1
Indice
Pag.
Introduzione
5
Capitolo 1: Le imprese familiari
7
1.1 Le PMI in Italia
7
1.2 La rilevanza delle PMI nel tessuto produttivo italiano
11
1.3 La specificità delle PMI in Italia: caratteristiche e problematiche
13
1.4 L’impresa familiare in Italia
17
1.5 Cenni storici
19
1.6 Il family business
22
1.7 Il ruolo dell’imprenditore
25
1.8 Il passaggio generazionale, una delle maggiori criticità
26
Capitolo 2 La gestione dell’innovazione nelle imprese familiari 27
2.1 Alcuni filoni di pensiero: definizione e tipologie di innovazione
27
2.2 Come si presenta l’innovazione nelle imprese familiari
30
2.3 L’importanza delle risorse umane nella gestione di un processo di
innovazione
33
2.4 Il ruolo della creatività
34
2.5 Creatività manageriale
36
2
2.7 Il Family Driven Innovation (o FDI)
40
2.8 L’incidenza delle nuove generazioni
44
2.9 Le aziende familiari del futuro: innovazione, ma mantenendo i valori
del passato
47
Capitolo 3 Strategie di crescita e di internazionalizzazione
51
3.1 Premessa
51
3.2 Vantaggi e ostacoli delle imprese familiari all’internazionalizzazione
52
3.3 I fattori di internazionalizzazione delle PMI
56
3.4 Le modalità di ingresso nei mercati esteri
60
3.5 Le imprese familiari tra crescita e internazionalizzazione
62
3.6 Conclusioni
66
Capitolo 4 Il passaggio generazionale in azienda: tra impresa e
famiglia
69
4.1 L’importanza del passaggio generazionale
69
4.2 Rischi e opportunità
71
4.3 La pianificazione: un aspetto rilevante
74
4.4 Perché l’impresa familiare non dura
75
4.5 Sinergie tra aziende e famiglia
77
3
Capitolo 5 Mariottiflex, una solida realtà della provincia
grossetana
79
5.1 Origini e primi sviluppi
79
5.2 L’imprenditore
81
5.3 Credere e avere dei valori: le basi di Mariottiflex
83
5.4 Profilo organizzativo
84
5.5 Profilo strategico
86
5.6 Tra qualità e innovazione
92
5.7 L’andamento dell’azienda
94
5.8 Internazionalizzazione e valore dell’artigianato
97
5.9 Ricambio generazionale
100
5.10 Il Modello di Porter
102
5.11 Le tendenze dell’economia artigiana in Maremma
105
5.12 Legge di bilancio: le proposte di CNA al Governo
106
5.13 Lotta all’abusivismo
108
5.14 Conclusioni
109
Ringraziamenti
114
5
Introduzione
La nuova definizione di PMI in ambito europeo include la sub categoria “microimprese”. Quest’ultime occupano meno di 10 dipendenti, realizzano un fatturato annuo o, in alternativa, hanno un totale attivo che non supera i 2 milioni di euro delle piccole e medie imprese. Sono oltre 4.100.000, ovvero il 92% di tutte le imprese in Italia. Occupano il 47% della totale occupazione privata, non agricola, in Italia; il 39% nell’Unione Europea e l’11% negli Stati Uniti.
L’Italia è il paese europeo in cui le imprese con meno di 10 addetti hanno il peso più elevato in termini di valore aggiunto o di addetti. Nel nostro paese sono considerate gli “embrioni dell’intero sistema imprenditoriale”.
L’Unione Europea ha riconosciuto la rilevanza delle imprese minori nel sistema economico europeo e le ha definite la “linfa vitale” della propria economia. Anche i dati dimostrano tale importanza dato che le piccole e medie imprese occupano il 98,7% della struttura imprenditoriale europea, dove circa il 92% è costituita dalle microimprese.
La ridotta dimensione media delle imprese è una caratteristica della nostra economia da cui discendono numerose e importanti implicazioni in termini di capacità innovativa, grado di internazionalizzazione e competitività. Una migliore comprensione delle scelte operate dalle microimprese può contribuire a individuare le leve di politica economica da adottare per riportare l’economia italiana su un sentiero di crescita.
I risultati, basati sui bilanci delle società di capitale, indicano che le microimprese sono in media caratterizzate da livelli di redditività operativa superiori rispetto alle altre classi dimensionali. Tuttavia la loro redditività netta, anche a causa di più elevati oneri finanziari, risulta sistematicamente più bassa, limitandone la capacità di finanziare gli investimenti con
6
le risorse interne. Probabilmente anche per questo motivo, l’attività di accumulazione del capitale risulta molto più discontinua rispetto alle imprese di maggiore dimensione.
I contenuti flussi di profitti determinano un maggiore ricorso al debito, che incide negativamente sulla solidità delle condizioni finanziarie. I debiti sono in larga parte di natura bancaria ma, a differenza di altre imprese, è significativa l’incidenza dei finanziamenti erogati dagli stessi soci. Si tratta di fondi che in parte mitigano i rischi connessi alla struttura finanziaria delle microimprese, in quanto è verosimile che permangono nelle disponibilità dell’impresa anche nel caso di situazioni di stress.
Nei rapporti con le banche, le microimprese, appaiono penalizzate, rispetto alle imprese più grandi, dalla richiesta di maggiori garanzie e dall’applicazione di tassi di interesse elevati, indipendentemente dalla solidità dei bilanci. Con riferimento alla struttura finanziaria, ad esempio, si è rilevata una quota elevata di microimprese che non hanno alcun debito; si tratta di società caratterizzate in media da condizioni di bilancio più equilibrate, suggerendo che l’assenza di finanziamenti esterni dipenda maggiormente da fattori di domanda piuttosto che di offerta. Altrettanto marcata appare la variabilità tra un anno e l’altro dei diversi indicatori per le singole aziende. È plausibile che questa caratteristica, soprattutto quando riferita ai flussi di reddito, generi molta incertezza rispetto alle performance delle microimprese, inducendo i potenziali finanziatori ad adottare maggiori cautele nell’erogazione dei fondi e ad applicare condizioni meno favorevoli rispetto agli altri prenditori.
7
1. Le imprese familiari
1.1 Le PMI in Italia
La struttura produttiva italiana è caratterizzata dalla presenza rilevante di PMI (micro-imprese, piccole imprese e medie imprese) che rappresentano, ad oggi, il motore trainante della nostra economia nazionale. Abbracciando la definizione di impresa proposta dall’Unione Europea, si sceglie di classificare le imprese in funzione dell’organico, del fatturato raggiunto e del bilancio totale annuale:
un’impresa viene definita media quando il suo organico è inferiore a 250 addetti e quando realizza un fatturato non superiore a 50 milioni di euro o un totale di bilancio annuale non superiore a 43 milioni di euro;
la piccola impresa è invece considerata tale se presenta un organico inferiore a 50 persone e il fatturato o il totale del bilancio annuale non supera i 10 milioni di euro;
la micro impresa, infine, deve possedere un organico inferiore a 10 persone ed un fatturato o un totale di bilancio annuale non superiore a 2 milioni di euro1.
Tenuto conto di questi parametri di definizione delle PMI, è possibile affermare che l’attuale sistema produttivo italiano, è costituito da un numero esiguo di imprese di grandi dimensioni, da un numero limitato di imprese di medie dimensioni e dall’assoluta preponderanza di micro imprese, presso le quali è occupata la grande maggioranza degli addetti. Da rilevazioni ISTAT risulta, infatti, che il 95% delle imprese italiane è definito “micro”, perché costituito da imprese con meno di 10 addetti e, se si fa riferimento al solo settore industriale, la percentuale rimane comunque elevata, attestandosi intorno al 90%.
1 Definizione contenuta nella Raccomandazione 2003/361/CE 2
8
Analizzando il territorio italiano, è possibile, infatti, rilevare come la struttura produttiva nazionale sia basata su una fitta rete di micro e piccole imprese, operanti sia nell’industria che nel settore terziario.
9
Relativamente al settore industriale, è possibile notare come nel nord-est dell’Italia dominino le piccole e medie industrie, mentre nel Nord-Ovest, in particolare in Piemonte, sia prevalente la grande industria. Per quanto riguarda il settore dei servizi, invece, le grandi imprese prevalgono nel Lazio e in Lombardia, mentre quelle piccole sono diffuse nelle Marche e nell’Umbria. Nel Mezzogiorno infine, domina la micro impresa dei servizi in Campania, Calabria e Sicilia e dell’industria in Puglia, Basilicata, Abruzzo, Molise e Sardegna2.
I ricorrenti confronti internazionali, mettono in rilievo che, in Italia, le micro imprese sono, non solo più numerose di quelle presenti negli altri Paesi europei, ma anche, nella generalità dei casi, di dimensioni ancor più ridotte. Le ragioni di ciò possono venir ricondotte a fattori di carattere politico, economico e geografico.
Circa un secolo e mezzo fa, infatti, l’Italia era suddivisa in un insieme di piccoli Stati ed il trasferimento delle merci tra i diversi territori era soggetto a dazi e restrizioni. Tutto ciò ha favorito il diffondersi di un tessuto di imprese di piccole dimensioni, rivolte a mercati prevalentemente locali.
Successivamente, dopo l’unificazione, la scarsa redditività dell’agricoltura non ha consentito di accumulare risorse sufficienti a sostenere gli investimenti necessari allo sviluppo della grande industria. Nel secondo dopoguerra, infine, allorché la struttura produttiva italiana ha assunto una connotazione industriale, si sono rapidamente creati i presupposti perché le maggiori imprese delegassero alle imprese minori la manifattura di componenti e di semilavorati. Si è assistito pertanto ad una sorta di de-integrazione verticale3 , a seguito della quale le grandi aziende hanno decentrato alcune produzioni verso
2 Dati ISTAT, tratti da Noi Italia. 100 statistiche per capire il paese in cui viviamo, 2015. 3 Cfr. G. Corbetta, Le medie imprese, Egea, Milano 2000.
10
strutture esterne. Tutto ciò e stato favorito dalla prevalenza di industrie nelle quali predomina il processo produttivo di tipo intermittente e che risentono in modo particolare della componente stagionale e della moda: abbigliamento, arredamento e parte della meccanica.
La giustificazione della diffusione delle piccole imprese deriva, dunque, dalla loro capacità di assumere un ruolo significativo in particolari segmenti di mercato, e un ruolo di ammortizzatori degli oneri delle grandi imprese, determinate ad alleggerire la struttura dei costi. È riconosciuto infatti che le imprese minori si caratterizzano per una notevole flessibilità, che consente loro una capacità di adattamento ai mutamenti, sia tecnici sia comportamentali.
Una diversa corrente di opinione ritiene, invece, che le microimprese rappresentino la naturale evoluzione della figura storica del mercante – imprenditore e della sua capacità di valorizzare e trasferire su scala industriale un tradizionale saper fare4.
Negli anni Settanta e Ottanta, in seguito alle crisi petrolifere e agli sconvolgimenti internazionali di carattere politico e monetario, sono state, infatti, soprattutto le imprese di carattere familiare a saper rispondere prontamente alle variazioni della domanda di fronte all’emergere della concorrenza asiatica.
L’Italia ha dunque dimostrato di “non avere la forza di inserirsi in mercati a forte impegno finanziario e a tecnologia particolarmente elevata, ma di avere la capacità di farlo con successo nei settori dei beni per la persona e per la casa e dei relativi beni strumentali”5
. È possibile, dunque, concludere che l’attuale realtà italiana appare caratterizzata dai seguenti aspetti chiave:
4
Cfr. A. Colli, I voti di Proteo: storia della piccola impresa in Italia nel Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
5 Cfr. G. Becattini, M. Bellandi, Forti pigmei e deboli Vatussi. Considerazioni sull’industria italiana, in
11
un sistema produttivo frammentato, con numero elevato di imprese di dimensione media inferiore a quelle degli altri Paese dell’Unione Europea;
un peso ancora prevalente dei settori tradizionali all’interno del tessuto imprenditoriale;
un modello di controllo e gestione di tipo familiare e una struttura finanziaria contrassegnata dalla coesistenza del patrimonio dell’impresa e della famiglia, spesso ponendosi come vincolo alle condotte di sviluppo dell’impresa stessa;
una prevalenza di imprese di micro, piccole e medie dimensioni, nelle quali si osservano la contemporanea presenza di un imprenditore (spesso fondatore) e l’assenza di un’adeguata struttura manageriale.
1.2 La rilevanza delle PMI nel tessuto produttivo italiano
Le PMI costituiscono, da sempre, un punto di forza del nostro sistema produttivo.
Esse sono flessibili nell’organizzazione e competono sul mercato grazie alla loro “capacità di sfruttare i vantaggi della divisione del lavoro e della condivisione delle conoscenze, mediate da relazioni interpersonali e dal capitale sociale sedimentato sul territorio”6.
In particolare, il ruolo delle piccole imprese nello sviluppo economico italiano, emerse per la prima volta negli anni Settanta, nei territori delle regioni dell’Italia Centrale e Nord-Orientale (cd. NEC), che erano rimaste in una specie di penombra7, tra un Nord – Ovest in cui erano localizzati i principali centri della produzione di massa e un Mezzogiorno che “arrancava” nonostante l’impegno di politiche per il suo sviluppo.
6
Cfr. A. Bagnasco, Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo economico italiano, Il Mulino, Bologna, 1977.
12
Le regioni del NEC, in quegli anni, crescevano a tassi sostenuti, ma la loro economia, che aveva al centro la produzione industriale, era basata su sistemi diffusi di piccole imprese e, in particolare, di quelli che saranno poi denominati distretti industriali, localizzati in centri minori, al centro di territori rurali caratterizzati da rapporti proprietari di tipo mezzadrile o con contadini autonomi, in grado di fornire manodopera flessibile, oltre che di piccole accumulazioni di capitale da investire in una nuova direzione produttiva.
Il loro successo venne all’epoca spiegato focalizzando l’attenzione non tanto sull’impresa quanto sulle caratteristiche del sistema locale in cui si trovava ad operare.
Le imprese, infatti, non avevano risorse da investire in ricerca e sviluppo né ingenti capitali da mobilitare e il loro successo si basava, piuttosto, su una combinazione di fattori economici, sociali e culturali sedimentati nel territorio. Erano, dunque, imprese a carattere familiare, nate dalla mobilitazione di capitali locali, e immerse in un network locale di supporto8.
Nel corso degli anni, però, negli stessi territori di incubazione, questo modello di industrializzazione diffusa ha mutato profondamente le sue modalità organizzative. In particolare, la configurazione “orizzontale” con cui si sono a lungo rappresentati i distretti industriali, è stata progressivamente sostituita da forme di divisione del lavoro “verticale” e gerarchiche tra imprese capofila e reti localizzate di fornitori, a loro volta sottoposte a tensione nel nuovo ambiente competitivo emerso alla fine degli anni Novanta.
13
Già a partire da quegli anni, infatti, e con sempre maggiore intensità nel decennio successivo, l’adozione della moneta europea unica, l’apertura internazionale dei mercati e la crisi economica sottopone a tensione anche i distretti e le filiere del made in Italy ed è in questo nuovo contesto economico che parte delle imprese distrettuali transitano dalla piccola alla media dimensione. Ciò consente, ad esse, di sviluppare leve competitive inaccessibili alle imprese minori aprendo le filiere sia a monte (fornitori di conoscenze, componenti, materiali, lavorazioni e servizi immateriali) che a valle (rete commerciale e presidio in un numero crescente di mercati esteri), creando una rete di relazioni all’interno della quale le PMI entrano in contatto con soggetti di natura diversa e innescano meccanismi di cross fertilization, i quali favoriscono lo sviluppo di quella capacità di adattamento e apprendimento esplorativo richiesto, appunto, dall’attuale e mutevole contesto economico. Le imprese italiane hanno, dunque, adottato principalmente un approccio orientato all’investimento sull’identità del proprio territorio, inteso come sistema di risorse, relazioni e conoscenze peculiari. È indubbio, che tale strategia di sviluppo contiene in sé delle insidie potendosi, l’identità territoriale, trasformarsi in un fattore di chiusura del sistema nei confronti dell’esterno.
Si palesa, dunque, la necessità per le PMI, di ridefinire costantemente l’identità del proprio territorio attraverso un collegamento costante con le dinamiche ambientali.
1.3 Le specificità delle PMI in Italia: caratteristiche e problematiche
Analizzando nello specifico l’attuale tessuto produttivo italiano, si riscontra che la maggior parte delle PMI italiane opera nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, e in questo
14
comparto si concentra circa l’86 per cento dei dipendenti totali9
. Rispetto alla media europea, le PMI italiane sono più numerose anche nel settore manifatturiero, in particolare nei comparti tradizionali: alimentare e delle bevande, dell’abbigliamento, tessile e nella produzione di prodotti metallici, macchinari e impianti. Questo dimostra l’importanza delle piccole imprese per l’economia italiana, ma è anche indicativo del persistere di notevoli difficoltà e limiti alla loro crescita. Dal 2008, l’economia italiana ha attraversato due recessioni consecutive, caratterizzate da una flessione delle esportazioni tra il 2008 e il 2009 e da una contrazione della domanda interna a partire dal 2011. In entrambe le PMI sono state colpite più delle imprese di dimensioni maggiori. La congiuntura economica, infatti, ha reso più difficile per le PMI l’accesso ai finanziamenti delle banche, dei mercati di capitali e di altri enti creditizi e ciò ha inevitabilmente determinato, tra il 2008 e il 2013, un calo nel numero di PMI operanti nell’economia italiana. Coerentemente con questa evoluzione, l’occupazione nelle PMI è andata costantemente diminuendo.
I settori che hanno maggiormente risentito della crisi sono stati principalmente quello edilizio ( anche se stanno emergendo nuovi mercati, legati alle energie rinnovabili e alla riqualificazione degli edifici) e quello manifatturiero.
Prima della crisi, l’industria manifatturiera italiana era la più grande in Europa, dopo quella della Germania. Da allora, PMI e grandi imprese hanno subito un forte ridimensionamento nel numero. Tra il 2008 e il 2013, hanno cessato di operare circa 50.000 imprese, pari all’11% del totale. Di conseguenza, il valore aggiunto è diminuito è del 5% per le PMI e del 15% per le grandi imprese.
15
In particolare, la produzione è diminuita notevolmente nel comparto automobilistico. Il settore dei servizi sembra essere, ad oggi, quello che ha resistito meglio alla crisi; nel commercio e nei servizi, infatti, negli ultimi anni, la base imprenditoriale si è ampliata. In linea generale e come sopra già accennato, la congiuntura ha reso più difficile per le PMI italiane, l’accesso al credito e questa è solo una delle problematiche e caratteristiche riscontrabili in imprese di piccole dimensioni. Quest’ultime sono, infatti, nella maggior parte dei casi caratterizzate anche da scarsa capacità di concepire un obiettivo a lungo termine, limitato desiderio di ampliare la formazione e l’esperienza, poca volontà di ampliare la compagine proprietaria e di operare una distinzione tra proprietà e impresa stessa. Inoltre, i settori in cui operano molte imprese italiane, sono caratterizzati da basse barriere all’entrata in termini di investimenti necessari. Non va peraltro trascurato il fatto che molte microimprese sono all’internodi distretti in cui una popolazione di piccole imprese contigue, specializzate per fase, opera in un contesto socialmente, culturalmente ed istituzionalmente congeniale e complementare10.
Non tutte le microimprese industriali, però, si concentrano in tali aree ed anche all’interno delle stesse non tutte possono godere di quelle economie ambientali che compensano gli svantaggi connessi alla piccola dimensione. Tra questi, primeggiano la bassa produttività e la moderata capacità di innovare e ciò potrebbe rallentare la capacità di competere con le imprese di altri Paesi in un contesto di crescente integrazione dei mercati.
In merito alla relazione di Banca d’Italia del 2003, si è asserito che “il modesto sviluppo della produttività è da riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro sistema produttivo. Le imprese italiane sono piccole, le unità locali nell’industria, secondo il censimento dell’ottobre 2001, impiegano in media 6,3 addetti, un numero molto
16
basso rispetto agli altri Paesi europei e alle altre economie industriali. Le analisi del Servizio Studi sull’economia dei Paesi europei rivelano una stretta dipendenza dello sviluppo della produttività dalla dimensione dell’impresa; nei settori a più alto contenuto tecnologico, la grande dimensione risulta determinante”11.
L’euro e il fenomeno della globalizzazione dei mercati hanno radicalmente modificato lo scenario in cui operano le imprese e la realizzazione del mercato unico europeo ha costituito sia una grande opportunità sia un mezzo di “selezione naturale” per le imprese che non sono riuscite ad adeguarsi ai cambiamenti in atto.
I sistemi locali operanti nell’ambito dei beni tradizionali del made in Italy (meccanica, tessile ed abbigliamento, pelli e cuoio, legno e arredamento, materie plastiche) sono in difficoltà per l’aggressiva concorrenza dei Paesi industriali emergenti, soprattutto da parte della Cina. Così, anche i settori industriali più evoluti e meglio organizzati devono trovare soluzioni adeguate per fronteggiare Paesi con costi di produzione incompatibili con i nostri e livelli qualitativi inaspettatamente elevati.
Si deve procedere con la riorganizzazione della struttura dei rapporti fra le imprese locali allo scopo di dare maggiore incisività alla presenza delle imprese minori sui mercati mondiali ed è opportuno proseguire ulteriormente con la ricerca di qualità specifiche dei prodotti e la loro certificazione. Il tutto andrebbe inserito, in un contesto di relazioni diverse, nell’ambito delle filiere produttive, in grado di ricostituire un’integrazione verticale della produzione tale da superare i limiti delle piccole dimensioni organizzative. L’intero processo comporta la necessità di un diverso approccio alle problematiche emergenti da parte della classe imprenditoriale e ciò presuppone una sua crescita culturale. Quanto
11
Banca D’Italia (2003), Assemblea generale ordinaria dei Partecipanti, Considerazioni finali del
17
auspicato può avvenire dando luogo ad un passaggio generazionale e/o allo sfruttamento di adeguate leve manageriali.
1.4 L’impresa familiare in Italia
In Italia circa il 90% delle imprese sono familiari e, a parità di settore e di prodotto o servizio fornito, producono una redditività più alta rispetto alle public company. L’economia italiana si basa, dunque, su uno spirito imprenditoriale che ha nella famiglia il suo motore trainante. Molte di queste aziende hanno oltre un secolo di vita, altre mostrano solo pochi mesi di attività e numerose imprese, invece, non hanno avuto la possibilità di andare oltre l’idea imprenditoriale del fondatore e sono subito scomparse.
In generale, le imprese familiari che sono sopravvissute, richiedono una gestione diversa dalle altre aziende non familiari, dati alcuni elementi che le caratterizzano e distinguono da quest’ultime e che possono rappresentare sia opportunità che minacce alla loro sopravvivenza. Tali elementi riguardano, innanzitutto, i rapporti tra impresa e famiglia. In particolare, le imprese familiari italiane, sono caratterizzate da una forte influenza della famiglia sull’impresa, che risulta legittimata dalla titolarità di tutto o parte del capitale di rischio. Tale titolarità può essere esercitata anche attraverso la partecipazione di alcuni suoi membri ai processi di gestione.
L’attività imprenditoriale si identifica, quindi, in una o più famiglie, per una o più generazioni e, sia la gestione che la proprietà del patrimonio, ricadono sempre nell’ambito dei rapporti familiari interessati solamente ad una posizione di rendita economica.
Per quel che riguarda i modelli di business adottati dalle imprese familiari italiane, si riscontrano spesso elementi di obsolescenza relativi alla formula imprenditoriale originale e
18
difficoltà nel rinnovarla; ostacoli nel reperimento di risorse finanziare, espresse sia da capitale di debito che di rischio e appartenenza a un distretto industriale che spesso richiede il rispetto di regole e parametri difficilmente negoziabili nel breve periodo.
Possono essere, inoltre, individuati specifici eventi tali da compromettere, non di rado e in misura irreversibile, il successo o l’esistenza stessa dell’impresa di famiglia.
Tali elementi di “rischiosità” propri dell’impresa familiare sono, in particolare:
- il rischio tecnologico, inteso come potenziale incapacità di abbandonare una tecnologia obsoleta e adottare una tecnologia originale;
- il rischio finanziario dovuto soprattutto al fatto che, spesso, ingenti flussi monetari vengono sottratti dall’impresa per alimentare spese o investimenti a favore dei componenti familiari;
- il rischio operativo determinato dall’originale del reddito operativo della gestione caratteristica e causato dall’anomala struttura dei costi e dalla fragile composizione dei ricavi;
-il rischio legato alla perdita del fondatore, nel momento in cui tutto l’assetto di corporate governance è fortemente o totalmente dipendente dalle caratteristiche personali e professionali del capo storico dell’azienda;
- il rischio paese se le esportazioni si concentrano enormemente in Stati a basso o modestissimo grado di stabilità politica;
- l’incapacità degli eredi di proseguire l’opera che ha fatto la fortuna della prima generazione;
- l’incapacità dell’imprenditore di gestire il trasferimento della cultura aziendale, di garantire la continuità della successione;
19
- il rischio settore se la domanda specifica del mercato un cui si opera è generata da eventi straordinari destinati a non perdurare nel tempo.
Nonostante tutte le problematiche sopra elencate, il tessuto imprenditoriale in Italia è caratterizzato dalla presenza preponderante di imprese familiari.
1.5 Cenni storici
La comprensione dell’attuale demografia del sistema economico italiano, deriva dall’esame di decenni di storia a cavallo del XX secolo, che caratterizzano l’evoluzione dell’impresa industriale in Italia, sia in riferimento al più ampio scenario economico, sociale e politico, sia rispetto ad un punto di vista interno, considerando, cioè, gli obiettivi conseguiti dagli imprenditori, le risorse mobilitate e i disegni organizzativi predisposti per realizzarli.
A partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale, l’evoluzione tecnologica delle modalità di produzione, nei settori ad alta intensità di capitale, ha richiesto la presenza di grandi imprese in grado di conseguire economie di scala e di diversificazione. Accanto ad esse rimaneva, però, di supporto la piccola impresa che, insostituibile in specifici segmenti di mercato, faceva da base per molti tipi di forniture. Inoltre non tutti i settori sono stati colpiti da tale rivoluzione (ne restano fuori i labour intensive, per esempio il tessile, l’abbiglaimento, la fabbricazione di mobili) e la piccola impresa rimaneva in questi più competitiva rispetto a quella di maggiori dimensioni.
Accanto a ditte medio – grandi, nel primo decennio del secolo scorso, erano, dunque, attive moltissime aziende a conduzione familiare che vivevano della domanda locale: a differenza dei comparti avanzati, nei quali è più stretta l’interazione tra progresso tecnico, crescita dell’impresa, produttività ed evoluzione organizzativa, nei settori cosiddetti “leggeri”, più
20
sporadico risulta l’intervento del capitale esterno a quello familiare, considerate le scerse risorse di cui necessitano modeste realtà aziendali e per il cui avvio non occorrono investimenti tecnici elevati.
Nel decennio successivo, si iniziavano a creare le condizioni per la trasformazione del laboratorio artigiano nella piccola impresa specializzata in uno o pochi segmenti del ciclo di lavorazione: l’impresa “di fase” poneva le premesse per la formazione dei distretti industriali nella forma oggi conosciuta12.
Le figure imprenditoriali continuavano, però, ad essere ancora fortemente caratterizzate di tratti tradizionali, dove il proprietario, conduce in prima persona tutto il processo di lavorazione; in più, il modesto capitale di avviamento e di funzionamento, così come la forza lavoro, sono forniti dal nucleo familiare, in qualche modo coinvolto nell’attività. Anche dal punto di vista finanziario, si riscontra il ricorso all’autofinanziamento e agli istituti di credito locale.
A cavallo degli anni Venti, dopo che la guerra aveva creato fenomeni di gigantismo portando la fabbrica a dimensioni insolite, è seguito un periodo di crescita rapida ed intensa, in linea con quello delle maggiori economie europee, dell’industria elettrica, chimica e meccanica ma, le difficoltà attraversate nel dopoguerra dalle organizzazioni di grandi dimensioni, incominciavano a creare terreno fertile per i nuovi ruoli ed ampie prospettive per le piccole imprese.
La dicotomia tra artigianato evoluto e produzione in massa, così come tra piccola e grande dimensione, coinvolgeva quasi tutti i settori dell’economia nazionale, al punto che il tessuto imprenditoriale a partire dagli anni dell’immediato dopoguerra era caratterizzato da un settore manifatturiero composto da oltre un milione di attività artigiane e di microimprese
21
(che assorbivano appena il 33% della forza lavoro) e da 50 mila imprese industriali, di cui il 98% aveva in meno di 100 dipendenti13.
Negli anni ’90 – ’00, il contesto industriale italiano ha subito notevoli trasformazioni: dalla dismissione di grandi imprese pubbliche alle difficoltà di alcuni tra i maggiori gruppi privati, all’incapacità delle numerose piccole imprese, attive su una o poche fasi del ciclo produttivo, di affermarsi autonomamente sui mercati internazionali e il conseguente sviluppo dei distretti industriali. Inoltre, a conferma del carattere familiare del capitalismo italiano, l’indagine condotta da Unionecamere (Istituto Tagliacarne nel 2001)14
, mostrava che nelle imprese di dimensioni minori aumentavano le frequenze osservate dei legami di parentela tra i soggetti controllanti. In particolare, dallo studio emergeva che, nella maggior parte di queste, spesso operanti in mercati ristretti, la proprietà era esercitata da un solo o, al massimo, da due o da tre soggetti, essenzialmente persone fisiche (con una percentuale del 98% se si considerano le sole aziende agrarie manifatturiere); che il 76% dei proprietari era anche il fondatore dell’azienda e, per circo il 68,4% del totale delle imprese, prevalevano legami di parentela tra le persone proprietarie.
1.6 Il Family Business
Ad oggi, si stima che le aziende familiari italiane siano circa 800 mila, pari ad oltre l’85% del totale delle aziende e in termini di occupazione circa il 70%. Sotto il profilo dell’incidenza delle aziende familiari, il contesto italiano risulta essere in linea con quello delle principali economie europee, mentre l’elemento differenziante rispetto a questo Paesi è
13
E. Borruso, op.cit.
14L’indagine è estesa ad un campione rappresentativo di circa 4000 imprese di piccole dimensioni, di cui
circa 2300 operanti nel comparto dell’artigianato manifatturiero. In UNIONECAMERE, Le piccole e medie
imprese nell’economia italiana. Rapporto 2011. Il punto di osservazione delle camere di commercio.
22
rappresentato dal minor ricorso a manager esterni da parte delle famiglie imprenditoriali: il 66% delle aziende familiari italiane ha tutto il management composto da componenti della famiglia.
Si tratta di aziende non solo piccole, ma anche di medie e grandi dimensioni: difatti, il 45% delle centocinquanta imprese più grandi operanti in Italia appartiene al capitalismo familiare: nomi, per intendersi, come Benetton, Luxottica, Versace, Mediaset, Fiat, Barilla, Ferrero, Lavazza.
Da alcuni anni il tema del family business attira l’interesse di numerosi studiosi e ricercatori, impegnati a descrivere, sia a livello locale che internazionale, i tratti del fenomeno “impresa familiare”. L’interesse alle dinamiche di sviluppo e di crescita di tali imprese si fonda essenzialmente su due ragioni. La prima è legata alla massiccia diffusione del modello del family business in tutti i paesi industrializzati e in quelli emergenti. La seconda è dovuta al gap conoscitivo che tuttora l’impresa familiare presenta rispetto alla più indagata impresa manageriale: per molti anni l’impresa moderna, fondata sulla separazione tra proprietà e controllo e organizzata con team manageriali professionali, è stata interpretata dai critici come la realtà più innovativa ed efficiente dal punto di vista gestionale, tralasciando le potenzialità dell’idealtipo familiare e la sua possibile evoluzione alla luce del cambiamento dei mercati.
Progressivamente gli studiosi d’impresa hanno preso coscienza dell’evidenza che le imprese familiari rappresentano di fatto un perno per la realtà economico – sociale di moltissimi Paesi, ostentando alcuni caratteri determinanti e distintivi rispetto all’impresa manageriale classica.
Governare un’impresa familiare e assicurarle una certa continuità nel tempo non è compito agevole: in Italia meno di un terzo delle imprese familiari sopravvive alla seconda
23
generazione e solo il 15% la supera. Ciò nonostante, le imprese familiari rappresentano la spina dorsale dell’economia italiana, costituendone, in quanto tipologia aziendale più diffusa, le maglie di un tessuto economico fitto di microimprese. Che siano di piccole, medie o grandi dimensioni, i family business raffigurano la diretta manifestazione della libertà di iniziativa economica e forniscono un contributo fondamentale per l’occupazione e lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Le interdipendenze, le sovrapposizioni e i nessi tra i sistemi famiglia e impresa rappresentano, in ogni caso, la base sostanziale attraverso cui è possibile analizzare il valore della formula imprenditoriale del family business; ogni impresa familiare, al pari di ogni altra azienda, mostrerà un suo determinato assetto istituzionale, un suo modello organizzativo, un suo orientamento strategico di fondo; ma tutto un insieme di valori, atteggiamenti, idee, convinzioni e decisioni strategiche che saranno sempre il risultato del vissuto storico della famiglia e dell’impresa, avendola caratterizzata nel passato, denotandola nel presente e aiutandola a sopravvivere nel futuro.
L’impresa familiare è, dunque, un’istituzione economica che, in quanto tale, nel creare ricchezza attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi, assume decisioni collegabili ad ambiti socio – economici ben determinati15.
Nella letteratura manageriale l’impresa familiare viene, anzitutto, analizzata in riferimento al contesto competitivo e alle sue dimensioni. La più aggiornata ricerca condotta per conto di Banca d’Italia nel 200816
su un campione di 1220 imprese a conduzione familiare con almeno cinquanta addetti ha messo in luce che:
15
Piva F., “Impresa familiare e ricambio generazionale”, Amministrazione & Finanza, Oro, n.3, 2001
16
Cucculelli M., Micucci G., Successione familiare e performance d’impresa: evidenze dalle imprese
24
Il 46% delle PMI in Italia sono gestite direttaemnte da un imprenditore oppure da un gruppo costituito da pochi membri della famiglia;
Una quota minoritaria di imprese è controllata da poche persone che non hanno vincoli di parentela;
In un gruppo di 300 imprese con un numero di addetti compreso tra i 20 e i 500, l’80% è controllato direttamente o indirettametne, dall’imprenditore o dai suoi familiari.
Tale situazione pone in evidenza la centralità del ruolo della famiglia sia nel capitale che nel lavoro prestato, circoscrivendo il numero degli addetti ai membri della famiglia e demarcando la forte presenza di imprese di piccola dimensione. L’impresa familiare è tuttavia capace di dinamismo, specializzazione, innovazione e flessibilità, come emerge anche dai più recenti dati Istat (2010), secondo cui l’83% delle imprese ha carattere familiare17.
Il dato sulla capillare diffusione dell’impresa familiare è confermato anche da una ricerca condotta dall’Aidaf18
secondo la quale nella classifica delle prime 100 società per fatturato, 42 sarebbero “tramandate” di padre in figlio19
.
Nel tracciare una loro road map, l’Aidaf illustra, nel Rapporto 2010, che le imprese familiari sono distribuite per il 60% a Nord – Ovest, per il 13% a Nord – Est, per il 17% al Centro e per il restante 10% al Sud: imprese di tutto rispetto se si considera che le sole imprese associate Aidaf rappresentano oltre il 10% del fatturato del PIL italiano, con un fatturato totale di 1787 miliardi di euro.
17
Maggioni V., Del Giudice M., Affari di famiglia: problematiche gestionali e modelli imprenditoriali
emergenti nei nuovi family business.
18
Associazione Italiana delle Aziende di famiglia, nata nel nostro Paese nel 1997 per tutelare e diffondere i valori del capitalismo familiare.
19
25
1.7 Il ruolo dell’imprenditore
L’impresa familiare è caratterizzata da un capitale sociale e da una gestione controllati da poche persone collegate tra loro da vincoli di parentela. Tale vincolo riguarda, dunque, la stretta affinità o la solida alleanza20.
Le imprese familiari rappresentano nella nostra realtà economica, un modello operativo che incarna i caratteri tipici della cultura imprenditoriale italiana, vale a dire capacità creativa, forza di volontà, determinazione, voglia di emergere ed individualismo.
Oggi non mancano sul territorio esperti e artigiani imprenditori che sono dei veri artisti dal punto di vista tecnico qualitativo. Spesso sono i fondatori dell’impresa a vivere l’azienda come una cosa personale, che si basa sulle loro capacità creative e sui loro sacrifici.
È proprio da queste premesse che può nascere quell’atteggiamento contradditorio del titolare che, da una parte, è consapevole della necessità di adeguamento a cicli evolutivi della sua impresa e della sua vita e, dall’altra, è restio a lasciare il comando alle nuove generazioni.
Nella gran parte dei casi, gli imprenditori di prima generazione hanno costruito la loro attività seguendo l’intuito, piuttosto che programmando lo sviluppo degli affari. Avendo vissuto l’azienda in prima persona, si ritiene che il governo della stessa possa avvenire solamente accentrando in sé stessi tutte le decisioni. Il passaggio delle consegne diviene così difficoltoso da gestire perché non esiste una figura alternativa che possieda le medesime “valenze storiche” e sia ritenuta in grado di assumere le responsabilità che, da sempre, sono spettate al fondatore.
20
Cfr. C. Demattè, G. Corbetta, I processi di transizione delle imprese familiari, Milano, Mediocredito Lombardo, 1993
26
Si ritiene comunque che, il profondo mutamento in atto sui mercati ed i diversi fattori di competitività, richiedano risposte nuove dalle imprese ed il ricambio generazionale può costituire un’opportunità per modernizzare la gestione aziendale.
1.8 Il passaggio generazionale, una delle maggiori criticità
Altro problema che può insorgere, riguarda l’eventuale scelta degli eredi e la difficoltà da parte dei figli di subentrare al posto del padre che ha modellato l’azienda sulla propria visione esistenziale e strategica.
L’impresa familiare ha come principale obiettivo la sopravvivenza e il passaggio da una generazione all’altra del valore creato.
Sono più di 128 mila le microimprese familiari attive in Italia che tra il 2012 e il 2016 hanno sperimentato, o dovranno affrontare, il passaggio generazionale: lo si evince dal report diffuso dall’Ufficio Studi di Confartigianato basato su dati Istat dove sono riportati alcuni dati relativi alle singole regioni
Il valore dell’artigianato si trasmette di padre in figlio. Fase delicata nella vita di un’impresa, il passaggio generazionale è caratterizzato soprattutto da trasmissioni di competenze, capitale umano, know how, valori fondamentali nell’artigianato e della microimpresa ed è accompagnato da nuove opportunità di crescita per la struttura imprenditoriale, date dall’ingresso di risorse giovani, in molti casi più propense all’utilizzo delle nuove tecnologie e dell’innovazione.
27
2. La gestione dell’innovazione nelle imprese familiari
2.1 Alcuni filoni di pensiero: definizione e tipologie di innovazione
Oggi la conoscenza ha un ruolo essenziale, forse più che in passato. Il capitale intellettuale ha un valore determinante nell’economia delle imprese. La microimpresa si inserisce perfettamente in tale dinamica perché da sempre è produttrice di conoscenza e di sapere tecnico – esperienziale.
Erroneamente si da per scontata la coincidenza tra le nozioni di sviluppo e di crescita del sistema aziendale. Il primo errore diffuso è legare il concetto di sviluppo implicitamente allo sviluppo dimensionale, in cui ci si riferisce meramente a un aumento delle dimensioni aziendali. Considerando solo la variabile dimensionale si tralascia l’accezione in cui lo sviluppo viene inteso come “movimento verso il meglio”21
, che può avvenire sia modificando che ampliando la dimensione dell’impresa, ma anche lasciando immutata la stessa.
Numerosi studi della letteratura economico – aziendale e manageriale si sono occupati dei processi di sviluppo e di crescita delle imprese: a prescindere dalla loro governance familiare sono stati individuati numerosi modelli concentrati sulle varie fasi di evoluzione dell’impresa, considerando le problematiche insite in ogni fase e le azioni risolutive implementabili dal management.
Greiner22 ha elaborato un suo modello teorico nel quale sosteneva che il passare del tempo e
il crescere delle dimensioni provocano periodi di evoluzione e di rivoluzione in un’impresa:
le fasi di evoluzione sono caratterizzate da un regime di continuità delle pratiche organizzative, coerenti con il regime di conduzione passata;
21
Sciarelli S., Elementi di economia e gestione delle imprese, Padova, Cedam, 2008.
28
le fasi di rivoluzione mettono in luce momenti di crisi che destabilizzano l’operare ordinario, sollecitando nuove soluzione organizzative, necessarie per dare vita a un nuovo periodo di evoluzione.
L’alternanza tra le due fasi e la velocità con la quale si verificano gli stadi di evoluzione e di rivoluzione sono ponderate con il tasso di sviluppo del settore nel quale l’impresa opera, delineando così le cinque fasi che evidenziano i vari stadi di crescita di un family business:
una fase di crescita “pura”, che nasce dall’input creativo dell’imprenditore e termina con la crisi di leadership dello stesso col tempo, l’aumento della complessità gestionale spinge l’imprenditore a dover delegare alcune mansioni ai suoi collaboratori, dando loro maggiore potere decisionale e responsabilità;
una fase di crescita attuata attraverso un’abile direzione l’imprenditore riesce a coordinare le varie funzioni e a creare tra esse armonia;
una fase di crescita attraverso la delega l’imprenditore affida alcune sue responsabilità ad altri collaboratori per gestire il processo di evoluzione, ma ciò può comportare un’eccessiva frammentazione del potere decisionale;
una fase di crescita attraverso una govenance top down l’imprenditore introduce regole formali per porre un coordinamento univoco tra le componenti d’impresa, causando però staticità;
una fase di crescita attraverso la collaborazione l’imprenditore investe nello sviluppo di meccanismi di collaborazione e di fiducia interni all’impresa attraverso la responsabilizzazione individuale dei manager.
In letteratura abbiamo comunque un’ampia varietà di definizioni di innovazione23
.
29
Tale termine deriva dal latino “innovatio” che significa letteralmente “rendere nuovo”; non sempre però l’innovazione è sinonimo di “novità”, può anche essere “qualcosa in più”. Il primo studioso ad introdurre il concetto di innovazione nella teoria economica è stato Schumpeter (1934), che descrive l’innovazione come “l’imposizione di un cambiamento tecnico o organizzativo anche per via della sua invenzione”24.
Schumpeter ha identificato 5 categorie di innovazione:
- introduzione di un nuovo prodotto o di un miglioramento a un prodotto esistente; - introduzione di un nuovo processo o di un miglioramento a un processo esistente; - raggiungimento di un nuovo mercato;
- sviluppo di nuove fonti di approvvigionamento di materie prime o altri input;
- cambiamenti nell’organizzazione industriale sia a livello inter sia a livello intra organizzativo, come ad esempio la creazione di un monopolio o la modifica della struttura gestionale.
Nel complesso tutte le definizioni di innovazione evidenziano come quest’ultima può avvenire in una varietà di forme quali prodotti, servizi e processi, sia in veste di novità che di miglioramento.
Oltre alle definizioni teoriche, esistono anche definizioni tecniche del concetto di innovazione che permettono di capire come diverse istituzioni interpretino il concetto ai fini dei processi decisionali e amministrativi.
L’OCSE (2005) ha definito l’innovazione come “la realizzazione di un prodotto (bene o
servizio) o di un processo nuovo o significativamente migliore, di una nuova modalità di
24J. Schumpeter (1934), The Theory of Economic Development: An Inquiry into Profits, Capitals, Credit, Interestm and the Business Cycle, Oxford University Press, New York.
30
marketing ovvero di una nuova modalità organizzativa attuata nelle procedure aziendali, nell’organizzazione del luogo di lavoro o nella gestione delle relazioni esterne”.
Nel 2005 l’OCSE oltre ad aver delineato tale definizione, ha identificato quattro tipi di innovazione, nella sostanza assimilabile a quelli proposti da Shumpeter.
L’innovazione di prodotto consiste nell’introduzione di un bene o di un servizio nuovo o significativamente migliorato in termini di caratteristiche o funzionalità, ivi comprese le migliorie tecniche, nei componenti e nei materiali, nel software, nella facilità di utilizzo o altre caratteristiche funzionali.
L’innovazione di processo è riferita alla realizzazione di modalità di produzione o distribuzione nuove o significativamente migliori, comprese le modifiche nelle tecniche, nelle attrezzature e/o nel software. Può essere finalizzata alla diminuzione dei costi unitari di produzione o di distribuzione, all’aumento del livello qualitativo, o alla produzione e distribuzione di prodotti nuovi o significativamente migliorati.
L’innovazione di marketing è relativa alla realizzazione di nuove modalità di marketing, quindi si riferisce a modifiche nel design del prodotto o nel packaging, al posizionamento del prodotto, alla promozione o al prezzo.
L’innovazione organizzativa riguarda la realizzazione di nuove modalità organizzative nelle procedure aziendali, nell’organizzazione del luogo di lavoro o nella gestione delle relazioni esterne.
2.2 Come si presenta l’innovazione nelle aziende familiari
Le imprese familiari sono la fonte primaria della crescita e dalla stabilità socio – economica del nostro Paese.
31
Secondo alcuni, esse innovano maggiormente rispetto alle aziende ad azionariato diffuso, secondo altri invece, sono meno propense all’innovazione.
Emergono quindi opinioni contrastanti su questo tema, poiché si contrappongono due teorie opposte:
- la prima sostiene che le aziende a conduzione familiare tendono ad essere meno creative e innovative, ma più tradizionali e conservatrici25. Sono inoltre meno inclini a sviluppare collaborazioni esterne ma si concentrano principalmente sulle dinamiche interne all’azienda e alla famiglia;
- secondo l’altra teoria, invece, le aziende familiari consolidate sembrano attribuire molta importanza alle pratiche e alle strategie innovative26. Questo secondo approccio abbraccia la convinzione che, essendo più flessibile e non avendo la rigidità tipica delle altre organizzazioni, le aziende familiari sono più creative e innovative. Esse inoltre sono avvantaggiate da controlli e monitoraggi interni non troppo rigorosi.
In generale, però, sembra prevalere il primo orientamento.
La letteratura degli ultimi anni sostiene infatti che la sfida attuale (crescita, incremento e sostenibilità dell’azienda familiare)27 sia raggiungere il corretto equilibrio tra le tradizioni di famiglia e la capacità di innovare dell’azienda stessa.
Per competere nell’ambito dell’innovazione occorre:
garantire una successione nella leadership al fine di assicurare una continuità aziendale; nel caso in cui non ci fossero eredi è fondamentale formare un membro esterno alla famiglia;
25 B.Dunn (1996), Family enterorises in the UK: A Special Sector?, in Family Business Rewiew, vol. 9, n.2,
pp. 139-155.
26
J.B.L. Craig, Moores K. (2006), A 10-year Longitudinal Investigation of Strategy, Sistems, and
Environment on innovation in Family Firms, in Family Business rewiew, vol. 19, n.1, pp 1-10. 27 A.Siano (2012), La comunicazione per la sostenibilità nel management delle imprese.
32
formare e premiare le persone di talento possibilmente provenienti da diverse culture in modo tale che possano lavorare in team;
stimolare l’apprendimento e il problem solving dell’intera organizzazione aziendale. L’innovazione può essere gestita internamente, dai membri della famiglia stessa, o esternamente, avvalendosi di apposite società di consulenza. Si opta per una o per l’altra scelta in base ad alcuni fattori: la dimensione aziendale, la dipendenza del settore in cui l’impresa opera nei confronti dell’innovazione stessa, l’atteggiamento strategico nei confronti del mutamento dell’ambiente.
Essendo spesso di piccole dimensioni, le aziende familiari, sono caratterizzate da un forte accentramento ed una repulsione alla delega del potere decisionale ai livelli gerarchici più bassi, quindi, la tendenza ad innovare è limitata ed in alcuni casi assente.
Diverso è per quelle di medie dimensioni, poiché l’imprenditore tende a usare strumenti di delega del potere decisionale per quanto riguarda lo sviluppo del processo di innovazione. Quest’ultimo sembra così essere maggiormente efficiente nei family business di grandi dimensioni.
Nei contesti attuali è di vitale importanza riuscire a mettere in atto un atteggiamento strategico in grado di anticipare o adattarsi alle mutevole condizioni ambientali, solo così facendo l’impresa riuscirà a mantenersi competitiva nei confronti della concorrenza.
Lo sviluppo consiste nella sperimentazione delle idee innovative mediante la realizzazione di prototipi e la continua verifica sperimentale.
L’impatto della famiglia sull’attività aziendale e sull’innovazione si traduce in un mix di fattori, quali l’interazione sociale, reti, identità dell’azienda familiare, dinamiche e valori
33
familiari, cultura e background della famiglia stessa. L’insieme di questi fattori condiziona il comportamento, le azioni, le decisioni e i programmi dell’azienda28
.
In un’azienda familiare è necessario pianificare una strategia precisa per far si che l’innovazione si concretizzi anche a livello pratico.
Questo perché l’innovazione è una delle forze più efficaci per il successo di un’impresa; è un anello fondamentale nella creazione di valore. Non è sufficiente generare nuove idee ma si deve cercare di investire nello studio e nella creazione delle stesse al fine di proporre nuove offerte sul mercato. L’obiettivo risulta essere quindi la trasformazione delle idee in risultati.
Spesso, per sostenere l’innovazione sono necessari cambiamenti in azienda, quali il rinnovo delle strutture commerciali, lo sviluppo di nuove competenze, la costruzione di relazioni interne ed esterne sviluppate ed una management dotato di competenze e conoscenze molto approfondite.
2.3 L’importanza delle risorse umane nella gestione di un processo di
innovazione
Aspetto legato all’innovazione è il coinvolgimento delle risorse umane; non è sufficiente la partecipazione e l’interesse della leadership, ma è necessario anche l’impegno delle risorse di ciascun reparto.
La gestione delle risorse umane diviene quindi un fattore fondamentale da gestire e controllare con cura.
34
Per quanto la consonanza tra le finalità d’impresa e quelle della famiglia rappresentino un forte auspicio per tutti i family business, non sempre, gli obiettivi dell’una o dell’altra seguono un’analoga evoluzione, ma presentano, talvolta, finalità discordanti che condizionano la gestione dell’impresa.
Si deve, pertanto, porre attenzione all’inserimento in azienda di membri familiari che pretendono di occupare una posizione all’interno dell’impresa pur non avendo le competenze adatte. Ciò porterebbe alla creazione di un team lavorativo privo di skill e capability idonee al fabbisogno dell’impresa.
I percorsi di apprendimento e i passaggi generazionali possono apportare un effettivo accrescimento valoriale per l’impresa oppure produrre evidenti difficoltà di gestione.
Una sovrapposizione totale degli interessi può produrre effetti dannosi per la sopravvivenza del sistema d’impresa: per questo occorre acquisire una visione integrata in cui i punti di forza di un asset trovino un solido fondamento anche nell’altro, laddove i punti di debolezza rinvenibili nelle intersezioni azienda/famiglia vengano limitati e neutralizzati.
2.4 Il ruolo della creatività
“ Un disegno creativo difficilmente può fare a meno di interessare la gestione strategica. La creatività assolve, dunque, ad una fondamentale funzione di stimolo nei confronti della gestione strategica che accompagna in tutte le fasi del suo delicato processo, da quella iniziale di formulazione a quella successiva di programmazione, a quella finale di attuazione. Anche la gestione strategica ha un effetto stimolante sull’immagine creativa, in quanto si fonda sul presupposto di una organizzazione creativa”29.
35
La società in cui viviamo è sempre più caratterizzata dalla creatività, concetto ormai divenuto popolare e al servizio dei più svariati campi: dall’economia, all’arte, alla scienza. La capacità di produrre idee, conoscenze, nuove tecniche e innovazione, è divenuto fattore discriminante per riuscire a stare al passo coi tempi ed essere competitivi. Le trasformazioni in atto nel contesto socio – economico sono basate sul ruolo cruciale assunto dalla capacità creativa dell’uomo.
Il concetto di creatività è stato esteso a diverse categorie tra le quali è presente l’imprenditore, figura che ha recentemente attirato forte interesse da parte di numerosi analisti aziendali che riconoscono come la creatività, nella sua accezione più ampia, costituisca il vero fattore critico di successo per le imprese. Basti pensare all’attenzione riservata dalle aziende alla ricerca, all’innovazione e alle nuove tecnologie in grado di garantire competitività e migliorare l’offerta dei prodotti e dei servizi.
Oggi, le imprese sono state messe alla prova da alcuni fattori che hanno accelerato l’esigenza di un cambiamento, di trasformazione e di ricerca del vantaggio competitivo: i cambiamenti tecnologici e il progresso che ne deriva, nonché i mutamenti nel sistema di relazioni tra impresa, mercato e utenza finale, hanno fatto scattare all’interno delle aziende il campanello d’allarme che le ha costrette ad una drastica razionalizzazione delle risorse e, al tempo stesso, ad una ricerca dell’innovazione.
La natura imprevedibile dei problemi che si presentano normalmente nell’attività di un’organizzazione, richiede una capacità discrezionale nella scelta delle soluzioni più adeguate al caso, che solo la risorsa umana, con la sua creatività, è in grado di offrire.
Accade spesso che “il caos creativo può emergere se vi è stato precedente ordine. Senza un
36
accumulazione di quella ormai accumulata. Per arrivare ad una nuova conoscenza occorre
scompaginare l’ordine esistente per creare le premesse di una riformulazione”30
.
Oggi, l’esercizio del pensiero creativo ha bisogno di una opportuna preparazione e di un articolato e preciso iter formativo. È necessario che il gruppo sia motivato e che tra i partecipanti si crei un clima di coesione e di volontà congiunta nel raggiungimento dell’obiettivo.
Anche un’impresa inserita da tempo in un mercato, non può fare a meno del tutto dell’uso della creatività poiché i concorrenti attuali e nuovi agiscono comunque. È pertanto necessario mettere in atto dei processi di continuo rinnovamento della strategia aziendale.
2.5 Creatività manageriale
Nell’immediato futuro, sempre più globalizzato, non sarà più sufficiente l’utilizzo di tecniche e tecnologie avanzate, né la mera acquisizione di conoscenze e informazioni; ragion per cui il cambiamento e l’innovazione saranno possibili soprattutto attraverso la valorizzazione del fattore umano.
L’abilità creativa dell’individuo che rende fruttuose le idee e la capacità dell’imprenditore di renderle produttive, rappresentano il binomio che consente alle imprese di posizionarsi sul mercato e competere con sistemi fortemente integrati.
I fattori caratteristici delle iniziative imprenditoriali di maggior successo possono essere ricondotti fondamentalmente alle capacità di imprenditori qualificati in grado di resistere alla concorrenza, oppure ad un prodotto ben strutturato e protetto da imitazioni.
In ogni caso, in tutti gli ambienti organizzativi caratterizzati da alti tassi di complessità e di incertezza lavorativa, dove il livello di standardizzazione è basso e i ritmi di lavoro sono
37
serrati, la creatività aziendale diviene lo strumento per affrontare e risolvere situazioni di criticità in maniera efficace, efficiente e competitiva.
Fondamentale per decretare il successo aziendale è necessario essere vicini al cliente, favorire l’imprenditorialità, essere orientati all’azione, perseguire la produttività attraverso le persone, promuovere una forte cultura aziendale, operare in campi di attività nei quali l’azienda ha esperienza e competenze distintive, prediligere una struttura organizzativa semplice, snellendo gli organi di staff ed infine, rafforzare la dedizione ai valori aziendali. In primo luogo, occorre saper cogliere i segnali deboli che preannunciano l’insorgere di un problema in modo da poterlo anticipare; ciò è possibile solo se si riesce a sviluppare una capacità superiore di immaginare in anticipo le mosse degli avversari, le reazioni impreviste e le condizioni ambientali. La forma suprema di immaginazione è la “previsione creativa” tipica dei manager di successo che, non solo sono in grado di immaginare il futuro, ma sono anche convinti che le loro previsioni abbiano un’altissima probabilità di avverarsi.
In secondo luogo, occorre saper riconoscere le idee vincenti e cogliere le opportunità che si presentano. Per trasformare un’idea in opportunità, è necessario investire tempo e risorse, poiché un’idea va formulata, valutata e messa in pratica attraverso una serie di azioni che diano vita ad una business idea. La ricerca delle opportunità può avvenire attraverso l’innovazione o attraverso il miglioramento dell’esistente. Nel primo caso, è necessario definire i confini della ricerca, ovvero il raggio d’azione, la direzione che deve prendere la ricerca di sviluppo, la destinazione finale e il grado di rischio.
L’abilità di cogliere segnali deboli di evoluzioni a medio termine, è uno degli elementi essenziali della creatività ma, nella maggior parte delle aziende, la priorità massima viene attribuita alla ricerca di soluzioni in grado di risolvere i problemi, trascurando il passaggio
38
fondamentale che permette di anticipare gli stessi e trasformare l’idea creativa in opportunità, ovvero in business idea.
2.6 L’innovazione nella tradizione
Alessi, Beretta, Ferrero, Geox, Salewa e Vibram sono eccellenze italiane riconosciute nel mondo con una caratteristica in comune: sono imprese familiari, in cui una o più famiglie concentrano proprietà e gestione. Esse hanno un merito: sconfessano il falso mito secondo cui le imprese familiari sono avverse al rischio e poco innovative. Osservando il fenomeno in profondità si scopre infatti che le imprese familiari innovano, ma lo fanno seguendo logiche diverse rispetto ad altre aziende. Recenti studi mostrano come le imprese familiari siano contraddistinte da un paradosso nell’innovazione: sono meno inclini a investire in progetti d’innovazione, nonostante posseggano risorse e capacità superiori per portarli a termine con successo.
Gli studiosi di innovazione si sono sempre interessati ad imprese quotate e a quelle caratterizzate da una netta separazione tra proprietà e gestione, trascurando di esaminare il modo in cui le imprese familiari possono innovare con successo. Questa lacuna impedisce ai decisori nelle imprese familiari di disporre di modelli gestionali in grado di aiutarli nel guidare le loro aziende in percorsi di crescita sostenibili. Si tratta di una grave lacuna perché le imprese familiari dominano i sistemi economici dei paesi più avanzati e di quelli in via di sviluppo.
In Italia l’85% delle imprese private sono familiari e queste impiegano oltre il 70% della forza lavoro totale. Negli Stati Uniti, le imprese familiari generano oltre il 60% del Pil e sono responsabili di più del 60% dell’occupazione complessiva. Rafforzare la capacità
39
innovativa di queste imprese avrebbe una significativa ripercussione sullo sviluppo economico di tutte le economie del mondo, Italia in testa.
Il modello della «Family-driven innovation» promosso da Alfredo De Massis (professore ordinario di imprenditorialità e family business alla Lancaster University management school) e Federico Frattini (professore associato alla School of management del Polimi) è un modello per la gestione dell’innovazione nelle imprese familiari che permette di risolvere questo paradosso e liberare il loro potenziale innovativo. Si basa sull’idea per cui l’approccio con cui un’impresa familiare gestisce l’innovazione debba essere costruito “su misura” sulle sue specificità, rifuggendo modelli manageriali di generale applicabilità. La mancanza di modelli dedicati è ancora più grave se consideriamo che le best practice per gestire l’innovazione suggerite dalla letteratura manageriale molto spesso non funzionano nelle imprese familiari. Ad esempio, siamo abituati a ritenere che la creazione di team cross-funzionali dedicati sia fondamentale per portare a termine con successo progetti di sviluppo di nuovi prodotti. In realtà, le imprese familiari più innovative tendono a evitare questo approccio e prediligono forme organizzative più flessibili. Inoltre, i manuali di innovazione enfatizzano l’importanza per un’impresa di essere fortemente orientata al futuro, di abbandonare le logiche del passato per anticipare le esigenze dei clienti e i cambiamenti tecnologici. Le imprese familiari ci insegnano, invece, che è possibile innovare attraverso la tradizione, recuperando conoscenze e valori del passato e utilizzandoli come leva per creare nuovi prodotti e servizi di successo.
Sono due i motivi per i quali le imprese sanno innovare attraverso la tradizione.
In primo luogo, hanno un orientamento di lungo periodo e danno un peso rilevante anche a obiettivi non-economici nei loro processi decisionali, come ad esempio il fatto di tramandare l’impresa attraverso le generazioni.