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Due goal nella partita infinita fra le lingue ufficiali dell’Unione europea: le esigenze di servizio e il principio di certezza del diritto riaffermano il multilinguismo, in Diritto pubblico comparato ed europeo

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Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione). Sentenza 27 novembre 2012, causa C-566/10 P, Repubblica italiana c. Commissione

Impugnazione. – Regime linguistico. – Bandi di concorsi generali per l’assunzione di amministratori e di assistenti. – Pubblicazione integrale in tre lingue ufficiali. – Lingua delle prove. – Scelta della seconda lingua tra tre lingue ufficiali.

La pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea dei bandi relativi a concorsi generali per diventare funzionari dell’Unione europea deve avvenire integralmente e in tutte le lingue ufficiali, al fine di non compromettere la parità nell’accesso dei cittadini ai posti di lavoro offerti dalle istituzioni e dagli organi comunitari; il principio di proporzionalità non consente di limitare all’inglese, al francese e al tedesco le lingue in cui sostenere le prove concorsuali, in mancanza di un’esplicita previsione delle istituzioni che ravvisi l’obiettivo legittimo in forza del quale derogare all’art. 1 del regolamento (CE) n. 1/1958, del Consiglio, del 15 aprile 1958, in G.U.C.E. L 17, 6-10-958, 385.

(La sentenza è reperibile in www.dpce.it)

Due goal nella partita infinita fra le lingue ufficiali dell’Unione europea: le esigenze di servizio e il principio di certezza del diritto riaffermano il multilinguismo.

1.- Sostenitori del multilinguismo integrale e candidati a concorsi generali possono prendersi una bella rivincita nei confronti dell’ineluttabile e mai ammessa supremazia delle lingue inglese, francese e tedesca. Nella fattispecie in esame la Corte di giustizia accoglie l’impugnazione della Repubblica italiana per l'annullamento della sentenza del Tribunale del 13 settembre 2010, cause riunite T-166/07 e T-285/07, Italia c. Commissione, in Racc. 2010, II-00193, con cui era stato respinto il ricorso della Repubblica italiana finalizzato all’annullamento di tre bandi di concorso, ritenuti illegittimi proprio perché pubblicati solo nelle tre lingue sopra citate.

I fatti all’origine della controversia sono facilmente sintetizzabili: l’European Personnel Selection Office (EPSO), creato con decisione del Parlamento europeo, del Consiglio, della Commissione, della Corte di giustizia, della Corte dei conti, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Mediatore, del 25 luglio 2002, 2002/620/CE, in G.U.C.E. L 197, 25-7-2002, 53, pubblicava i bandi di concorso EPSO/AD/94/07 e EPSO/AST/37/07, finalizzati alla costituzione di un elenco di riserva destinato alla copertura di posti vacanti presso le istituzioni, rispettivamente per amministratori (AD 5) nel settore dell’informazione, della comunicazione e dei media, e per assistenti (AST 3) nel settore della comunicazione e dell’informazione, e in un secondo tempo il bando EPSO/AD/95/07, volto a formare una lista di riserva destinata alla copertura di posti vacanti, in particolare presso il Parlamento europeo, per amministratori nel settore dell’informazione.

La pubblicazione di questi bandi avveniva nelle sole edizioni in lingua francese, inglese e tedesca della Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea e tutti e tre richiedevano, oltre a una conoscenza approfondita di una qualsiasi delle lingue ufficiali dell'Unione, una conoscenza soddisfacente del francese, dell'inglese o del tedesco come seconda lingua obbligatoriamente diversa da quella principale, anche ai fini delle comunicazioni e dello svolgimento delle prove concorsuali. Successivamente alla pubblicazione di due modifiche integrative dei bandi impugnati, avvenute in tutte le lingue ufficiali ma facenti espresso riferimento ai bandi di concorso controversi, i termini di iscrizione venivano riaperti. La Repubblica italiana, sostenuta dalla Repubblica di Lituania e dalla Repubblica ellenica, ricorreva al Tribunale perché annullasse i tre bandi, sulla base della loro mancata pubblicazione in tutte le lingue ufficiali e dell’obbligo di espletare le prove concorsuali in una seconda lingua a scelta del candidato ma di fatto limitata a inglese, francese e tedesco. Il Tribunale respingeva il ricorso, ritenendo le modalità di pubblicazione dei bandi e i requisiti linguistici ivi contenuti non lesivi dell’art. 290 CE (ora art. 342 TFUE), degli art. 1, 4, 5 e 6 del reg. 1/58, e dei principi di non discriminazione, proporzionalità e multilinguismo, di cui all’art. 12

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CE (ora art. 18 TFUE), all’art. 6, par. 3 TUE, all’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e agli art. 1 quinquies, par. 1 e 6, 27 c. 2 e 28 lett. f) dello Statuto dei funzionari delle Comunità europee, approvato con regolamento (CEE, Euratom, CECA) n. 259/1968 del Consiglio, del 29 febbraio 1968, in G.U.C.E., L 56, 4-3-1968, 1 (in prosieguo: lo “Statuto”).

La Repubblica italiana impugna la sentenza e investe della controversia la Corte di giustizia, che interpreta in modo diametralmente opposto il quadro normativo e, nel bilanciare il principio del multilinguismo con quello di proporzionalità che, come è noto, esige che «gli strumenti istituiti da una disposizione di diritto comunitario siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa di cui trattasi e non vadano oltre quanto necessario per raggiungerli» (v. Corte giust., sent. 6-12-2005, cause riunite C-453/03, C-11/04 e C-194/04, ABNA e al., in Racc., I-10423, p.to 68), ribalta le conclusioni del Tribunale, articolando la propria decisione su due aspetti: il principio di parità delle lingue e l’obbligo di motivazione in caso di una loro limitazione nell’interesse del servizio.

2. - Sottesa alla vicenda in analisi vi è, in una prospettiva più generale, l’attuazione del principio del multilinguismo. L’art. 290 TCE stabilisce che «il regime linguistico delle istituzioni dell'Unione è fissato, senza pregiudizio delle disposizioni previste dallo statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea, dal Consiglio, che delibera all'unanimità mediante regolamenti». Emerge chiaramente il proposito di garantire la ponderazione speciale di qualsiasi velleità di riforma della disciplina linguistica, mettendola al riparo sia dalle variabili maggioranze del Consiglio che dalle decisioni della Commissione, espressioni rispettivamente degli interessi degli Stati membri e dell’Unione in quanto tale. Curiosamente, si è celata dietro una veste organizzativa una questione, quella linguistica, inscindibilmente legata al funzionamento democratico delle istituzioni, per cui l’uguaglianza e l’accessibilità devono essere garantite ad ogni cittadino, indipendentemente dal peso politico o demografico dello Stato di appartenenza: anche se non sempre il diritto è un fatto linguistico (R. Sacco, Il diritto muto, in Riv. Dir. civ., 1993, 689 ss.), nell’ordinamento comunitario, fondato sull’uguaglianza di Stati e cittadini, le norme devono esprimersi ed essere comprese senza arrecare pregiudizio a nessuno per una mancanza di conoscibilità. L’art. 1 del reg. 1/58 decreta che le lingue ufficiali e le lingue di lavoro della Comunità sono il tedesco, il francese, l’italiano e l’olandese, sancendo sia l’uguaglianza formale delle lingue degli Stati membri (art. 55 TUE), sia la loro uguaglianza sostanziale, costituita dall’effettiva possibilità di utilizzarle nel lavoro di tutti i giorni. La norma più avanzata del regolamento è tuttavia quella prevista dall’art. 2, che conferisce ad uno Stato membro o ad un appartenente al suo apparato giurisdizionale il diritto di comunicare con le istituzioni in una qualunque lingua ufficiale. Agli atti adottati successivamente all’adesione si applica quindi l’art. 290 del Trattato CE. Dal momento che è il Consiglio ad aver deciso, con il reg. 1/58, che i regolamenti e gli altri testi di portata generale sono redatti in tutte le lingue ufficiali comunitarie, l’elenco delle quali è aggiornato ad ogni adesione, si può dire che la parità delle lingue è regolata da un atto derivato e non da una norma di “rango costituzionale”: «il regime linguistico stabilito dal regolamento n. 1/58 non può essere equiparato ad un principio di diritto comunitario» (cfr. Corte giust., sent. 9-9-2003, causa C-120/99, Kik c.UAMI, in Racc., II-2235, p.to 58) e pertanto può essere in teoria modificato. Il Trattato di Amsterdam si spinge poi oltre, inserendo nell’art 21 del Trattato CE il paragrafo 3, che estende ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di scrivere alle istituzioni nella propria lingua e di ottenere una risposta nello stesso idioma. Letta quest’ultima disposizione in combinato disposto con l’art. 17 del Trattato CE, sempre introdotto dal Trattato di Amsterdam, che istituisce il concetto di cittadinanza europea, si desume che il diritto alla propria lingua nei rapporti giuridici con le istituzioni comunitarie è uno dei contenuti fondamentali e inalienabili della cittadinanza dell’Unione (S. Bartole, La cittadinanza e l'identità europea, in Quad. cost., 2000, 53 ss.). Il fatto poi che i regolamenti siano direttamente applicabili a tutti i cittadini, su cui producono effetti concreti senza normativa di attuazione a livello nazionale (cfr.

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U. Draetta, Elementi di diritto comunitario, Parte istituzionale: Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Giuffré, Milano, 1995, 219), impone la completa fruibilità delle norme comunitarie in ogni lingua ufficiale. Il Trattato di Lisbona modifica l’art. 2 del Trattato dell’Unione introducendo il principio del rispetto della diversità linguistica, istituzionalizzando così un vero e proprio diritto culturale.

Dal punto di vista dei rapporti con l’esterno, ciò si traduce nella conservazione degli ordinamenti nazionali chiamati ad abdicare in favore del diritto comunitario soltanto in settori ben precisi, con la possibilità per ogni Stato o suo cittadino di adire nella sua lingua madre il sistema giuridico sovranazionale. Sul piano del funzionamento interno delle istituzioni, il multilinguismo è attenuato da vari fattori, quali l’affermazione nel tempo di lingue di lavoro sempre più usate nella prassi: l’inglese, il francese e il tedesco. Questa coesistenza, da sempre foriera di tensioni anche per quanto riguarda l’armonizzazione del privato diritto europeo (G. Ajani, Cohérence du droit privé européen et multilinguisme : deux principes qui s’opposent ? in Revue International de Droit des Affaires, 2007, 493 ss.; M. Candela Soriano, Les exigences linguistiques: une entrave légitime à la libre circulation, in Cahiers de droit européen 2002, 9 ss.; P. Rossi., L’impatto del multilinguismo sull’armonizzazione del diritto privato europeo, in B. Pozzo, M. Timoteo (cur.), Europa e linguaggi giuridici, Milano, Giuffrè, 2008, p. 361), pone sfide sempre più stimolanti in materia di politiche linguistiche (G. Rolla, E. Ceccherini, Il riconoscimento delle diversità culturali e linguistiche nell’ordinamento costituzionale europeo in questa Rivista, 2007, 660 ss.; A. Gambaro, A proposito del plurilinguismo legislativo europeo, in Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 2004, 288 ss.; S. Glanert, La langue en héritage: réflexions sur l’uniformisation des droits en Europe, in Revue Int. Droit Comparé, 2006, 1231 ss.), di interpretazione di testi plurilingui (B. Pozzo, L’interpretazione della Corte del Lussemburgo del testo multilingue: una rassegna giurisprudenziale, in E. Ioriatti (cur.), Interpretazione e traduzione del diritto, Padova, CEDAM, 2008, 73 ss.; F. Lisena, La Babele (o la Pentecoste) delle lingue nell’Unione europea, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 00-2010, accessibile al link archivio.rivistaaic.it ) e di qualità della legislazione (S. Ferreri, La lingua del legislatore. Modelli comunitari e attuazione negli Stati membri, in Riv. dir. civ., 2004, 516 ss.; A. Flückiger Le multilingisme de l’Union européenne: en défi pour la qualité de la législation, in N. Kasirer, J. Gémar (cur.) Jurilinguisme: entre langue set droits-Jurilinguistics: between Law and Laguage. Montreal/Brussels, Bruylant, 2005, 340 ss.). Già prima dell’allargamento del 2004, le istituzioni avevano avvertito la necessità di contenere i costi dei servizi di traduzione e interpretazione necessari a garantire il principio del multilinguismo: ad oggi la sola Commissione dispone di uno dei maggiori servizi di traduzione al mondo, con circa 1.750 linguisti e 600 addetti ai servizi di supporto. Il suo servizio di interpretazione impiega 600 interpreti permanenti, un pool di 3 000 interpreti freelance e 250 addetti ai servizi di supporto (fonte: Eurostat). Per limitare la spesa pubblica relativa alla traduzione il Parlamento europeo ha pertanto introdotto il multilinguismo integrale controllato, che si sostanzia nella razionalizzazione delle risorse linguistiche attraverso la previsione delle esigenze dei membri del Parlamento e dei gruppi parlamentari (G. Ricci, Il principio del plurilinguismo nella pratica dei lavori parlamentari, il plurilinguismo integrale controllato, in Le politiche linguistiche delle istituzioni comunitarie dopo l’allargamento, Milano, Giuffrè, 2006, 187 ss.). Dal punto di vista del funzionamento interno, l’esigenza di gestire la Babele delle ventitré lingue di lavoro ha comportato la naturale coagulazione delle comunicazioni fra i funzionari intorno ai tre idiomi più parlati (L. Mejer e al. Statistics in Focus, Eurostat, n. 49/2010). La necessità di un certo margine di manovra a livello organizzativo può pertanto portare l’amministrazione a dover derogare alla parità linguistica in nome delle esigenze di servizio. La sensibilità del tema è acuita dal fatto che il reclutamento mirato nelle pubbliche amministrazioni di minoranze socio-linguistiche attraverso la predisposizione di quote di riserva o l’attuazione di una representative bureaucracy, cioè di un «civil service in which every economic class, caste, region or religion in a country is represented in exact proportion to its member in the population» (D. J. Kingsley, Representative Bureaucracy, Ohio, Yellow Springs, 1944; Z. Hasan, Politics of inclusion, Castes,

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Minorities and Affirmative Actions, Oxford, 2009), costituisce un’arma a doppio taglio, in grado di configurarsi sia come strumento di programmazione che di discriminazione (M. Caielli, Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo, Napoli, Jovene, 2008): il multiculturalismo europeo è volto non solo a favorire l’interazione dei diversi contesti, ma è anche finalizzato al riconoscimento politico ufficiale della pluralità culturale e di un trattamento pubblico equo delle minoranze.

3.- Il problema della parità linguistica nei concorsi pubblici non è nuovo negli Stati membri plurilingui come il Belgio (F. Delpérée, L’equilibre des recrutements dans la fonction publique Belge, in Revue Française d’administration publique, 2006, 310 ss.) o la Spagna, dove con il castigliano in alcune regioni coesistono in regime di co-ufficialità basco, catalano, gallego e aranese (F. Puerta Seguido, El acceso al empleo público, in L. Ortega Álvarez (dir.), Estatuto

Básico del Empleado Público, Madrid, 2008, 457 ss.). In Italia, il bilinguismo valdostano e il separatismo linguistico dell’Alto Adige hanno dato origine a diverse pronunce del giudice amministrativo, che ha dovuto bilanciare la tutela della minoranze e la loro rappresentanza in seno agli enti pubblici con il principio di uguaglianza (E. Grasso, L’accesso alla funzione pubblica nel prisma del plurilinguismo italiano: evoluzioni normative e percorsi giurisprudenziali a confronto, in E. Ceccherini, M. Cosulich (cur.), Tutela delle identità culturali, diritti linguistici e istruzione, Dal Trentino-Alto Adige/Südtirol alla prospettiva comparata, Padova, CEDAM, 2012, 115 ss.). In ambito europeo, la convergenza delle culture burocratiche amministrative degli Stati membri ha portato, nel reclutamento del personale, a posporre il criterio dell’equilibrio geografico a quello meritocratico, che è sancito dall’art. 27, par. 1, dello Statuto (S. Sassi, Il lavoro nelle amministrazioni pubbliche tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali, Milano, Giuffrè, 2007; C. Plantié, La ripartizione per nazionalità dei funzionari della Cee: qualche verità poco nota, in Dir. com. e degli scambi intern., 1993, 289 ss.). Le esigenze dell’amministrazione di disporre di personale dotato di specifiche competenze linguistiche vengono soddisfatte nel rispetto del principio di proporzionalità, che in alcuni giustificati casi consente di derogare a quello del multilinguismo. Lo Statuto enuncia chiaramente che «nell’applicazione delle norme contenute […] è proibita ogni discriminazione fondata sul sesso, le razza, il colore della pelle, le origini etniche o sociali, le caratteristiche genetiche, la lingua […]» (cfr. art. 1 quinquies, par. 1) ma ammette delle eccezioni, poiché stabilisce anche che «ogni limitazione di tali principi deve essere oggettivamente e ragionevolmente giustificata […]» (cfr. par. 6 del medesimo articolo). Dal punto di vista strettamente concorsuale, l’art. 28 lett. f) individua tra i requisiti necessari per la nomina a funzionario quelli della «conoscenza approfondita di una delle lingue della Comunità e di una conoscenza soddisfacente di un’altra lingua della Comunità, nella misura necessaria alle funzioni da svolgere». Il rispetto dei diritti linguistici dei cittadini dell’Unione consente di ordinarne il contenuto secondo una triplice tassonomia: nei rapporti cittadino – Unione (art. 24, c. 4, TFUE), Unione – parti in procedimenti amministrativi [sia Stati membri che cittadini (art. 3, reg. 1/58)], Unione – funzionari (art. 6, reg. 1/58).

Nei rapporti cittadino-Unione la protezione del diritto del singolo ad accedere alla legislazione della Comunità prevale su qualsiasi argomentazione di natura economica, poiché incide sulla partecipazione del cittadino alla vita politica. Il rispetto della diversità linguistica si ricollega al principio democratico che si concretizza nella comprensione della legislazione europea (vedi Trib., sent. 20-11-2008, causa T-185/05, Repubblica italiana c. Commissione, in Racc. II-3207, p.to 88). Nell’ambito di procedimenti amministrativi il principio del multilinguismo può subire restrizioni, al fine di trovare un equilibrio tra gli interessi degli operatori economici, i costi di traduzione allocati sulla collettività e il buon funzionamento degli uffici: è in caso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno, il cui regime linguistico è stato determinato dall’art. 115 del regolamento (CE) n. 40/1994 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, in G.U.C.E. L 011, del 14-1-1994, 1. È quindi un atto del Consiglio a legittimare la riduzione delle lingue di lavoro di un organismo dell’Unione (cfr.

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Corte di giust., sent. 9-9-2003, causa C-361/01, Kik/UAMI, in Racc. I-8283, p.ti 92-94). Infine, nei rapporti tra l’Unione e i suoi funzionari, sono le istituzioni a dover adottare eventuali lingue veicolari tramite regolamenti interni (art. 6 reg. 1/58), nel perseguire obiettivi funzionali di interesse generale (Corte di giust., sent. 4-3-1964, causa C-15/63, Lassalle c. Parlamento, in Racc. 1964, 5759, p.ti. 72 e 73).

Il caso in esame si può sussumere nella prima delle tre categorie descritte, poiché i bandi sono documenti di rilevanza generale, vincolanti per chiunque decida di partecipare a una procedura concorsuale (cfr. Corte di giust., sent. 30-10-1974, causa 188/73, Grassi c. Consiglio, in Racc., 1099, p.to 38; 28-2-1989, cause riunite C-341/85, 222/87, 232/87, 251/86, 258/86, C-259/86, C-262/86, C-266/86, van der Stijl c. Commissione , in Racc., pag. 511, p.ti 51 ss.; sent. 18-3-1993, C-35/92 P, Parlamento c. Frederisksen, in Racc., I-991, p.to 13). Nel merito, la Corte affronta due aspetti del multilinguismo: se la parità linguistica comporti o meno per un candidato il diritto di disporre dei bandi nella propria lingua e se la decisione dell’amministrazione di predisporre le prove concorsuali in lingue determinate debba essere documentata da giustificate esigenze di servizio.

4. – La necessità di particolari conoscenze linguistiche non è certo un fenomeno sconosciuto alle amministrazioni europee. L’art. 6 del reg. 1/58 riconosce alle istituzioni la possibilità di determinare le «modalità di applicazione» del regime linguistico nei loro regolamenti interni (cfr. Trib., sent. 7-2-2001, causa T-118/99, Bonaiti Brighina c. Commissione, Racc. PI I-A-25 e II-97, p.to 13; Trib, sent. 23-3-2000, causa T-197/98, Rudolph c. Commissione Racc. PI I-A-55 e II-241, p.ti 45-47). Giurisprudenza costante ha affermato che il reg. 1/58 non è applicabile ai rapporti tra le istituzioni e i loro funzionari e agenti, bensì ai rapporti tra le istituzioni e uno Stato membro o una persona che ricade nella giurisdizione di uno degli Stati membri (Trib, sent. 5-10-2005, causa T-203/03, Rasmussen c. Commissione, in Racc. FP I-A-279 e II-1287, p.to 60), mentre le esigenze di servizio possono costituire un valido motivo per fissare requisiti linguistici più restrittivi per l’assunzione ad un posto determinato (cfr. Trib., sent. 18-9-2003, causa T-73/01, Pappas c. Comitato delle regioni, in Racc. PI I-A-207 e II-1011, p.to 85; Corte di giust., sent. 4-4-1974, causa C-115/73, Serio c. Commissione, in Racc., 341) o per assumere agenti contrattuali in grado di esprimersi nelle lingue di comunicazione interna di un’amministrazione (sent. Trib. Funz. Pubbl. UE, 29-6-2011, causa F-7/07, Angioi c. Commissione, non ancora pubblicata in Racc.). Nel caso ora in esame, pronunciandosi sulla mancata pubblicazione dei bandi integrali in tutte le lingue ufficiali, la Corte di giustizia non affronta la questione relativa alla loro natura normativa che, se affermata, comporterebbe l’automatica applicazione dell’art. 4 del reg. 1/58. I giudici del Lussemburgo si limitano infatti a constatare l’impossibilità di equiparare un bando a un regolamento interno, idoneo a restringere il regime linguistico dell’istituzione che lo emana, seguendo le conclusioni dell’Avvocato generale J. Kokott (cfr. Avv. gen. J. Kokott, concl. 21-06-2012, C-566/10 P, Repubblica italiana c. Commissione, p.to 29). Il ragionamento della Corte si avvale di un criterio analogico e si sofferma sul fatto che il mero atto di candidatura a un concorso generale non può avere l’effetto di sottrarre un cittadino, ancora né funzionario né agente, alla giurisdizione del suo Stato di appartenenza: inoltre, «nessun testo normativo consente di concludere che i rapporti tra tali istituzioni e i loro funzionari e agenti siano totalmente esclusi dalla sfera di applicazione del reg. 1/58 (cfr. sentenza in commento, p.to 68). Sancendo l’applicabilità dell’art. 1, par. 2, dell’allegato III dello Statuto, letto in combinato disposto con l’art. 5 del reg. 1/58, la Corte scioglie il nodo gordiano attraverso il semplice rilievo che i bandi di concorso rivestono la funzione di informare gli interessati, con la maggior precisione possibile, del tipo di condizioni necessarie a occupare la posizione richiesta, al fine di valutare se e come presentare la propria candidatura (Trib, ord. 3-4-2001, cause riunite T-95/00 e T-96/00, Zaur-Gora e Dubigh c. Commissione, in Racc. PI I-A-159 e II 733, p.to 47). Pertanto, se sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea, allora devono essere integralmente tradotti in tutte le ventitré lingue.

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Diversamente, si sarebbe verificata un’oggettiva discriminazione tra i candidati, imputabile a una diversità di trattamento a motivo della lingua espressamente vietata dall’art. 1 quinquies dello Statuto, ma anche contraria agli art. 21 e 22 della Carta. Il non poter fruire nella propria lingua di un documento che può determinare il superamento di un concorso d’accesso alla funzione pubblica europea determina una difficoltà di comprensione del bando, fatto non giustificato nemmeno dalle previsioni contemplate all’art. 1-quinquies, par. 6 dello Statuto, poiché la buona gestione delle capacità di traduzione non è ricompresa negli obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale e le conoscenze linguistiche richieste ai candidati sono un elemento che va valutato dopo la presentazione delle candidature. La Corte ha pertanto annullato la sentenza impugnata C-566/10 P, che aveva segnato una battuta d'arresto nel cammino perseguito da diversi Stati membri nella lotta per contrastare il trilinguismo nell’emanazione di atti ufficiali. Le modifiche integrative non sono state infatti giudicate sufficienti a porre rimedio all’omessa pubblicazione dei bandi in tutte le versioni della Gazzetta ufficiale (cfr. Trib., sent. 13-9-2010, cause riunite T-166/07 e T-285/07, Repubblica italiana c. Commissione, in Racc., II-00193, cit., p.to 85).

5.- Con la pronuncia in rassegna, la Corte spazza il campo dagli strascichi lasciati dall’annullamento della decisione della Commissione adottata nel corso della riunione 1678 del 10 novembre 2004, PV(2004)1678, reperibile in ec.europa.eu, in cui si stabiliva che «le pubblicazioni nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea di avvisi di posto vacante relativi a posti di livello superiore disponibili per candidati esterni verranno effettuate soltanto in tedesco, inglese e francese, e ciò per un periodo che avrà termine, in linea di principio, il 1° gennaio 2007».

La decisione, che si inseriva nella scia del documento della Commissione del 27 febbraio 2004, SEC(2004) 252, intitolata “Le recrutement du senior manager des nouveaux Etats Membres. Communication de M. Kinnock en accord avec M. le président”, al punto 5 prevedeva che «le procedure di selezione saranno svolte in inglese, francese e tedesco», mentre il punto 4 della comunicazione SEC(2004) 638/6 del 26 maggio 2006 intitolata “Traduction: Equilibrer l’Offre et la demande. Communication de M. Kinnock en accord avec M. le Président”, stabiliva che alcuni documenti della Commissione sarebbero stati tradotti, durante la fase transitoria, unicamente verso alcune lingue ufficiali, laddove altri documenti, ritenuti “non principali” (non- core documents), non sarebbero stati affatto tradotti.

La decisione del 10 novembre 2004 è stata ritenuta produttiva di effetti giuridici, poiché idonea a permettere all’amministrazione di fissare un aspetto della procedura che porterà alla nomina di tutti i posti di inquadramento superiore che ricadono nella sua sfera di applicazione: era infatti redatta in modo chiaro e non conteneva semplici orientamenti, bensì fissava in modo definitivo un aspetto delle procedure di assunzione di portata cogente (cfr. Trib, sent. 20-11-2008, causa T-185/05, cit, p.to 48). In quell’occasione la Corte aveva avuto modo di specificare che la legittimazione attiva degli Stati membri a ricorrere contro gli atti decisori della Commissione non può essere messo in discussione sostenendo che tali atti vertono su questioni relative alla funzione pubblica europea (p.to 28), poiché questi atti sono produttivi di effetti giuridici (cfr. Corte di giust., sent. 31-3-1971, causa C-22/70, Commissione c. Consiglio, in Racc. 263, p.to 42; sent. 16-6-1993, causa C-325/91, Francia v. Commissione, in Racc. I-3283, p.to 9; sent. 20-3-1997, causa C-57/95, Francia v. Commissione, in Racc. I-1627, p.to 7, e sent. 1-12-2005, causa C-301/03, Italia v. Commissione, in Racc. I-10217, p.to 19). Il margine di manovra delle istituzioni consiste nella facoltà di specificare le lingue di cui è richiesta la conoscenza approfondita o soddisfacente, se le necessità del servizio o quelle dell’impiego lo esigono, senza per questo abdicare alla pubblicazione dell’avviso di posto vacante in tutte le versioni della Gazzetta ufficiale. La normatività della decisione adottata dalla Commissione era stata giustamente desunta dall’utilizzo di un linguaggio deontico, corredato da espressioni come “la Commissione ha deciso” oppure “la Commissione decide” (R. Guastini, Trama aperta, scienza giuridica, interpretazione, in U Scarpelli, P. Di Lucia (cur.), Il linguaggio del diritto, Milano, LED, 1994, 467). Lo stesso termine “decisione”, unitamente al fatto che alcuni

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bandi erano stati pubblicati in conformità delle regole enunciate, aveva consentito alla Corte di giustizia di ribadire l’assoluta parità delle lingue ufficiali dei ventisette Stati membri, annullando il bando di concorso allora impugnato (COM/2005/335, in G.U.U.E. C 34 A, 9-2-2005, 3), che richiedeva la conoscenza di due lingue e la produzione dei documenti a supporto delle candidature solo in francese, inglese e tedesco.

A differenza del caso che oggi si commenta, in cui comunque attraverso la modifica integrativa apparsa sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea la collettività aveva avuto modo di avere notizia nella propria lingua materna dell’esistenza dei concorsi impugnati, nella sentenza del Tribunale del 20 novembre 2008, causa T-185/05, Repubblica italiana c. Commissione, cit, i potenziali candidati avrebbero potuto avere notizia dell’esistenza dell’avviso di posto vacante nella propria lingua madre solo da brevi annunci apparsi sui principali quotidiani di tutti gli Stati membri. La sentenza in rassegna rafforza il principio di certezza del diritto poiché considera l’informazione chiara e trasparente meritevole di una tutela rafforzata, ponendosi in linea con quella della Corte di giustizia dell’11 dicembre 2007, causa C-161/06, Skoma-Lux sro c. Celnír ředitelství Olomouc, in Racc., I-10841, che aveva sancito l’opponibilità degli atti comunitari (nel caso si trattava di un regolamento) solo se pubblicati nella Gazzetta ufficiale: «[…] una versione elettronica anteriore a tale pubblicazione non può essere opposta ai singoli, quand'anche essa si riveli, in seguito, conforme alla versione pubblicata» (p.to 50). In altre parole, che si tratti di diritti o di doveri, la

Corte opera una saldatura tra la certezza del diritto e la parità delle lingue (E. Castorina, Linguaggio costituzionale e integrazione europea, Scritti in onore di Michele Scudiero, Napoli, Jovene, 2008, 445). Nel caso in esame il baricentro della bilancia si allontana dalla notizia spostandosi verso l’informazione. Non basta che i cittadini abbiano notizia di un concorso attraverso un canale ufficiale, devono anche poterlo leggere e capire con strumenti omogenei: la loro lingua materna (cfr. sent. Trib., 3-2-2011, causa T-205/07, Italia c. Commissione, in Racc., II, 15). La pubblicazione dei bandi impugnati in sole tre lingue è stata infatti ritenuta lesiva sia del principio di proporzionalità, sia di quello del legittimo affidamento, perché l’eventuale incompletezza delle informazioni contenute in una versione linguistica della Gazzetta ufficiale comporta per il cittadino la necessità di leggerla anche in altre versioni. In un famoso caso analogo (v. Corte giust., sent. 15-3-2005, causa C-160/03, Spagna c. Eurojust, in Racc. I-2077) la Corte non aveva avuto modo di pronunciarsi nel merito della questione, poiché il ricorso, volto a vedere annullare degli inviti a presentare candidature che contenevano specifici requisiti linguistici, era stato giudicato irricevibile per motivi formali: i bandi impugnati non erano stati giudicati rientranti nel campo di applicazione dell’art. 230 TCE (ora art. 263 TFUE).

6. – Sullo sfondo della sentenza annotata resta il problema della parità delle lingue nel funzionamento delle istituzioni. Pur essendone notoriamente alcune più usate di altre [da un’indagine effettuata da Eurobarometro nel 2012 risulta che il 67% dei cittadini europei considera l'inglese come una delle due lingue più utili, seguito dal tedesco (17%), francese (16%), spagnolo (14%) e cinese (6%)], la predeterminazione di quelle richieste nei concorsi pubblici deve avvenire con modalità certe e trasparenti, secondo criteri espliciti che consentano di derogare all’art. 1 del reg.. 1/58 in forza del principio di proporzionalità. La Corte ha delineato il rapporto fra la tutela della parità linguistica e le esigenze di servizio, che possono costituire un obiettivo idoneo a essere preso in considerazione, anche se «è necessario che tale interesse sia oggettivamente giustificato e che il livello di conoscenze linguistiche richiesto risulti proporzionato alle effettive esigenze del servizio» (cfr. Corte di giust., sent. 19-6-1975, C-79/74, Küster c. Parlamento, in Racc. pag. 725, p.ti 16 e 20; sent. 29-10-1975, Küster c. Parlamento, C-22/75, in Racc. 1267, p.ti 13 e 17), desumibili dalla motivazione contenuta negli stessi bandi impugnati (cfr. Trib., sent. 5-4-2005, causa T-376/03, Hendrickx c. Consiglio, in Racc., FP-I-A-83), da comunicazioni della Commissione o da modifiche ai regolamenti interni ai sensi dell’art. 6 del reg. 1/58. Lo scopo dei concorsi di accesso alla funzione pubblica europea risponde infatti all’esigenza di selezionare i cittadini degli Stati membri dotati delle più alte qualità di competenza, rendimento e integrità, unita

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alla conoscenza di almeno due lingue ufficiali. Il fatto di consentire loro di sostenere le prove nella loro lingua materna o nella seconda lingua nella quale si sentono maggiormente esperti permette alle istituzioni di operare «il bilanciamento tra l’obiettivo legittimo che giustifica la limitazione del numero delle lingue dei concorsi e l’obiettivo dell’individuazione dei candidati dotati delle più alte qualità di competenza» (p.to 94 della sentenza in esame). La rilevanza delle competenze linguistiche dei funzionari è infatti sancita dall’art. 45, par. 2, dello Statuto, che associa la progressione di carriera dei funzionari all’apprendimento di una terza lingua. Il loro ruolo non va tuttavia espanso a danno delle competenze professionali generali del candidato: poiché il momento dell’accesso è ontologicamente diverso da quello della carriera, la limitazione delle lingue in sede di concorso potrebbe sfavorire il reclutamento dei funzionari di maggior valore, a vantaggio di quelli meramente poliglotti. In mancanza di elementi tali da consentire un controllo giurisdizionale volto a verificare se l’interesse del servizio potesse costituire un obiettivo legittimo, giustificante una deroga alla regola enunciata all’art. 1, reg. 1/58 (cfr. Tribunale, sent. 5-12-2006, Westfalen Gassen Nederland v. Commissione, causa T-303/02, in Racc., II-04567, p.to 152 e Trib. della Funz. Pubbl., 14-11-2006, Renata Villa e al. v. Parlamento, F-4/06, in Racc., FP-I-A-1-133, p.to 61), la Corte ha ritenuto che il Tribunale fosse incorso in un errore di diritto nel valutare gli elementi forniti dalla Commissione a supporto delle scelte compiute, cogliendo anche l’occasione di affermare la forza vincolante della Carta dei diritti fondamentali (p.to 75), che nella sentenza di primo grado era stata negata sulla base dell’applicazione del principio tempus regit actum (D. Chinni, Una sentenza retrò. Ancora dubbi sulla forza giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?, in Giur. cost., 2011, 895).

Non sono nemmeno risolte le delicate questioni relative alla seconda lingua indicata dai candidati per l’espletamento delle prove. In molti bandi si afferma unicamente che la lingua principale deve essere diversa da quella secondaria. Lo svolgimento dei concorsi avviene generalmente in tre fasi: una preselezione, seguita da una prova scritta e una orale. Già nella fase preselettiva i candidati devono sostenere una serie di verifiche, volte a valutare le loro conoscenze e competenze specifiche, attraverso test a risposta multipla relativi a domande di cultura generale, processo di integrazione europea, conoscenze linguistiche, nonché quiz di comprensione verbale e numerica (informazioni reperibili sul sito ec.europa.eu) . Molte prove si svolgono interamente nella seconda lingua scelta dal candidato, limitata a inglese, francese e tedesco. Per i candidati risulta quindi essenziale padroneggiare almeno uno fra questi tre idiomi, soprattutto con riguardo ai test di comprensione verbale e numerica, in cui la velocità di lettura ed elaborazione costituisce un elemento essenziale per superare la prova. La formulazione dei bandi non esclude poi il fatto che alcuni candidati anglofoni, francofoni o germanofoni possano scegliere come seconda lingua la loro lingua principale, conseguendo un indubbio vantaggio nei confronti degli altri candidati nella fase preselettiva. La Corte si è pronunciata sulla necessità di provvedere alla trasmissione di informazioni concorsuali equivalenti, evitando tuttavia di statuire sulla legittimità del trilinguismo concorsuale.

Un ulteriore spunto di riflessione è offerto dal ruolo dell’EPSO. Dal 2003 l’accesso alla funzione pubblica è regolato principalmente da concorsi organizzati dall’EPSO, istituito per ragioni di efficacia e di economia nell’utilizzazione dei fondi. Quest’organismo persegue il fine di stabilire con regolarità liste di candidati idonei in vista dei concorsi generali: non gli sono mai stati conferiti i poteri di influire sulla materia linguistica, che resta appannaggio del Consiglio. L’art. 2 della decisione 2002/620/CE gli attribuisce «i poteri di selezione devoluti dall’art. 30, primo comma, dello Statuto e dall’annesso III dello stesso alle autorità investite del potere di nomina delle istituzioni firmatarie della decisione stessa». Poiché questi poteri non includono il diritto di fissare il regime linguistico dei concorsi, delle loro pubblicazioni e nemmeno la competenza a stabilire e valutare il contenuto delle domande che costituiscono la prova preselettiva (cfr. Trib., sent. 14-12-2011, Commissione v. Pachtitis, causa T-361/10, non ancora pubblicata in Racc.), è comprensibile domandarsi se, a discapito dei punti fermi segnati dalla Corte, nell’accesso alla funzione pubblica europea la parità linguistica sia un obiettivo realisticamente a portata di mano.

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Elena Anna Grasso

Dottore di ricerca in diritto comparato dell’Università di Firenze, Ricercatrice presso il Laboratorio dei Diritti Fondamentali di Torino.

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