una forma di incapacità intellettuale del primo nomoteta, ma i limiti oggettivi impostigli dal rispetto per le convenzioni linguistiche e religiose del suo tempo207. Anche all’interno della tradizione orfica, come per la verità in tutta la religione greca, si riscontra la tendenza a rifiutare l’organizzazione dogmatica delle credenze e a favorire la costante revisione ermeneutica dei precetti attribuiti a Orfeo, entro certi limiti, che dipendono non dal rispetto filologico per l’originale, ma dalla mentalità che informa l’epoca in cui vive il commentatore, nonché dalle sue personali convinzioni filosofiche208. Ma ciò che più interessa è la tecnica ermeneutica adottata per perpetuare la ricezione dei testi orfici entro la cerchia degli adepti: l’allegoresi fisica che poggia sull’interpretazione etimologica per sciogliere gli enigmi posti da Orfeo agli iniziati. Da essa discende la tendenza alla razionalizzazione del mito: l’etimologia in particolare spiega perché il nome è stato scelto e consente di inserire le figure divine nel sistema filosofico dell’autore, stralciandole dal contesto mitico; su Orfeo viene proiettata da un lato l’esigenza scientifica di fornire un criterio riconoscibile alla nominazione, che consiste appunto nell’allegoria fisica, dall’altro la preoccupazione di leggere la sua cosmogonia come un sistema corrispondente alla religione dei filosofi – propensa a riconoscere un unico principio superiore – ma anche rispettoso dell’impostazione tradizionale sia in termini di rappresentazione del divino che in fatto
206 Kouremenos-Parássoglou-Tsantsanoglou 2006, 253: «Apparently because the Derveni author is unable
to give a cosmological explanation of the name ‘Ge’».
207 Naturalmente l’interpretazione allegorica e etimologica è adottata anche in altri casi oltre a quelli qui
brevemente accennati. Si può ricordare ancora il caso dell’interpretazione allegorica di Moira/aria nella col. XVIII o quello della Notte nella col. XI, in cui entra in gioco anche l’etimologia. Orfeo avrebbe affermato che Notte pronunciò oracoli da un ἄδυτον (sostantivo), in quanto la sua profondità non tramonta mai (ἄδυτον aggettivo), non si posa (δύνει) come la luce; è immobile e unitaria, come l’aria che verrà successivamente chiamata Zeus, ed è l’origine dell’ispirazione oracolare.
208
Funghi 1997, 29, ravvisa il motivo della longevità dell’orfismo proprio nella «inclination not to crystallize the written discourse but rather to perpetuate an 'open' text (and one whose vitality until the end of paganism may have depended precisely upon its receptivity), one capable of being 'contaminated' and at the same time able on its own to permeate different religious modes».
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di morale, come avverrà nel caso di alcuni Stoici decisi a ‘salvare Omero’ dall’accusa di avere dipinto gli dèi con tratti scandalosi209. Nonostante le apparenze, non si può dunque sostenere che la mentalità allegorico-etimologica nasca nel segno della scientificità: nel caso del papiro di Derveni, l’interpretazione etimologica dimostra solo ciò che l’allegorista ha già in animo di dimostrare, assolvendo una funzione retorico- argomentativa, senza costituire un effettivo passo in avanti nella conoscenza del cosmo, ma rimanendo intrisa di scrupoli religiosi e moralistici che trovano nuova linfa, e non contraddizione, nella tendenza razionalizzatrice che innerva il commento al poema orfico210.
Ritorniamo con questo al Cratilo. La verifica dell’ὀρθότηςτῶν ὀνομάτων in Platone è condizionata dal suo rispetto per l’assetto tradizionale della religione greca, proprio perché la sua principale preoccupazione nel dialogo non è di ordine teologico. Eppure, come ho già sottolineato, il generale attenuarsi del rapporto tra i nomi e le cose che