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L’esperienza percettiva è una percezione penetrata cognitivamente in modo superforte

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L’esperienza pittorica è una percezione penetrata cognitivamente in modo superforte

Alberto Voltolini (Università di Torino)

Abstract

Per Wollheim (19802, 1987, 1998, 2003), l’esperienza pittorica è costituita dall’esperienza percettiva sui generis di vedere-in, il cui contenuto è (almeno in parte) concettuale. In questo lavoro, voglio sostenere che se si riconcepisce in maniera adeguata il vedere-in, le idee di Wollheim possono essere giustificate. In particolare voglio affermare, in primo luogo, che il vedere-in è il caso paradigmatico di un’esperienza penetrata cognitivamente

in modo superforte: cioè, un’esperienza tale che il suo contenuto non solo è (almeno in

parte) concettuale, ma anche qualifica quell’esperienza come tale, e non un suo presunto stadio post-percettivo o osservativo, come i modularisti sostengono a proposito dell’esperienza percettiva ordinaria. A questo riguardo, in secondo luogo, voglio sostenere che il vedere-in è una esperienza percettiva genuina, benché effettivamente sui generis. Perciò, il suo essere penetrata cognitivamente in modo superforte non inficia il suo carattere percettivo, come sostengono invece alcuni che sono peraltro favorevoli all’idea che l’esperienza pittorica abbia un carattere intrinsecamente concettuale (p.es. Walton 1990).

1. Introduzione

Per Wollheim (19802, 1987, 1998), l’esperienza pittorica è un’esperienza percettiva sui

generis. Si tratta infatti di vedere-in, uno stato mentale duplice, costituito dall’aspetto configurativo (AC), in cui il veicolo dell’immagine – la base fisica dell’immagine – è colto

percettivamente, e dall’aspetto ricognitivo (AR), in cui una cosa diversa dal veicolo, ciò che l’immagine presenta ossia il suo soggetto,1 è colta altrettanto percettivamente. Di fondo, il carattere specifico di tale esperienza ha a che fare col fatto che, benché i suoi aspetti siano diversi, il vedere-in è una vera e propria esperienza di fusione, in cui l’esperienza del tutto

1 A differenza di altri (Husserl 2006, Nanay 2016, 2018), Wollheim non distingue tra ciò che un’immagine presenta e il soggetto dell’immagine, inteso come ciò su cui l’immagine verte.

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non corrisponde alla mera somma delle esperienze delle sue parti (Stumpf 1890). Infatti, come sottolineato da Wollheim, tali aspetti sono così intimamente connessi che nessuno di loro è identico alla corrispondente esperienza percettiva presa da sola; rispettivamente, la percezione del veicolo dell’immagine per se, come un oggetto fisico tra gli altri, e la percezione diretta del soggetto che l’immagine presenta.2

In uno dei suoi ultimi lavori sul vedere-in, Wollheim osservava: “qualunque stima potremmo attribuire al ruolo della modularità nella percezione, c’è ovviamente un livello di complessità sopra il quale esso non si applica, e abbiamo ragione di pensare che la percezione pittorica stia fuori del suo ambito” (2003:10). Normalmente, si interpretano queste osservazioni di Wollheim come un sostegno all’idea che per lui l’esperienza di vedere-in è penetrato cognitivamente,3 non solo nel senso debole che il suo carattere fenomenico è influenzato dal contenuto concettuale degli stati cognitivi del portatore di tale esperienza (tipicamente, le sue aspettative e credenze), ma anche nel senso forte che il suo contenuto è costituito da concetti, grosso modo identici a quelli che figurano nel contenuto di tali stati cognitivi (per questi diversi sensi di penetrazione cognitiva, vedi Briscoe 2015, Macpherson 2012, 2015; Raftopoulos e Zeimbekis 2015, Stokes 2015).4 In questo lavoro, assumerò che Wollheim abbia ragione nel concepire l’esperienza pittorica in termini di vedere-in. Tuttavia, per difendere la sua osservazione che il vedere-in è fondamentalmente concettuale, lo stesso vedere-in dev’essere integralmente riconcepito. Per cominciare, nella prossima sezione voglio mostrare, in primo luogo, che Wollheim aveva ragione almeno in relazione al contenuto dell’AR: quel contenuto è certamente concettuale. Perciò, il vedere-in come tale è penetrato cognitivamente in senso forte. Ma in secondo luogo, voglio anche sostenere che l’AR del vedere-in, e quindi il vedere-in come

2 Come vedremo dopo, questa non è l’unica ragione per cui il vedere-in è un’esperienza percettiva sui

generis. Un’altra e connessa ragione è che, a differenza dell’esperienza percettiva ordinaria, il vedere-in non è

accompagnato da un sentimento di presenza riguardante ciò su cui verte il suo AR, il soggetto dell’immagine; ciò che è sentito così è solo ciò su cui verte il suo AC, il veicolo dell’immagine.

3 Cfr. p.es. Dorsch (2016).

4 Raftopoulos e Zeimbekis (2015) forniscono un’altra caratterizzazione di penetrazione cognitiva oltre a quella che loro chiamano la “condizione basata sul contenuto”, quello che nel testo ho chiamato il senso forte. Secondo quest’altra caratterizzazione, la penetrazione cognitiva è “un requisito sugli stati del veicolo: perché ci sia PC [penetrazione cognitiva], il sistema percettivo deve fare direttamente riferimento alle risorse informazionali di un sistema cognitivo nel realizzare le sue computazioni” (2015:27). Tuttavia, per loro questa caratterizzazione non solo è un’altra condizione necessaria di penetrazione cognitiva oltre alla condizione basata sul contenuto, ma influenza anche gli stati percettivi come meccanismi cerebrali, indipendentemente dal loro essere stati consci. Poiché qui mi focalizzo sulle esperienze percettive, mi attengo ai due sensi di penetrazione cognitiva indicati nel testo.

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tale, è penetrato cognitivamente in modo superforte, nel senso che, a differenza dell’esperienza percettiva ordinaria, il vedere-in ha come tale un contenuto concettuale, poiché il suo AR ha un contenuto concettuale nel suo insieme, non in un suo presunto stadio osservazionale che dovrebbe coinvolgere quell’aspetto solo dopo, una volta cioè che il meccanismo propriamente percettivo dell’esperienza ha realizzato il suo ruolo di individuare nonconcettualmente gli elementi di un ambiente (Pylyshyn 2003, Raftopoulos 2009). In breve, a differenza dell’esperienza percettiva ordinaria, grazie al suo AR il vedere-in mette vedere-in discussione la distvedere-inzione tra visione primaria e secondaria difesa dai modularisti sulla percezione. In particolare, il modo in cui il vedere-in mette in discussione quella distinzione lo rende il caso paradigmatico di un’esperienza penetrata cognitivamente in modo superforte. Nella sezione successiva, infine, voglio mostrare che quanto al vedere-in, il suo costituire una forma paradigmatica di penetrazione cognitiva superforte non minaccia il suo essere un’esperienza percettiva, come Wollheim stesso sosteneva.

2. Qua vedere-in, l’esperienza pittorica è penetrata cognitivamente in modo superforte

2.1. Esperienza percettiva ordinaria

Per vedere come il vedere-in può essere penetrato cognitivamente in modo superforte, bisogna prima di tutto chiarire come l’esperienza percettiva ordinaria funzioni diversamente. Com’è noto, nel tradizionale resoconto computazionalista di tale esperienza5 sono coinvolti tre stadi rappresentazionali (Marr 1982): i) lo schizzo primario, in cui (inter alia) si colgono i contrasti di luminosità nella scena percepita; ii) lo schizzo

2D½, in cui (inter alia) si colgono le relazioni di profondità tra gli elementi di tale scena,

nella misura in cui vengono catturati contorni e occlusioni tra quegli elementi; iii) il

modello rappresentazionale 3D, in cui si vede un vero e proprio oggetto 3D. Per i

modularisti, che sostengono che la percezione in generale è cognitivamente incapsulata, cioè, è impermeabile agli stati del sistema cognitivo (Fodor 1983), solo i primi due stadi

5 Questo resoconto vale per la percezione in generale, indipendentemente dal suo essere conscia. Dato però che nel lavoro mi concentro su esperienze percettive, lo considero in relazione solo a queste ultime.

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sono propriamente percettivi. Nel caso della modalità percettiva di cui parlo in questo lavoro, la visione, quei due stadi costituiscono la cosiddetta visione primaria, che consente già di identificare elementi nell’ambiente circostante al soggetto ( proto-oggetti, nella terminologia di Pylyshyn 2003; cfr. anche Raftopoulos 2009) e di distinguerli da altri elementi in quell’ambiente – in breve, di individuarli nonconcettualmente. Il terzo stadio costituisce invece solo la visione secondaria; per parlare propriamente, infatti, è uno stadio osservazionale, cioè post-percettivo, poiché concettualizza elementi già individuati.6 Il terzo stadio mobilita per l’appunto concetti, poiché l’osservazione di un certo oggetto 3D è influenzata nel suo contenuto da qualche stato cognitivo del portatore di tale osservazione; in particolare, quelle aspettative e credenze il cui contenuto grosso modo contiene gli stessi concetti. Essendo così costituito da concetti, il terzo stadio, la visione secondaria, è penetrato cognitivamente in modo forte, come originariamente sostenuto da Pylyshyn (1999, 2003). Invece i primi due stadi, quelli che costituiscono la visione primaria, non sono penetrati cognitivamente, almeno nello stesso modo. Infatti, il contenuto della visione primaria non contiene concetti. Secondo alcuni (Macpherson 2012, 2015), la visione primaria può però essere penetrata cognitivamente in senso

debole.7 Nella misura in cui le rilevanti esperienze percettive sono determinate solo causalmente da stati cognitivi il cui contenuto è concettuale (Tye 1995), esse sono influenzate da tali stati solo rispetto al loro carattere fenomenico; tuttavia, il loro contenuto rimane nonconcettuale.

Questa distinzione tra visione primaria e secondaria sembra implicare che quando si rinviene da un errore in un’individuazione nonconcettuale di ciò che si percepisce, tale revisione è solo un mutamento nell’interpretazione concettuale post-percettiva di un oggetto già percepito. Ma come può essere? Quando si riconosce (nel classico esempio di Carneade) che ciò che si ha davanti non è un serpente, come si credeva, ma una corda, può questo essere un mutamento solo nell’interpretazione concettuale di ciò che si percepisce, che rimane però percettivamente identico? Non c’è un mutamento

6 Si può conservare questa distinzione tra visione primaria e secondaria anche se non si è modularisti stretti, se si accetta che la visione primaria non è cognitivamente incapsulata, perché è influenzata da qualche altro stato mentale. Cfr. Raftopoulos e Zeimbekis (2015:3,6).

7 Macpherson ha recentemente difeso quella che lei chiama “penetrazione cognitiva leggera” (2015:345) come il modello di penetrazione cognitiva che comprende meglio questo modo debole di penetrazione. La penetrazione cognitiva leggera influenza solo il carattere fenomenico di un’esperienza percettiva il cui contenuto è nonconcettuale, nella misura in cui tale esperienza può condividere quel carattere con un’altra esperienza che non è così penetrata. Raftopoulos (2009, 2016) respinge però anche questa forma di penetrazione cognitiva per la visione primaria.

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fenomenico nella propria esperienza percettiva, che induce un mutamento corrispondente in ciò che si percepisce? In quel riconoscimento, l’originaria apprensione di animazione e vitalità sparisce, in quanto rimpiazzata dall’apprensione di nonanimazione e nonvitalità. Certo, tale mutamento apprensionale sembra percettivo.

Una tale situazione ha portato i sostenitori di Siegel (2010) ad affermare che, per quanto riguarda l’esperienza percettiva ordinaria, non c’è una vera distinzione tra visione primaria e secondaria. Per loro, l’esperienza percettiva ordinaria è penetrata cognitivamente in senso forte come tale, non in un suo presunto stadio post-percettivo. Nella mia terminologia, per loro tale esperienza è penetrata cognitivamente in modo superforte. Questo perché essa mobilita la percezione di proprietà di alto livello come le proprietà di genere naturale. Nell’esempio precedente, il mutamento fenomenico corrisponde ad una differenza nelle proprietà percettive di alto livello che sono colte grazie a quella penetrazione nell’esperienza percettiva: dalla proprietà di essere un serpente alla proprietà di essere una corda.8

Tuttavia, i sostenitori della distinzione tra visione primaria e secondaria possono rendere conto di questa situazione in maniera diversa. Così, non devono concepire l’esperienza percettiva ordinaria come penetrata cognitivamente in modo superforte.

Per cominciare, essi possono dire che la segmentazione figurale che ricorre nello schizzo 2D½ mostra chiaramente che in quello schizzo si percepiscono anche le cosiddette

proprietà di raggruppamento degli elementi della scena percepita. Le proprietà di

raggruppamento sono le proprietà che gli elementi di una scena percepita hanno di essere organizzati in un certo ordine (relativamente a certi punti direzionali di riferimento) lungo una dimensione spaziale. Si possono vedere chiaramente all’opera tali proprietà nel caso delle figure ambigue, come quella di Mach. Se si vede quella figura ora come un rombo ora come un quadrato inclinato, questa bistabilità visiva dipende dal fatto che si vede che le linee della figura sono organizzate o lungo le prime due dimensioni in certe direzioni (una nord-sud e una est-ovest) o lungo quelle dimensioni in altre direzioni (una nord-est/sud-ovest e un’altra nord-nord-est/sud-ovest/sud-est). Chiaramente, questo caso mostra che le proprietà di raggruppamento sono proprietà di livello superiore di quello di proprietà percettive di basso livello come colori e forme.9 I colori e le forme della figura restano identici, e tuttavia

8 Siegel non la metterebbe giù proprio così. Nell’ammettere che l’esperienza percettiva ordinaria è cognitivamente penetrata lei non fa riferimento ad un contenuto, limitandosi a dire che tale penetrazione permette a quell’esperienza di cogliere proprietà di alto livello.

9 Se si vuole, invece di dire che le proprietà di raggruppamento sono proprietà di alto livello, si può dire che sono proprietà di basso livello di second’ordine, come sostiene Stokes (2014) per quanto riguarda Gestalten

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l’apprensione della figura comporta un mutamento fenomenico, che dipende da quale tipo di proprietà di raggruppamento sono coinvolte in quell’apprensione.

Poiché nel caso di figure ambigue le proprietà di raggruppamento sono le sole proprietà della figura rilevante che cambiano nel passare dal vedere la figura in un modo a vederla in un altro modo, indubitabilmente esse sono responsabili per quel passaggio. Tuttavia, si può dubitare che le proprietà di raggruppamento siano percettivamente rilevanti: coglierle non è l’esito di una comprensione intellettuale della figura?10

Ma i sostenitori della distinzione tra visione primaria e secondaria possono replicare che le proprietà di raggruppamento sono proprietà percettive genuine. Infatti, proprio come le proprietà percettive di basso livello, esse sono qualificate da caratteristiche propriamente percettive: i) esclusività (i percetti bistabili in un mutamento gestaltico come il precedente non sono dati simultaneamente), ii) inevitabilità (in quel mutamento, una lettura rimpiazzerà prima o poi l’altra); iii) casualità (la durata di una fase di quel mutamento non è funzione delle durate precedenti) (Block 2014). Così, il loro essere proprietà di livello superiore non le rende un prodotto dell’intelletto. Come mostra il caso delle figure ambigue, il mutamento di contenuto in un’esperienza percettiva che è determinato da un mutamento nelle proprietà di raggruppamento che sono colte in ciò che è percepito è solo un mutamento nel contenuto nonconcettuale di quell’esperienza (Orlandi 2011, Raftopoulos 2009, 2011).

Inoltre, una volta che i sostenitori della distinzione tra visione primaria e secondaria si appellano a proprietà di raggruppamento, essi possono rendere propriamente conto dell’aspetto percettivamente fenomenico di un cambiamento ricognitivo come quello coinvolto nel prendere erroneamente una corda per un serpente. Infatti, a differenza dei sostenitori di Siegel, essi non devono fare appello in un caso del genere ad una penetrazione cognitiva superforte. Nel rinvenire da un errore relativo all’individuazione nonconcettuale di ciò che si percepisce, ciò che ha luogo è proprio un mutamento percettivo ma nonconcettuale, dal momento che si ha una diversità nelle proprietà di raggruppamento che sono percepite. Quando si smette p.es. di prendere una corda per un serpente, si passa dal percepire illusoriamente certe proprietà di raggruppamento di tipo serpentoide al percepire veridicamente certe altre proprietà di raggruppamento di tipo cordoide (cfr. anche Jagnow 2015). Quindi, i contenuti delle due esperienze percettive che sono in gioco qui, la prima illusoria e la seconda veridica, nel loro nucleo percettivo

ricognitive e artistiche.

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inerente alla visione primaria non sono influenzati da concetti. Il mutamento di contenuto che ha luogo in tali esperienze è infatti solo un mutamento nel loro contenuto nonconcettuale. Al più, i differenti concetti che tale situazione può mobilitare – essere un

serpente, essere una corda – penetrano tali esperienze percettive nel loro nucleo ma solo

debolmente.11 Essi possono infatti essere responsabili del solo mutamento nel carattere fenomenico di tali esperienze; fare riferimento a tali concetti può permettere a qualcuno di cogliere la differenza percettivamente rilevante tra il carattere fenomenico di tali esperienze.12

2.2. Esperienza pittorica

La precedente sottosezione ha mostrato che i difensori della distinzione tra visione primaria e secondaria possono legittimamente dire che l’esperienza percettiva ordinaria è, quanto al suo nucleo legato alla visione primaria, al più penetrata cognitivamente in senso debole, così da consentire a concetti di influenzare solo il carattere fenomenico di quell’esperienza nel suo nucleo, il cui contenuto nonconcettuale mobilita proprietà di

11 Si veda anche Briscoe (2015). Raftopoulos (2015) ammette una forma di penetrazione cognitiva che influenza in casi simili la fenomenologia dell’esperienza percettiva. Tuttavia egli sostiene non solo che tale influenza concerne solo la visione secondaria, ma anche che è in realtà un caso di penetrazione cognitiva forte, perché il contenuto di tale esperienza è sempre costituito da concetti, seppure di tipo solo visivo e non semantico, come per lui sono presumibilmente i concetti di essere un serpente e essere una corda. Dal momento che altrove (2011) egli tratta le proprietà di raggruppamento come costituenti un contenuto nonconcettuale per l’esperienza percettiva che le coglie, penso che per “concetti visivi” non abbia in mente queste proprietà.

12 Come ho detto, il contenuto di tali esperienze nel loro nucleo è nonconcettuale, determinato com’è da proprietà di raggruppamento. Perciò, si può soprassedere alla preoccupazione di Raftopoulos (2016:1111-2) che, pace Macpherson, tali esperienze non possano condividere lo stesso carattere fenomenico con altre esperienze percettive che non sono così penetrate, dal momento che, a dfferenza di queste ultime, esse dovrebbero avere un contenuto concettuale e quindi essere un caso di visione secondaria. Raftopoulos certamente ribatterebbe che i concetti non possono influenzare neppure la fenomenologia di un’esperienza percettiva. Al più, essi possono indurre un aumento dell’attenzione che consente a tale esperienza di aver luogo, del tutto indipendentemente da concetti (2016:1103-5). Tuttavia, quanto alle proprietà di raggruppamento colte in quell’esperienza, l’attenzione che le riguarda e che può essere attivata anche senza l’apporto di concetti è olistica, non locale (cfr. Jagnow 2011, Stokes 2018, Voltolini 2015). Come tale, essa influenza il carattere fenomenico dell’esperienza allo stesso modo, che sia innescata da concetti o meno. Proprio come sostengono i difensori della penetrazione cognitiva debole.

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raggruppamento. Sulla base di questo risultato, posso ora vedere come stanno le cose rispetto all’esperienza pittorica, presa à la Wollheim come un’esperienza di vedere-in. In primo luogo, le proprietà di raggruppamento giocano nell’esperienza percettiva ordinaria e nel vedere-in un ruolo simile, ma solo fino a un certo punto. Infatti, nell’AC della rilevante esperienza di vedere-in, il raggruppamento gioca un ruolo più fondamentale che nell’esperienza percettiva ordinaria.

Certamente, almeno per quanto riguarda immagini 2D,13 gli elementi del veicolo dell’immagine sono primariamente raggruppati nelle prime due dimensioni, altezza e larghezza, che articolano la percezione di quel veicolo per se, cioè, come mero oggetto fisico indipendentemente dal suo potere pittorico. In altri termini, qui il raggruppamento qualifica il veicolo dell’immagine proprio come, nell’esperienza percettiva ordinaria, qualifica un qualsiasi oggetto fisico. Tuttavia, come Wollheim sottolineava, l’apprensione del veicolo dell’immagine nell’AC di un’esperienza di vedere-in è diversa dalla sua apprensione come mero oggetto fisico tra gli altri. Voglio rendere conto di questa idea di Wollheim dicendo che un ulteriore raggruppamento può in tal caso qualificare gli elementi del veicolo. Questo raggruppamento è decisivo per il vedere-in: si tratta infatti del raggruppamento di tali elementi in nella terza dimensione, profondità. Questo raggruppamento 3D consente al veicolo di essere il veicolo di un’immagine; ossia, di avere un valore figurativo, di essere cioè tale che in esso si discerna un’altra cosa, il soggetto dell’immagine. Infatti, è in virtù di questo raggruppamento che una vera e propria esperienza di vedere-in viene ad aver luogo, nel cui AC il raggruppamento 3D degli elementi del veicolo consente al soggetto dell’immagine di essere a sua volta esperito nel suo AR.

Questa situazione è evidente nelle cosiddette immagini in cui ‘balena l’aspetto’, come la famosa immagine di un dalmata. Se gli elementi del veicolo di tale immagine sono raggruppati solo nelle prime due dimensioni, quel veicolo è ancora percepito come il mero oggetto fisico 2D che è; cioè, come un insieme di macchie bianche e nere. Ma tali elementi possono anche essere raggruppati nella terza dimensione, di modo che ‘sorga’ un certo contorno che consente ad alcuni di tali elementi di allontanarsi sullo sfondo e ad altri di venire in primo piano. Perciò, in virtù di questo raggruppamento si determina un AC di un’esperienza di vedere-in. In quell’AC, infatti, il veicolo così raggruppato acquisisce quel

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potere pittorico che permette di discernere un altro elemento, ossia, un dalmata, in quello che a questo punto risulta essere l’AR di quella stessa esperienza.14

In secondo luogo, tuttavia, questa situazione che riguarda il veicolo pittorico come veicolo

dell’immagine non mostra ancora che un’esperienza di vedere-in è penetrata

cognitivamente in modo superforte, cioè, non solo è un’esperienza il cui contenuto, almeno in parte, è concettuale, ma mette anche in discussione la distinzione tra la visione primaria e secondaria, in quanto ha quel contenuto nel suo AR preso interamente, non in un suo presunto stadio post-percettivo. Dato infatti quanto ho detto prima in favore dei difensori della distinzione tra la visione primaria e secondaria, il raggruppamento 3D che consente ad un veicolo di esprimere un valore figurativo è solo innescato da una mera penetrazione cognitiva debole, che trasforma il carattere fenomenico dell’esperienza percettiva del veicolo come un oggetto fisico tra gli altri nell’esperienza para3D del veicolo

dell’immagine, qual è l’AC della rilevante esperienza di vedere-in. Nel caso dell’immagine

del dalmata, una volta che si sa che in essa si può discernere un dalmata, nell’AC della rilevante esperienza di vedere-in si possono cogliere alcune macchie bianche e nere del come elementi che stanno davanti ad altre macchie del genere prese come loro sfondo.15 Ascrivere questa forma di penetrazione cognitiva debole all’esperienza pittorica è certamente un risultato interessante che corrobora ulteriormente quei risultati simili che

14 Se ci sono cose come immagini 3D, cioè, se le sculture sono immagini ma solo di un tipo 3D, come alcuni pensano (p.es, Walton 1990 e lo stesso Wollheim 1987), questo raggruppamento ulteriore è meno evidente. In tal caso, infatti, in quanto oggetto 3D, il veicolo dell’immagine come tale, p.es., un pezzo di marmo, è fin dall’inizio raggruppato anche nella terza dimensione. Tuttavia, anche in tal caso quell’ulteriore raggruppamento è presente. Nel suo valore pittorico, il raggruppamento di un pezzo di marmo è più articolato del raggruppamento di un pezzo di marmo come tale, che è proprio come un qualsiasi altro oggetto fisico 3D. Se nel pezzo di marmo che fa da veicolo al capolavoro di Gian Lorenzo Bernini Il ratto di

Proserpina non si vedesse qualcosa che penetra dentro qualcos’altro, si perderebbe qualcosa percettivamente.

15 Cfr. Lopes (2005:41-4), Nanay (2016). Certo, si può dire che non tutti quei raggruppamenti ulteriori che determinano il sorgere di un AC di un’esperienza di vedere-in sono facilitati da una forma debole di penetrazione cognitiva. In alcuni casi, grazie agli indizi di profondità già presenti nel veicolo dell’immagine, quel veicolo è più naturalmente coinvolto da un tale raggruppamento ulteriore nello schizzo 2D½ che produce, nell’AC della rilevante esperienza di vedere-in, l’appropriata segmentazione figura-sfondo degli elementi del veicolo, piuttosto che da una mera esperienza in 2D che coglie quel veicolo come un mero oggetto fisico tra gli altri. Tipicamente, questa situazione ha luogo quando sono in gioco immagini naturalistiche. Su questa distinzione tra un tipo di esperienza pittorica che coinvolge una (di fatto, debole) forma di penetrazione cognitiva e un altro tipo di tale esperienza che non coinvolge una tale penetrazione (che deve piuttosto darsi se si ha in quel caso una mera lettura 2D, non pittorica, del veicolo dell’immagine), cfr. Zeimbekis (2015, 2018).

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abbiamo trovato nel caso dell’esperienza percettiva ordinaria. Incidentalmente, possiamo ottenere tale risultato anche in altri modi, p.es. considerando gli aspetti gestaltici che sono coinvolti nella categorizzazione di un’immagine qua opera d’arte, come sottolinea Stokes (2014). Il che è in linea con l’intenzione di Wollheim di prendere il vedere-in come un’esperienza penetrata cognitivamente.

Tuttavia come accennavo prima, si può giustificare la tesi di Wollheim della penetrazione cognitiva del vedere-in in un modo ben più importante, mostrando come si può intendere il vedere-in come un’esperienza penetrata cognitivamente in modo superforte.

Per cominciare, ricordo che i difensori della distinzione tra visione primaria e secondaria la giustificano dicendo che nella visione primaria si individua nonconcettualmente un elemento in quanto ci si riferisce (mentalmente) ad esso in modo puramente dimostrativo (Pylyshyn 2003, Raftopoulos 2009). Ora, si può avere una tale individuazione dimostrativa nonconcettuale in quanto si può collocare l’elemento rilevante in una certa area spaziotemporale. Si può tener traccia di un determinato QUELLO collocandolo in una tale area. Così facendo, lo si individua nonconcettualmente distinguendolo da altri QUELLI che vengono localizzati diversamente, cioè in altre aree del genere. Nel vedere-in, però, si collocano esperienzialmente due elementi, il veicolo dell’immagine (nel suo valore figurativo) e il soggetto dell’immagine, proprio nella stessa area spaziotemporale. In effetti, qui il riferimento dimostrativo è indeterminato; nel proferire (mentalmente) “questo è bello!” ci si può infatti riferire dimostrativamente tanto al veicolo dell’immagine quanto al soggetto dell’immagine (cfr. Lopes 2010, Voltolini 2009). Di conseguenza, non si possono individuare nonconcettualmente entrambi gli elementi. Se si concorda sul fatto che il primo elemento, il veicolo dell’immagine (nel suo valore figurativo) è raggruppato nonconcettualmente nell’AC di un’esperienza di vedere-in, il secondo elemento, il soggetto dell’immagine, dev’essere concettualmente individuato nell’AR di tale esperienza. Inoltre, quell’individuazione concettuale riguarda l’AR come un tutto, non in un suo presunto stadio post-percettivo. Dunque, quell’individuazione riguarda l’esperienza di vedere-in come tale. Perciò, l’esperienza di vedere-in è penetrata cognitivamente in modo superforte, almeno per quanto riguarda il soggetto dell’immagine.

Si può cogliere ulteriormente questa specificità del vedere-in rispetto all’esperienza percettiva ordinaria mettendo a confronto due scenari percettivi simili ma diversi. Nel primo scenario, che riguarda l’esperienza percettiva ordinaria, si viene a riconoscere che ciò che si era erroneamente scambiato per un essere umano è un palo del telefono. Questa è una situazione alla Carneade. Nelle esperienze percettive da parte di un soggetto

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di ciò che gli sta di fronte, ci può essere qualche diversità percettiva tra il raggruppamento ‘umanoide’ che ha luogo prima del riconoscimento e il raggruppamento ‘paloide’ che ha luogo dopo quel riconoscimento. Tuttavia, relativamente al diverso contenuto delle due esperienze percettive in gioco, quella prima e quella dopo il riconoscimento, i diversi concetti che sono mobilitati nello scenario ( essere un essere umano, essere un palo) non influiscono su quella diversità. C’è una sola cosa che è individuata nonconcettualmente in quelle due esperienze percettive. QUELLA COSA è ciò che è prima, e erroneamente, presa come un essere umano, e ciò che è dopo, e correttamente, presa come un palo.

Nel secondo scenario, si riconosce che ciò che si è scambiato per un essere umano è invece un’immagine di un essere umano; fino a quel riconoscimento, l’immagine è stata solo un trompe-l’oeil genuino. In questo scenario, il riconoscimento consiste nel rendersi conto che l’essere umano in questione non è là, perché qualcos’altro è là; vale a dire, un certo veicolo di immagine, che presenta proprio quell’essere umano come il soggetto dell’immagine. Così, a differenza che nel primo scenario, la diversità esperienziale in gioco non è una diversità tra un’ordinaria, ma illusoria, esperienza percettiva e un’altra ordinaria, ma veridica, esperienza percettiva di uno e uno stesso elemento individuato nonconcettualmente, ma una diversità tra un’ordinaria ma illusoria esperienza percettiva di un certo elemento, di fatto un certo veicolo dell’immagine, e un’esperienza di vedere-in che è rivolta tanto a quel veicolo dell’immagine (propriamente raggruppato tridimensionalmente) nel suo AC, quanto ad un altro elemento, un certo soggetto dell’immagine (un essere umano) nel suo AR. In questo scenario, il mutamento fenomenologico che ha luogo nell’esperienza non è spiegato da una diversità nelle proprietà di raggruppamento di una sola cosa che è percepita prima e dopo il riconoscimento, come nel primo scenario. Di fatto, gli elementi di ciò che al primo stadio, prima del riconoscimento, si pensava erroneamente di avere davanti a sé e che al secondo stadio, dopo il riconoscimento, si rivela essere il soggetto di un’immagine, restano raggruppati più o meno nello stesso modo. Invece, il mutamento consiste nel fatto che l’originaria percezione ordinaria, meramente illusoria, di un essere umano si trasforma in un’esperienza di vedere-in in cui non una cosa, ma due cose diverse vengono colte nei rispettivi aspetti di tale esperienza, il veicolo dell’immagine nel suo AC e il soggetto dell’immagine, l’essere umano in questione, nel suo AR. Per metterla giù diversamente, una certa cosa, il veicolo dell’immagine, diventa visibile nella stessa area spaziotemporale in cui l’altra cosa, quella che ora conta come il soggetto dell’immagine (l’essere umano),

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era stata precedentemente e erroneamente pensata trovarsi.16 Perché questo riconoscimento abbia luogo, bisogna che nel contenuto dell’AR di quell’esperienza di vedere-in ricorra un concetto della seconda cosa coinvolta da tale esperienza, cioè il soggetto dell’immagine (l’essere umano). Solo questa concettualizzazione consente infatti di attestare che questa cosa è un che di diverso dall’altra cosa che ora appare veridicamente nell’AC di tale esperienza, cioè il veicolo stesso dell’immagine, in quanto collocata nella stessa area spaziotemporale in cui la cosa suddetta era stata precedentemente e erroneamente esperita trovarsi.17

3. Il vedere-in è genuinamente percettivo

È per me molto importante che il vedere-in sia penetrato cognitivamente in modo superforte per la suddetta ragione che riguarda questioni di individuazione.18 Come abbiamo appena visto, un’esperienza di vedere-in non solo mobilita oggetti diversi, il veicolo e il soggetto, ma li mobilita come colocalizzati, così richiedendo una distinzione concettuale come il mezzo fondamentale per distinguerli, visto che per loro non sono disponibili al riguardo diverse coordinate spaziotemporali. Dunque, sono questioni di

16 Il fatto che in questo riconoscimento, il veicolo dell’immagine appare nella propria visione è responsabile del fatto che quel che ora conta come il soggetto dell’immagine non è più sentito come presente (cfr. fn.2), come invece accadeva nella precedente esperienza ingannevole in cui si scambiava un genuino trompe l’oeil per quel soggetto. Cfr. Ferretti (2018), Voltolini (2015).

17 Come ho detto all’inizio, qui non voglio giustificare la tesi di Wollheim che l’esperienza pittorica dev’essere intesa come vedere-in. Tuttavia, la situazione appena considerata ci permette di capire perché l’esperienza pittorica non può essere un’esperienza non duplice in cui al più si raggruppano propriamente gli elementi del veicolo dell’immagine in termini 3D (cfr. p.es. Briscoe 2017). Se così stessero le cose, non sarebbe chiaro come il soggetto dell’immagine potrebbe emergere come un oggetto diverso dal veicolo dell’immagine. Questo è evidente nell’esperienza scultorea, un’esperienza pittorica in cui il veicolo dell’immagine è davvero 3D. Nel vedere un pezzo di marmo, vi discerniamo un essere umano. Ma si mostra anche in una normale esperienza pittorica in cui il veicolo dell’immagine è solo apparentemente 3D. Nel vedere una tela a mo’ di dalmata, vi discerniamo un dalmata.

18 Alcuni potrebbero accettare che dei concetti siano coinvolti nell’esperienza pittorica, e tuttavia sostenere che il solo concetto che penetra in modo superforte tale esperienza è la nozione stessa di immagine: qualcosa viene riconosciuto come un’immagine. (Debbo quest’osservazione a Chris Gauker.) Ora, certamente in un’esperienza pittorica bisogna riconoscere qualcosa come un’immagine. Ma, come sostenne Wollheim (19802:226), riconoscere qualcosa come un’immagine fonda, o è addirittura identico a, il vedere-in. Perciò, se

l’esperienza pittorica è il vedere-in e il vedere-in è cognitivamente penetrato in modo superforte, riconoscere qualcosa come un’immagine non è il solo modo per l’esperienza pittorica di essere cognitivamente penetrata in modo superforte.

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individuazione a mettere in discussione la distinzione tra visione primaria e secondaria per il vedere-in. Dal momento che individuare oggetti è tra i ruoli più basilari giocati dall’esperienza percettiva, si può considerare il vedere-in come il paradigma dell’esperienza penetrata cognitivamente in modo superforte.

Infatti, si può perfino ipotizzare che, ogni volta che le due suddette condizioni – distinzione numerica e colocalizzazione esperita – non sono congiuntamente soddisfatte, si ha semplicemente ha che fare con un’esperienza percettiva ordinaria che non richiede penetrazione cognitiva superforte.19 Si consideri per esempio il caso di un’esperienza percettiva di trasparenza fisica, che può a sua volta presentare una forma di duplicità percettiva. Anche in essa, in effetti, si mobilitano due oggetti diversi, l’oggetto trasparente e quello sullo sfondo.20 In tale esperienza, però, questi oggetti non sono colocalizzati. L’oggetto trasparente è percepito (veridicamente) come collocato tra il percettore e l’oggetto di sfondo. Perciò, questi ultimi due oggetti possono essere individuati nonconcettualmente come due diversi QUELLI.21 Un’esperienza percettiva di trasparenza fisica può dunque essere trattata come un caso (certamente speciale) di esperienza percettiva ordinaria, in cui la penetrazione cognitiva forte influenza solo la parte di quell’esperienza corrispondente alla visione secondaria, in modo da non mettere in discussione la distinzione tra visione primaria e secondaria.

A questo punto, tuttavia, ci si potrebbe domandare in primo luogo come sia possibile che nel vedere-in si colocalizzino due oggetti diversi. Come molti dicono, lo spazio in cui il soggetto dell’immagine è collocato è diverso dallo spazio in cui il veicolo è collocato: uno spazio pittorico.22 Se così stessero le cose, non ci sarebbe più bisogno di concetti per l’individuazione del soggetto dell’immagine, in quanto quest’ultimo sarebbe collocato in

19 In materia d’arte, si possono trovare altri casi di esperienze percettive cognitivamente penetrate: in particolare, esperienze che comportano la rappresentazione di proprietà organizzative esteticamente rilevanti, come essere fatti nello stile dell’autore A : cfr. Stokes (2014). Tuttavia, di fatto queste esperienze sono cognitivamente penetrate solo in senso debole. Nel loro caso, infatti, la mobilitazione dei concetti rilevanti fa scaturire solo un mutamento nel carattere fenomenico dell’esperienza rilevante.

20 Per questo trattamento della percezione di trasparenza cfr. Newall (2015).

21 Certo, si potrebbe dire (Newall 2015) che l’effetto di trasparenza si ha anche in casi in cui non c’è alcuna trasparenza fisica, come sostenuto da Metelli (1974). Tuttavia, come ho mostrato in Voltolini (2017), questi ultimi sono in realtà casi di esperienza pittorica.

22 Lo stesso Wollheim chiamò così tale spazio (1987:46, 62; 1998:266). Il mio resoconto del vedere-in, però, non contraddice quanto detto da Wollheim. Poiché come vedremo subito io prendo l’AR del vedere-in come una percezione nonveridica del soggetto in esso colto, una certa scena 3D, per “spazio pittorico” io posso intendere lo spazio in cui tale scena avrebbe luogo, se quella percezione fosse vera. Ciò è compatibile col prendere lo spazio che è erroneamente ascritto alla scena colta nell’AR come lo spazio reale.

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uno spazio diverso. Quindi, non ci sarebbe bisogno per il vedere-in di essere penetrato cognitivamente in modo superforte.

In secondo luogo, si potrebbe sollevare un’obiezione che va nella direzione opposta. Ammettiamo pure che il vedere-in sia penetrato cognitivamente in modo superforte. Ma se è così, il vedere-in non è un’esperienza percettiva, perché si colloca invece tra percezione e cognizione. Forse è una miscela di percezione e immaginazione, come voleva Walton (1990).23 Secondo molti (p.es. Pylyshyn 2003), l’immaginazione in effetti è penetrata cognitivamente nel modo che io chiamo superforte, perché la penetrazione riguarda l’esperienza immaginativa come tale. Questo sarebbe un brutto risultato per Wollheim, che invece insisteva sull’idea (p.es. in 1987) che vedere-in sia un’esperienza percettiva, ben diversa dall’immaginazione. Un’idea, questa, che sembra corretta. Se il vedere-in si basasse sull’immaginazione, sarebbe difficile spiegare come mai possiamo

scoprire che qualcosa è un’immagine, come avviene paradigmaticamente con immagini in

cui ‘balena l’aspetto’, prima di tutto le immagini-rompicapo. Nel completare l’unione di tutti i puntini distribuiti su un foglio di carta, all’improvviso si riesce a vederci una tartaruga (poniamo).

Fortunatamente, tuttavia, c’è un modo per rispondere a entrambi i problemi che consente al vedere-in di essere un’esperienza percettiva genuina, benché sui generis.

In primo luogo, intendo l’AR del vedere-in come una percezione illusoria come ogni altra percezione del genere, come lo scambiare una corda per un serpente. In particolare, si tratta di una percezione nonveridica del veicolo dell’immagine come il soggetto dell’immagine, il che la rende una percezione illusoria (cfr. Levinson 1998). Il raggruppamento di un veicolo 2D in un’apparenza nonveridica 3D produce infatti l’illusione di vedere qualcosa là fuori, il soggetto dell’immagine, che tuttavia, a differenza del veicolo stesso, non è là.

In secondo luogo, tuttavia, a differenza di una percezione illusoria standard, l’AR non inganna il suo portatore. Infatti, come sottolineato da Matthen (2005), a differenza dell’AC, l’AR non è accompagnato da un sentimento di presenza del soggetto dell’immagine; nel vedere il soggetto come là fuori, il portatore dell’esperienza di vedere-in non crede che esso sia là fuori. Ciò contribuisce a fare del vedere-in un’esperienza percettiva sui generis.

23 Per Walton (1990), l’esperienza pittorica è un’esperienza di vedere-in in cui, nel vedere il veicolo dell’immagine, tale visione viene colorata dall’immaginazione che essa sia la visione del soggetto dell’immagine. Per l’interpretazione del resoconto di Walton dell’esperienza pittorica come affetta da penetrazione cognitiva, cfr. Dorsch (2016:224).

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Essere là fuori continua ad essere attribuito (erroneamente) al soggetto dell’immagine, ma

tale attribuzione contribuisce a qualificare solo il contenuto dell’AR e non il suo modo, come invece avviene con ogni esperienza percettiva ordinaria che sia accompagnata dal sentimento di presenza del suo oggetto (Voltolini 2015). Come abbiamo visto prima, nel suo complesso il vedere-in è diverso da un’esperienza illusoria in cui siamo ingannati da un

trompe-l’oeil genuino, poiché lo scambiamo per ciò che corrisponde al suo soggetto una

volta che il trompe-l’oeil conta come immagine. Rendersi conto che, quanto a quel

trompe-l’oeil, si stava intrattenendo un’esperienza ingannevole di una certa cosa,

corrisponde infatti ad un mutamento fenomenico in cui si passa da quell’esperienza ingannevole a intrattenere proprio un’esperienza di vedere-in, in cui si colgono simultaneamente sia il veicolo dell’immagine in gioco (nel suo AC) e la precedente cosa che conta ora come il soggetto di tale immagine (nel suo AR). Ora, in quell’esperienza di vedere-in così come in ogni altra esperienza del genere, la percezione illusoria (nel suo AR) del veicolo come il soggetto è un’illusione nota come tale. Certo, ci sono molti casi di illusioni note come tali; p.es., le illusioni ottiche, come l’illusione Müller-Lyer. Tuttavia a differenza delle illusioni ottiche, l’AR è una percezione riconosciutamente illusoria per una ragione intramodale. In un’illusione ottica, si è consapevoli del carattere illusorio della propria percezione visiva perché altre modalità sensoriali (o la testimonianza altrui), in particolare il tatto, rivelano la verità (nel caso Müller-Lyer, la verità che i due segmenti che l’illusione presenta hanno la stessa lunghezza). Ma quanto all’AR del vedere-in, si sa di non trovarsi davanti al soggetto dell’immagine perché ciò viene rivelato dalla stessa modalità sensoriale, quella visiva. Si sa che la propria percezione visiva del soggetto dell’immagine è illusoria perché si sa di percepire altrettanto visivamente il veicolo dell’immagine nell’AC della stessa esperienza.

Sulla base di questi risultati, posso rispondere ai due problemi precedenti. In primo luogo, così concepito l’AR del vedere-in rende conto del fatto che il soggetto dell’immagine sembra essere colocalizzato col veicolo dell’immagine. Infatti, il soggetto è (erroneamente) visto non in uno spazio sui generis, ma proprio nello spazio in cui anche il veicolo dell’immagine è percepito. Il soggetto è una scena 3D che è (erroneamente) vista estendersi in una porzione di spazio che si sovrappone a quella in cui il veicolo è percepito – normalmente, è vista estendersi dietro il luogo in cui si trova il veicolo, ma talvolta è vista estendersi anche davanti a quel luogo, come Sfuggendo alla critica di Pere Borrell del Caso’s Escaping Criticism mostra paradigmaticamente (Voltolini 2017). Tuttavia, quell’apparenza di colocalizzazione è (riconosciutamente) illusoria, perché il soggetto non si trova (riconosciutamente) lì dove è il veicolo. Infatti come abbiamo visto, l’AC del

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vedere-in vedere-in cui il veicolo è (riconosciutamente) percepito è veridico. Perciò, l’AR vedere-in cui il soggetto è percepito nella stessa porzione di spazio è (riconosciutamente) nonveridico. Di fatto, il portatore di un’esperienza di vedere-in fronteggia solo il veicolo dell’immagine; avrebbe fronteggiato il soggetto dell’immagine se l’AR fosse stato veridico.

In secondo luogo, come ho detto prima, essendo una percezione illusoria, l’AR può tuttora essere una genuina esperienza percettiva; per le ragioni suddette, è semplicemente una percezione illusoria nota come tale. Perciò, il fatto che l’AR rende il vedere-in come tale il caso paradigmatico di un’esperienza penetrata cognitivamente in modo superforte non minaccia il suo essere un’esperienza percettiva, benché sui generis.24 Forse c’è una diversità fondamentale tra percezioni illusorie e veridiche, come ritengono alcuni disgiuntivisti (p.es. McDowell 1982). Ma nessuno nega che una percezione illusoria è un’esperienza percettiva, proprio come una percezione veridica.

Insomma, le idee di Wollheim possono essere giustificate. Nonostante il suo essere un’esperienza concettualizzata, in particolare una penetrata cognitivamente in modo superforte, il vedere-in rimane una genuina esperienza percettiva.

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24 Anche Zeimbekis (2015:319-24) contempla l’ipotesi che, nel suo essere specificamente percettiva, l’esperienza pittorica è la sola forma di esperienza percettiva che è penetrata cognitivamente (anche se in senso debole, perché egli sembra ascrivere a tale esperienza solo un contenuto nonconcettuale).

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