• Non ci sono risultati.

Teologia del nome: esperienze etimologico-religiose

Lo scrupolo religioso, il timore di commettere empietà o di utilizzare l’appellativo sbagliato, conseguenza della forma fluida della religione ellenica, è dunque un tratto caratterizzante del sentire dei Greci nei confronti dei nomi dei loro dèi. A partire da Omero, gli dèi per i Greci sono perciò una fonte d’angoscia crescente. Apollo l’obliquo, il guaritore, dispensa pestilenze e segni ambigui ai mortali. Dioniso, dio dell’ebbrezza, lascia dietro di sé ombre mortifere. Zeus è il generatore del cosmo, altissimo e ineffabile, ma incomprensibile reggitore della giustizia, dei benefici e delle pene che

adotto la congettura di Càssola 1975 δελφεῖος (Δελφίνιος / δέλφιος / δέλφειος codd.) e l'interpunzione da lui introdotta (il verso altrimenti suonerebbe: «l'ara stessa sarà per sempre delfica e famosa»).

144 Negli Inni omerici vi è solo un’altra divinità sottoposta a interpretazione etimologica: è Pan, il cui

nome è ricollegato al concetto di totalità. Nell’aggraziato inno a lui dedicato, al dio boschivo viene riconosciuta la capacità di rallegrare gli altri numi (a parte la nutrice, che fugge via inorridita) con il suo buffo aspetto (47): Πᾶνα δέ μιν καλέεσκον ὅτι φρένα πᾶσιν ἔτερψε. Questa trovata poetica per rendere omaggio al dio sarà oggetto di grande fortuna e stimolerà Platone a una più ardita ermeneutica, in una delle etimologie più importanti del Cratilo, improntata al confronto tra Pan e il logos in quanto espressioni di totalità articolate. Cfr. Plat. Cr. 408c-d e Càssola 1975, 577.

145 Furley-Bremer 2001, 7: «it also features in numerous hymns to Apollo which seek to emphasize his

49

toccano agli uomini. Ogni azione dei mortali ricade nelle molteplici possibilità della determinazione divina. Come fare a comprendere ed eventualmente a intercettare nella maniera più proficua la buona disposizione degli dèi, e viceversa ad allontanarne gli aspetti negativi e spaventosi? Negli appellativi degli dèi pare ai Greci di svelare aspetti del loro segreto: il nome si scopre allora oggetto inquietante, liminare, sede di oscure presenze e indecifrabili misteri, ma anche fonte di equivoci, se non addirittura di deviazione dalla vera natura dei numi. Sin dalla fase arcaica i Greci sviluppano una vera e propria tecnica interpretativa dei teonimi, che da un lato garantisce coerenza e costruisce fondamenta al complesso mitico, dall’altro è intrinsecamente instabile per la possibilità, che essa stessa autorizza, di rivedere e mettere in discussione quanto precedentemente sostenuto. Dopo Esiodo l’interesse cosmogonico non viene naturalmente meno (si pensi ai casi di Ferecide e Alcmane), ma diventa lecito elaborare, entro certi confini, critiche e innovazioni alla religione tradizionale. Un limite ben chiaro si trova espresso nell’affermazione cautelare di Erodoto che pure sancisce una forma di relativismo rispetto alle questioni teologiche: τὰ μέν νυν θεῖα τῶν ἀπηγημάτων οἷα ἤκουον, οὐκ εἰμὶ πρόθυμος ἐξηγέεσθαι, ἔξω ἢ τὰ οὐνόματα αὐτῶν μοῦνον, νομίζων πάντας ἀνθρώπους ἴσον περὶ αὐτῶν ἐπίστασθαι.146

Vi sono molteplici narrazioni possibili sul divino, ma a ogni uomo è data la medesima parte di conoscenza rispetto a questo tema: non vi sono insomma criteri assoluti su cui misurare la maggiore o minore correttezza di una descrizione su un’altra; manca un canone, un complesso di dogmi, un’ortodossia religiosa. Tutto ciò che è a disposizione dei mortali sono i nomi degli dèi, unico elemento di oggettività nel mare delle congetture. Il risultato è un’impostazione probabilistica, messa in atto dai primi teologi che, come Alcmeone e Senofane147, discutono di ciò che è appropriato e dunque verisimile (ἐοικότα) rispetto agli dèi, criticano serratamente la concezione epica148, ma non sono in grado di prescindere completamente dalle raffigurazioni antropomorfiche degli dèi, poiché anche la

146

Hdt. 2, 3, 2: «Ora, le narrazioni che ho udito a proposito degli dèi, non mi sento di esporle, eccezion fatta soltanto per i loro nomi, poiché credo che tutti gli uomini dispongano della stessa parte di conoscenza riguardo ad essi». Analogamente, Protagora afferma l’inadeguatezza degli esseri umani a indagare la natura degli dèi e la loro forma con la speranza di raggiungere certezze, rigettando implicitamente la loro raffigurazione tradizionale (DK 80 B4) περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι, οὔθ’ ὡς εἰσὶν οὔθ’ ὡς οὐκ εἰσὶν οὔθ’ ὁποῖοί τινες ἰδέαν· πολλὰ γὰρ τὰ κωλύοντα εἰδέναι ἥ τ’ ἀδηλότης καὶ βραχὺς ὢν ὁ βίος τοῦ ἀνθρώπου.

147

Cfr. Sassi 2009, 205-214.

148 Cfr. i frammenti di Senofane DK 21 B 15-16 e B 11-12. Senofane imputa ai mortali di avere creato

divinità in tutto somiglianti alla loro specie e accusa Omero e Esiodo di essere i responsabili di tale distorsione.

50

divinizzazione della ragione che essi propugnano è una forma di antropomorfismo. Dalla nascita dell’allegoresi con Teagene di Reggio149

alle più ardite esperienze intellettuali di Eraclito e Democrito, il rapporto tra nome e sostanza divina diviene terreno di riflessione, le cui tracce si ritrovano anche in forme letterarie di maggiore diffusione, come il dramma150, ma in tutti i casi si riscontra un’oscillazione irrisolta tra persistenza della tradizione e variazione, o tra classicità e ipolessi, per usare le categorie coniate da Jan Assmann151, secondo un binario non univoco: le correzioni non passano solo per ciò che di una tradizione si vuole ricordare, ma anche per ciò che se ne vuole omettere, alla ricerca di un compromesso su cui imprimere il marchio della verità. Così, la generale tendenza alla disincarnazione e alla razionalizzazione delle divinità omeriche, la concettualizzazione del divino da forme personali al neutro τὸ θεῖον, non cancellano la tradizione precedente152, né fanno strame della grande messe di nomi e di epiteti che rimane profondamente radicata nelle pratiche di culto. I teonimi vengono però interpretati, selezionati, manipolati; un dio viene fatto prevalere sugli altri per le

149

Non tutti sono concordi nel riconoscere in Teagene l’iniziatore dell’allegoresi, ad es. Detienne 1962, 65-67. Sull’importanza dei miti omerici per lo sviluppo del pensiero greco si veda, tra gli altri, il classico Buffière 1956.

150 Anche il dramma attico si appropria del dibattito sulle invocazioni, integrandolo ora nelle componenti

corali di carattere religioso, ora in sezioni argomentative. La tragedia costituisce un interessante laboratorio per lo sviluppo seriore dell’etimologia: in essa i confini tra lo spirito secolare e l’afflato religioso sono labili e oggetto di interpretazioni contrastanti tra i personaggi sulla scena. Abbiamo già fatto riferimento all’interrogativo eschileo sul nome di Zeus, che pone al centro la questione della polionimia dell’essere supremo, ma si potrebbe ancora citare, sempre nell’Agamennone, la celebre invocazione a Apollo ‘distruttore’, giocata sul richiamo al verbo ἀπόλλυμι (1081-6). La caratteristica più inquietante degli dèi sembra quella di avere molti nomi che nascondono una natura ineffabile. Nel

Prometeo incatenato è Gea a essere definita un’entità unica, benché la si possa chiamare con molti nomi

(210 καὶ Γαῖα, πολλῶν ὀνομάτων μορφὴ μία), mentre Aristofane non si perita di farsi beffe del medesimo aspetto (Pluto 1164 ὡς ἀγαθόν ἐστ’ ἐπωνυμίας πολλὰς ἔχειν). Con Euripide la questione assurge a dignità speculativa. Il caso emblematico della penetrazione del problema onomastico nella sensibilità del V secolo è offerto dal celebre monologo di Tiresia nelle Baccanti, 274-327, concernente le figure di Demetra e Dioniso. Esso è tanto più interessante in quanto a pronunciarlo è un sacerdote, che sembra tentare una conciliazione tra le istanze razionalistiche propugnate dalla cultura sofistica e il rispetto della tradizione religiosa (un’ampia trattazione del problema si può leggere in Mirto 2010). Nel dramma l’identità divina e le sue denominazioni si rivelano dunque un nodo di riflessione per la società greca e costituiscono, accanto al mito, parte integrante delle dinamiche autorappresentative in atto sulla scena.

151 Assmann 1997.

152 Burkert 1984, 446-447: «Gli dei omerici erano “sempre essenti”, grandi e belli, erano “i più forti”,

origine e causa dell’accadere umano; ora il divino è origine di tutto ciò che è, eterno, non creato, onnipotente e onnisciente. Al posto dello “spettacolo” delle feste divine appare la “visione” del cosmo ordinato delle cose esistenti: theorìa. A ciò si aggiunge superamento del volere individuale, sapiente integrazione, riconoscimento anche della morte. In questa misura si poteva dare una continuità della

eusébeia. E tuttavia manca la reciprocità della charis. Si può ancora dire che il divino si occupa degli

uomini, dei singoli uomini? In questo punto si apriva una piaga per la religione pratica, una piaga che non voleva richiudersi».

51

caratteristiche specifiche che il suo nome e determinate pratiche ad esso associate rivelano.

Dall’acuta sensibilità verso il rapporto tra teonimi e sostanza divina non deriva tuttavia un’esigenza di senso storico rispetto alla questione del linguaggio, poiché la considerazione della forma è sempre subordinata alla definizione di nuovi significati, cui essa viene strumentalmente adeguata. La conoscenza della realtà concettuale viene anteposta al dato esteriore, suo involucro, e assume rilievo la risemantizzazione dei nomi più che l’indagine erudita di stampo grammaticale sulla loro origine, benché le due pratiche non vengano pienamente distinte prima dell’età alessandrina. Ridotti ad ἀγάλματα, meri simulacri153

, ma anche simboli in cui si cela qualcosa di diverso dall’apparenza, oggetti di culto, infine, verso i quali è pur sempre opportuno comportarsi con reverenza, gli dèi omerici sottoposti a critica non subiscono un’alterazione radicale della loro fisionomia, poiché la teologia greca si contenta di correggere gli errori del passato e non sente il bisogno di rendersi sistematica. L’innovazione è dunque parziale e sempre accompagnata da mille cautele: il nome degli dèi costituisce il punto di partenza ma anche il limite delle speculazioni ‘riformatrici’ che raggiungono matura espressione verso la fine del VI sec., per toccare il proprio apice nel V secolo a.C. Appellarsi a un dio tradizionale, riconoscerne l’esistenza e raccomandarne il culto è il compromesso che tutti i pensatori di questo periodo accettano, oscillando tra la matura consapevolezza che i nomi altro non sono se non

153 Democrito avrebbe definito i nomi degli dèi ἀγάλματα φωνήεντα, simulacri parlanti, secondo

Olimpiodoro (DK 68 B142). Portatore di una impostazione scientifica e di una visione dell’origine dei nomi come frutto di una imposizione casuale cui la consuetudine avrebbe conferito valore, Democrito verosimilmente considerava i teonimi come espressioni meramente convenzionali, prive di valore conoscitivo. A proposito della polionimia, τὸ ἰσόρροπον, l’«equivalenza» che Proclo (DK 68 B26, cfr. Ademollo 2003) include tra i punti critici individuati da Democrito contro il naturalismo linguistico, si può immaginare che essa riguardi in particolare i nomi degli dèi, anch’essi frutto di un’ideazione interna al genere umano. Il termine ἄγαλμα impiegato da Olimpiodoro giunge a conferma di una disposizione testimoniata anche da Origene a proposito dei seguaci di Democrito: essi non credevano agli dèi ma tributavano onori alle loro immagini per non incrinare la compattezza del corpo sociale (fr. 594 Luria). Anche l’applicazione dell’indagine etimologica da parte di Democrito sembra inserirsi in questo quadro, benché non siano a nostra disposizione che tre esempi. Il fr. DK 68 B122a attesta la sua ipotesi di derivazione di γυνή da γονή, mentre la testimonianza DK 68 A159 riporta la connessione tra φλεγμονή e φλέγμα. In entrambi i casi, si tratta di termini comuni legati alla sfera medico-scientifica e il procedimento da lui adottato, affine alla sensibilità moderna, cerca di ricostruire rapporti logici di derivazione tra le parole all’interno del sapere umano, senza intendere piegare l’etimologia a fini esterni rispetto alla ricerca dell’origine di un vocabolo o di un concetto. Istruttivo è l’unico caso di analisi etimologica di un epiteto divino, a proposito di Τριτογένεια, riferito ad Atena: γίνεται δὲ ἐκ τοῦ φρονεῖν τρία ταῦτα· βουλεύεσθαι καλῶς, λέγειν ἀναμαρτήτως καὶ πράττειν ἃ δεῖ (DK 68B2). Questo esempio isolato permette di intravedere una sostanziale eticizzazione del divino, sostenuta dall’analisi etimologica.

52

forme di rappresentazione del rapporto tra l’uomo e il dio e la ricerca di un nuovo significato nel significante, cui si torna ad attribuire il valore di ‘capsula di realtà’, di forma contenente la propria motivazione, che il filosofo può contemplare con nuovi occhi: il destinatario dell’opera di Empedocle, ad esempio, viene invitato a considerare la realtà nella sua dimensione più profonda, attraverso l’occhio del pensiero razionale, senza fidarsi dei sensi comuni154.

Se in questo periodo non assistiamo a raffinamenti significativi del metodo etimologico, il quadro mentale in cui si inseriscono le riflessioni sui teonimi in questa fase risente profondamente della necessità di reductio ad unum della molteplicità di nomi ed epiteti contraddittori tramandati dalle tradizioni locali e dall’epica, cui proprio l’etimologia cerca di fornire una soluzione. Si aprono i problemi che porteranno, nel IV secolo a.C., al consolidamento della mentalità allegorico-etimologica: qual è il rapporto tra nome degli dèi e natura divina? Quanto è giusto credere nella tradizione e fino a che punto è empio discostarsene? In che modo è possibile garantire stabilità al coacervo di credenze mitiche, di riti, di appellativi che Omero e Esiodo hanno trasmesso ai posteri? Il linguaggio umano è in grado di sostenere il peso della verità? È ciò che si chiede Empedocle, giungendo a una risposta di compromesso: ἣ θέμις <δὲ> καλέουσι, νόμωι δ’ ἐπίφημι καὶ αὐτός.155

A differenza di altri pensatori e poeti, egli esplicita la necessità di conformarsi all’uso linguistico dei mortali per enunciare il suo messaggio, pur rendendosi conto del fatto che le denominazioni convenzionali sono fuorvianti – ma non del tutto erronee. La tradizione ha fissato determinati nomi ed Empedocle sceglie, nella sua trattazione, di adoperare comunque quei termini convenzionali per far emergere la verità, ricorrendo all’interpretazione e all’esercizio della ragione per correggerne le imperfezioni156. Empedocle crede che la lingua e i nomi vadano interpretati, poiché

154 DK 31 B17, 30 τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς.

155 DK 31 B9: «danno i nomi come è stato sancito, e anch’io parlerò seguendo la consuetudine».

Gallavotti 1975 non accetta l'integrazione di Wyttenbach οὐ, accolta da DK, che rende il verbo negativo, e argomenta in modo convincente il perché, riferendosi all’uso linguistico omerico e anche sulla base del contesto di Plutarco che ci tramanda i versi di Empedocle. A lui mi conformo in questo punto.

156 In DK 31 B131 Empedocle ricorre a una invocazione molto tradizionale a Calliopea, il cui nome egli

interpreta etimologicamente scomponendolo, alla maniera di Esiodo (Th. 68, ὀπὶ καλῇ; ma poi cfr. 84, ἔπεα) nei suoi due costituenti: all’elemento Καλλι- corrisponde ἀγαθὸν, mentre nella seconda parte del nome Empedocle riconosce la parola ἔπος, cui accosta il sinonimo λόγον. Empedocle prega, invoca la dèa e le chiede di essere presente nel ‘bel ragionamento’ che egli sta rendendo manifesto come un’epifania divina. Cfr. Hardie 2009, 22-23: «After Hesiod, Calliope is associated with ἔπεα in Alcman fr. 27, and she is later the patroness of καλλιεπεία (“beautiful speech”). Empedocles suggests the extension of that interest to λόγος, the quality of which will be guaranteed by Calliope’s epiphany and by identification with the poem».

53

riconosce ad essi un rapporto con la verità, in quanto strumenti di indagine, purché siano sottoposti a una revisione allegorica, che adatta le forme tradizionali a nuovi contenuti senza alterarne la fisionomia157. Ma è l’esperienza di Eraclito a sintetizzare al meglio il rapporto tra religione e nuova filosofia, una partita che non si risolve radicalmente a favore della seconda, ma finisce per ammettere al suo interno l’esistenza della prima.

ἓν τὸ σοφὸν μοῦνον λέγεσθαι οὐκ ἐθέλει καὶ ἐθέλει Ζηνὸς ὄνομα.158

La sapienza, designata con un termine di genere neutro, che si discosta dalla identificazione con un dio antropomorfico e si accorda alla nascente concezione di una divinità trascendente e impersonale (τὸ θεῖον159), rappresenta la forma suprema di divinità160. Ad essa Eraclito riferisce il fatto di non volere e volere λέγεσθαι Ζηνὸς

157 Nel fr. DK 31 B17, 31-33, Φιλότης, il principio che ingenera l’unione e l’armonia, viene

correntemente indicata dagli uomini con il nome di Afrodite; in virtù della tendenza all’unione sessuale, che gli uomini erroneamente collocano nelle membra, ma che in realtà è un riflesso dell’azione invisibile di Concordia, gli uomini venerano questo principio con i nomi di Γηθοσύνη e Ἀφροδίτη. I mortali intuiscono la presenza della forza cosmica tra di loro, ma la divinizzano attribuendole molti nomi. Nel fr. B6 DK agli dèi Zeus, Aidoneus, Hera, Nestis corrispondono i quattro elementi; non vi è traccia di interpretazione etimologica nella costruzione di questa allegoria; è da rifiutare l’idea di Sprague 1972, che, in base alla lettura del nome di Hera come ‘aria’ presente in Pl. Cr. 404c, riconduce a Empedocle tale etimologia; l’epiteto φερέσβιος a lei riferito rende più probabile l’identificazione con la terra, senza contare che i nomi degli altri tre dèi non rivelano apparentamenti etimologici con gli elementi loro associati. Zeus corrisponde al fuoco, Hera alla terra, Nestis all’acqua e Aidoneo all’aria: i primi due sono principi di vita, i secondi di morte. Si capisce anche da questo esempio la vitalità del linguaggio religioso tradizionale nel pensiero empedocleo, quale veicolo di contenuti filosofici ancora riutilizzabile nonostante la sua scarsa veridicità nella versione vulgata.

158 DK 22 B32: «Una è la sapienza; essa non vuole e vuole essere detta soltanto col nome di Zeus». Il

frammento presenta notevoli difficoltà di costruzione. L’ardua concordanza ἓν... μοῦνον e il significato da attribuire a λέγεσθαι sono senz’altro i due problemi più rilevanti, la cui soluzione dipende dall’interpretazione generale del frammento. Nel primo caso è possibile considerare τὸ σοφόν come soggetto a cui riferire tanto ἓν quanto μοῦνον, benché ciò dia luogo a una spiacevole ridondanza; a mio avviso è preferibile ipotizzare, con Hölscher e Kraus, una pausa che separi ἓν τὸ σοφὸν dal seguito, alla luce del frammento B41 (εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ

54

ὄνομα. Il termine λέγεσθαι viene normalmente inteso come ‘essere chiamato’, ma Catherine Rowett ha recentemente formulato la suggestiva ipotesi di considerarlo forma media con il senso di ‘scegliere per sé’161

. È difficile sostenere che il significato non vada ricondotto alla sfera semantica del ‘dire’ («che sia detto il nome di Zeus»), ma la proposta di Rowett ha il merito di evidenziare una distanza radicale tra λέγεσθαι e i più appropriati verbi καλεῖσθαι o ὀνομάζεσθαι; la scelta di Eraclito non è casuale e si può motivare in base alla concezione enigmatica della lingua che lo contraddistingue162. Il λόγος eracliteo esprime l’ambiguo rapporto tra esistenza dell’entità suprema, che è unica, e la sua espressione nella mente e nella lingua degli uomini, che è molteplice: come l’oracolo, Eraclito stimola il lettore a sciogliere l’enigma attraverso la stessa ambiguità delle parole che lo compongono. Il nome che il dio non vuole e vuole per sé è significativamente espresso nella forma genitivale arcaica Ζηνός, in luogo della più consueta Διός: il richiamo, presente già a Platone163, è al verbo ζῆν, ‘vivere’. Alla luce di questa associazione, si comprende perché il nome venga accettato e rifiutato dalla sapienza divina. Lo vuole perché esso designa tradizionalmente l’entità suprema ed è giusto mantenere un atteggiamento di rispetto nei confronti del culto; lo rifiuta perché esso è solo una delle molteplici manifestazioni che il principio sommo attraversa nel suo flusso eterno, e dunque un momento dopo essere stato definito Zeus esso è già divenuto qualcosa di diverso, di cui il nome è solo una delle possibili designazioni; in particolare, l’espressione manca del suo opposto, la morte, che pure la sostanza divina implica. I nomi sono per Eraclito dei mezzi attraverso i quali si chiarisce la sua visione del cosmo164: egli non si interroga sulla loro origine – non sostiene mai che essi siano frutto di un’imposizione umana arbitraria – ma se ne serve quali segnali della natura divina, tenendo conto anche del sentimento di riverenza verso il dio che la tradizione in parte garantisce, purché le sia applicato il correttivo dell’interpretazione filosofica165. In

logos: putting one’s own thought, speech, and action in harmony with the universal course of things»

(Kahn 1981, 268).

161

Rowett 2013, 181: «Yet there is another possibility. λέγεσθαι might be middle, not passive. Then the translation could be: “One, the wise, alone, is not willing, and is willing, to call himself the name of 'Zeus'”, or (if λέγεσθαι has its “choosing” sense as well as its “speaking” sense) “One, the wise, alone, is not willing, and is willing, to choose for himself the name of 'Zeus'”».

162 Kahn 1981, 270: «As for the verb legesthai here instead of ‘to call’ or ‘to name’, its use is probably

motivated by the etymology: in this name (onoma) a statement (logos) is hidden».

163

Plat. Cr. 396a-b; la medesima associazione è adombrata in Aisch. Suppl. 584 ss.

164

Dilcher 1995, 129: «The names are no further field of inquiry, but the very medium through which understanding can be achieved, the medium through which the logos speaks and can be heard».

165 Se Eraclito avesse rifiutato in toto la concezione tradizionale degli dèi, non avrebbe depositato il suo

55

Eraclito è dispiegata quella che chiamerei la potenzialità simbolica della lingua, in un senso attivo, poiché l’“oscuro” di Efeso non si pone nella prospettiva del lettore o del critico letterario che analizza con distacco le vestigia del passato mitico166, ma del sapiente che a partire da un enigma crea altri enigmi, e trova nell’equilibrio permanente tra forma e sostanza, ovvero tra significante e significato, e non nella loro separazione, l’accesso alla verità divina. D’altro canto, il volgo ignorante non conosce veramente gli dèi: gli uomini pregano i simulacri (ἀγάλματα) ed è come se parlassero al muro167. Eraclito crede di conseguenza che i riti e le invocazioni non colgano nel segno, se semplificano la forma rispetto a un contenuto complesso. Ciò non significa che la forma non possa essere penetrata da un intelletto più acuto, capace di dispiegarne il potenziale

Documenti correlati