• Non ci sono risultati.

DIRITTO AL LAVORO E DISABILITÀ:IL RUOLO DEL PROGRESSO TECNOLOGICO IN UNA PROSPETTIVA MULTILIVELLO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "DIRITTO AL LAVORO E DISABILITÀ:IL RUOLO DEL PROGRESSO TECNOLOGICO IN UNA PROSPETTIVA MULTILIVELLO"

Copied!
146
0
0

Testo completo

(1)

1

UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di laurea in Scienze delle Pubbliche

Amministrazioni

DIRITTO AL LAVORO E DISABILITÀ: IL RUOLO

DEL PROGRESSO TECNOLOGICO IN UNA

PROSPETTIVA MULTILIVELLO

Relatore

Candidato

Prof.ssa Elettra Stradella

Simona Orvieto

(2)

2 Indice

Introduzione 4

1. “Definire la disabilità”: rapido excursus su come è mutato l’approccio alla disabilità

1. L’evoluzione del concetto di disabilità 14 2. I modelli della disabilità

2.1 Il modello medico 19

2.2 Il modello intermedio 22

2.3 Il modello sociale 23

2. Disabilità e diritto in una prospettiva multilivello

1. Il quadro internazionale: la Convenzione ONU 27 2. Il quadro europeo:

2.1 Il Consiglio d’ Europa

2.1.1 La Carta Sociale europea 34

2.1.2 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU): l’interpretazione evolutiva

della Corte di Strasburgo 36

2.1.3 La Strategia 2017 -2023 40

2.2 L’Unione europea 42

3. Il quadro Nazionale

3.1. Il ruolo della Costituzione 48

3.2. La Legge- quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle

persone handicappate 52

3.3. L’assetto delle competenze post riforma del titolo V della Costituzione 55 3.4. La Legge 67/2006: Misure per la tutela giudiziaria delle persone con

disabilità vittime di discriminazione 58

3.5 La legge 18/2009 e il programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità 60 3.6 L’ultimo passo: Il “Dopo di Noi. La legge 112 del 2016 61 3. Disabilità e diritto al lavoro

1. Il quadro normativo internazionale ed europeo:

1.1 La Convenzione sul reinserimento professionale e l’occupazione

(3)

3 1.2 L’art. 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle

persone con disabilità 67

1.3 La direttiva 2000/78/CE 69

1.3.1 Chacón Navas: per una (contestabile) definizione di “handicap" alla luce della direttiva 2000/78/CE 74 1.3.2 L’accomodamento ragionevole per le persone con

disabilità 78

2. Il quadro normativo nazionale:

2.1 La garanzia costituzionale 82

2.2 La legge n. 68/1999 87

2.3 “Jobs act” e disabilità 96

2.4 La Corte di Giustizia Europea boccia l’Italia: le carenze nell’ attuazione dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE 108 3. L’attuazione a livello locale: il caso della Regione Toscana 112

4. Disabilità e progresso: spunti di riflessione sull’utilizzo delle nuove tecnologie per il lavoro

1. Le nuove tecnologie nel contesto normativo 120

2. Due soluzioni a confronto: L’Universal Design e le tecnologie

assistive 125

3. Il Telelavoro 128

4. I limiti delle nuove tecnologie per la disabilità: la disinformazione e i

costi elevati 132

5. Storie di un binomio possibile: quando le nuove tecnologie permettono di lavorare

5.1 Domenico 135

5.2 Carlo 136

5.3 Bruno 137

5.4 Antonietta 138

6. Il recupero del “gesto lavorativo” 138

Conclusioni 141

(4)

4 DIRITTO AL LAVORO E DISABILITÀ: IL RUOLO DEL

PROGRESSO TECNOLOGICO IN UNA PROSPETTIVA

MULTILIVELLO

“Sono un uomo con una disabilità evidente, in mezzo a tanti uomini con una disabilità che non si vede” Ezio Bosso

Il termine disabilità è da sempre assai complesso e di difficile definizione. Esso designa, prima di tutto, un concetto in continuo divenire: nel corso degli anni, infatti, la condicio di “disabile”, ha risentito ampiamente delle condizioni storico - culturali, caratterizzandosi prima come un problema medico di natura individuale, poi, con il diffondersi del modello sociale, è stata la stessa società, il modo in cui essa è organizzata, a divenire un fattore disabilitante.

Il paradigma medico si caratterizza per la visione della disabilità esclusivamente come un problema, sia esso fisico o psichico, del singolo individuo. La condizione di disabile è personale, e ad essa si può far fronte solo tramite il ricorso a interventi di tipo assistenziale. Tale approccio trova una dimostrazione esemplare nella “Classificazione Internazionale

di Menomazioni, Disabilità ed Handicap”, nota come ICIDH,

dell’Organizzazione Mondiale della Sanita (OMS) pubblicata nel 1980. L’ ICIDH nasceva con lo scopo di fornire un quadro chiaro per facilitare il ricorso alla terminologia utilizzata in riferimento alla disabilità1, esigenza derivata dal progredire delle politiche di welfare indirizzate ai

1 C. Barnes, Capire il modello sociale della disabilità, in Intersticios: Revista

(5)

5

malati e agli invalidi che erano aumentati esponenzialmente in conseguenza dei danni della seconda guerra mondiale.

Torneremo sull’argomento nel corso dell’elaborato. Per ora ci basti sapere che fulcro della classificazione appena menzionata è la distinzione tra: Menomazione, Disabilità ed Handicap, concetti che vengono trattati in sequenza.

In contrapposizione al modello medico e sulla scia delle rivendicazioni dei movimenti delle persone con disabilità (uno fra tutti la “Union of the

Phisically Impaired Against Segregation, da qui in avanti U.P.I.A.S”), si

sviluppa in Gran Bretagna, a partire dalla metà del ventesimo secolo, il modello sociale della disabilità, attualmente considerato come lo schema concettuale prevalente quando si affrontano le tematiche connesse al mondo della disabilità. Il modello sociale, a differenza di quello medico, non imputa la condizione di disabilità all’individuo, anzi: “la disabilità

non sta nell’individuo ma nelle modalità con cui progettiamo spazi o sistemi di politiche e relazioni”2.

In questo modo la “responsabilità” passa dall’individuo all’ assetto della società che lo circonda. E muta anche il concetto di “normalità”, che non è più “assoluto” ma diviene “relativo”.

Il carattere fortemente innovativo dei “Disability Studies” risiede nel metodo della ricerca, definito «partecipativo-emancipativo», ossia esso è caratterizzato dalla partecipazione attiva delle persone con disabilità, che autodeterminandosi raggiungono una migliore consapevolezza di sé, si potrebbe parlare quasi di un “orgoglio” delle persone con disabilità, che prendono parte alla vita pubblica e se necessario scendono nelle piazze. Altra caratteristica è l'approccio multidisciplinare, i Disability Studies guardano alla disabilità globalmente, come fenomeno unitario complesso

2R. Andrich, P. Bucciarelli, G. Liverani, E. Occhipinti e L. Pigni (a cura di), Disabilità

e lavoro: un binomio possibile. Metodi ed esperienze di progettazione di ambienti e processi di lavoro per lavoratori con limitazioni motorie, Fondazione don Gnocchi, 2016

(6)

6

nell'ambito di più discipline e lo fanno su più livelli normativi: dal diritto internazionale, passando per il diritto dell’Unione europea, fino alla normativa statale e regionale, sulla base dell’assetto risultante dalla riforma del titolo V delineata dalla L. cost.3/2001, Si può parlare dunque di un diritto multilivello e multidisciplinare.

Procedendo dalla dimensione globale a quella nazionale, sul piano internazionale, il documento fondamentale è rappresentato dalla Convenzione internazionale sui diritti delle persone disabili (d’ora in avanti Convenzione ONU), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre del 2006.

L’adozione della Convenzione ONU, frutto di una travagliata opera istruttoria durata oltre trent’anni, recepita nel corso degli anni sia al livello europeo che dei singoli stati, ha determinato un mutamento di approccio nello studio della disabilità3.

In essa sono rintracciabili, seppure si registrino opinioni contrastanti in merito, i connotati fondamentali del modello sociale della disabilità. All’art. 1, comma 2 della Convenzione si legge: “Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri.”

3 Per quanto riguarda la Convenzione delle Nazioni Unite, sono molteplici i contributi

dottrinali a essa dedicati. Oltre a quelli richiamati più avanti nel testo, si rimanda sin da ora a P. Harpur, Embracing the New Disability Rights Paradigm: The Importance of the

Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in Disability & Society, Vol. 27,

1, 2012, pp. 1 ss.; A. S. Kanter, The Promise and Challenge of the United Nations

Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in Syracuse J. Int’l L. & Com.,

Vol. 34, 2006-2007, pp. 286 ss.; S. Kayess – P. French, Out of Darkness into Light?

Introducing the Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in Human Rights Law Review, Vol. 8, 1, 1 January 2008, pp. 1–34; A. Lawson, The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities: New Era or False Dawn?, in Syracuse Journal of International Law and Commerce, Vol. 34, 2007, pp. 563 ss.; G.

Quinn, The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities:

Toward a New International Politics of Disability, in Texas Journal on Civil Liberties & Civil Rights, Vol. 15, 1, 2009, pp. 33 ss.

(7)

7

Prima di essa tentativo di superamento del modello medico era stato compiuto nel 2002, anno in cui l’O.M.S. ha approvato l’“International

Classification of Functioning, Disability and Health (ICF),” che adotta un

modello bio -psicosociale secondo il quale la disabilità è un fatto sociale, dipendente sia dalle limitazioni funzionali di una persona che dalle condizioni ambientali e sociali e non più esclusivamente medico ed insito nella natura stessa dell’individuo4. Nella classificazione proposta dall’ O.M.S nel 2002, differentemente da quanto era accaduto con la

Classificazione Internazionale di Menomazioni, Disabilità ed Handicap”

(ICIDH), vengono presi in considerazione anche aspetti “non biologici”, assumendo rilievo anche la presenza/assenza di “facilitatori” ambientali.5 La disabilità dunque, assume in connotati di un vero e proprio “fenomeno giuridico” che, come si diceva, ha interessato anche il Consiglio Europeo e l’Unione Europea.

Rilevante è, se pur con i limiti dell’epoca di cui è “figlia”, la Carta Sociale, adottata del 1961 dal Consiglio Europeo, con l’intento di recepire i principi che erano stati enunciati nel 1948 dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. In essa è forte l’influenza del paradigma medico, aspetto che porterà poi ad una sua nuova formulazione “riveduta” nel 1996, che entrerà in vigore tre anni dopo e nella quale è invece evidente la preminenza della visione sociale della disabilità.

Il primo passo al livello di Unione, all’epoca Comunità, è stato compiuto del 1974, con la risoluzione del Consiglio che raccomandava l’elaborazione di un “Programma di azione per l’integrazione

occupazionale e sociale delle persone portatrici di handicap”.6

4 A. D. Marra, Disabilità, in Digesto delle discipline privatistiche, Agg. VII, Utet, Torino,

2010, pp. 555-561

5 Ibidem

6 M. Priestley, In search of European disability policy: between national and global, in

(8)

8

Successivamente, nel 1996 con l’approvazione della Strategia della

Comunità europea nei confronti dei disabili, che se pur non vincolante

rappresenta un documento di “indirizzo”, il primo in grado di affermare la necessità di tutelare le persone con disabilità attraverso la previsione di una serie di politiche mirate.7

Torneremo sulle singole azioni dell’Unione nel corso di questo elaborato, un riferimento merita però, anche in ragione degli argomenti che interesseranno le prossime pagine, la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, che rappresenta ad oggi l’atto legislativo principale in tema di disabilità. La Direttiva infatti “stabilisce un quadro generale per la parità di

trattamento in materia di occupazione e di condizioni di impiego, che costituisce il primo vero intervento legislativo volto a garantire il diritto al lavoro delle persone con disabilità.”

Altro momento fondamentale è rappresentato dalla ratifica da parte dell’Unione Europea, della Convenzione ONU che è diventata in questo modo parte del diritto dell’Unione, iniziata con la firma nel 2007 e terminata con il deposito della ratifica presso le Nazioni Unite, nel 2010. Nello stesso, la Commissione ha adottato la nuova “disability roadmap” 8vale a dire la Strategia europea sulla disabilità 2010 – 2020 che richiama, esplicitamente, come vedremo, la Convenzione ONU.

Scendendo, metaforicamente, al livello nazionale, la tutela degli individui con disabilità, è assicurata prima di tutto dalla nostra Costituzione. Fondamentale sono, in questo senso, le previsioni contenute all’interno degli artt. 2 e 3 Cost. e, accanto ad essi, gli artt. 4, 32, 34, 38 Cost. Questi articoli, se pur trattando aspetti differenti, costituiscono le fondamenta di una normativa che tende ad eliminare le discriminazioni e a considerare

7 D. Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disabilità: brevi riflessioni a

vent’anni dalla prima “Strategia”, in Politiche sanitarie, vol. 17, N. 2, 2016, pp.119 ss.

8 D. Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disabilità: brevi riflessioni a

(9)

9

la disabilità in un’ottica “risolutiva” di “sostegno” e di “emancipazione”, per il conseguimento della “parità sociale”9.

Si tratta dunque di un modo assai significativo di intendere la disabilità, che ha come fine ultimo la riduzione delle discriminazioni, siano esse frutto di un atteggiamento umano o di un impedimento ambientale, sino al raggiungimento della piena “inclusione” dell’individuo con disabilità. La logica costituzionale, tutta improntata sull’ uguaglianza e sull’integrazione, viene recepita, se pur con delle criticità, dalla L. 104/1992, nota come “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” e che si caratterizza proprio per un parziale, se pur rilevante, abbandono del modello medico/individualista/segregante trattando il tema disabilità in maniera globale, toccando vari settori della vita dell’individuo e vari momenti di essa.

Uno dei settori del diritto, all’interno del quale si realizza un apparato di tutele differenziate rivolte all’individuo con disabilità è il diritto del lavoro, o meglio al lavoro, significativo non solo perché “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, come enunciato dall’art. 1 della Costituzione, ma soprattutto perché è nel sistema di accesso al mondo del lavoro, nella garanzia di “universalità” che si manifesta una delle maggior e probabilmente più complesse, sfide per lo Stato sociale. Si è detto appunto, diritto al lavoro, come è noto all’art. 4 Cost. si legge: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto”. Di seguito si possono richiamare l'art. 35, secondo il quale “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e l’art. 38 secondo cui “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al

9 C. Colapietro, I Principi-valori della “pari dignità sociale” e del “pieno sviluppo della

persona umana” quale fondamento costituzionale della tutela delle persone con disabilità, in in Studi in onore di Franco Modugno, Vol. II, Editoriale Scientifica, Napoli,

(10)

10

mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale […]”

L’inserimento lavorativo dei soggetti con disabilità rappresenta, è un argomento ricorrente sia nella Convenzione ONU che nel diritto dell’Unione europea. Il contesto lavorativo viene infatti concepito come l’ambito all’interno del quale “valorizzare le abilità residue” 10degli individui con disabilità. La Corte Costituzionale si è espressa in diverse occasione, chiarendo che per “collocamento obbligatorio” si debba intendere un effettivo collocamento al lavoro.11

Pietra miliare del diritto al lavoro delle persone con disabilità è, sul piano statale, la Legge n. 68 del 12 marzo 1999,che definisce il principio del

collocamento mirato come “serie di strumenti tecnici e di supporto che

permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto più adatto, attraverso analisi dei posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali suoi luoghi quotidiani di lavoro e di relazione” 12.

Nel 2013, con la Legge n. 99, ancora una volta recependo la Convenzione ONU, si è introdotto nel nostro ordinamento un altro concetto assai importante, quello di “accomodamento ragionevole”.

Il termine “accomodamento ragionevole” (reasonable accommodation o

reasonable adjustment)13 fa la sua comparsa prima per garantire la praticabilità di culti di natura religiosa nei contesti lavorativi ed arginare

10 Corte Costituzionale, sentenza 9 luglio 2002, n. 329

11 C. Colapietro, I Principi-valori della “pari dignità sociale” e del “pieno sviluppo della

persona umana”, cit. p. 943

12L. 68/1999 art. 2

13 D. Ferri, L’accomodamento ragionevole per le persone con disabilità in Europa: dal

Transatlantic Borrowing alla Cross-Fertilization, in Diritto Pubblico Comparato ed

(11)

11

possibili fenomeni discriminatori,14 poi si è diffusa caratterizzandosi più in generale come una “pratica” posta a tutela delle discriminazioni nei diversi ambiti della vita dell’individuo. La Convenzione non fornisce una definizione precisa di cosa debba intendersi per “accomodamento ragionevole”, anzi, si sono spesso verificate interpretazioni contrastanti che mal si conciliano con la natura “individuale ed individualizzata” che dovrebbe caratterizzare questo tipo di intervento 15 .Torneremo sull’argomento nelle prossime pagine, a titolo meramente esemplificativo, si può definire l’accomodamento ragionevole come una serie di specifiche soluzioni che il datore deve attuare per permettere che il lavoratore con disabilità, ma non solo, di poter svolgere la propria attività in autonomia e nel pieno rispetto della propria dignità, con l’unica deroga prevista per i casi in cui tali soluzioni rappresentino un onere eccessivo a carico del datore.

Da questo aspetto possiamo partire per riflettere ed introdurre l’ultimo ma centrale, argomento di questo elaborato, vale a dire il rapporto tra disabilità/lavoro/nuove tecnologie. Un trinomio di non facile lettura, sia perché si tratta di un argomento di studio assai recente sia perché, come si può ben immaginare, è teatro di opinioni contrastanti: c’è un’evidente diversità di vedute tra chi sostiene che le nuove tecnologie possano aiutare il lavoratore disabile ed essere quindi dei “facilitatori” e chi solleva la questione del rischio di impiegare “le macchine” in sostituzione dei lavoratori, sostituendoli per primi nello svolgimento di mansioni basilari le quali sono molto spesso destinate ai soggetti con disabilità.

Anche in questo caso, come per il resto degli argomenti esposti, l’approccio che seguiremo sarà in una prospettiva multilivello. A tal riguardo, nell’Ambito dell’Unione europea, un esempio rilevante e che ci

14 A riguardo la storica decisone Simpsons-Sears del 1985 nella quale la Corte Suprema

canadese ha riconosciuto il diritto di accomodamento ragionevole ad un lavoratore, nello specifico un’impiegata, che aveva chiesto turni che le permettessero di osservare il dovere religioso di riposo nel giorno dello sabbath.

15 D. Ferri, L’accomodamento ragionevole per le persone con disabilità in Europa: dal

(12)

12

aiuta a prendere una posizione, è dato dalla Comunicazione della Commissione europea del 12 maggio 200016. Nella Comunicazione si dà estrema importanza alle questioni relative all’accessibilità delle persone con disabilità, soprattutto in un contesto come quello della società dell’informazione in cui gli sviluppi tecnologici “possono offrire

formidabili possibilità”.17 Così come, a livello internazionale, la stessa

Convenzione ONU, che contiene svariati riferimenti all’utilizzo delle nuove tecnologie, in particolare all’ artt. 4, 9, 19, 20, 21, 26. L’idea è quella di sostenere una società dell’informazione, tecnologicamente avanzata, che rechi vantaggio a tutti, ivi compresi i disabili.

Esistono però, indubbiamente, anche dei rischi connessi all’utilizzo delle nuove tecnologie come “strumento di inclusione sociale”. Ne parlava già la Commissione europea del 1994 con il Rapporto Bangemann, che sottolineava come le nuove tecnologie possano non essere alla portata di tutti. Ciò, vien da sé, può generare un grave divario sociale.

Nel corso di questo lavoro, la “forma mentis” utilizzata per approcciarsi al tema della disabilità sarà quella tipica del modello sociale. Esso, per quanto non privo di limiti, pur riconoscendo anche in esso dei limiti, ci permetterà di analizzare la situazione dell’individuo in rapporto con la società e con un spaccato di essa, quale quello dell’ambiente lavorativo, analizzando l’intersezione tra “diritto al lavoro” e la condizione delle persone con disabilità, con quello delle nuove tecnologie cercando di comprendere, grazie appunto al “relativismo” tipico del modello sociale, come un ambiente innovativo, un ambiente caratterizzato dalla crescente presenza delle tecnologie robotiche, nelle più svariate forme, possa contribuire ad una maggiore “autonomia” e ad una maggiore “ integrazione” favorendo l’abbattimento delle barriere.

16 Comunicazione della Commissione del 12 maggio 2000, Verso un’Europa senza

ostacoli per i disabili

17A. Di Carlo - E. Stradella, Disabilità e tecnologie innovative: alcuni spunti di

riflessione, in E. Vivaldi (a cura di), Disabilità e Sussidiarietà: il “dopo di noi” tra regole e buona prassi, Mulino, Bologna, 2012 pp. 351 ss.

(13)

13

Ci interrogheremo, senza avere la presunzione di giungere ad una soluzione universale, su quale è oggi e soprattutto su quale sarà domani, il ruolo delle nuove tecnologie nella garanzia del diritto al lavoro per le persone con disabilità e se la quarta rivoluzione industriale, sempre più ricorrente nel dibattito pubblico, sarà davvero l’epoca in cui il progresso “servirà” la società limitando le differenze tra i singoli individui.

(14)

14

Cap. 1 “Definire la disabilità”: rapido excursus su come è

mutato l’approccio alla disabilità

1. L’evoluzione del concetto di disabilità

‘Like Gender, like race, disability must become a standard analyticaltool

in the historian’s tool chest. That is the goal of the new disability history: to join the social-constructionist insights and interdisciplinarity of cultural studies with solid empirical research as we analyze disability’s past’. 18

Come è intuibile dall’introduzione, il concetto di disabilità, così come altri concetti ampiamente in uso e che indicano situazioni “soggettive”, ha subito molto l’influenza dei tempi, diversi autori hanno messo in evidenza il ruolo giocato dalla cultura e dalle idee nel dar forma alle etichette della disabilità e ai ruoli sociali.19 La History of disability è un argomento complesso e non è questa la sede per poterlo affrontare in maniera puntuale ed esaustiva, possiamo però immaginare, da non “storici” di ripercorrere rapidamente, in una sorta di viaggio nel tempo, le fasi che hanno esercitato maggiore influenza sulla definizione della disabilità. La cultura greca era tutta incentrata sull’ideale kalos kai agathos. Il bello era associato al buono, e la forza e la salute, caratterizzavano il modello di uomo “perfetto”. Le malformazioni, venivano considerate come vere e proprie “punizioni divine”. Aristotele nella sua opera Politica afferma:

18 L. Metzler, Disability in the Middle Ages: Impairment at the Intersection of Historical

Inquiry and Disability Studies, in History Compass, 9, 2011, p. 15 cit.; per un tentativo

di ricostruzione della ‘storia della disabilità’, si rimanda a M. Schianchi, Storia della

disabilità. Da castigo degli dèi alla crisi del welfare, Carocci, Bologna, 2012; M.

Fioranelli, Il decimo cerchio. Appunti per una storia della disabilità, Laterza, Roma-Bari, 2010

19 T. Shakespeare, Cultural representation of disabled people: Dustbins for disavowal?

in Disability & Society, 9, 1994, pag. 283– 299, B. Ingstad, S. Reynolds Whyte,

(15)

15

«Quanto all’esposizione e all’allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare nessun bimbo deforme»20.

Il suo allievo Platone, nella Repubblica, teorizza il così detto “razionale allevamento umano”, affermando: «Conviene che gli uomini migliori si accoppino con le donne migliori il più spesso possibile e che, al contrario, i peggiori si uniscano con le peggiori, meno che si può; e se si vuole che il gregge sia veramente di razza occorre che i nati dai primi vengano allevati; non invece quelli degli altri» 21

Nella cultura ebraica, trasposta negli scritti del Primo Testamento, è ancora presente l’interpretazione della disabilità come “punizione divina”.22

Con l’affermarsi della cristianità, la figura del disabile, del malato in generale, muta drasticamente. L’immaginario comune si scosta dall’idea del “malattia come punizione divina” in ragione di un invito alla carità, al compimento di opere di bene nei riguardi di individui svantaggiati che per la prima volta smettono di essere relegati ai margini della società ed entrano a far parte di essa come massima espressione dell’azione benevola di Dio attraverso l’uomo. Gesù, o comunque l’ideologia che lo accompagna, è indubbiamente impregnata del principio dell’uguaglianza.

Il concetto di “carità” assume un ruolo fondamentale nella storia della disabilità, sino a divenire, nel corso del Medioevo un obbligo per i cittadini compiere opere caritatevoli. Si tratta però di una differente forma di “cura” e di “assistenza”, il disabile, il malato non vengono concepiti come parte del tessuto sociale, all’opposto si sviluppano una serie di

20 Aristotele, 1990, Politica, VII, 16, 1336b, Laterza, Bari 21 Platone, 2007, La Repubblica, III 409, 410, Armando, Roma

22 Nel Levitico (Levitico, 21,16-20) si legge: “Il Signore disse ancora a Mosè: «Parla ad

Aronne e digli: nelle generazioni future nessuno dei tuoi discendenti che abbia qualche deformità si avvicinerà per offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né il cieco, né lo zoppo, né chi ha una deformità per difetto o per eccesso”.

(16)

16

strutture (si pensi ai lebbrosai) dove questi venivano letteralmente confinati.

Un avvenimento storico merita però di essere osservato con particolare attenzione perché a partire da esso il concetto di disabilità muta configurazione. Dai primi anni dell’ottocento, con la prima Rivoluzione Industriale, inizia a delinearsi un nuovo significato di normalità. Nella società è capitalista, la borghesia diviene la classe sociale dominante e in questo quadro ciò che fa la differenza è la capacità produttiva del singolo individuo. Émile Durkheim, noto sociologo francese, ci illustra proprio questo fenomeno e cioè come i mutamenti storici possano influire sul significato che si attribuisce ad una determinata condizione soggettiva: le società moderne, quelle del “post rivoluzione industriale”, sono caratterizzate da una sempre maggiore divisione e specializzazione del lavoro, dinamica che induce all’esaltazione della qualità individuale. Durkheim definisce due tipologie di “solidarietà”: quella meccanica e quella organica. Nella prima, tipica delle società semplici, in assenza di specializzazione e divisione del lavoro, ogni individuo è parte del medesimo tessuto sociale, non vi è alcuna differenziazione. Il secondo modello, quello della solidarietà organica, caratterizza invece le società moderne, nelle quali la divisione del lavoro, implica la crescita dell’individualismo e l’osservanza delle differenze tra membri del medesimo tessuto sociale23.

Il normale è adesso colui che partecipa attivamente ai processi produttivi. La normalità diviene quindi sinonimo di utilità, chi non è “utile” viene escluso e si diffondono strutture come orfanotrofi, ospedali e manicomi volti a “contenere” gli individui anormali, destinatari di cure caritatevoli e una differente educazione.

Sono gli anni del darwinismo Sociale, e dell’affermarsi della teoria della selezione naturale. Herbert Spencer, filosofo e sociologo inglese, nel suo testo “Social Statics” (1851), afferma che in natura vige un “universale stato di guerra”, una legge di eliminazione del più debole a favore del più

(17)

17

capace e intelligente, grazie alla quale viene impedito ogni “scadimento della razza”, i tentativi di attenuare la “rigida disciplina della natura” sono dannosi, perché la natura si sforza di “fare piazza pulita” degli individui deboli e di dar spazio solo agli individui migliori.24

Con l’arrivo della prima guerra mondiale, ci si trovò a fare i conti con un aumento esponenziale degli individui con disabilità: dal un lato gli invalidi di guerra, mutilati fisici, dall’altro, di più complessa definizione, il gran numero di soldati affetti da “psicosi”, che dal conflitto tornavano “matti”.

“C’è una pazzia di guerra determinata dalle emozioni della battaglia? Può un’emozione violenta, come la paura, determinare manifestazioni nettamente patologiche?” queste sono le domande che, nel 1918, padre Agostino Gemelli si pose nell’ambito di un dibattito sulle patologie indotte dalla guerra.25 La valenza patogena della guerra divenne ad un certo punto innegabile ma per la maggior parte dei casi alle psicosi veniva riconosciuto carattere di transitorietà e di occasionalità, soprattutto si riconosceva alla guerra il ruolo di “fattore scatenante” e non di causa principale della psicosi, Morselli la definisce “una straordinaria evocatrice di tutte le predisposizioni”26. Anche Freud prese ad occuparsi dei malati di guerra, teorizzando che, le nevrosi belliche, erano frutto di un conflitto inconscio tra senso del dovere e istinto di conservazione: l’impossibilità di risolverlo determinava la fuga nella malattia27.

Tutt’altro genere di discorso va invece affrontato per il secondo conflitto, che è stato caratterizzato da uno “sterminio ideologico”. La tragica storia

24 H. Spencer, Social statics, or, the conditions conductive to human happiness, and the

first of them specified, Williams & Norgate, London, 1851

25 A. Gemelli, Il nostro soldato, Saggi di Psicologia militare, Treves, Milano 1917, p.303 26 V. P. Babini, Curare la mente: dall’universo manicomiale al “Paese di Basaglia”, in

F. Cassata –C. Pogliano (a cura di), Scienze e cultura dell'Italia unita, Annali XXVI, Storia d'Italia, Einaudi, Torino, 2011, pp. 623-652

27 L. Roscioni - L. Des Dorides, Il manicomio e la Grande Guerra, in A. Iaria, T.

Losavio, P. Martelli (a cura di), L’ospedale psichiatrico di Roma. Dal Manicomio

(18)

18

dello sterminio nazista si apre proprio con l’eliminazione degli esseri umani più deboli e indifesi. Già all’inizio del cancellierato di Hitler, una legge del 1933 elencava i candidati alla sterilizzazione: persone con handicap fisici e mentali, soggetti affetti da malattie congenite, nonché da cecità ereditaria e sordità, e più tardi interi gruppi etnici considerati «biologicamente inferiori». A questa legge due anni dopo seguirono le famose «leggi di Norimberga» (1935).

L’ eugenetica fornì la base per la teoria razziale, che giunse anche in Italia e si diffuse ampiamente in differenti settori. Lo stesso Mussolini, nel suo «discorso dell’ascensione» nel 1927, affermò che lo Stato è il principale garante della salute pubblica e che il suo compito è quello di curare la razza dalle impurità e dalle imperfezioni, non a caso in quegli anni il numero di internati aumentò in maniera considerevole e, purtroppo, sconsiderata.

È evidente come lo scenario prospettato si caratterizzi per una risposta non inclusiva alla disabilità da parte della società e della politica, (a volte estremizzata ed illegittima), in cui l’atteggiamento predominante è quello di “ghettizzare”, “allontanare” il disabile ed aiutarlo, curarlo, al di fuori del contesto sociale.

La stagione della “rottura “con il modello medico/ individualista, viene inaugurata negli anni ’60, con le prime rivendicazioni degli individui con disabilità (Disability Rights Movement) che contestavano la prassi del “esclusione” fino ad allora considerata la normale risposta dei governi e della società civile alla disabilità/diversità. Gli attivisti rivendicano il proprio diritto ad una maggiore presenza sullo spazio pubblico,”Nothing

about us without us” (letteralmente: niente su di noi, senza di noi),

divenne il loro motto, favorendo il passaggio dalla concezione di disabile esclusivamente come un “care-recipient” (destinatario di cure) ad una visione che lo reputa titolare dei diritti civili.

In questa fase l’organizzazione per i diritti civili delle persone con disabilità fisiche inglese, l’Union of the Phisically Impaired Against

(19)

19

Segregation (UPIAS), getta le basi per l’elaborazione della distinzione tra impairment e disability (deficit e disabilità) che sarà poi alla base del

modello sociale. 28A dimostrazione del cambiamento ideologico, in Italia, il 13 maggio 1978, il Parlamento promulga la L. 180/78, nota a tutti come “Legge Basaglia”, che sancisce la chiusura dei manicomi, inducendo ad una riflessione su come i fattori endogeni e sociali (si pensi alla povertà), possano incidere sulla comparsa della malattia29.

Questo quadro storico si rende indispensabile poiché accanto alle diverse fasi che abbiamo, in maniera rapida e sommaria, esaminato, si sviluppano i diversi modelli concettuali sulla disabilità e soprattutto, ancora più rilevante ai fini di questo elaborato, si snoda e muta l’intero apparato normativo caratterizzante i Disability Studies.

2. I modelli della disabilità

2.1 1l modello medico

Tenendo in mente il quadro storico brevemente esaminato, partiamo con il definire il primo “paradigma” che ha, per diverso tempo, guidato lo studio del fenomeno “disabilità” ed influenzato le prime produzioni normative.

Il modello medico alla disabilità si caratterizza per la visione della disabilità esclusivamente come un problema medico del singolo individuo, come una “tragedia personale”30. L’approccio medico è dunque fortemente individualista, tanto che, per completezza, sarebbe opportuno definirlo come: approccio medico individualistico alla disabilità.

28 UPIAS, Fundamental Principles of Disability, Union of the Physically Impaired

Against Segregation, London 1976.

29 Sulla legge Basaglia, la letteratura disponibile è molto ampia: si vedano, fra i tanti

contributi dottrinali disponibili, D. Piccione, Franco Basaglia e la Costituzione, Edizioni Alphabeta, 2013 e – in una prospettiva più ampia – S. Rossi, La salute mentale fra libertà

e dignità, Franco Angeli, Roma, 2015

(20)

20

Esso viene associato alla “Classificazione Internazionale di Menomazioni, Disabilità ed Handicap” (ICIDH) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Sviluppatasi negli anni ’70, sotto la guida di Philp Wood, la Classificazione si pone l’obiettivo di chiarire alcuni concetti affinché se ne potesse facilitare l’utilizzo, sempre più ricorrente, negli ambiti di “policy” che in quegli anni, sia per le nuove esigenze di assistenza causate dalla guerra, sia per la crescita economica che le rendeva attuabili, si stavano sviluppando. Da un lato, infatti, il numero di persone “malate ed invalide” era aumentato in maniera esponenziale, imponendo una presa in carico del fenomeno, dall’altro i progressi medici permettevano di “risolvere” un numero assai più ampio di casi clinici, a condizione però che la ricerca in questo campo ricevesse sostegno. L’elemento essenziale della Classificazione è la distinzione tra tre diverse condizioni:

- Menomazione: qualsiasi perdita, o anormalità, di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Essa rappresenta l’esteriorizzazione di uno stato patologico e in linea di principio essa riflette i disturbi a livello di organo.

- Disabilità: qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a una menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano. La disabilità rappresenta l’oggettivazione della menomazione e come tale riflette disturbi a livello della persona, riferendosi a capacità funzionali estrinsecate attraverso atti e comportamenti che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno.

- Handicap: condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona, conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in relazione all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali). Esso rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e come tale riflette le conseguenze – culturali, sociali, economiche e ambientali – che per l’individuo derivano dalla presenza della

(21)

21

menomazione e della disabilità. Lo svantaggio deriva dalla diminuzione o dalla perdita delle capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme proprie dell’universo che circonda l’individuo. 31

La Classificazione in questione ruota intorno alla sequenza: Menomazione – Disabilità – Handicap che, sulla base di studi che prendono in considerazione esclusivamente elementi “fisici” caratterizzanti lo status di “normalità”, definisce in via residuale ciò che è “anormale”.

Quali sono i limiti maggiori di questo modello e perché ad un certo punto si è ritenuto opportuno superarlo?

Prima di tutto, lo abbiamo già accennato, il modello medico esclude completamente i fattori storici e culturali in grado di influenzare il concetto di “normalità” limitandosi ad una disamina dei fattori bio-fisici e a carattere prevalentemente esogeno. In secondo luogo, la menomazione (fisica o psichica) è causa sia della disabilità che dell’handicap. Infine, ma non per importanza trattandosi di un aspetto fondamentale, tale modello pone le persone con disabilità in una posizione di “dipendenza”, le menomazioni, siano esse fisiche o intellettuali, vengono “curate” e ove la cura non è possibile e quindi l’individuo non possa tornare “normale” (in base al modello medico) è disabile, anormale e dunque non idoneo a prendere parte alla vita quotidiana e alle dinamiche sociali che la caratterizzano.

In questo modo, tutta la problematica connessa alla disabilità, si riduce a cause biologiche, trattate secondo il metodo empirico: “nel modello biomedico è l’individuo ad essere il centro del problema, e la rimozione dell’uguaglianza troverà il suo necessario metodo di realizzazione nella cura, ossia nel cambiamento dell’individuo”32

31 C. Barnes, “Capire il modello sociale della disabilità”, cit. p. 89

32A. D. Marra, Ripensare alla disabilità attraverso i disability studies in Inghilterra, in

(22)

22

2.2 Il modello intermedio

Il paradigma intermedio, così come gli altri approcci concettuali alla disabilità, non è un modello unitario, piuttosto esso si configura come un insieme di approcci accomunati dalla necessità del superamento della “monofattorialità” a vantaggio di una soluzione che tenga conto sia della componente medico individuale che di quella sociale, che sia cioè un compromesso tra l’essenzialismo e il costruttivismo. All’interno di esso possiamo riscontrare due principali correnti di pensiero: quella del modello critico – realista (o relazionale) e quella caratterizzante il modello bio-psicosociale. Il primo, diffuso principalmente nella cultura scandinava, vede in Tom Shakespeare il suo massimo fautore, il secondo modello, quello bio–psicosociale, si concretizza invece della classificazione IFC dell’OMS.33 Pubblicata nel 2002 l’International

Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) va oltre, per

certi aspetti, il modello che aveva caratterizzato la precedente classificazione. Quello della ICF è infatti un approccio “multi prospettico” che si fonda sull’assunto che la condizione di disabilità sia il risultato della difficile interazione tra le caratteristiche soggettive delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza il godimento di beni e servizi, la classificazione ICF si presenta, quindi, come «un modello interattivo tra condizione di salute e ambiente», attraverso il quale vengono posti sullo stesso piano sia gli aspetti riguardanti la salute della persona (coerentemente con il modello medico-riabilitativo) sia gli aspetti

di partecipazione sociale (coerentemente con il modello

sociale),valutando il deficit originario in ragione del contesto ambientale e personale.34 La semplice perdita di funzioni non sarebbe quindi di per sé idonea a generare “disabilità”, essa va necessariamente contestualizzata e studiata attraverso una relazione/interazione tra menomazione e fattori

33M. G. Bernardini, Disabilità, Giustizia, Diritto. Itinerari tra filosofia del diritto e

disability studies, Giappichelli, Torino, 2016 p.50

34 A. Di Carlo e E.Stradella, Disabilità e tecnologie innovative: alcuni spunti di

(23)

23

esterni. Ciò che sostanzialmente si teorizza è la natura composita della disabilità, che è sia “condizione individuale” che frutto della costruzione della società.

Il modello intermedio, pone l’attenzione su due questioni di rilievo, contestando in un certo senso l’incompletezza del modello sociale: innanzitutto il carattere utopistico della possibilità di una società senza

barriere e, in secondo luogo, considera l’importanza della

gravità/tipologia di deficit dal quale l’individuo è affetto, che sono causa di differenti esperienze di vita.

2.3 Il modello sociale

“La crescita di un “orgoglio” della disabilità indica che i disabili non desiderano essere qualcos’altro rispetto a ciò che sono. Non rifiutano la disabilità come identità, né cercano di sfuggire alla realtà biologiche della menomazione”35.

Si è accennato, nel corso del primo paragrafo, ai movimenti di attivisti disabili che, a partire dagli anni ’60, hanno cominciato le loro prime significative battaglie contro le disparità di trattamento, economiche e sociali, di cui erano vittime. Particolare rilievo ebbe la già citata U.P.I.A.S., le cui idee sono culminate nel “U.P.I.A.S. policy statement and

costitution” (la dichiarazione e costituzione della politica del

movimento.), adottata per la prima volta nel 1974 e successivamente modificata nel 1976. All’interno dei principi fondamentali dello “statuto” è contenuta un’importante distinzione che va letta in contrapposizione a quella proposta dalla Classificazione ICIDH, quella tra menomazione e disabilità. “Menomazione” denota la mancanza di una parte di un arto o di un intero arto, ovvero la circostanza di avere un arto o un meccanismo del corpo difettosi, mentre “disabilità” è lo svantaggio o la restrizione di attività causati da una organizzazione sociale contemporanea che tiene in

35 T. Shakespeare, Disabilità e società: diritti, falsi miti, percezioni sociali, Erickson,

(24)

24

conto poco o per nulla le persone che hanno impedimenti fisici e perciò le esclude dalla partecipazione alle normali attività sociali”36. Con queste

definizioni si compie un salto concettuale molto importante, che è poi il cuore del modello sociale e ne costituisce il fondamento: la disabilità genera dalla società e dal modo in cui quest’ultima si organizza. Colin Barnes ci propone una serie di precisazioni necessarie, volte a chiarire la reale portata del “modello sociale” che, alcuni sociologici, avevano definito “strumento euristico”. Innanzitutto è bene precisare che il modello sociale non intende sminuire l’importanza di fattori fisici/soggettivi, così come non intende negare la necessità degli interventi medici volti a favorire un “recupero” delle menomazioni fisiche. Ciò su cui si sofferma è la necessaria connessione con la struttura della società che è “costruita da “soggetti non-disabili” per “soggetti non-disabili”37.

Altro elemento fondamentale, che è bene ribadire perché è in questo approccio che dobbiamo calarci nei prossimi capitoli, è il radicale mutamento del fulcro del problema, in altre parole, le problematicità connesse alla disabilità non generano più dall’individuo, sono gli ambienti, le barriere, la cultura in generale il vero “fattore disabilitante”.

38

Il paradigma sociale presuppone una “strategia politica”, l’obiettivo, se si ritiene che sia la struttura della società a generare disabilità, è soprattutto la rimozione delle barriere39. Barnes identifica una serie di fattori disabilitanti: l'istruzione non accessibile, sistemi di comunicazione e informatici, gli ambienti di lavoro, sussidi di invalidità inadeguati, servizi sanitari e di solidarietà sociale discriminatori, trasporti inaccessibili,

36 C. Barnes, “Capire il modello sociale della disabilità” cit. p. 90 e ss 37 Ibidem

38 “Secondo la nostra concezione è la società che rende disabili le persone con

menomazioni fisiche. La disabilità è qualcosa di imposto al di sopra delle nostre menomazioni, e per le quali veniamo isolati senza necessità ed esclusi dalla piena partecipazione alla vita sociale” (UPIAS, 1976)

(25)

25

edifici pubblici ed alloggi con barriere, nonché l'immagine negativa che svaluta le persone con disabilità trasmessa dai media40.

Jenny Morris, un’autrice con disabilità ha affermato: “Il modello sociale della disabilità ci fornisce le parole per descrivere la nostra diseguaglianza. Tiene separate le barriere (che rendono disabili) dalle singole incapacità (non essere in grado di camminare, di vedere, o avere difficoltà di apprendimento) [...] Poiché il modello sociale della disabilità separa nettamente le barriere che ci rendono disabili dalle singole incapacità, ci consente di concentrarci esattamente su ciò che ci nega i nostri diritti umani e civili e sulle azioni che è necessario intraprendere”41 È fondamentale in questo senso, comprendere l’importanza del rapporto “uomo/ambiente” 42 che rileva per il raggiungimento della piena

inclusione sociale. Ciò avviene in generale per tutti gli individui, che attraverso l’interazione con l’ambiente esterno imparano a conoscere il proprio corpo e i confini di esso. Banalmente ogni individuo può trovarsi in una condizione di “disabilità” qualora sussista un divario tra le sue capacità individuali e le condizioni ambientali.

Il modello sociale della disabilità presuppone quindi una differente “risposta”, la soluzione non è più la cura, il “recupero”, ove possibile, delle normali funzioni fisiche o intellettive dell’individuo, in altri termini, non è la persona che deve cambiare ma l’organizzazione della società. Si tratta, evidentemente, di una risposta di natura politica, che presuppone interventi in campo di welfare a più livelli di governo e che implica la sussistenza di un tessuto normativo stabile e completo che garantisca molteplici forme di tutela verso le fasce più deboli della cittadinanza.

40 C. Barnes, Capire il modello sociale della disabilità, cit. p. 91

41 J. Morris, come citata in C. Barnes, Capire il modello sociale della disabilità, cit. p.

92

42 A. Marra, Barriere architettoniche, in Enciclopedia del diritto, Annali IV, Giuffrè,

(26)

26

Prima di procedere è bene, ora che si dispone delle basi concettuali per poterla comprendere, fare riferimento alla scelta della terminologia impiegata in questo lavoro: si è volutamente deciso di non ricorrere all’utilizzo del termine “disabile” sostituto da “individuo o persona con disabilità” proprio perché si evincesse che, ad avviso di chi scrive, la disabilità non sta dentro l’individuo, non è solo una caratteristica soggettiva ma è, inevitabilmente, prodotta anche dalla costruzione degli spazi di vita che, come si diceva sono pensati “da normali per normali”(sempre che si possa parlare di normalità).

(27)

27

Cap. 2 Disabilità e diritto:

una prospettiva multilivello

Il capitolo che segue è dedicato allo studio, seguendo un approccio multilivello, dei profili normativi della disabilità. Come si diceva in sede di introduzione, infatti, il tema ha assunto un ruolo centrale nei vari livelli normativi ed ha interessato vari ambiti. Dalla dimensione globale della Convenzione ONU, sino al ruolo svolto dalle Regioni, la creazione di un sistema di diritti posto a tutela dei più deboli, ha rappresentato una prerogativa del legislatore a partire dalla seconda metà del novecento. In parallelo al progresso storico – culturale e con l’imporsi del modelli intermedio e sociale, la legislazione internazionale, quella del Consiglio europeo, dell’Unione europea e quella statale, hanno prodotto una serie di atti che hanno dato vita ad una fitta rete di diritti con l’obiettivo, in un’ottica di universalità, di avere riguardo di tutti gli aspetti significativi della vita dell’individuo con disabilità.

1. Il quadro internazionale: la Convenzione ONU

Il 13 dicembre 2006, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione Internazionale sui diritti delle persone disabili. Si tratta, come si diceva nella prefazione, del risultato di una lunga opera istruttoria, che prese le mosse nel 1971, quando, su indicazione della “International League of Societies of the Mentally Handicappated”, l’Assemblea adottò una dichiarazione avente ad oggetto i diritti delle persone mentalmente ritardate, che servì per l’adozione, pochi anni dopo (nel 1975), di un’altra dichiarazione, la Declaration on the Rights of

(28)

28

disabilità. Tale dichiarazione assume particolare valore, essa infatti rappresenta l’atto con il quale, per la prima volta, si riconoscono al livello delle Nazioni Unite, i diritti delle persone con disabilità intese come gruppo sociale. 43

Il 3 dicembre del 1982, l’Assemblea adottò il World programme of action

concerning disabled persons, in quegli anni, le Nazioni Unite,

commissionarono due rapporti, ma soprattutto, assi importante fu, l’approvazione delle Standard Rules on the Equalization of Opportunities

for Persons with Disabilities. Pur non essendo un documento

giuridicamente vincolante, hanno senza dubbio influenzato ed indirizzato ampiamente, negli anni successivi alla loro emanazione, il lavoro delle Nazioni Unite. Nel 2001, la Terza Commissione dell’Assembla generale ha, tramite risoluzione, istituito un Comitato ad hoc con l’obiettivo di redigere un testo che fosse completo e che si occupasse di “disabilità” in relazione ai molteplici aspetti della vita dell’individuo, sia come singolo, che nelle formazioni sociali.

Questo è, brevemente, quanto è accaduto e che ha condotto all’adozione della Convenzione.

Entrando ora nel merito della sua struttura e contenuto, essa si compone di cinquanta articoli, a quali fa capo un ampio preambolo: i primi quattro articoli, introduttivi, riguardano lo scopo della disciplina, l’ambito di applicazione, la definizione di disabilità, i principi generali e gli obblighi posti in capo agli Stati. Dall’art. 5 all’art. 10 sono esplicati i principi di uguaglianza, di indipendenza e di non discriminazione tra portatori di handicap e non. I successivi articoli, fino all’art. 30, contengono tutta una serie di diritti fondamentali riconosciuti alle persone con disabilità, all’art. 31 e 32 troviamo invece gli obblighi posti in capo agli stati e alle rispettive autorità competenti di cooperazione internazionale in materia. Le

43 F. Seatzu, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: i

principi fondamentali, in Diritti umani e diritto internazionale, fasc. 3, 2008, pp.

(29)

29

successive disposizioni riguardano principalmente la costituzione e l’operatività del Comitato sui diritti delle persone disabili.

Nel corso della prefazione ci siamo riferiti alla Convenzione, pur precisando che ci sono opinioni differenti in merito, come al documento che maggiormente rappresenta il paradigma sociale della disabilità. Cerchiamo di capire meglio, ai fini di questo elaborato, in che modo, le singole disposizioni, hanno rappresentato questo approccio.

Rilevante è, a supporto di quanto si è sostenuto, la definizione di disabilità che la Convenzione ci propone, all’art. 1, infatti, si legge: “Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità. Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri.” Si noti, a tale proposito, la seconda parte dell’articolo in commento, nel testo l’influenza del modello sociale è duplice, essa si manifesta sia nell’importanza che assume l’interazione con le barriere esterne, che nell’osservare che, l’effetto negativo di questa interazione, sta nell’impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una

base di eguaglianza con gli altri, dunque interazione, partecipazione e

uguaglianza diventano i nuovi elementi essenziali. L’obiettivo della Convenzione non è solo quello di elencare i diritti di cui un individuo con disabilità dovrebbe, al pari dei “non-disabili”, godere. Essa si pone di promuovere una maggiore integrazione dell’individuo e lo fa prima di tutto ricorrendo ad una serie di principi fondamentali, che rappresentano la chiave di lettura per tutti i successivi articoli di cui si compone la Convenzione.

I principi generali , contenuti all’art. 3, sono: “a) Il rispetto per la dignità

intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone; b) La

(30)

non-30

discriminazione; c) La piena ed effettiva partecipazione e inclusione all’interno della società; d) Il rispetto per la differenza e l’accetta-zione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; e) La parità di opportunità; f) L’accessibilità; g) La parità tra uomini e donne; h) Il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità e il rispetto per il diritto dei bambini con disabilità a preservare la propria identità.” .

Ove per indipendenza, lo specifica la sessa Convenzione, deve intendersi la libertà per i soggetti con disabilità, di auto- determinarsi nelle singole sfere della propria vita personale e/o professionale.44

Il concetto di indipendenza è da leggere in stretta connessione con un altro principio fondamentale che è quello del “respect for inherent dignity”, (letteralmente “rispetto per la dignità intrinseca”). Ai fini di questo elaborato vale la pena soffermarsi soprattutto su quella che è forse la maggiore novità della Convenzione, vale a dire l’integrazione del principio di indipendenza e con quelli della partecipazione e dell’inserimento sociale. L’auto- determinazione degli individui con disabilità, è infatti un concetto che troviamo espresso già nelle Standard

Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities,

che nel World Program, in entrambi i casi però, questo principio non veniva declinato in termini pratici e non trovava alcun riscontro nelle successive previsioni normative. Con la Convenzione invece, l’indipendenza intesa come capacità/libertà di autodeterminarsi si esplica concretamente, per esempio, nell’art. 21 intitolato “Libertà di espressione e opinione e accesso all’informazione”, dove si legge che “gli Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate per assicurare che le persone con disabilità possano esercitare il diritto alla libertà di espressione e di opinione, compresa la libertà di cercare, ricevere e impartire informazioni e idee su base di eguaglianza con altri e attraverso ogni forma di comunicazione di loro scelta […]”.

44 F. Seatzu, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: i

(31)

31

Rilevante, si precisa sempre ai fini di questo lavoro, è anche il principio secondo cui si debba riconoscere alle persone con disabilità “la piena ed

effettiva partecipazione e inclusione all’interno della società”.

Espressione evidente dell’influenza del paradigma sociale, che vede nell’individuo con disabilità il titolare di diritti soggettivi e libertà, il principio in esame trova realizzazione, in particolare, in due disposizioni: l’art. 24 e l’art. 27, rispettivamente dedicati al diritto all’istruzione e al diritto al lavoro.

Per quanto attiene il primo profilo, quello del diritto all’istruzione, l’art. 24 precisa innanzitutto che è compito degli stati riconoscere alle persone con disabilità il diritto all’istruzione e che, tale diritto, debba essere riconosciuto senza discriminazioni e sulla base di uguaglianza di opportunità. Ritorna il concetto di “integrazione”, infatti il sistema educativo deve essere in grado di prevedere l’integrazione degli individui con disabilità a tutti i livelli di istruzione e nel corso dell’intera vita. In particolare, il sistema scolastico, dovrebbe attuare una serie di azioni atte:

a promuovere il pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità, dell’autostima, dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana. E poi, per comprendere ulteriormente l’importanza della

Convenzione in termini di innovazione rispetto al passato, lo stesso articolo fa riferimento al ”mettere in grado le persone con disabilità di partecipare effettivamente a una società libera” , imponendo agli stati di assicurare, affinché tale diritto si realizzi, che: le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da dall’istruzione primaria obbligatoria gratuita o dall’istruzione secondaria in base alla disabilità. Si tratta, come si può notare, di una disposizione che produce un duplice effetto. Da un lato infatti essa riconosce in capo agli individui una titolarità di diritti soggettivi, che si manifestano nella garanzia di pari opportunità di accesso al sistema scolastico a tutti i livelli di istruzione, nel trattamento non discriminatorio in funzione della disabilità. Dall’altro lato essa sancisce un obbligo di facere nei riguardi degli stati,

(32)

32

introducendo il concetto di “accomodamento ragionevole” (in questo caso definito “adeguato”) cui abbiamo fatto riferimento e sui cui torneremo nel corso dell’elaborato. In particolare, tale obbligo, è rintracciabile al comma 5 dell’articolo in esame, dove si legge che: gli Stati Parti assicureranno che le persone con disabilità possano avere accesso all’istruzione post-secondaria generale, alla formazione professionale, all’istruzione per adulti e alla formazione continua lungo tutto l’arco della vita senza discriminazioni e sulla base dell’eguaglianza con gli altri. A questo scopo, gli Stati Parti assicureranno che sia fornito un accomodamento adeguato alle persone con disabilità.

Il sistema scolastico ben si sposa con l’obiettivo di questa tesi, che è anche quello di dimostrare l’importanza dell’organizzazione della società e dei vari contesti che in essa si realizzano, nella definizione della disabilità. Oltre al sistema scolastico, lo abbiamo detto anche nell’introduzione, altro settore in cui si realizza la “socializzazione “della disabilità, è quello dell’accesso al mondo del lavoro, a cui la Convenzione dedica l’art. 27. Intitolato “Lavoro e occupazione”, l’art. in oggetto, che tratteremo in questa fase brevemente rinviando per un approfondimento al capitolo dedicato, postula, come per l’art. 24 un obbligo di facere in capo agli stati aderenti: Gli Stati Parti riconoscono il diritto delle persone con disabilità

al lavoro, su base di parità con gli altri; ciò include il diritto all’opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità delle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, incluso per coloro che hanno acquisito una disabilità durante il proprio lavoro, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative. Segue una specifica su quelli che

sono gli obiettivi che tali azioni debbono garantire, innanzitutto, il principio di non discriminazione del lavoratore con disabilità, principio che deve interessare sia la garanzia di accesso al mondo del lavoro che il

(33)

33

trattamento occupazionale. Ad esso si affianca il principio di uguaglianza e parità (sostanziale) di trattamento. 45

Assai significativo è, per ciò che ci riguarda, anche il postulato contenuto all’art. 28, intitolato “Adeguato livello di vita e protezione sociale”. Anche in questo caso si parte da un obbligo in seno agli Stati di garantire “il

diritto delle persone con disabilità ad un livello di vita adeguato per sé e per le proprie famiglie, incluse adeguate condizioni di alimentazione, vestiario e alloggio, ed il continuo miglioramento delle condizioni di vita, e devono prendere misure appropriate per proteggere e promuovere l’esercizio di questo diritto senza discriminazioni fondate sulla disabilità”. Il testo di questa disposizione nasce anche dall’esigenza di

limitare il rischio povertà per le persone con disabilità che si connette in maniera chiara ed inevitabile alla garanzia di accesso al mondo del lavoro e alla parità sostanziale di trattamento che deve trovare riscontro anche sul profilo economico.

La Convenzione dedica la parte finale alla regolamentazione del Comitato Internazionale per i diritti delle persone con Disabilità, il comitato si compone di 12 membri che hanno il compito di monitorare l’applicazione della Convenzione tra gli Stati aderenti, eletti da questi ultimi, tenendo in considerazione una equa ripartizione geografica, la rappresentanza delle diverse forme di civiltà e dei principali sistemi giuridici, la rappresentanza bilanciata di genere e la partecipazione di esperti con disabilità.

In conclusione, è bene sottolineare la portata storica della Convenzione, essa rappresenta infatti il primo atto internazionale obbligatorio che si pone come traguardo di un percorso, rivolto all’affermazione del principio della “universalità, indivisibilità, interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani”.46

45. F. Seatzu, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili: diritti

garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in Diritti umani e diritto internazionale,

fasc. 2, 2009, p. 263

46A. Venchiarutti, I diritti delle persone disabili, in Trattato di biodiritto. Governo del

(34)

34

2. Il quadro europeo

2.1 Il Consiglio d’Europa:

2.1.1. La Carta Sociale Europea

Nell’ambito del Consiglio Europeo, è stata adottata, nel 1961 la carta sociale europea. Essa nasceva per la volontà degli stati membri di tradurre in norme vincolanti, i diritti che erano stati enunciati nel 1948 dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite mediante nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La Carta Sociale dedica al tema della disabilità l’art. 15. In esso assume particolare rilievo il diritto delle persone disabili alla formazione professionale, alla riabilitazione e all’inserimento lavorativo. Si tratta di esigenze comprensibili e derivate dalla massiccia presenza di invalidi di guerra e da vittime di incidenti industriali. Figlia dei suoi tempi, in essa è insita la filosofia tipica del paradigma medico – assistenziale. Ne sono esempio le disposizioni relative alla necessità di “strutture specializzate” per la formazione professionale delle persone con disabilità. 47 Posta l’innegabile influenza del modello medico, oramai da intendersi superato, la Carta Sociale riveste comunque un’importanza significativa, essa rappresenta uno dei primi documenti, vincolanti, nel quale il tema dei diritti delle persone con disabilità viene affrontato al pari degli altri diritti socialmente rilevanti. Soprattutto essa pone in capo agli stati l’obbligo di prevedere forme di intervento differenziate, obbligo che, se non attuato, violerebbe sia il principio di uguaglianza che il divieto di discriminazione. I limiti di approccio a cui abbiamo fatto riferimento, sono stati in parte superati nella versione “riveduta” della Carta Sociale, adottata del 1996 ed entrata in vigore tre anni dopo. Il cambiamento rispetto alla versione del ’61 è notevole, e si riflette nella nuova formulazione dell’art. 15 ora intitolato “Diritto delle persone portatrici di handicap all’autonomia,

47G. Palmisano, La protezione dei diritti delle persone con disabilità nella Carta Sociale

europea, in Scritti in memoria di Maria Saulle, II, Edizioni scientifiche, Napoli, 2014, p.

Riferimenti

Documenti correlati

Sulla base di quanto previsto nel presente articolo, gli Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate ed efficaci per assicurare l’eguale diritto delle persone con

Anzi, come hanno mostrato numerosi studi, in alcuni casi hanno persino finito per provocare un incremento della disoccupazione (legata al fatto che, per poter mantenere lo

he Editor’s desk at Clinical Cases in Mineral and Bone Metabolism CCMBM receives a flow of articles, addressed to develop and revitalize scientific education in the area of bone

La mia spontanea simpatia nei confronti delle ragioni della ribelle deve essere già trapelata da quanto detto in precedenza, ma quando torno al testo di Sofocle finisco

Subsequently, if the High Court thought that there was any doubt as to the correctness of the Lords’ ruling, there is a reasonable likelihood that it would react in

 La Direzione territoriale Inail di Milano Porta Nuova e il Comitato Italiano Paralimpico Comitato Regionale Lombardia si impegnano ad attivare, come previsto

La faccia oscura della luna è popolata da tutte le conseguenze negative di es- sere “etichettati” come malati (labeling effect), dai rischi legati a test diagnostici e trattamenti

This detector set is the unique system completely based on passive detectors able to evaluate neutron spectra in a wide energy range, and can represent a useful tool for